MANFREDI, Guido Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 68 (2007)

MANFREDI, Guido Antonio

Isabella Lazzarini

Signore di Faenza con i fratelli Astorgio (II) e Gian Galeazzo (II), nacque da Gian Galeazzo (I) di Astorgio (I) e da Gentile di Galeotto Malatesta. Le cronache lo dicono decenne alla morte del padre, nel 1417: sarebbe dunque nato nel 1407, un anno dopo il fratello Carlo.

Le cronache e gli storici oscillano nell'identificare il M. con il Guidaccio Manfredi che sovente è nominato come condottiero. Con questo nome infatti è noto soprattutto un altro Manfredi, nipote del M. (figlio di suo figlio Taddeo), capitano di ventura morto intorno al 1500. Il nomignolo Guidaccio fu usato peraltro anche per indicare il M., a sua volta noto condottiero.

La morte improvvisa di Gian Galeazzo (I) lasciò alla sua vedova, Gentile Malatesta - in attesa dell'ultimo maschio, Gian Galeazzo (II), nato nel 1418 - e a Guido Antonio da Montefeltro la tutela dei figli e la reggenza dello Stato. I Manfredi erano signori di Faenza e della Val di Lamone: Gian Galeazzo era stato infatti nominato vicario apostolico di Faenza nel 1410, e, dietro sua precisa richiesta, conte della contea di Brisighella, da poco creata, e di Val di Lamone nel 1413. Quest'ultimo titolo era ereditario; la carica di vicario apostolico era invece temporanea, andava periodicamente rinnovata e comportava il pagamento di un oneroso censo annuale (oltre a una serie considerevole di obblighi e limitazioni formali). Alla morte di Gian Galeazzo la vedova si affrettò a chiedere al nuovo papa, Martino V, la conferma del vicariato in nome dei figli: gli storici locali affermano che Gentile ottenne immediatamente il vicariato; Partner sostiene che, per quanto i quattro giovani Manfredi pagassero nel 1418 considerevoli somme per le loro terre, non è certo che ottenessero subito il vicariato; Zama indica nel febbraio 1419 la data della prima concessione di Martino V.

Nei primi anni Venti dunque lo Stato faentino era governato da Gentile Malatesta: il M. peraltro iniziò assai presto la sua carriera nelle armi, che sarebbe durata tutta la vita portandolo a combattere con frenetica discontinuità al soldo di Milano, Firenze, Venezia e Napoli attraverso tutti i grandi conflitti dei primi decenni del Quattrocento.

La sua figura si connota soprattutto per un continuo succedersi di condotte e di alleanze: tale vortice lo portò lontano dall'occuparsi direttamente del governo dei suoi Stati e non lasciò di sé né l'immagine di un signore colto come Astorgio (I) né quella di un attento legislatore come il padre Gian Galeazzo.

Nel 1423-24 la Romagna divenne nuovamente teatro di un grande scontro: Filippo Maria Visconti, duca di Milano, recuperate pressoché tutte le terre lombarde dopo il difficile ventennio successivo alla morte del padre Gian Galeazzo, approfittò della morte di Giorgio Ordelaffi, signore di Forlì, per intervenire in Romagna. Le truppe viscontee conquistarono Forlì e Forlimpopoli: l'iniziativa milanese allarmò Firenze, che nel marzo 1423 aprì le ostilità contro Milano.

Nel 1424 il M., appena diciassettenne, si affrettò a divenire aderente e collegato del duca di Milano Filippo Maria Visconti, nonostante ciò lo portasse a essere avversario dello zio, Carlo Malatesta. Firenze subì vari rovesci, fra cui quello di Zagonara: le armate fiorentine si portarono allora verso l'Appennino, chiamate da Ludovico Manfredi di Marradi, ed entrarono in Val di Lamone, dove, alla battaglia di Brisighella, caddero prigionieri del M. Jacopo Manfredi di Marradi, fratello di Ludovico, e lo stesso Niccolò Piccinino con il figlio Francesco. Durante la prigionia Niccolò, che aveva stretto con il M. un legame di amicizia, lo convinse a passare ai Fiorentini. Così, nel 1426 il M. fu assoldato da Firenze nella prima guerra veneto-viscontea (Firenze era alleata della Serenissima): recava con sé 450 lance e 300 fanti; per questo cambio di campo (il primo, ma non certo l'ultimo), egli ricevette il castello di Riolo. La situazione del M. e di Faenza non migliorò con questo cambio di condotta: da un lato Filippo Maria inviò Francesco Sforza e Guido Torelli contro Faenza (i condottieri viscontei occuparono in quest'occasione Solarolo e Baffadi), dall'altro Martino V, esasperato dal mancato pagamento del censo dovuto dai Manfredi, minacciò di togliere loro il vicariato. Fu la Repubblica fiorentina che venne in soccorso ai Manfredi anticipando il dovuto alla Chiesa e la pace di Venezia del dicembre 1426 risolse poi la questione: il M. fu perdonato dal papa e i Viscontei si allontanarono dalle sue terre, senza però restituire i due castelli occupati. Alla Chiesa Filippo Maria Visconti restituì Imola e Forlì.

Le paci stipulate nel corso di questi conflitti ebbero vita breve: nel 1427 il M. si pose al soldo di Venezia e agli ordini di Francesco Bussone, detto il Carmagnola, partecipando alle campagne lombarde (era a Maclodio il 12 ott. 1427). Con la prima pace di Ferrara (19 apr. 1428) il duca di Milano si impegnava a non intromettersi in Romagna: il M. dovette in questa occasione ricevere la prima conferma personale del vicariato sulla città di Faenza, anche se la madre Gentile continuava di fatto a reggere lo Stato in sua assenza; ottenne anche di nuovo i castelli di Solarolo e Baffadi. Nel 1430 il M. trovò conveniente porsi al soldo di Firenze con 400 lance e 200 fanti nella guerra di Lucca. Fu una cattiva scelta: alla battaglia del Serchio (2 dic. 1430) i Fiorentini furono sonoramente sconfitti e Astorgio rimase prigioniero di N. Piccinino. I due fratelli tornarono a Faenza nel gennaio 1431 e ripartirono in estate; per la prima volta erano in schieramenti opposti: il M. al soldo di Venezia con 400 lance e 200 fanti, Astorgio al servizio di Filippo Maria.

Il diverso schieramento dei due non condusse necessariamente a una rivalità interna: in molti casi anzi diversificare le strategie garantì ai Manfredi una vasta gamma di vie di fuga da una situazione - quella di piccoli signori in un'area contesa - che con il passare degli anni andava facendosi sempre più difficile. Ci furono anche occasioni di attrito, ma in generale la convivenza dei Manfredi, rafforzata dai rinnovi collegiali del vicariato dopo il 1428, non generò, almeno durante la vita del M., fratture irrecuperabili.

Con la seconda pace di Ferrara, nel 1433, i Manfredi rientrarono a Faenza. La situazione doveva peraltro rapidamente precipitare in Romagna a causa della rivolta di Forlì e di Imola contro il Papato (Eugenio IV era impegnato nel confronto con il concilio di Basilea), appoggiata dai Viscontei. Nel 1434 infatti Filippo Maria si impadronì nuovamente di Imola, Forlì e Lugo: Bologna stessa si sollevò contro la Chiesa. Una nuova lega si strinse allora tra Firenze, Venezia e il Papato: in questa occasione i due fratelli Manfredi si collegarono concordemente con essa; battuti il 28 ag. 1435 al rio Sanguinario, fra Imola e San Lazzaro, Astorgio fu fatto prigioniero da N. Piccinino (fu liberato solo a marzo del 1436) e il M. fu privato di Granarolo e Castelbolognese. Nell'agosto 1435 si addivenne alla pace che non fu favorevole al M.: questi dovette restituire alla Chiesa i castelli di Tossignano, Riolo, Sassatello, Montebattaglia, Baffadi e rinunciare a ogni aspirazione su Imola. Bologna era tornata alla S. Sede e Francesco Sforza, capitano pontificio, riconquistò Forlì e Lugo. La guerra continuava peraltro oltre il Po: il M. e i fratelli furono assoldati da Venezia e parteciparono alle campagne in Lombardia. Nel 1438 erano, insoddisfatti, a Faenza: da qui il M. ripartì con 1000 cavalli e 300 fanti al servizio di Firenze, mentre Astorgio accettava il soldo dei Viscontei. Fu quest'ultimo stavolta a compiere la scelta vincente: i Viscontei si impadronirono in pochi mesi di Riolo, Bagnacavallo, Russi, Fusignano; Imola si offrì a N. Piccinino e Forlì si dichiarò per Filippo Maria Visconti. Questi eventi spinsero il M. ad abbandonare il fronte fiorentino e ad allinearsi al partito visconteo, cui portava 1500 cavalli: ne ebbe in premio Imola, che gli fu ceduta da Filippo Maria il 26 apr. 1439.

Il possesso di Imola fu un evento meno illusorio di altre conquiste manfrediane: alla morte del M. infatti la città rimase al figlio Taddeo. L'annessione giungeva inoltre a coronare decenni di sforzi espansivi dei Manfredi, indirizzati in un primo tempo verso gli Appennini oltre la Val di Lamone, poi a est verso Forlì e a ovest verso Imola, senza rinunciare a qualche incursione verso Lugo e Bagnacavallo, nel distretto di Ravenna.

La situazione non si era definitivamente assestata: dopo una tregua estiva conclusa dal M., da Malatesta Novello Malatesta, da Ostasio da Polenta e da Antonio Ordelaffi il 22 luglio, le ostilità ripresero l'anno successivo. N. Piccinino, capitano generale delle armi viscontee, giunse in Romagna in primavera e il M. lo raggiunse a Forlì. Nella marcia dell'esercito visconteo verso la Toscana, il M. colse l'occasione di impadronirsi di Riolo e di Modigliana; raggiunto da Astorgio, si congiunse con il grosso dell'esercito visconteo ad Anghiari. Qui le armi viscontee vennero rotte dalla lega in una memorabile battaglia (29 giugno 1440), il cui esito capovolse le fortune manfrediane. Astorgio rimase prigioniero dei Fiorentini; il M., riuscito a rientrare a Faenza, dovette assistere alla perdita dei castelli di Bagnacavallo, Massa Lombarda, Calamello e Dovadola, a opera delle truppe della lega che avevano passato gli Appennini. La sconfitta viscontea condusse alla pace di Cremona (o di Cavriana: 20 nov. 1441): Ravenna, abbandonata da Ostasio da Polenta e da Ginevra Manfredi, sorella del M., fu ceduta a Venezia. Il M., che ospitò a Faenza la sorella quando il cognato, con il figlio bambino, fu esiliato a Candia, intravide allora la possibilità di insignorirsi di Ravenna e nell'estate 1442 complottò per ottenere la città, ma il tentativo non ebbe successo.

Nello stesso anno un protagonista di rilievo assoluto si inserì sulla scena romagnola: nel giugno 1442 Alfonso d'Aragona conquistò Napoli, ponendo fine alla guerra tra Angioini e Aragonesi per il Regno. Assestate le cose nel Mezzogiorno, Alfonso si alleò con Filippo Maria Visconti e mosse verso nord per combattere Francesco Sforza, giungendo nel settembre 1443 nella Marca, sotto Fano. Il M. si allineò immediatamente al re come raccomandato e aderente: entrambi i Manfredi appoggiarono fattivamente il partito visconteo durante l'insurrezione di Bologna, che nell'ottobre aveva cacciato Francesco Piccinino e chiamato come proprio signore Annibale Bentivoglio. Dopo l'assassinio di quest'ultimo nel 1445 - per ordine di Filippo Maria - un calcolo rinnovato portò il M. ad abbandonare il partito visconteo e ad affiancarsi ai Bolognesi insorti e ai Fiorentini e ai Veneziani che sostenevano i Bentivoglio. In questa occasione il M. restituì a Firenze la terra di Modigliana. I due fratelli rimasero al soldo di Firenze sino a tutto il 1446. La morte di Filippo Maria Visconti, il 13 ag. 1447, riaprì una volta di più il gioco politico italiano: il M. e Astorgio militarono allora agli ordini di Francesco Sforza, capitano generale della neonata Repubblica Ambrosiana. Ai suoi ordini parteciparono alla conquista di Piacenza nel novembre 1447, e rientrarono a Faenza poco dopo.

L'anno successivo, quando Astorgio seguì nuovamente Francesco Sforza a Cassano d'Adda, il M. rimase a Faenza, probabilmente per problemi fisici. Si recò infatti nel giugno 1448 ai bagni di Petriolo, dove le sue condizioni si aggravarono e dove morì il 22 giugno 1448 (secondo alcuni il 18).

Le sue spoglie giunsero a Faenza il 27 giugno per le esequie solenni. Il M. aveva sposato, secondo Litta, prima Bianchina di Niccolò Trinci, signore di Foligno, e poi Agnesina di Guido Antonio da Montefeltro, conte d'Urbino: Messeri dubita di quest'ultimo matrimonio, basandosi sul carme in morte del M. scritto dal coevo poeta faentino Angelo Lapi, che ricorda solo la prima moglie ("Blancina miserrima coniunx", Azzurrini, p. 81 n. 1). Il M. ebbe un figlio, nato nel 1431, Taddeo, e tre figlie, Leta, sposata a Guido di Giambattista Visconti, Rengarda, moglie nel 1445 di Carlo di Gian Francesco Gonzaga e Cornelia, seconda moglie, dal 1458, del condottiero Tiberto Brandolini.

Del M. i contemporanei riconobbero le capacità militari come la sua facilità a cambiare partito e a mancare alla fede data, carattere peraltro prima che personale, congiunturale e connaturato ai tempi e alla condizione politica dei "tiranni" romagnoli, non solo principi "piccoli" di poco Stato, ma anche "signori dipinti", mantenuti al potere da una legittimazione, quella apostolica, fragile e mutevole in un contesto politico che ne consentiva la faticosa sopravvivenza solo a prezzo di acrobatiche fluttuazioni fra uno schieramento e l'altro.

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