GUIDO, conte marchese di Camerino, duca marchese di Spoleto, re d'Italia, imperatore

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDO, conte marchese di Camerino, duca marchese di Spoleto, re d'Italia, imperatore

Tommaso Di Carpegna Falconieri

Nacque nell'855 da Guido (I) di Spoleto e da Itta di Benevento.

Non fu coinvolto, in quanto ancora giovane, nella politica di rafforzamento portata avanti dalla famiglia, che invece vide assoluto protagonista il fratello maggiore Lamberto, duca di Spoleto, né prese parte agli scontri promossi da quest'ultimo contro Ludovico II, che portarono alla reclusione dell'imperatore a Benevento (13 agosto - 17 sett. 871) e, quindi, al bando e alla confisca del Ducato spoletino, che fu assegnato a Suppone (III), cugino dell'imperatrice Engelberga. Morto Ludovico II nell'875, Lamberto concluse la pace con Carlo II il Calvo, imperatore e re d'Italia, ricevendo per la seconda volta il Ducato tra febbraio e giugno 876.

L'imperatore Carlo, abbandonando il progetto di controllo dell'Italia meridionale che aveva propugnato il suo predecessore, lasciava ampio spazio di manovra al duca di Spoleto. Ormai maggiorenne, G. entrò in scena allora, ottenendo la parte orientale del Ducato, cioè la Marca di Camerino. Lo troviamo citato col titolo di conte in un atto del giugno 876, datato al primo anno dell'impero di Carlo e al primo anno del comitato di Guido.

In quel periodo sposò Ageltrude, figlia del principe Adelchi di Benevento, dalla quale ebbe, verso l'880, Lamberto (che sarebbe divenuto a sua volta imperatore). Il matrimonio si inserisce in una politica di alleanze con le dinastie meridionali ormai consolidata nella casa di Spoleto e che, facilitata dalla debole politica italiana del nuovo imperatore, puntava a raggiungere il dominio diretto di quei territori.

Lamberto e G., lasciati da Carlo II con il compito di proteggere e sostenere il papa, nell'876-877 accompagnarono Giovanni VIII in Campania, per riunire in una lega contro i Saraceni tutte le città meridionali. La missione riportò un successo relativo: Amalfi, Salerno e Capua si allearono con il pontefice. Benevento, però, rifiutò il patto e Gaeta e Napoli non vollero sciogliere i buoni rapporti, soprattutto commerciali, con i Saraceni. Il ruolo dei fratelli Lamberto e G. non appare ben definito: senza dubbio essi si trovavano in prima linea nella guerra contro i Saraceni, poiché i loro domini erano direttamente minacciati; ma è altresì possibile che essi, coltivando forti intenzioni egemoniche e non vedendo di buon occhio l'intervento pontificio nel Meridione, agissero segretamente per far fallire l'accordo. Questo fu raggiunto a Traetto nel giugno 877 e peraltro ebbe vita breve.

Morto Carlo II il 6 ott. 877, la posizione di Giovanni VIII risultò indebolita. Lamberto si sottrasse all'autorità del pontefice, sancita il 16 luglio 876 nel sinodo di Ponthion, nel quale era stata confermata al papa la donazione del Ducato di Spoleto e dunque l'alta sovranità sopra quei territori. Si ignora la posizione assunta da G. nella fase convulsa che seguì, che vide Lamberto sostenere la candidatura imperiale di Carlomanno, ambire personalmente alla corona d'Italia, occupare militarmente Roma e prendere il papa prigioniero (marzo 878). Le testimonianze di cui disponiamo non mostrano G. attivamente al fianco del fratello. Dopo la morte di Lamberto (879-880) la politica di opposizione al pontefice fu continuata dal di lui figlio e successore Guido (III), mentre G., allora conte di Camerino, potrebbe essere rimasto un buon alleato del papa, o perlomeno non sembra si impegnasse in azioni contrarie alla Sede romana. Nel febbraio 882, a Ravenna, G. e il suo omonimo nipote giurarono al papa, di fronte al nuovo imperatore Carlo III il Grosso, di restituire tutti i territori del Patrimonio di S. Pietro di cui si erano impadroniti.

Gli interessi di G. gravitavano allora prevalentemente verso il Sud: nell'881 egli intervenne nelle lotte scatenatesi dopo l'assassinio del suocero Adelchi (878) e aiutò il cognato, Radelchi (II), a prendere il potere a Benevento. Verso l'882 il principe Gaiderisio di Benevento, deposto, cadde sotto la sua sorveglianza. G., dopo una serie di trattative con Bisanzio e dietro il pagamento di un'ingente somma, lo aiutò nella fuga verso Oriente.

Intorno al marzo 883, dopo la morte del nipote Guido (III), G. riunì nelle sue mani l'intero Ducato di Spoleto, congiungendolo alla Marca di Camerino (unione che sarebbe durata fino al 1043) e portando da allora il titolo, alternato nella documentazione, di marchese o di duca (mentre al territorio resterà tradizionalmente legato il termine Ducato).

Pertanto, nella cronotassi dei principi spoletini egli fu il terzo a portare il nome Guido. Poiché tuttavia G. successe all'omonimo nipote, cioè a un personaggio appartenente a una generazione più giovane della sua, spesso è stato designato (è lo è anche in questa occasione) con l'ordinale "II", che indica non la posizione nella successione al Ducato di Spoleto, bensì la posizione occupata nella dinastia. Questa doppia possibilità di denominazione ha provocato spesso equivoci, accresciuti dal fatto che il nipote Guido (III) e il pronipote Guido (IV) furono coevi di G., oltre che omonimi.

Riunito sotto il proprio diretto controllo il Ducato spoletino, G. fu protagonista di quel "nodo intricatissimo" che è l'ultimo trentennio del sec. IX (Arnaldi, 1951, p. 1). Uniformò in parte la propria linea politica con quella degli immediati suoi predecessori, ma le conferì maggiore respiro. I principali avversari nel Mezzogiorno d'Italia erano i Saraceni, saldamente attestati a Sepino e a Monte Argento sul Garigliano, e i Bizantini, che rivendicavano il dominio. G. si recò in Campania per combattere i Saraceni che si erano insediati tra Boiano e Telese, ma non riuscì a sconfiggerli e si vide obbligato a concludere una tregua con scambio di ostaggi. Con i Bizantini, invece, preferì intraprendere la via delle trattative, inviando una legazione a Costantinopoli e, a quanto sembra, ottenendo un aiuto finanziario (Erchemperto, p. 263). Essendo divenuto uno dei fedeli del basileus, così come lo era il suo congiunto Guaimario di Salerno (marito di Itta, figlia di suo fratello), la sua posizione verso Carlo III si fece precaria. L'imperatore, ancorché debole, non poté tollerare un atto di ribellione così palese e nel giugno 883 lo citò in giudizio con l'accusa di avere danneggiato la cosa pubblica e con l'obbligo di restituire alla Chiesa di Roma le terre che aveva invaso. G. fu processato come reo di lesa maestà in una Dieta tenuta a Nonantola alla presenza di Carlo III e di papa Marino I e fu condannato alla perdita di tutte le dignità e al bando. Riuscì però a evadere. Tra gli anni 883 e 884 G. respinse con successo gli attacchi delle truppe imperiali e di Berengario marchese del Friuli. Egli sarebbe stato favorito dall'aiuto dei Saraceni, con cui aveva già stretto alleanza, e da un'epidemia dilagata tra le file dell'esercito avversario. Intorno a lui si era andata coalizzando una fazione di optimates contrari a Carlo il Grosso. Il potere e l'influenza di G. erano già allora tali che il cronista degli Annales Fuldenses scrisse del suo dominio chiamandolo il "regnum Widonis" (p. 398). Questi combattimenti costituirono le prime occasioni di confronto con Berengario del Friuli, che di lì a pochi anni sarebbe divenuto il più strenuo avversario di Guido. Si era ormai prodotto, sullo scacchiere italiano, un antagonismo marcato tra le dinastie dei Guidoni e degli Unrochingi, entrambe proiettate verso la corona.

Carlo III, che non aveva la forza per sconfiggere un avversario così temibile e che al contrario aveva bisogno di lui per disporre di un qualche controllo in Italia, fece in modo di riconciliarsi con il ribelle. Questi fu ricevuto a Pavia il giorno dell'Epifania dell'885 e, avendo prestato giuramento, fu reintegrato nelle cariche e nel favore del sovrano. G. non perse nulla, e probabilmente acquistò qualcosa.

I suoi sforzi tornarono immediatamente a volgersi verso il Meridione: in quello stesso anno lo si ritrova al comando di un esercito in una vittoriosa battaglia sul Garigliano contro i Saraceni. Inoltre portò sotto la propria autorità diretta Capua - che era stata attribuita come contea franca a suo fratello Lamberto nell'866 da Ludovico II e che almeno nominalmente apparteneva, da allora, alla sua casa - ottenendo un giuramento di sudditanza. L'anno precedente Radelchi (II) aveva perduto il dominio su Benevento, che dopo una ennesima rivolta era passata al di lui fratello Aione (il principe dedicatario della Historiola di Erchemperto). G., trovandosi a Capua, invitò Aione presso di sé e subito lo fece arrestare; poi si recò con lui a Benevento e occupò militarmente la città, insediandovisi con la moglie Ageltrude per riformare le strutture amministrative del Principato e per garantirne la fedeltà alla dinastia spoletina. In quel momento, dunque, G. aveva il controllo di gran parte dell'Italia meridionale, che si aggiungeva ai vasti territori facenti parte del Ducato di Spoleto, nonché ad alcuni domini transalpini.

Risale a questo periodo il saldo legame istituito tra G. e il neoeletto Stefano V, che gli conferì, a titolo simbolico, lo status di figlio prediletto. La adoptio in filium (risalente all'inizio dell'886) implicava una defensio specialis a favore del papa. Spesso è stata considerata una sorta di "designazione all'Impero", mentre appare più probabile che essa fosse il segno di un'inclinazione speciale del papa verso quel signore ormai potentissimo, padrone di quasi tutta l'Italia centromeridionale, che faceva mostra di un temperamento diverso rispetto a quello di suo fratello Lamberto - che aveva imprigionato Giovanni VIII - e di suo nipote Guido (III), che quel medesimo pontefice aveva soprannominato "Guido Rabbia".

Al fine di portare a compimento la sottomissione del Ducato di Benevento e per mostrare la propria potenza ai Bizantini, G. si mosse da Benevento a Siponto, portandosi dietro il deposto Aione. Ma a Siponto si scatenò una rivolta, durante la quale gli abitanti liberarono Aione e fecero prigioniero G. che, rilasciato dopo poco, non volle più completare la conquista del Ducato beneventano. Egli aveva infatti ricevuto la notizia della deposizione di Carlo il Grosso (novembre 887), che sarebbe morto di lì a poco.

Così, proprio nel momento in cui egli stava consolidando il proprio potere a Sud, avendo riunito una vasta entità territoriale senza soluzione di continuità, i suoi piani mutarono. La politica di conquista del Meridione fu abbandonata e G., spronato da quella che Erchemperto chiamò "cupiditas regnandi" (p. 258), corse in Francia. La sua partenza dall'Italia provocò la reazione dei Bizantini, che si impadronirono di Benevento nell'891, e dei Saraceni, che ripresero a infierire, penetrando nei territori del Ducato di Spoleto.

Come è noto, subito dopo la Dieta di Magonza del novembre 887 i diversi Regni dalla cui aggregazione era formato l'Impero si separarono, e i grandi di ciascuna di quelle entità territoriali elessero un proprio sovrano. Arnolfo di Carinzia, l'unico carolingio allora in età adulta (era figlio naturale di Carlomanno re di Baviera, fratello di Carlo il Grosso), che era stato il maggiore artefice della deposizione del proprio zio, non tenne neppure in considerazione un'ipotetica candidatura di Bernardo, figlio di quest'ultimo, che era un bambino, e divenne re dei Franchi Orientali, cioè di Germania, da allora preparando il terreno per la formale candidatura imperiale. In Alta Borgogna divenne re Rodolfo, mentre in Bassa Borgogna già dall'aprile 887 era succeduto regolarmente Ludovico il Cieco a suo padre Bosone. Solo nell'890, infine, Ludovico figlio di Bosone divenne re di Provenza. Se in questi Regni le scelte erano state effettuate immediatamente, senza che vi fosse stata reale contrapposizione tra più candidati, la situazione nel Regno d'Italia e in quello dei Franchi Occidentali, cioè di Francia, appariva più complessa. In Francia si contendevano il trono Eudi, conte di Parigi, che aveva difeso strenuamente la città contro i Normanni, e il giovanissimo Carlo, figlio di Ludovico il Balbo, a sua volta figlio di Carlo il Calvo. Il principale candidato al Regno d'Italia, invece, era Berengario marchese del Friuli, di stirpe carolingia per parte di madre. Anche G., benché non potesse vantare ascendenze carolinge (come invece si è a lungo creduto), aveva titolo per presentarsi come candidato in entrambi i Regni: in Italia, in quanto egli era in quel momento il dinasta più potente, molto attivo politicamente, a capo di una forte alleanza che già si era formata al tempo della rivolta contro Carlo il Grosso. La lotta condotta contro i Saraceni gli conferiva un largo ascendente. Infine, G. era amato dal pontefice Stefano V. La candidatura di G., peraltro, era sostenibile anche in Francia, poiché la sua casa non aveva mai spezzato i profondi legami culturali, patrimoniali e parentali che intratteneva con le terre da cui traeva l'origine.

La casa dei Guidoni si era ramificata in Bretagna, a Nantes, dove il fratello del padre di G., Lamberto (II), aveva sposato una figlia di Lotario; nell'Angiò con la dinastia dei Falconi; in Borgogna (soprattutto a Langres, Digione e Autun), dove aveva il sostegno nelle dinastie dei Miloniti e degli Anskatidi, e in Franconia occidentale. La famiglia di G. era dunque "di confusa e mobile fisionomia territoriale" mentre egli era senza dubbio "di altissima ambizione di potere" (Cammarosano, p. 206).

Secondo una tradizione tramandata da Liutprando (p. 17), G. avrebbe stretto un accordo con Berengario, dividendo con lui gli ambiti di potere: al primo la corona di Francia, al secondo quella d'Italia. In realtà, se accordo vi fu, questo dovette consistere essenzialmente nel permettere il transito delle truppe spoletine verso la Francia e nel garantire la pace e il mantenimento dei diritti nel Ducato di Spoleto durante l'assenza di Guido. Il rapporto con Berengario doveva essere buono, come si evince dal fatto che suo fratello Rodolfo, abate di St-Bertin e di St-Vaast, si schierò tra i sostenitori di G. per permettergli di divenire re di Francia.

Nel periodo in cui Berengario trattava con i grandi del Regno italico la propria elezione (avvenuta fra il 30 dic. 887 e il 6 genn. 888) G. si recò in Borgogna, a Langres, dove nel febbraio 888 fu eletto e incoronato re dei Franchi Occidentali dal vescovo Geilone. Si trovava così a rappresentare un gruppo di dissidenti che non accettavano la candidatura di Eudi e si erano uniti intorno all'arcivescovo Folcone di Reims, successore di Incmaro.

Folcone è figura di primo piano nella vita di G. - che gli era consanguineo, ma non sappiamo per quale via - e va ritenuto il maggiore artefice dell'ampliamento degli orizzonti politici del duca di Spoleto. Il positivo rapporto che G. intratteneva con i pontefici - e che, tranne in alcuni casi, avrebbe mantenuto anche dopo la sua elezione a re d'Italia e a imperatore - può essere compreso solo valutando anche la figura di Folcone, che intrattenne con Stefano V e con Formoso un epistolario - in parte tramandatoci da Flodoardo - in cui G. e poi suo figlio Lamberto sono commendati e raccomandati.

L'esperienza francese durò pochi giorni. I Franchi abbandonarono le loro perplessità e, per impedire altre azioni di G., incoronarono Eudi a Compiègne il 29 febbr. 888. Stimando di non avere appoggi sufficienti, poiché Eudi era stato accettato dalla maggior parte dei grandi del Regno, G. si preparò allo scontro con Berengario, cercando sostegni e reclutando armati.

G. passò le Alpi verso ottobre, al comando di un esercito composto di schiere italiche e borgognone. Il suo principale alleato in Italia era il marchese di Toscana, cui si sommavano Ambrogio conte di Bergamo, Maginfredo conte di Milano, Sigifredo conte di Piacenza, Everardo conte di Tortona. Diversi altri sostenitori sono annoverati nei Gesta Berengarii, tra coloro che parteciparono alla battaglia del Trebbia, poco tempo dopo (l. II, vv. 13 ss.). Anche se la geografia politica del periodo è quanto mai mobile, si possono individuare due schieramenti distinguibili territorialmente. In linea di massima, gli alleati di G. appartenevano all'Italia nordoccidentale e centrale, nonché alla Francia; mentre Berengario era a capo di un'alleanza di signori dell'Italia nordorientale e della Germania. Berengario, che si trovava a Verona, mosse subito contro il nemico. Le truppe si scontrarono presso Brescia alla fine di ottobre. Questa prima battaglia campale fu vinta da Berengario; G. si vide obbligato a chiedere una tregua fino all'Epifania. Berengario la concesse volentieri, soprattutto perché anche Arnolfo di Carinzia minacciava di entrare in Italia. Nel frattempo l'esercito di G. andava ingrossandosi con le riserve di Spoleto e Camerino, fino a raggiungere la forza di 7000 o 8000 uomini.

Berengario cercò di riportare a proprio favore la situazione recandosi proprio da Arnolfo di Carinzia, che era sceso a Trento. Per conservare il regno, in dicembre Berengario fece atto di omaggio al re di Germania, che vantava una preminenza morale nell'Impero e già aveva ricevuto i giuramenti di Eudi di Francia e di Rodolfo di Borgogna, confermandoli alla testa dei loro Regni. Ponendosi sotto la protezione di Arnolfo, Berengario si vide riconosciuto un dominio eminente nel Regno, mentre G. fu considerato un invasore e un tiranno.

Ma in un secondo, sanguinoso combattimento sulle rive del Trebbia, all'inizio dell'889, G. ebbe la meglio sull'avversario che, ferito, dovette cedere il campo e ritirarsi a Verona. Berengario, mantenendo il titolo di re, continuò a governare l'Italia nordorientale.

G. fu riconosciuto nella maggior parte d'Italia. Dopo la battaglia, molti signori e vescovi che l'anno prima avevano acclamato Berengario si riunirono a Pavia. L'assemblea, in cui i vescovi del Nord Italia ebbero una parte rilevante, agiva in una situazione di grave crisi. La guerra, ancorché breve, era stata dura, seguiva un lungo periodo di anarchia e aveva lasciato l'Italia alla mercé di bande armate. I vescovi dichiararono di essere stati obbligati ad accettare Berengario in precedenza e di volere ora eleggere G., la cui la vittoria militare era un segno del cielo.

Prima di essere acclamato, G. dovette giurare il rispetto di otto capitoli, che si sono conservati nel suo decreto di elezione e che si possono riassumere come segue: 1) onorare e conservare la Chiesa romana e venerare il papa, come fecero già gli antichi e moderni imperatori e re; 2) confermare i diritti dei vescovi; 3) non gravare i luoghi sacri di nuove imposizioni; 4) mostrare onore per i ministri della Chiesa, che dovranno rimanere sotto la potestà del loro vescovo; 5) non vessare la plebe richiedendo loro più di quanto è stabilito dalle leggi; 6) tenere a freno i propri paladini, che si accontentino dei loro stipendi e non vadano depredando; 7) lo stesso per coloro che convengono ai placiti, che non possano perpetrare rapine al loro passaggio; 8) impedire che gli stranieri vengano a depredare il Regno: coloro che li ospitano saranno responsabili per loro. Si tratta di un patto che garantisce soprattutto il clero e tenta di arginare la violenza degli uomini armati, vassalli italiani e di Oltralpe. Ne emerge pertanto il quadro di un sostegno politico soprattutto ecclesiastico, che reclama a gran voce diritti consolidati, e di una vassallità - anche transalpina - estremamente turbolenta.

Tuttavia, la posizione di G. era forte, poiché fondata su solide basi di potere territoriale. Il re, eletto (forse non incoronato) a Pavia in febbraio, probabilmente il 16, lasciò il Ducato di Spoleto a Guido (IV), figlio del figlio di suo fratello. Questa mossa politica (che potrebbe essere stata compiuta anche l'anno prima, al momento dell'incoronazione a re di Francia) era generata dal desiderio di eliminare ogni possibile occasione di conflittualità con il papa (conflittualità che naturalmente, proprio al livello locale dei confini tra Ducato e territorio pontificio, continuava). Anche Berengario, diventando re, aveva trasferito ad altri la Marca del Friuli.

La cessione del Ducato di Spoleto al nipote è il segno di quanto G. considerasse la posizione, la politica e l'ideologia che gli erano proprie, ormai lontane dal raggio d'azione del Ducato spoletino. Non più duca di Spoleto, ma rex Italiae, G. aspirava ancora più in alto, poiché il Regno d'Italia e la dignità imperiale erano uniti per tradizione. Senza tentare di scalzare Berengario dal dominio che ancora manteneva nella parte nordorientale della penisola, evitando così una ennesima e, probabilmente, infruttuosa guerra, G. si volse a contrastare le palesi velleità imperiali di Arnolfo di Carinzia, candidandosi a ricevere egli stesso la corona a Roma. Se G. fosse divenuto imperatore la posizione di Berengario, semplice vassallo di un re tedesco, si sarebbe ancora indebolita, mentre le mire egemoniche che da sempre la famiglia dei duchi di Spoleto vantava sul Meridione d'Italia avrebbero avuto una formidabile reviviscenza. G. sarebbe stato in grado di intervenire anche Oltralpe, rimediando all'insuccesso dell'incoronazione di Langres.

Stefano V, che non molti anni prima lo aveva definito il "suo figlio prediletto", e che probabilmente non aveva salutato di malanimo l'elezione di G. a re d'Italia, temette forse che il conferimento della dignità imperiale spostasse troppo gli equilibri politici, cosicché, nel marzo 890, invitò Arnolfo di Carinzia a liberare l'Italia "dai cattivi cristiani e dai pagani". Ma Arnolfo non volle partire, cosicché il papa non poté fare altro che incoronare G. e Ageltrude, a Roma, il 21 febbr. 891.

Il commento storiografico corrente sostiene che il papa tendeva naturalmente verso Arnolfo, in quanto questi era il "protettore più lontano". Secondo questa linea interpretativa, che trasporta al IX secolo il cliché del "cattivo vicino" longobardo, il favore offerto da Stefano V a G. sarebbe stato contingente, poiché in realtà egli lo temeva, in quanto appartenente alla casa di Spoleto. Ma per comprendere le ragioni del papa, il suo tentativo di evitare l'incoronazione di G., ma anche la sua rapida inversione di rotta, bisogna ipotizzare che il pontefice non considerava G. un avventuriero o un pericoloso vicino, bensì un uomo che, distintosi già in precedenza per essersi comportato in modo diverso dai suoi più stretti parenti (e segnatamente dal fratello Lamberto) era ora divenuto un potente dinasta franco, sostenuto apertamente da Folcone, cioè dal maggiore prelato di Francia. G., pur non avendo nelle vene sangue carolingio, rappresentava bene la parte occidentale dell'Impero, verso cui sia Stefano V, sia il suo successore Formoso tendevano senza esitazioni. Questi papi erano invece diffidenti verso il ramo orientale dei carolingi, rappresentato in quel momento proprio da Arnolfo.

G. era il primo imperatore non carolingio. Nel giorno della sua incoronazione egli, oltre a confermare le donazioni già elargite alla moglie, ne aggiunse altre, consistenti in alcuni importanti monasteri pavesi. Questa sua azione va letta come la volontà di radicare la propria dinastia nella capitale del Regno. Contrariamente a un giudizio storiografico largamente condiviso (per es. da Fasoli, p. 17), si può ritenere che alla base della volontà di divenire imperatore non vi fossero solamente scopi pratici e utilitaristici. Una chiave di lettura importante per comprendere fino in fondo la sua coscienza imperiale si coglie nel motto che volle inciso sul suo sigillo plumbeo, che recava infatti l'iscrizione "Renovatio regni Francorum". Questo sta a indicare che G. si considerava il vero continuatore della tradizione franca in Italia, contro Berengario e contro Arnolfo.

G. eresse due nuove marche per difendere il Regno dagli attacchi esterni: una a Nordest, sulla riva sinistra del lago di Garda, l'altra a Nordovest, a Ivrea. Investì dell'una suo zio Corrado, dell'altra il fedele Anscario di Oscheret, che lo aveva seguito dalla Francia. Nel maggio 891, per poter agire con maggiore libertà e assicurarsi la successione, G. associò al regno suo figlio Lamberto, che era ancora un bambino di forse dodici anni. Un mese dopo, a Pavia, confermò al doge e al popolo veneto i possessi, concesse immunità, libertà di esercitare i negozi e alcuni altri privilegi, confermando il patto concluso da Carlomagno con i Bizantini nell'812. In novembre si trovava nell'Esarcato, e durante il viaggio aveva probabilmente riunito al suo dominio il corso orientale del Po, fino ad allora nella zona di influenza di Berengario.

Il 30 apr. 892, Pasqua, Lamberto fu incoronato coimperatore dal nuovo papa Formoso, durante un sinodo tenuto a Ravenna. In quell'occasione i due imperatori strinsero un nuovo patto col papa, confermando alla Chiesa romana tutte le donazioni fatte da Pipino e dai suoi successori. La solenne incoronazione - l'unica incoronazione imperiale del Medioevo celebrata fuori Roma - metteva al sicuro la successione di Guido.

Pochi mesi dopo G. era a Roma, ma se ne ignora la ragione. Secondo Liutprando (p. 15) egli aveva saputo della morte di Carlo III, e per questo si era recato a Roma a ricevere l'unzione di re di Francia. Liutprando si riferisce all'888 e a Carlo III il Grosso; mentre potrebbe essersi trattato del viaggio dell'892 e della (presunta) morte del giovane Carlo III il Semplice, figlio di Ludovico il Balbo, allora pretendente al trono di Francia. Folcone di Reims continuava a contrastare la sovranità di Eudi e forse in quel periodo era orientato a tentare di costituire nuovamente G. re di Francia. Ora che era re d'Italia e imperatore, l'operazione avrebbe avuto maggiori possibilità di riuscita e il risultato sarebbe stato la ricostituzione di un ampio Impero occidentale. Ma Folcone, seppure ebbe mai questo disegno (la congettura è verosimile ma non sufficientemente documentata, ed egli stesso, in una lettera ad Arnolfo, negò di avere avuto questo progetto), lo abbandonò molto presto, proponendo come sovrano dei Franchi occidentali Carlo il Semplice. Papa Formoso, che manteneva buoni rapporti con la Francia e con Folcone, appoggiò l'elezione e l'incoronazione di Carlo (Reims, 28 genn. 893). Subito Folcone cercò di intessere l'alleanza tra quello e G., visitandolo con una legazione e scrivendogli per esortarlo a sostenere il giovane re di Francia e a comportarsi verso di lui come si addiceva a un "propinquus" (Flodoardo, p. 383). Il papa avrebbe avuto il compito di congiungere in amicizia i due sovrani. In tal modo Folcone sarebbe riuscito a costituire una forte alleanza occidentale sostenuta dal papa. Non si conosce, però, l'atteggiamento di risposta tenuto dall'imperatore.

Ma Formoso, che si era mostrato tanto favorevole a G. e a Lamberto, cambiò improvvisamente politica. Nell'autunno 893 giunsero a Ratisbona suoi legati presso Arnolfo di Carinzia. Costoro, con alcuni grandi signori laici, probabilmente parte di una legazione di Berengario, lamentarono le sorti del Regno e del Patrimonio di S. Pietro e ne chiesero la liberazione da Guido. Arnolfo inviò suo figlio Sventiboldo, che unì le sue truppe bavaresi a quelle di Berengario. Secondo Liutprando (p. 19) l'esercito si accampò fuori Pavia, in cui G. si stava fortificando, e rimase una ventina di giorni senza portare l'assalto, finché G. offrì a Sventiboldo una somma d'argento che lo convinse a rientrare in Germania, alla fine di ottobre.

Arnolfo, richiesto nuovamente con forza il suo intervento da parte del papa, si decise a scendere personalmente in Italia all'inizio dell'894. La campagna militare conobbe alcuni successi iniziali. Il re si impadronì di Brescia senza colpo ferire, espugnò Bergamo, la abbandonò al saccheggio e fece impiccare il suo conte, Ambrogio, che in nome di G. l'aveva difesa. La cruda lezione spinse Milano e Pavia a sottomettersi senza combattere, cosicché G. si vide costretto ad allontanarsi dal centro del potere. Arnolfo si insediò a Pavia e prese il titolo di re d'Italia, mostrando così di non avere mai considerato Berengario un sovrano, ma piuttosto il suo rappresentante. Egli intendeva scendere fino a Roma, per ricevere la corona imperiale. Ma la stanchezza dell'esercito e soprattutto la paura di attraversare gli Appennini, i cui valichi erano controllati dal marchese di Toscana - alleato di G. e offeso dal nuovo re, che lo aveva tenuto in prigione poco prima - indussero Arnolfo a tornare in Germania. Anche la sua ritirata fu difficile, poiché il Brennero gli era impedito da Berengario, che ovviamente gli era diventato nemico, e la via occidentale (che poi percorse) gli fu resa molto ardua da Anscario di Ivrea, rimasto fedele a Guido. Arnolfo riuscirà a cingere la corona imperiale solo due anni dopo (22 febbr. 896), opponendosi a Lamberto.

Dopo la partenza di Arnolfo G., che tentava di riprendere il controllo del Regno e si preparava a continuare la guerra con Berengario, morì improvvisamente nel tardo autunno dell'894, vicino al Taro dove si era fortificato, si dice in seguito a un'emorragia o a un colpo apoplettico, e fu sepolto nella cattedrale di Parma. La data creduta esatta, il 12 dicembre, va anticipata: egli doveva essere morto già il mese prima, come si evince da un atto astigiano che, datato al novembre 894, riporta solo l'anno di impero di Lamberto (I diplomi di Guido e Lamberto, p. XVI).

Si conservano solo tre capitolari e ventuno diplomi di G., datati dal 27 maggio 889 all'aprile 894. Inoltre siamo a conoscenza di undici diplomi perduti. Tra i falsi, è conosciuto quello prodotto nell'ambiente di S. Vincenzo al Volturno: G. avrebbe donato al monastero tante libbre d'oro quante ne pesava suo figlio Lamberto, nato nella cella di S. Rufino.

I capitolari consistono nel Decretum electionis (febbraio 889), in un breve testo datato tra febbraio 889 e febbraio 891, avente per oggetto la condizione dei chierici che conducono vita secolare, e in un capitolare, datato da Pavia il 1° maggio 891, che contiene un corpo di nove ordinamenti piuttosto elementari, relativi al tentativo di contrastare i predoni (che sono sempre persone potenti), l'obbligo del servizio armato, la difesa delle libertà degli arimanni, alcune disposizioni sulle carte false, sulla condizione delle donne e sulle false testimonianze. L'attività legislativa di G., con la quale si trovava a controllare una popolazione piuttosto eterogenea e in cui egli pare voler garantire numerose consuetudini longobarde, si dimostra di una certa importanza, soprattutto se valutata insieme con quella di suo figlio Lamberto. I due esprimono nei loro atti la continuità di un atteggiamento di tutela della cosa pubblica, cioè di presenza diretta del potere, non delegato a conti o a funzionari residenti, da mettere in relazione con la tradizione franca carolingia e forse anche con quella dei duchi di Spoleto. Parecchie decine di anni dopo la sua morte, G. sarà ricordato come legislatore da Benedetto del Monte Soratte. Nonostante l'intenzione espressa nei capitolari, i due imperatori non invertono la tendenza, sempre più accentuata, di delega del potere pubblico, come si ricava, invece, dall'esame dei loro diplomi. Entrambi seguono il solco aperto da Carlo III, di cui G., confermando diversi suoi atti, si dichiara il successore nel segno della continuità: i destinatari individuali hanno oramai un peso relativamente elevato e si tratta spesso di grandi enti ecclesiastici dell'Italia settentrionale; è consolidata la pratica secondo cui dietro a ogni concessione vi sia l'intercessione di un alto personaggio della corte o dell'apparato politico. Oltre alla regina Ageltrude, che è ella stessa destinataria di vaste cessioni, compaiono tra gli intercedenti il marchese Adalberto di Toscana, il marchese Anscario di Ivrea, alcuni conti, un vassallo regio e più volte il vescovo Vicbodo di Parma, arcicappellano e consigliere del re. Nella concessione al vescovo Liudvino di Modena (ottobre 891) di ampi diritti pubblici, confermata sette anni più tardi da Lamberto, è dato di cogliere una novità importante rispetto al passato, poiché l'atto stabilisce la totale alienazione dei diritti regi, in città e in un ben delimitato territorio esterno a essa. Se dunque i sovrani della casa di Spoleto tentarono una difesa della cosa pubblica attraverso le leggi, nei diplomi - cioè nei fatti - essi si mostrano "partecipi del tipo di articolazione locale del potere" della matura età carolingia (Cammarosano, pp. 210-212).

G. non è mai stato considerato un personaggio positivo. Le cronache coeve e i Gesta Berengarii ne parlano generalmente in toni di inimicizia. Soprattutto nel poema che celebra il suo più fiero avversario G. appare l'antagonista per eccellenza, perfido e mosso dall'invidia. Mentre Berengario vi è cantato come eroe italico, G. è considerato un "gallus" (Gesta Berengarii, ll. I, vv. 115-116; III, v. 10). Anche la storiografia ha avuto toni duri nei suoi confronti, soprattutto poiché G. soffre il fatto di essere stato il primo re e imperatore della "anarchia postcarolingia", condividendo in questo il giudizio generalmente assegnato ai duchi di Spoleto, considerati quasi dei lestofanti ambiziosi e sovversivi, distruttori dell'Impero e nemici del papa. Se per Moroni egli era un "capriccioso soverchiatore" (p. 80), ancora Fasoli lo chiamò "avventuriero spregiudicato e calcolatore, ma abile e capace" (p. VIII), considerandolo però una delle figure più interessanti del periodo. Arnaldi lo ha invece considerato un sovrano in grado di rappresentare l'ideale dell'Impero. Hlawitschka attribuisce all'intera dinastia spoletina una linea politica più lineare e meno aggressiva.

Fonti e Bibl.: Chronicon Casauriense, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., II, 2, Mediolani 1726, coll. 947 s.; Annales Fuldenses, a cura di G.H. Pertz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, I, Hannoverae 1826, pp. 398-401, 406, 409; Annales Vedastini, a cura di G.H. Pertz, ibid., p. 525; Regino Prumiensis, Chronicon, a cura di G.H. Pertz, ibid., pp. 598, 606; Chronicon Salernitanum, a cura di U. Westerbergh, ibid., III, ibid. 1848, p. 542; Erchempertus, Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, ibid., Scriptoresrer. Lang. et Ital. saec. VI-IX, Hannoverae 1878, pp. 249, 255, 258, 263 s.; Capitularia regum Francorum, a cura di A. Boretius - V. Krause, ibid., Leges, II, ibid. 1890, pp. 104-109; Gesta Berengarii imperatoris, a cura di P. de Wirtenfeld, ibid., Poëtae latini aevi Carolini, IV, 1, Berolini 1899, in partic. pp. 357-393; Liutprandus Cremonensis, Antapodosis, a cura di J. Becker, ibid., Scriptores rerum Germanicarum, XLI, Hannoverae-Lipsiae 1915, pp. 15-19, 27; Flodoardus, Historia Remensis Ecclesiae. Die Geschichte der Reimser Kirche, a cura di M. Stratmann, ibid., Scriptores, XXXVI, ibid. 1998, pp. 365 s., 373, 382-384; IlregestodiFarfacompilatodaGregoriodaCatino, a cura di I. Giorgi - U. Balzani, III, Roma 1883, p. 38; I diplomi di Guido e Lamberto, a cura di L. Schiaparelli, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], XXXVI, Roma 1906; Benedictus monachus S. Andreae de Soracte, Chronicon, a cura di G. Zucchetti, ibid., LV, ibid. 1920, p. 155; I placiti del Regnum Italiae, a cura di C. Manaresi, I, ibid., XCII, ibid. 1955, nn. 98-100; Monumenta onomastica Romana Medii Aevi, a cura di G. Savio, II, Roma 1999, pp. 851-854; L. Schiaparelli, I diplomi dei re d'Italia, II, I diplomi di Guido e di Lamberto, in Bull. dell'Ist. stor. italiano, XXVI (1906); H. Müller, Topogr. und geneal. Untersuch. zur Gesch. des Herzogtums Spoleto und der Sabina von 800 bis 1000, Greisonwald 1930; E. Gasparrini Leporace, Cronologia dei duchi di Spoleto…, in Bull. della R. Deput. di storia patria per l'Umbria, XXV (1938), pp. 26-29; G. Fasoli, I re d'Italia, Firenze 1949, pp. VIII, 1-30 e ad ind.; G. Arnaldi, Papa Formoso e gli imperatori della casa di Spoleto, in Annali della facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Napoli, IV (1951), pp. 1-20 dell'estr.; T. Gasparrini Leporace, Ageltrude, in Diz. biogr. degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 384-386; G. Arnaldi, Berengario, ibid., IX, ibid. 1967, pp. 7-9, 11-15; B. Ruggiero, Il Ducato di Spoleto…, in Arch. stor. per le prov. napoletane, s. 3, V-VI (1966-67), pp. 13-16; E. Hlawitschka, Die Widonen in Dukat von Spoleto, in Quellen und Forsch. aus italien. Arch. und Bibliotheken, LXIII (1983), pp. 44-90; Id., Kaiser Wido un das Westfrankenreich, in Person und Gemeinschaft im Mittelalter. K. Schmid zum 65. Geburdstag, a cura di G. Althoff et al., Sigmaringen 1988, pp. 187-198; F. Bougard, Le Royaume d'Italie de la fin du VIIIe siècle au début du XIe siècle…, Paris 1992, ad ind.; P. Cammarosano, Nobili e re. L'Italia politica dell'Alto Medioevo, Roma-Bari 1998, pp. 177-179, 202, 206, 208-213, 221-223 e ad ind.; G. Arnaldi, Considerazioni sulla storia del Regno italico indipendente, in Quaestiones Medii Aevi novae, Warszawa 2000, pp. 21-28; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-ecclesiastica, LIX, pp. 79-82; Enc. Italiana, XVIII, pp. 254 s.; Lexikon des Mittelalters, IX, coll. 68 s., 72-74.

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