Guido da Pisa

Enciclopedia Dantesca (1970)

Guido da Pisa

Francesco Mazzoni

Frate carmelitano, uomo di lettere, commentatore dantesco, nato a Pisa nella seconda metà del Duecento e vissuto oltre i primi decenni del sec. XIV; autore, oltre che di una Dichiarazione poetica dell'Inferno, anche di una complessa Expositio sempre della prima cantica, e di altre opere letterarie che ne hanno illustrato e tramandato il nome: in particolare La Fiorita o Fiore d'Italia, stampata più volte a partire dal 1490 e notissima specie nella sezione (libro II) che corre anche autonoma sotto il nome di Fatti d'Enea. Fantasie del Montfaucon e del Bandini, innescate da antiche guardie pergamenacee (oggi perdute) di codici laurenziani, fecero attribuire a G. (anche modernamente, nonostante fin dal 1863 Leone del Prete muovesse ottime osservazioni in contrario) la Storia del duca Elia d'Orlino (non Orbino, come si è scritto): null'altro che l'Aiolfo del Barbicone. Il carattere tutto sommato enciclopedico della Fiorita ne spiega poi i vari titoli che l'accompagnano o designano nei codici; qualche fondamento ha infine l'attribuzione a G. di una Miscellanea historica geographica in latino, contenuta in un codice Riccardiano (per cui cfr. E.G. Parodi, I rifacimenti, pp. 182 e 360-361):

Queste le uniche notizie attorno la produzione di una personalità certamente ragguardevole delle nostre antiche lettere, a tutt'oggi non adeguatamente lumeggiata specie dal punto di vista biografico. Ciò dipende dalla confusione originata, nei documenti, dalle frequenti omonimie. Diversi furono infatti, nel buon secolo, i carmelitani vocati Guido, appartenenti od originariamente affiliati al convento pisano: un fra Guido " pisanus " è citato in una pergamena del Carmine di Firenze (9 dicembre 1324) oggi conservata in quell'Archivio di Stato; un Guido carmelitano (nipote di Donna Dea del Buono) è in atti rogati al Carmine di Pisa dal notaio Giacomo del fu Bonfantino il 15 novembre 1326; nel 1327 si ha notizia di un Guido di Bono Vestiti; circa otto anni dopo, quale legatario in un testamento rogato da Bartolomeo di Gualando Guicciardi (Pisa, 15 maggio 1335) compare un altro fra Guido; un fra Guido del fu ser Cecco è presente quale testimone al testamento (rogato dal pisano ser Iacopo il 30 marzo 1348) con cui Mannigo del fu Ghino della Cappella di S. Cristoforo nomina il Carmine pisano erede universale. Un rogito di ser Benincasa del fu Meo Casoni di Montemagno, riportante ad atti del 22 marzo, 17 e 26 aprile 1344, menziona poi quale religioso del medesimo convento un " Guido de Fumo "; altri precedenti documenti e ricordanze conventuali dicono che codesto Guido " de Furno " (figliuolo di Ugolino, e dunque distinto dai sopra nominati) era nel convento fiorentino del Carmine nel 1333, 1335, 1342, 1347, per morirvi infine il 3 luglio 1348. Almeno tre, insomma (per attenerci all'ipotesi più economica), i frati di nome Guido, presenti o affiliati al Carmine pisano negli anni che ci interessano: Guido di Bono Vestiti, Guido del fu ser Cecco, Guido di Ugolino " de Fumo "; né obbligatoriamente a uno di essi (quando non compaia anche il patronimico) andrà riferita la documentazione.

D'altronde non sono questi i soli, possibili candidati: nel 1918 G. Livi indicava presente a Bologna (il 31 gennaio 1325) insieme con altri frati (tutti però eremitani) un " fratre Guidone de Pisis ", testimone al testamento del calzolaio Geminiano del fu Guidotto; e ne deduceva che il nostro avesse mutato d'abito e presa dimorà bolognese. Né il vedere tra quei frati un " Guizzardo de Bononia ", o il reperire in un atto di pace stipulato pochi mesi dopo (Bologna, 17 giugno 1325) sempre nella chiesa degli Eremitani un " fratre Iacobo de Lana " lo induceva, almeno per allora, a prudenza, in vista di sempre possibili (e, almeno in un caso, palesi) omonimie. Ben più caute invece le ipotesi dello stesso Livi nel 1921, se volle sottolineare piuttosto l'esistenza di un Guido (nipote ex fratre di un " magister Guido pisanus fixicae professor "), per testamento dello zio (1284) godente in anni successivi di un beneficio ecclesiastico, perché, nello studio bolognese, attendesse per un quinquennio " in scientia litterarum, scilicet in gramaticalibus... et in iure per decem annos continue numerandos ". Ma di questo letterato-giurista le notizie ulteriori (un atto del 27 giugno 1300) parlano come di un " Magister Guido Nicolae, capellanus rector et administrator altaris S. Martini maioris Ecclesiae S. Petri Bononiae, et heres magistri Guidoni pisani, fixicae professoris ": sicché manca ogni possibilità (abito a parte, si badi al titolo di " Magister ") di riconnetterlo al frate carmelitano, mai gratificato nei codici di tale epiteto. Meno problematica (perché palesemente erronea) la candidatura primamente avanzata dal p. G.B. Archetti nella sua inedita Pinacotheca, ripresa poi dal p. Santi Mattei (in una monografia pure inedita nell'archivio del Carmine fiorentino) e da altri, di un frate " Guido q. Chellini de Pisis ", vissuto certamente tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento (in atti fra il 1382 e il 1413), troppo lungi dall'epoca di D. e dal momento storico in cui, chiunque sia effettivamente stato, l'autore della Fiorita operò. Nulla poi, salvo il nome (" Guido sodalis ") può addurre del nostro il De Villiérs, nella sua Bibliotheca carmelitana.

I critici si posero anche l'interrogativo se quel " pisanus " che si accompagna nei codici e nei documenti al nome proprio fosse da intendersi come semplice indizio dell'affiliazione al Carmine di Pisa, oppure quale indicazione del luogo di nascita (magari latamente inteso) e della successiva lontananza di G. da esso; se è vero che nel Medioevo faceva molto spesso aggio, pei religiosi, il luogo di affiliazione all'ordine, un passo dell'Expositio (a If XXXIII 88) consente di sciogliere ogni dubbio, posto che G., parlando delle tristi condizioni politiche della città pisana, mentre invoca per lei l'aiuto divino, se ne proclama " oriundus... et civilis filius ": " Sed placeat nostro pio Samaritano ipsam oculo suae pietatis respicere.. ut ego, qui sum oriundus ex ipsa, ante tempora meae mortis possim ex reformatione sui status tanquam civilis filius gratulari " (codice 597 del Museo Condé di Chantilly, c. 227 r.-v.). E questa indicazione offerta dall'autore medesimo rende a parer nostro meno probabile l'identificazione (in seguito proposta dal p. Sabatini) di Guido " pisanus " col già veduto Guido Ugolini " de Furno " (mero errore di stampa il " de Fummo " che appare in quelle pagine): localitâ (Forno nei pressi di Massa) che male avrebbe consentito al nostro di proclamarsi così francamente " oriundus " di Pisa.

Se la personalità storica di G. e (come accenneremo tra breve) anche la cronologia delle sue opere necessita di un'ulteriore massa a fuoco, quello che più importa (cioè a dire l'indubbia rilevanza del carmelitano entro il capitolo della fortuna dantesca nel Trecento, e insieme l'acceso entusiasmo che egli mostra, pressoché in ogni sua pagina, per l'Alighieri) non ha certo bisogno di essere sottolineato: documentato com'è, ad apertura di libro, in ogni tappa di quell'attività letteraria. Si prenda, a esempio, La Fiorita (composta anteriormente al 1337 se nella Rubrica CXXII [la VII del libro II] si cita come ancora vivente " Federico, che oggi è re di Cicilia "): meno importa, in questa sede, accennarne il contenuto (enciclopedia di storia universale, che finisce per concentrarsi soprattutto, pur con aperture mitologiche, sulla storia biblica e romana, divenendo nella sua seconda parte un vero e proprio volgarizzamento dell'Eneide) quanto invece rilevarne anzitutto l'attacco (netta ripresa da Cv I I 1: " Tutti gli uomini, secondo che scrive Aristotile nel principio della Metafisica, naturalmente desiderano di sapere... "), indi l'intento largamente ed esplicitamente didascalico e dottrinale, parallelo a quello del trattato dantesco (" Ma conciossiacosaché sono molti, i quali vorrebbono sapere... ed abbiano avuto impedimento dal non studiare, il quale impedimento è proceduto o veramente da padri loro, che non gli ànno posto a studio, o vero da loro che non ànno voluto, o vero per alcuno impedimento non ànno potuto studiare, io per utilità di questi cotali... intendo di translatare di latino in volgare alquanti memorabili fatti e detti degli antichi... ") e soprattutto il fitto intrecciarsi nella pagina (sino a divenire vero e proprio exemplum e insieme citazione di un'ormai incontestabile ‛ auctoritas ') di copiose allegazioni dal poema, assunte a ultimo sigillo, e insieme a ornamento del dettato, sia a proposito di argomenti biblici che classici (particolarmente virgiliani). Sono (tra la prima e la seconda parte dell'opera) ben 50 citazioni, talora assai estese, tratte da tutta la Commedia (If I 106-108, IV 121-123, V 4-6, VI 13-15 e 25-27, XII 10-12, 52-57 e 67-69, XIII 10-12, XIV 52-60, 94-96 e 97-102, XVI 124-126 e 118-120, XXV 16-33, XXVI 58-60 e 61-63, XXIX 58-66, XXX 13-21, XXXI 115-132; Pg VI 76-78, IX 13-24, XI 25-27, XIII 25-36, XIV 40-42, XVI 97-132 e XVII 34-39, XX 103-117 e 130-132, XXII 148-150, XXIV 124-126, XXV 22-24, XXVI 40-42, XXVIII 43-51; Pd I 13-15, II 7-9, V 64-72, VI 1-6, 34-36, 79-81, VIII 1-12 e 1-9, IX 94-102, XIX 130-132, XX 67-69 e 118-129, XXI 25-27, XXVII 82-84, XXXII 118-132, XXXIII 64-66) e che vengono spesso introdotte o accompagnate da giudizi di gusto (e insieme laudativi: " E però dice bene il sommo de' poeti nel quinto canto della terza cantica della sua Commedia ") o addirittura condizionano, per la loro stessa presenza, il successivo dispiegarsi e disciplinarsi della materia (" Ma perciocché D. accosta in queste parole la ignoranzia del re Agamennone con la ignoranzia di Iette, vediamo la istoria, la quale occorse a questi medesimi tempi ").

Il carattere eminentemente didascalico dell'opera, tesa a divulgare più che ad approfondire la materia mediante impegnate connessioni sul piano culturale, può dare, anche a prima vista, l'impressione che, posta a confronto nei possibili punti di contatto con le altre opere da G. più specificamente votate a D., la Fiorita costituisca un momento dell'attività letteraria del pisano antecedente alla Declaratio e all'ancor più tarda Expositio: pur se mancano elementi interni sicuramente utili a fissare una cronologia relativa, sta d'altra parte il fatto che un massiccio spiegamento degli ‛ auctores ' quale avviene all'altezza dell'Expositio, non avrebbe potuto non lasciar traccia - nonostante l'intento divulgativo - anche nell'opera volgare.

Più facilmente databile (sia pure in via indiziaria) la Declaratio, o Dichiarazione poetica dell'Inferno (in terzine, accompagnata da brevi chiose latine) contenuta, come la più tarda Expositio, nei codici di Chantilly e del British Museum, Additional 31918: cronologicamente parallela (anzi, di poco anteriore se talora in esso riecheggiata) al Capitolo di Bosone da Gubbio (e quindi databile intorno al 1327) e del resto già nota all'Ottimo commentatore quando chiosava (in prima redazione, dunque nel 1334) sia If II 94 (ediz. Torri, I 22) che If XVIII 1(ediz. Torri, I 328). Dedicata espressamente " ad nobilem virum Dominum Lucanum de Spinolis de Ianua " (in atti dal 1323 al 1347) è costituita (a parte le tre terzine - più un verso - nuncupatorie) da otto ‛ canti ' di 25 terzine (più un verso finale: dunque 76 vv. per canto) in endecasillabi, chiaramente modellate sull'esemplare dantesco.

Dopo un'idea generale del poema (considerato la narrazione della conquista, da parte di D., di tre gradi di perfezione - naturale, morale, spirituale - rispettivamente segnati dalle tre guide: Virgilio, Catone, Beatrice; e giudicato composto - in parallelo al pensiero dell'epistola a Cangrande - per " rimuover la gente mondana / Del camin manco, et seguitar lo destro "), la Declaratio, a partire dal suo canto III, espone poi il contenuto dell'Inferno, talora polemizzando con precedenti espositori (si veda almeno IV 69-76; V 1-6, ove G. difende la propria interpretazione delle furie come simbolo della " eretica malitia " oppugnando le precedenti opinioni di Iacopo Alighieri e del Lana, i quali avevan ravvisato in esse le tre " male disposizioni "). Le brevi chiose latine che l'accompagnano, se poco, anzi pochissimo aggiungono, sul piano interpretativo, al capitolo rimato, sono d'altra parte evidente preannuncio della glossa maggiore, cioè a dire dell'Expositio (ancora per la maggior parte inedita), maturo e cospicuo frutto dell'appassionata dedizione del pisano a Dante.

Che l'Expositio (anch'essa dedicata a Lucano Spinola) segua la Declaratio appar chiaro dalla citazione esplicita che G. ne fa chiosando If XIII 11 (" sicut in Declaratione istius primae canticae quam rithimice, o Lucane, tuo nomini dedicavi, breviter praeostendi ", codice di Chantilly c. 103 r.); i critici hanno discusso a lungo, e con vari argomenti e risultati, per giungere a una datazione più precisa: basterà qui accennare che si è oscillato fra date anteriori al 1333 (in forza della chiosa a If XIII 146-147: Moore, Luiso, Livi, Sandkühler, Jenaro-Mac Lennan, Orvieto) o di circa un decennio posteriori (Torraca, Mazzoni, Cioffari). Che l'argomento addotto primamente, nel 1918, dal Torraca (fondato sull'uso che G. avrebbe fatto della Glossa sopra Persio di Paolo da Perugia) dopo le recenti osservazioni di L. Jenaro-Mac Lennan più non sia utile ai fini della datazione, chi scrive è pronto ad ammettere, anche se con qualche puntuale riserva; meno efficace sembra tuttavia il tentativo del critico di riportare l'Expositio non solo (in forza della glossa sulla statua di Marte) a prima del 1333, ma addirittura, muovendo da accenni di cronaca mantovana e pisana, ai mesi tra l'ottobre 1327 (terminus post quem) e il 16 agosto 1328 (terminus ante). In quei mesi G. attendeva probabilmente alla Declaratio, e già vedemmo che l'Expositio è posteriore. E glossare i primi tredici canti (si rammenti ove cade il richiamo alla Declaratio) deve aver richiesto non solo un lavoro notevole quanto alla vera e propria stesura, ma anche una buona dose di preparazione, non solo remota ma specifica: come si evince dalla poderosa e ponderosa cornice culturale. Si aggiunga poi che il codice di Chantilly è molto probabilmente l'esemplare di dedica (pergamenaceo, riccamente ornato da fini, numerose miniature, una delle quali rappresenta proprio G. mentre offre allo Spinola - di cui appare lo stemma - l'opera sua), e si vedrà la sua stessa fisionomia testuale acquistare maggior peso e rilievo ai fini di una possibile cronologia: anche se si dovranno soprattutto valorizzare i dati che emergono dalle chiose più che dalla trascrizione dell'Inferno la quale, nel codice, precede l'Exposino. E già si può anticipare che il testo delle chiose, in qualche misura più arcaico di quello della trascrizione dell'Inferno, non rispecchia d'altronde una tipologia testuale riconducibile ad anni così precoci come si vorrebbe (addirittura anteriore al codice del 1330-31 collazionato sull'esemplare dell'Aldina da Luca Martini, l'AP XVI 25 della biblioteca Braidense) e non appare certo il portatore di una delle più antiche testimonianze della Textüberlieferung del poema. Quando poi si rifletta che il più recente studio sulle miniature, quello di M. Meiss, le ha bellamente ricondotte alla scuola pisana del Traini (ma lo scriba è comunque fiorentino) e agli anni intorno il 1340, si potrà meglio valutare sia il, periodo in cui il codice di Chantilly fu esemplato, sia il probabile arco di tempo in cui G. dovette attendere all'opera sua.

La quale (chi scrive ha avuto da tempo occasione di sottolinearlo) si isola entro la storia dell'antica critica dantesca innanzi tutto per l'accesa dimensione di biblico profetismo che porta all'abbandono della pur dantesca nozione di ‛ fictio ', per inscrivere piuttosto l'esperienza di D. entro la categoria della ‛ visio per somnium '; poi per la conseguente separazione della chiosa letterale (Deductio textus de vulgari in latinum) dall'interpretazione allegorica (o comunque non meramente parafrastica) della lettera (Expositio licterae); infine per la pesante, tutta fideistica patina moraleggiante, che impregna assai spesso la chiosa, talora cedendo a digressioni solo pretestualmente connesse al testo. D. è oramai il ‛ profeta ', non più il ‛ poeta filosofo ' quale fu, quale (sulla scia dei suoi ‛ auctores ') volle essere, quale fu sentito dalla prima tradizione di commento. Ma nel contempo è presente, nell'Expositio, un interesse francamente retorico formale, ben attento alla lettera del poema, e talora fondato su di un aperto giudizio di gusto; mentre emerge (ed è questa una sicura acquisizione alla secolare ‛ fortuna ') un categorico quanto perentorio giudizio di valore, nell'attribuire a D. il merito di una vera e propria ‛ renovatio ' della poesia volgare (" Ipse enim mortuam poesiam de tenebris reduxit ad lucem... ") e insieme il primato, anzi la gloria della lingua: " Nullus enim mortalis potest sibi in linguae gloria comparari ". Si aggiunga, come già accennammo, il massiccio spiegamento degli ‛ auctores ', invocati a disegnare e sottolineare, con la loro stessa presenza, e come in filigrana, la portata e la dimensione dell'esperienza culturale di D.: primo ovviamente Virgilio, ma insieme Ovidio, Stazio, Lucano, Seneca (copiosamente citato e usufruito), Cicerone, Sallustio, Livio: se la tipologia testuale non porta novità (Seneca ‛ tragico ' è ad esempio noto in un testo della famiglia A, non senza contatti con la famiglia recenziore ψ; Livio, trascritto a blocchi, presenta - Ab Urbe condita - quasi solo lezioni dei codici cisalpini, però con qualche infiltrazione transalpina), l'uso così intenzionalmente diffuso dei classici, essi stessi presentati al lettore - non appena il testo ne offra il destro - con un gusto incipiente della biografia e della caratterizzazione storico-letteraria, aperta a discussioni e a valutazioni critiche, ci dice che con l'Expositio si veniva instaurando una nuova valutazione della Commedia: fideisticamente intesa e definita, sul piano interpretativo, come una visionaria profezia, ma nello stesso tempo, nel formarsi di un autonomo gusto di lettura e di un incipiente giudizio estetico, recepita come l'opera (esemplare anche in sede retorico-letteraria) di un classico celebrato.

Questo duplice piano di giudizio (che più tardi non poco influirà sulla fisionomia dell'esegesi boccacciana) si svolge nell'Expositio per linee parallele e talora divergenti: toccherà a Pietro, con le successive redazioni del suo Comentarium, il compito di tentare una nuova, equilibrata sintesi, nello sforzo di riportare l'esegesi del tempo suo verso parametri più vicini all'orizzonte culturale, alla dimensione di pensiero, alla genuina poetica che fu dell'Alighieri.

Bibl. - Edizioni: indicazioni copiose sulla fortuna editoriale de La Fiorita (a partire dall'edizione bolognese del 1490) e dei Fatti d'Enea, in G. da P., I Fatti di Enea, a c. di F. Foffano, Firenze 1900, XII-XV (nuova presentazione di F. Ageno, ibid. 1968) e in G. da P., I Fatti d'Enea, a c. di A. Marenduzzo, Milano 1906, XXIV-XXVII. Le citazioni nel testo le abbiamo desunte da Fiore d'Italia, a c. di L. Muzzi, Bologna, sec. XIX [ma 1824]. Per la Declaratio, cfr. F. Roediger, Dichiarazione poetica dell'Inferno dantesco di Frate G. da P., in " Il Propugnatore " n. s., I 2 (1888), 62-92, 326-395, ripresa senza mutamenti da C. Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a D.A., Roma 1889, 404-432. Il Roediger seguì il codice del British Museum, il solo che potesse raggiungere; una nuova edizione, che tiene conto (migliorando in più luoghi il testo) del capitale codice di Chantilly è stata curata da F. Mazzoni (Firenze 1970). Quanto al testo complessivo di G.da P., vedi Expositiones et glose super Comediam Dantis, a c. di V. Cioffari, New York 1974.

Studi: per i problemi connessi alla biografia di G. e alla sua identificazione, si veda (con bibliografia implicita): G. Bacchi, Frate G. da P. carmelitano del sec. XIV, in " Rivista Stor. Carmelitana " I (1929-1930) 113-126, 153-167; A. Sabatini, Fra G. da P. - Una probabile identificazione, in " Carmelus " XIV (1967) 242-254 (ivi le indicazioni bibliografiche cui si accenna nel testo). Si avverta che lo studio di G.B. Archetti, Pinacotheca imaginum illustrium scriptorum Ordinis B.V. Mariae de Monte Carmelo è inedito nella Biblioteca Comunale di Ferrara, Cl I 98 (tre manoscritti: per G. si veda a I 187, 188, 447), e che lo studio, pure inedito, del p. Santi Mattei è oggi il ms. 23 dell'Archivio provinciale dei Carmelitani di Firenze. Importanti le osservazioni di L. del Prete, in Storia di Aiolfo del Barbicone... Testo di lingua.., pubblicato a c. di L. Del Prete, Bologna 1863, t. I, XXVI; e le proposte di G. Livi, in D. - suoi primi cultori sua gente in Bologna, Bologna 1818 [sic, ma 1918], 58-64; e D. e Bologna. Nuovi studi e documenti, ibid. 1921, 37, 93, 96-100, 180, 223. Del Livi v. anche l'art. G. da P. dove scrisse il suo commento dantesco?, in " Rivista Biblioteche Archivi " XXVI (1915). Sulla personalità di volgarizzatore del pisano, utile ancora E.G. Parodi, I rifacimenti e le traduzioni italiane dell'Eneide, in " Studi Filol. Romanza " II (1887) 131-142; mentre sui problemi connessi alla datazione delle opere (particolarmente la Declaratio e la Expositio) nonché per la loro valutazione critica, si veda: E. Moore, Contributions to the textual criticism of the D.C., Cambridge 1889, XVI ss. (della numerazione in calce), 602-604; G. Vandelli, in " Bull. " VIII (1901) 150-157 (per gli stretti rapporti di G. con l'epistola a Cangrande); F.P. Luiso, Di un'opera inedita di frate G. da P., in Miscellanea di studi critici... in onore di G. Mazzoni, I, Firenze 1907, 79-135; ID., L'Anziano di Santa Zita, in Miscellanea lucchese di studi storici e letterari in onore di S. Bongi, Lucca 1927 (e v. anche A. Chiari, Letture dantesche, Firenze 1946, 25-38 e passim); F. Torraca, rec. a G. Livi, in " Rassegna Critica Lett. Ital. " XXIII (1918) 105-106; G. Vandelli, Una nuova redazione dell'Ottimo, in " Studi d. " XIV (1930) 163-165; F. Mazzoni, G. da P. interprete di D. e la sua fortuna presso il Boccaccio, in " Studi d. " XXXV (1958) 29-128; M.E. Luti, Frate G. da P. carmelitano, in " Roseti del Carmelo " maggio-dicembre 1964, 3-28; F. Mazzoni, La critica dantesca del secolo XIV, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 294; V. Cioffari, The Importane of the G. da P. Commentary on the Inferno, in " Dante Studies " LXXXV (1967) 1-13 (dell'estr.); B. Sandkühler, Die frühen Dantekommentare und ihr Verhältnis zur mittelalterlichen Kommentartradition, Monaco 1967, 98-103 (per la Declaratio), 155-192 (per l'Expositio); L. Jenaro-Mac Lennan, The Dating of G. da Pisa's Commentary on the Inferno, in " Italian Studies " XXIII (1968) 19-54; E. Orvieto, G. da P. e il commento inedito all'Inferno dantesco. Le Chiose al trentatreesimo canto, in " Italica " XLVI (1969) 17-32. Per la posizione del cod. di Chantilly nello stemma, cfr. Petrocchi, Introduzione 61-62, 313-314; per le miniature si veda (da ultimo) M. Meiss, An Illuminated Inferno and Trecento Painting in Pisa, in " The Art Bulletin " XLVII (1965) 21-34; e il capitale lavoro di P. Brieger, M. Meiss, C.S. Singleton, Illuminated Manuscripts of the Divine Comedy, Princeton 1969, I 52-70, 216-218.

TAG

Inferno dantesco

British museum

Endecasillabi

Montemagno

Sallustio