GUIDO da Siena

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDO da Siena

Walter Angelelli

Nessun documento può essere riferito a questo pittore attivo nel XIII secolo, noto esclusivamente per la firma apposta sulla grande tavola con la Madonna in trono col Bambino, eseguita con ogni probabilità per la chiesa senese di S. Domenico, sebbene Sigismondo Tizio (Milanesi, p. 4), nella prima metà del Cinquecento, ne indichi la provenienza dalla vicina e più antica S. Gregorio in Campo Regio. In S. Domenico, comunque, il dipinto è stato recentemente ricollocato dopo una lunga esposizione in palazzo pubblico a Siena. Il testo dell'iscrizione, che corre lungo il bordo del suppedaneo su cui poggia lo scranno marmoreo, attesta che "Me Gu(i)do de Senis diebus depinxit amenis: quem Chr(istu)s lenis nullis velit a(n)gere penis: A.D. MCCXXI". Nonostante la piena leggibilità del breve testo, l'opera è al centro di una vera e propria "questione guidesca" (Brandi, 1951, p. 94), che può esser fatta risalire addirittura al XVII secolo, quando Isidoro Ugurgieri Azzolini, seguito da Uberto Benvoglienti e Guglielmo Della Valle, elessero il pittore a campione dell'arte senese, per dimostrare, contro l'impostazione vasariana centrata sul predominio artistico di Firenze, "che in Siena la Pittura v'era avanti Cimabue" (Ugurgieri Azzolini, I, p. 654). Durata alcuni secoli e spesso con toni da baruffa di campanile, la "ribalda questione senese" (Longhi, p. 30) non può dirsi ancora definitivamente risolta. Essa ruota intorno ad alcuni nodi difficili da sciogliere: in primo luogo, l'attendibilità del 1221 quale anno di esecuzione della tavola; poi, la forma originaria del dipinto e il riconoscimento degli altri pezzi che dovevano eventualmente farne parte; la ricostruzione che sulla base dell'unico numero sicuro si può tentare del catalogo del pittore; infine, la composizione e l'articolazione della bottega che egli diresse o di cui dovette far parte.

Il restauro della Maestà, che l'Istituto centrale per il restauro eseguì tra il 1948 e il 1950, ha fugato ogni dubbio sull'autenticità dell'iscrizione, rivelatasi integralmente contemporanea al resto del dipinto. Nonostante ciò, la maggioranza degli studiosi è ormai concorde nel ritenere quella data come non indicativa dell'anno di esecuzione della tavola, che altrimenti rimarrebbe del tutto isolata nel panorama della pittura senese del secondo e del terzo decennio del Duecento; viceversa essa potrebbe spiegarsi meglio una sessantina di anni più tardi, quando le sue caratteristiche formali, tecniche e compositive divennero un ineliminabile punto di riferimento per diverse altre opere.

Smentite tutte le ipotesi relative a un rimaneggiamento dell'iscrizione (causa, secondo alcuni, di una errata trascrizione dell'originario riferimento cronologico da leggersi 1261, 71 o 81), la datazione più attendibile del dipinto risulta quella tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta del XIII secolo. Più difficile, semmai, è comprendere le ragioni del mantenimento di quel 1221, che, svincolato dall'esecuzione della tavola, potrebbe riferirsi a un evento di particolare importanza di cui si voleva conservare vivo il ricordo.

Secondo Carli (1955, pp. 29 s.), in questo modo si volle assicurare la memoria di un più antico dipinto, già nella chiesa di S. Gregorio, di cui la nuova opera di G. dovette ereditare il culto e i privilegi al momento del trasferimento dei frati domenicani dalla loro primitiva sede alla nuova chiesa di S. Domenico. Per Gardner, invece, la data riportata ai piedi della Vergine potrebbe rievocare un periodo di grande importanza per tutto l'Ordine domenicano, e per i frati di Siena in particolare, che in quell'anno ottennero la loro prima residenza in città e ricevettero la visita dello stesso s. Domenico, appena pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 6 agosto a Bologna. Nessuna originalità caratterizza il resto dell'iscrizione, i cui versi leonini appaiono piuttosto come la riproposizione di una formula standardizzata e ampiamente nota, di cui si conoscono diversi altri esempi: primo tra tutti quello sulla cornice del dossale n. 7 della Pinacoteca nazionale di Siena, che, mutilo della parte iniziale e forse anche di quella terminale, si è pensato potesse cominciare con il nome dello stesso G., che avrebbe realizzato l'opera nel 1270.

Il restauro della Maestà degli anni Quaranta non si limitò a chiarire esclusivamente gli aspetti tecnici relativi all'iscrizione con la data. Le radiografie eseguite in quell'occasione dimostrarono anche che, agli inizi del Trecento, un pittore affine ai modi di Duccio di Buoninsegna grattò e ridipinse i volti della Vergine e di suo figlio, insieme con altre parti minori, come le mani dei protagonisti e il basamento del trono. I soli brani utili alla definizione dello stile del maestro sono perciò i volti degli angeli che, tre per parte, occupano gli angoli superiori della tavola. Questa termina in alto con una cuspide col Redentore e due angeli, anch'essa in parte ridipinta, chiusa in una cornice indipendente.

Un problema di rilevante importanza, che coinvolge la tipologia e l'evoluzione stessa della pala d'altare duecentesca, è quello della possibile esistenza accanto alla Maestà di due sportelli dipinti. L'ipotesi si basa sulla tarda testimonianza di Sigismondo Tizio, che, descrivendo la chiesa di S. Domenico, afferma: "Aliae vero duae quae Virginem utroque latere olim claudebant, cum in ecclesiam sursum progrederis ad parietes tibi sese offerunt" (in Milanesi, p. 4). Sulla scorta di questo passo molti studiosi hanno concluso che il dipinto avesse fin dall'origine due grandi ante istoriate, identificabili con quelle documentate dal 1575 nella chiesa di Badia Ardenga. Qui, negli anni Quaranta dell'Ottocento, vennero resecate e ridotte a tavolette di piccole dimensioni; disegnate da Johann Anton Ramboux, furono poi disperse sul mercato antiquario (Claritas…). Oggi le dodici Storie dell'infanzia e della passione di Cristo sono divise tra la Pinacoteca nazionale di Siena (nn. 9-13), il Lindenau-Museum di Altenburg (inv. 6-8), il Louvre (R.F. 1968-9, 1968-10), il Catherijneconvent Museum di Utrecht (n. 522) e il Princeton University Art Museum (Acq., nn. 62-48). I molti tentativi fatti per cercare di ricostruire l'originario aspetto del complesso smembrato non hanno portato a risultati conclusivi. Negli ultimi anni, anzi, ha raccolto sempre maggiore credito l'ipotesi che le tavolette non dovessero affiancare la Maestà di S. Domenico, ma la cosiddetta Madonna del Voto del duomo di Siena, benché l'accostamento di un'immagine della Vergine a mezzo busto a storie della vita di Cristo sia in quest'epoca una soluzione iconograficamente assai rara. Da questo paliotto cristologico, la cui esistenza e il cui aspetto non sono altrimenti documentati, si è ipotizzato provenga anche la cimasa con l'Incoronazione della Vergine, oggi nel Courtauld Institute of art di Londra (n. 24), l'esempio più antico di questo soggetto che si conosca in Italia. La supposizione si basa su indizi assai labili, relativi esclusivamente alle vicende esterne del pezzo, che, come le dodici tavolette cristologiche, sembra provenire da Badia Ardenga. Infatti, fino all'inizio del XVII secolo, il monumento fu proprietà della famiglia senese dei Tuti, il cui stemma fu aggiunto ai lati del riquadro centrale della tavola londinese.

Il contributo offerto dall'analisi stilistica al problema della ricomposizione di questi complessi pittorici è stato molto importante. Esso ha permesso di rilevare una trama altrimenti sfuggente di rapporti e consonanze tra i diversi pezzi; allo stesso tempo, però, ha mostrato i limiti di un approccio tradizionale alla definizione del catalogo di un artista medievale, specialmente se basato sul concetto di autografia, intesa come espressione e risultato dell'attività esclusiva di un singolo. Oltre alla Maestà di S. Domenico, infatti, la mano di G. è stata riconosciuta unanimemente solo nel paliotto n. 7 di Siena. Le stesse tavolette già a Badia Ardenga presentano al loro interno una diversità di stile che ne fanno un prodotto di collaborazione di almeno due pittori: G., che non sembra essere nemmeno il più abile tra i due, e il cosiddetto Maestro della Madonna del Voto, autore della tavola eponima nel duomo di Siena. A una mano ancora diversa potrebbe spettare l'Incoronazione della Vergine di Londra, compresa da Stubblebine tra le opere eseguite dai collaboratori di Guido.

Com'è stato osservato di recente (Maginnis, 2002), le proposte di definizione del catalogo di G. sono fondamentalmente di tre tipi: quelle che riconoscono alla tavola di S. Domenico un primato e attribuiscono al suo autore il ruolo di personalità egemone all'interno di una bottega ricca di seguaci e collaboratori, spesso indistinguibili nelle loro individualità; quelle che si riconoscono nella classificazione di Stubblebine, che articola il corpus del pittore in opere autografe, degli assistenti degli anni Settanta e Ottanta, di quelli più tardi e dei seguaci; e, infine, quelle che condividono la proposta di Bellosi, che tende a ridistribuire molte delle opere già attribuite a G. tra i nomi di Dietisalvi di Speme, Rinaldo da Siena e Guido di Graziano, ridimensionando così la personalità dell'artista, da considerare "nei termini assai più limitati di uno dei tanti pittori di secondo livello del Duecento italiano" (p. 7).

Le conseguenze di queste diversità di approccio e di opinioni non sono di poco conto. Stubblebine, al quale si deve l'unica monografia esistente sul pittore, oltre alle due tavole universalmente riconosciute a G. reputa autografi soltanto pochi pezzi: le dodici storiette della Vita di Cristo provenienti da Badia Ardenga, il cosiddetto Dittico di s. Chiara e il dossale con la Trasfigurazione, l'Entrata in Gerusalemme e la Resurrezione di Lazzaro della Pinacoteca nazionale di Siena (nn. 4 e 8). Le molte altre opere, che pur riflettendo il medesimo stile solo in parte o in termini generici possono essere accostate ai modi di G., sono riunite dallo studioso intorno a name pieces sui quali cercare di ritessere la trama della pittura senese del tardo Duecento: il Maestro di S. Bernardino sarebbe autore della Madonna eponima del 1262 nella Pinacoteca di Siena (n. 16) e della Vergine col Bambino dell'University Art Museum di Princeton (n. 40); il Maestro della Madonna del Voto sarebbe responsabile della tavola nel duomo di Siena, del dossale n. 6 della Pinacoteca senese e della Maestà dell'Accademia di Firenze (n. 435); il Maestro delle Clarisse, che deriva il suo nome dalla tavola con Cristo e la Vergine in trono nel convento delle clarisse a Siena, sarebbe autore anche del polittico con la Madonna col Bambino e santi della collezione Kress, oggi a Memphis (Brooks Memorial Art Gallery), del Crocifisso nel palazzo comunale di San Gimignano e di un tabernacolo a Cracovia (Museo nazionale, V.235); il Maestro di S. Pietro, forse il più dotato di tutti, che deriva la sua denominazione dal dossale n. 15 della Pinacoteca di Siena, sarebbe il responsabile del Dittico del beato Andrea Gallerani nello stesso museo (n. 5) e del Giudizio finale del Museo diocesano d'arte sacra di Grosseto. Infine, ci sono gli assistenti, i collaboratori e i seguaci anonimi, come l'autore della Madonna Galli-Dunn della Pinacoteca di Siena (n. 587), quello del S. Domenico più volte ridipinto del Fogg Art Museum di Cambridge, MA (n. 1920.20), quello del S. Francesco e storie della sua vita nella Pinacoteca di Siena (n. 313) e quello della Maestà nella Pinacoteca civica di San Gimignano.

Sulla base di un minuzioso studio delle tavolette di Biccherna, commissionate dal Comune di Siena quali coperte dei registri dei tributi, Bellosi ha compiuto l'ultimo tentativo per cercare di mettere ordine nel magmatico materiale guidesco. I dipinti a suo giudizio sicuramente autografi sono i dossali nn. 6, 7 e 8 della Pinacoteca di Siena, alcune tra le storiette provenienti da Badia Ardenga (Annunciazione, Natività, Presentazione al Tempio, Adorazione dei magi, Fuga in Egitto, Flagellazione e Cristo che sale sulla croce), la Madonna col Bambino di Princeton, la Maestà delle Gallerie dell'Accademia a Firenze, il S. Domenico del Fogg Art Museum, l'Incoronazione della Vergine del Courtauld Institute di Londra, gli sportelli interni del reliquiario con le Storie del beato Andrea Gallerani della Pinacoteca senese, la cimasa con la Crocifissione della Yale University a New Haven (Jarves Coll. n. 2) e il Giudizio finale del Museo diocesano di Grosseto. A G., infine, andrebbe restituita la Biccherna raffigurante Don Bartolomeo, monaco di S. Galgano, pagata 10 soldi nel 1276 e già attribuita a Guido di Graziano, noto soltanto attraverso alcune citazioni in documenti compresi tra il 1278 e il 1302 (Milanesi, p. 11).

La ricostruzione della figura di quest'ultimo artista, distinta da quella di G., fu tentata per la prima volta da Milanesi, che invece identificava il Guido figlio di Graziano con Guido da Siena. Solo di recente si è, però, proposto di raccogliere intorno al suo nome alcune opere, tra cui il Dossale di s. Pietro, considerato il capolavoro della pittura preduccesca, e il S. Francesco con storie della sua vita, entrambi nella Pinacoteca di Siena (nn. 15, 313), la Madonna col Bambino in S. Regolo a Montaione e la tavoletta di Biccherna del primo semestre del 1280, raffigurante il Camarlingodon Guido.

La possibilità di riconoscere nelle opere attribuite a G. o ai suoi seguaci intere figure, o parti di esse, eseguite sulla base dello stesso modello, se non addirittura dello stesso cartone, o patrono, schiude nuove prospettive di ricerca. L'osservazione è particolarmente significativa soprattutto in considerazione del fatto che all'impiego dello stesso cartone non corrisponde quasi mai una identità di fattura. Accade spesso, inoltre, che composizioni, diverse nell'esito finale, siano state realizzate giustapponendo brani tra loro uguali o variati esclusivamente nelle dimensioni. Ciò porta a concludere che le opere solitamente riunite sotto il nome di G. siano in realtà i prodotti di una nutrita e composita bottega, i cui membri potevano liberamente attingere a un serbatoio comune di modelli, per realizzare opere che solo qualitativamente appaiono discontinue nella resa pittorica finale. Potrebbe trattarsi, insomma, di un vero e proprio consorzio di pittori indipendenti, uniti in una società dove gli incarichi e le commissioni potevano essere ridistribuiti tra i diversi membri. Nulla prova però che essi dovessero dipendere da G. o che questi fosse il loro principale coordinatore. Al contrario, la qualità della Madonna di S. Domenico rivela una mano non particolarmente più abile di altre, tra quante dovevano far parte di questa società, nella quale semmai spicca qualitativamente quella del Maestro di S. Bernardino.

È solo con la consapevolezza di quanto siano incerti i contorni della personalità e dell'attività di G. che si può tentare allora di definirne i caratteri stilistici sulla base della Maestà in S. Domenico. Essa mostra come la visione di G., partecipe delle più aggiornate soluzioni stilistiche e iconografiche bizantine, dipenda da quella di Coppo di Marcovaldo, che realizzò verso il 1260 la Maestà di S. Maria dei Servi a Siena, ma, allo stesso tempo, risenta già dell'influsso del Cimabue assisiate. Se l'ipotesi di una società di artisti diversi è plausibile, nulla si può dire invece degli esordi e del percorso evolutivo dell'artista, che in passato si è ipotizzato potesse muovere da un'educazione avvenuta nel Lazio (Brandi, 1951) o maturare sui modi del lucchese Bonaventura Berlinghieri (Stubblebine), prima di approdare a un linguaggio più duttile e vibrante, maturato sulla scorta dell'influenza cimabuesca.

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