DE RUGGIERO, Guido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DE RUGGIERO, Guido

Renzo De Felice

Quarto figlio di Eugenio e di Filomena d'Aiello, nacque a Napoli il 23 marzo 1888. L'ambiente famigliare in cui visse era tipica espressione di quella borghesia umanistica meridionale così presente nella cultura italiana della prima metà del secolo. Sebbene si laureasse in giurisprudenza (1910) e, nel 1911, si inducesse, per potersi sposare (nel 1913 con Anna Breglia), ad intraprendere la carriera amministrativa nei ruoli del ministero della Pubblica Istruzione, i suoi veri interessi furono sin dagli anni degli studi superiori di tipo filosofico (nel 1916 conseguì la libera docenza in storia della filosofia). Come per altri coetanei, decisiva fu su di lui sin dall'inizio l'influenza del pensiero di B. Croce e di G. Gentile; due uomini ai quali rimase sempre - anche se in modi assai diversi - affettivamente legato, nonostante le vicende culturali e politiche dei suoi rapporti con essi siano state tutt'altro che facili e, nel caso di Gentile, siano sfociate in un'aperta, insanabile rottura.

I primi rapporti personali con Croce, favoriti dallo zio Ettore De Ruggiero, dovettero risalire al 1906-1907 e si fecero più effettivi col 191 o-11, allorché si affacciò alla ribalta della cultura italiana (i suoi primi contributi filosofici videro la luce in questi due anni sulla Rivista di filosofia, sul Giornale degli economisti e su La Cultura). Il Croce gli aprì le pagine de La Critica ed egli, su suggerimento dello stesso Croce, cominciò a lavorare a La filosofia contemporanea, che, apparsa nel 1912 per i tipi di Laterza, rese noto il suo nome anche fuori della stretta cerchia degli studiosi di problemi filosofici e gli aprì le porte del giornalismo e in particolare de La Voce di G. Prezzolini e de IlResto del carlino, allora diretto da M. Missiroli (un'altra figura di intellettuale la cui influenza su di lui sin verso la metà degli anni Venti non può essere sottovalutata). I rapporti personali con Gentile ebbero un inizio, rispetto a quelli con Croce, di poco posteriore; la sua influenza fu comunque in questi primi anni anche maggiore di quella di Croce.

Una lettera ad A. Carlini in data 24 genn. 1916 (in F. Lo Moro, 1981) offre una serie di elementi per cogliere la posizione del D. rispetto ai suoi due "maestri" e all'idealismo. "Scolaro" si riconosceva solo di Gentile, "ma nel senso che da lui ho avuto l'intuizione della via da seguire: Spaventa e la sintesi apriori kantiana, lo sviluppo delle idee è invece avvenuto in me in modo del tutto laterale", avendo di mira una "filosofia come finalità che trascende infinitamente in valore i mezzi e i momenti in cui si attua (e che pur la riconoscono a sé immanente). Sistema aperto, sempre in via di organizzarsi, il cui valore è dato appunto dalla forza formatrice che il pensiero acquista grado a grado nel suo lavoro, e non gia nei momenti preferiti e preferibili di esso". Un riferimento e una indicazione che, visti alla luce de La filosofia contemporanea e di alcuni saggi filosofici più significativi di quegli anni (in particolare quelli sulla filosofia dei valori in Germania, su La Critica del 1911-12, e sulla critica del concetto di cultura, apparso nel 1912-13 su La Voce e l'anno dopo in volume) e degli articoli giornalistici del periodo prebellico, permettono di capire come già a quest'epoca la posizione del D. si differenziasse rispetto a quella di Gentile e ancor più a quella di Croce essenzialmente per una preoccupazione di ordine etico destinata a diventare col tempo in lui predominante: risolvere compiutamente il rapporto universale-particolare e salvare al massimo la responsabilità umana, la libertà come autonomia del pensiero, non sufficientemente-assicurate dallo storicismo crociano e insidiate dall'attualismo gentiliano. Una preoccupazione che le vicende politiche successive alla grande guerra (e l'incapacità dimostrata dall'attualismo a pensare concretamente la politica) avrebbero reso in lui sempre più viva e che, se non avrebbe mai trovato una vera soluzione in termini filosofici - tant'è che il D. filosofo fu non tanto un teoretico quanto uno storico della filosofia e, se mai, un filosofo morale (anche se talvolta anticipò problemi poi affrontati da altri, quale quello dell'identità di scienza e filosofia, oggetto negli anni Trenta di polemica tra U. Spirito e Gentile) -, lo avrebbe portato però ad assumere via via un atteggiamento critico-revisionistico rispetto all'idealismo all'interno del quale pure sempre si sarebbe mosso. Momenti importanti di questo suo iter, destinato a sfociare nel 1946 ne Ilritorno alla ragione, furono la terza edizione, nel 1928, de La filosofia contemporanea, l'articolo Revisioni idealistiche apparso nel 1933 ne L'Educazione nazionale, il volume dell'anno successivo sui Filosofi del Novecento e il saggio su Ilconcetto di lavoro nella sua genesi storica pubblicato nel 1940.

Dal 1912 al 1923 e in qualche misura ancora sino al 1926, sino a quando cioè la definitiva vittoria fascista sull'opposizione aventiniana non glielo impedì, il D. affiancò a quella di studioso e poi di professore universitario (dal 1922 a Messina e dal 1925 al magistero di Roma) una notevole e in certi periodi (dicembre 1918-febbraio 1920; luglio 1921-marzo 1923) intensa attività pubblicistica e giornalistica.

Questa attività, che ben rispondeva al suo carattere battagliero e alla sua convinzione che l'uomo di cultura dovesse partecipare attivamente ai conflitti ideali che preparavano ed accompagnavano quelli bellici e politici, ebbe praticamente due soli momenti pressoché di interruzione: dal 1915 al 1918, durante la grande guerra, alla quale partecipò prestando servizio nel genio (nel 1915-16 a Napoli, nel 1917 in zona di guerra) e dalla metà del 1920 a quella del 1921 quando fu per vari mesi in Inghilterra per studio. Va per altro detto che nel settembre 1916 pubblicò sulla Revue de méthaphysique et de morale uno dei saggi più significativi per la comprensione della sua personalità di uomo di cultura e del suo idealismo politico (La pensée italienne et la guerre) e che dall'esperienza inglese del 1920-21 (nel corso della quale rinsaldò i propri rapporti personali e intellettuali con il più significativo esponente inglese dell'idealismo, R. G. Collingwood, la cui particolare posizione filosofica, se per un verso fu influenzata da quella del D., per un altro la influenzò) nacque L'Impero britannico dopo la guerra (Firenze 1921), altro scritto di rilievo per comprendere il suo liberalismo e la genesi della Storia del liberalismo europeo. Quanto alle sedi nelle quali questa attività si svolse, esse furono varie; il maggior numero di articoli apparve però su Il Resto del carlino (1912-23), Il Paese (1921-22) e IlSecolo (1921-23).

Una corretta comprensione e valutazione della sua personalità non può prescindere da questi articoli, indispensabili per puntualizzare la sua posizione di fronte alla grande guerra e alla realtà politica italiana prima, durante e dopo di essa. Essi mostrano chiaramente come il suo atteggiamento politico nel dopoguerra non fu che l'esplicitarsi, il prendere corpo delle sue posizioni del periodo 1912-18; posizioni squisitamente liberali rispetto alle quali la sua collaborazione a L'Idea nazionale nel 1913-14 e a Politica (i primi tre capitoli de Ilpensiero politico meridionale) nel 1918, ovvero le critiche e i sarcasmi da lui rivolti allo Stato giolittiano, al partito liberale e allo stesso liberalismo di quegli anni non investivano l'idea liberale, ma, al contrario, erano motivati dall'esigenza di riaffermare la pregiudiziale liberale di fronte al decadimento e all'involuzione della politica liberale. Fanno capire il suo atteggiamento di fronte alla guerra e all'intervento italiano, un atteggiamento diverso da quello - a suo dire - schematico, fanatico, incoerente, dell'interventismo tanto dei democratici quanto dei nazionalisti e tutto ruotante, come per Gentile, attorno al problema del "risorgimento morale d'Italia", di come cioè gli Italiani avrebbero moralmente affrontato la guerra e di cosa essa avrebbe significato per essi. Documentano inoltre il suo progressivo allontanamento da Gentile, col quale ruppe definitivamente nel 1925 allorché questi portò alle estreme conseguenze il suo attualismo affermando che la libertà aveva per oggetto lo Stato ed identificando liberalismo e fascismo ("Voi vi lagnate delle mie critiche - gli scrisse nell'ultima lettera il 26 aprile - ma non vi rendete conto della crisi che avete suscitato rompendo l'unità di un mondo appena in formazione e creando un dissidio profondo nell'animo di coloro che, come me, pensavano che molte cose potessero e dovessero essere salvate da questo sconvolgimento. Col vostro programma di fascistizzazione della cultura e della scuola voi ci avete voluto sacrificare senza rimpianto; ponendoci contro di voi, noi ci difendiamo e forse difendiamo ancora qualcosa di voi"). Lasciano anche capire che il suo riavvicinamento a Croce (nel novembre 1927 il D. riprese la collaborazione a La Critica, interrotta nel luglio 1915), dopo le polemiche degli anni della guerra e del 1921-22 (sull'arte), fu dovuto molto più al comune antifascismo che ad un'accettazione delle posizioni filosofiche e culturali di Croce ovvero di quelle più propriamente politiche ("La differenza di accentuazione politica tra le nostre concezioni - scrisse nel 1945 - permaneva intatta, come può facilmente accertarsi chiunque confronti le opere del Croce e la mia Storia; ma non era quello il tempo di porla in evidenza. C'era nel liberalismo del Croce qualcosa di generico e indifferenziato da un punto di vista strettamente politico; ma questa manchevolezza era allora un vantaggio, perché giovava a riunire insieme, in un fronte compatto, tutti gli amici della libertà da qualunque parte accorressero"). Permettono poi di precisare l'effettivo peso che le esperienze culturali e politiche di quegli anni ebbero sulla posizione e sulle scelte del D. negli anni della crisi del regime fascista e dopo la liberazione.

Né, infine, si può sottacere un altro motivo di interesse di questi articoli. Dopo la morte del D., e soprattutto tra la fine degli anni Cinquanta e quella degli anni Settanta, da parte della cultura italiana di sinistra ed anche di suoi esponenti autorevoli, quali E. Garin e N. Bobbio, sono stati avanzati giudizi assai duri sul D. filosofo e, a ben vedere, ancora più duri sul D. politico, definito sì una figura "fra le più degne di rispetto" della cultura del Novecento per il suo "rigore morale" e il suo "comportamento dignitoso nel periodo fascista", ma, al tempo stesso, "fra le più caratteristiche espressioni delle ambiguità e delle incertezze degli "intellettuali" italiani della prima metà del secolo" (Garin). Uno "storicista conservatore", autore di "un'opera importante sul liberalismo" che, per altro, aveva fatto ormai il suo tempo e alla quale si negava sostanzialmente ogni residuo valore in nome, per un verso, del rifiuto opposto dal D. al materialismo storico, al comunismo, alla statolatria democratica, alla confusione tra società e Stato introdotta dal socialismo e, per un altro verso, della sua "astratta" e "moralistica" fiducia nella vitalità del liberalismo, da lui ancora considerato, come aveva scritto nella conclusione della Storia del liberalismo europeo, capace di dar vita allo "Stato liberale" ("lo Stato non il governo, come il governo non è il partito; ma una incarnazione più alta dello stesso spirito è l'unità superiore che contiene in sé e domina tutte le differenze") e cioè lo "Stato politico per eccellenza, la politica dell'età moderna". In questa ottica gli articoli del D. degli anni Dieci e Venti sono stati oggetto di una lettura tutta ideologica, volta a trovare in essi la conferma in re politica del "moralismo", "astrattismo" e "conservatorismo" del suo liberalismo, così da negare ad esso qualsiasi validità, laddove questa veniva invece riconosciuta a pieno titolo a quello di P. Gobetti perché "aperto" alla classe operaia.

In realtà gli articoli in questione non autorizzano una simile conclusione e mostrano, invece, come il D. colse, anche se talvolta appena sfiorandoli, alcuni problemi che solo parecchi anni dopo sono stati affrontati da altri studiosi e che denotano realismo politico e autonomia di pensiero notevoli. Nel saggio del 1916 su Lapensée italienne et la guerre è tracciato un sintetico ma significativo profilo della storia dell'idea di ragion di Stato che, come ha notato M. Biscione, anticipa di un ventennio la ricostruzione di F. Meinecke. Nello stesso saggio e in successivi articoli il D., per penetrare i comportamenti collettivi dei popoli, delle masse e dei partiti fa ricorso ad un concetto, quello di "mentalità" che, ugualmente, ha trovato in sede scientifica utilizzazione soprattutto in anni recenti. In vari articoli dedicati alla situazione italiana del dopoguerra e al fascismo, poi, sono presenti tematiche e giudizi che, per un verso, saranno alla base di opere quali La trahison des clercs (1927) di J. Benda e La rebelión de las masas (1930) di J. Ortega y Gasset e, per un altro verso, hanno trovato pieno sviluppo solo in anni ancor più recenti, costituendo punti cardine del dibattito internazionale sulla natura del fenomeno fascista e sul totalitarismo.

Da vero liberale, già dal 1921 per il D. tra fascismo e comunismo, tra "dittatura rossa e dittatura nera", non vi era alcuna sostanziale differenza ("in verità, io, tra il rosso e il nero non so riconoscere se non una distinzione ottica: tutto il resto è indiscernibile"). Allo stesso modo il suo senso politico gli faceva capire che il radicamento del fascismo non poteva essere spiegato solo con il fatto che esso si era alleato con le frazioni conservatrici e con le organizzazioni padronali. Queste alleanze non avevano che un significato autonomo e contingente: "il fascismo non tarderà - scrisse il 13 sett. 1921 - a porsi in conflitto coi suoi attuali padroni, che hanno preteso di servirsene come di un corpo di pretoriani". "Immaginare che alcune centinaia di migliaia di giovani, che hanno conquistato nella lotta e con l'azione una propria esperienza politica e la coscienza di un potere veramente singolare, rientrino con un fiat nel così detto ordine e si contentino di alimentare il "lucignolo dell'ideale" nazionalista o democratico o liberale" era per lui "un'illusione degna dei nostri ben pensanti conservatori".

Attentissimo alle vicende politiche interne ed internazionali, il D. non provava interesse per la politica attiva, sicché sino alla marcia su Roma non aderì a nessun partito o raggruppamento politico. Al massimo una certa simpatia mostrò per F. S. Nitti, per il suo tentativo di creare un gruppo democratico autonomo, per il suo antifascismo, per la sua realistica visione dei problemi internazionali; lo prova indirettamente il fatto che nel 1921-22 il giornale sul quale più scrisse e più esplicitamente di politica fu Il Paese, il quotidiano più vicino a Nitti e che ne pubblicava regolarmente gli articoli. A fianco di questa simpatia per Nitti, non va però neppure dimenticata la benevola attesa con la quale seguiva gli sviluppi della politica del Partito popolare. Nessuna simpatia mostrò invece per le ipotesi di collaborazione con i socialisti e per i tentativi di chi pretendeva elaborare una politica liberale "assolutamente nuova" ma che in pratica nulla avrebbe avuto di liberale. Per lui, il vero problema - teorico e concretamente politico al tempo stesso - era quello della crisi del liberalismo, e di come superarla, nonostante gli errori accumulati dai liberali nel corso di decenni e in particolare durante l'età giolittiana e la guerra, senza che esso ne risultasse vieppiù sfigurato, ma al contrario vivificato e in grado di rappresentare "le più vitali esigenze della vita sociale che si è creata con la guerra", e senza che la revisione delle vecchie impostazioni "ormai logore" si traducesse in "un'abdicazione del passato". Nel "principio di libertà" vi era una tale forza che il liberalismo poteva assorbire ciò che nella democrazia e nel socialismo vi era di liberale, e il Partito liberale poteva accogliere tutte le forze sociali e adeguare la propria mentalità alle esigenze nuove senza per questo snaturarla.

Essenziale per capire questo modo di intendere il liberalismo è quanto il D. aveva scritto ne L'Impero britannico dopo la guerra (su cui forte è la suggestione di L.T. Hobhouse e del suo Liberalism) e sviluppò nella Storia del liberalismo europeo, e in particolare il suo modo - alla inglese piuttosto che alla francese - di intendere il rapporto libertà-eguaglianza a favore del primo dei due termini. Il che non voleva dire negare che la democrazia fosse nata dal liberalismo né contestare la validità della sua affermazione di massa, ma mettere in rilievo i rischi per la libertà insiti nella mentalità e in certe forme di organizzazione democratiche e soprattutto sottolineare l'esigenza di una effettiva sintesi di liberalismo e di democrazia, di una "deniocrazia liberale", "dove l'aggettivo liberale ha il valore qualificante, e cioè serve ad accentuare quel bisogno di specificazione e di differenziamento che sorge ed agisce in seno all'uniformità mortificante e oppressiva della società democratica" che espone questa a tutti i rischi, sia interni sia esterni. Come si legge nella Storia del liberalismo europeo, "si tratta... di creare una democrazia di uomini liberi: quindi di educare le masse al sentimento dell'autonomia, promuovere il loro spirito di associazione e di cooperazione spontanea che tende a spezzare ciò che ne fa delle masse amorfe, preparare l'auto-governo dello Stato per mezzo delle più varie e originali forme dell'auto-governo particolare e locale".

Da qui l'importanza per il D., come scrisse il 19 dic. 1922 su Il Resto del carlino, di "creare una educazione politica degna di questo nome"; il resto era secondario o conseguenza del più generale problema del superamento della crisi del liberalismo. Da qui la durezza della sua polemica con quei liberali il cui comportamento di fronte al fascismo rivelava essere in realtà dei "conservatori miopi e retrivi", e il suo collaborare con G. Amendola allorché questi, prima col discorso di Sala Consilina (ottobre 1922), poi con l'Unione nazionale (alla quale il D. aderì e di cui fu uno degli animatori a Napoli), mostrò di volersi fare promotore di un vero movimento liberale ("né a destra né a sinistra, né col sindacato né col trust, ma come parte a sé e, in un certo senso, nell'interesse di tutti") in grado di ridare alla élite liberale la propria autonoma funzione e che avesse ben chiaro che i ceti medi costituivano il campo d'azione decisivo per realizzare una effettiva democrazia liberale e, dunque, per cercare di sbarrare la strada ad un definitivo successo fascista. Da qui, ancora, il suo testimoniare pubblicamente, sino a quando fu possibile, il suo liberalismo scrivendo sulle ultime testate ancora disposte a contrastare il fascismo e ad accettare il suo discorso (particolarmente significativa in questo senso fu la sua collaborazione nel 1925 a Rinascita liberale di A. Tino e A. Zanetti e nel 1926 a Pagine critiche) ed aderendo ad una serie di prese di posizione antifasciste (oltre al manifesto Croce, sottoscrisse il manifesto de IlSaggiatore e gli appelli di solidarietà a G. Donati e a G. Salvemini) che, in quanto tali, avevano certo un significato politico, ma che, per un realista come lui, dovevano avere soprattutto un valore educativo. La stessa funzione che, tutto sommato, crediamo egli dovette soprattutto attribuire a la Storia del liberalismo europeo (e che questa, senza nulla togliere al suo valore scientifico, testimoniato dalle traduzioni fattene quasi subito in Inghilterra, Germania e Cecoslovacchia e più tardi in Spagna, ebbe infatti negli anni del fascismo) quando essa vide la luce nella seconda metà del giugno 1925, quando cioè le sorti della battaglia politica di Amendola e delle opposizioni era ormai segnata e il fascismo si era già avviato da vari mesi sulla strada della dittatura.

Gli anni dal 1925-26 al 1941-42 furono per il D. essenzialmente anni dedicati allo studio e all'insegnamento, durante i quali il suo nome si affermò anche all'estero come quello di uno dei più significativi esponenti dell'idealismo italiano, tanto da aver affidata da Philosophy una rubrica fissa sulla filosofia italiana (che, interrotta dal 1941 al 1946, riprese nel 1947) ed avere attribuita dall'università di Oxford la laurea honoris causa (la cerimonia del conferimento, invece che nel giugno 1940, ebbe luogo, per il sopravvenuto stato di guerra tra l'Italia e l'Inghilterra, nel maggio 1946).

Ripresa la Storia della filosofia, della quale aveva già pubblicato a Bari presso Laterza nel 1918 La filosofia greca e nel 1920 La filosofia del cristianesimo, nel 1930 diede alle stampe Rinascimento, Riforma e Controriforma, nel 1933 L'età cartesiana, nel 1937 Da Vico a Kant, a cui seguì nel 1943 L'età del romanticismo. Col 1927 riprese altresì, come già detto, la collaborazione a La Critica che si protrasse sino allo scoppio della seconda guerra mondiale e fu caratterizzata soprattutto da rassegne critiche (dalle quali nacque Filosofi del Novecento) e recensioni.

La causa immediata che determinò la nuova interruzione della collaborazione a La Critica fu un saggio su Michelet storico pubblicato sulla rivista nel 1937-38 e non condiviso né nel taglio né nella sostanza da Croce, che non approvava l'interesse del D. per gli storici francesi e avrebbe preferito si occupasse invece di quelli inglesi, e comunque avrebbe voluto che, invece di "dilungarsi in questioni accessorie", procedesse per "nudi giudizi critici". E ciò proprio mentre il D. riteneva che gli storici francesi dell'Ottocento come Michelet "possano avere una larghissima risonanza negli animi dei lettori, sempre che io li consideri a modo mio e non vostro".

Se questa fu la causa immediata - e, a ben vedere, in buona parte politica, ché al D. trattare di storici come Michelet doveva apparire il modo più adatto per fare indirettamente un discorso liberale, se non addirittura di "democrazia liberale", particolarmente necessario in quel momento di crisi e di incertezza dell'Europa - della interruzione della collaborazione a La Critica, non mancano però elementi che autorizzano a parlare di un lento processo di deterioramento in atto da tempo dei mai completamente ricuciti rapporti tra i due filosofi un po' su tutti i terreni. Un deterioramento che, se non fosse sopravvenuto il contrasto sul saggio su Michelet storico, probabilmente non sarebbe arrivato alle estreme conseguenze, dato che il D., sino a quando gli fu possibile, cercò di evitare una rottura che avrebbe indebolito il polo antifascista liberale e la sua funzione educatrice (tanto è vero che anche la interruzione della collaborazione a La Critica avvenne nel modo più silenzioso e il contrasto con Croce non ebbe echi fuori dal ristretto gruppo degli intimi dei due filosofi) ma che investiva un po' tutte le questioni. Su quelle più propriamente filosofiche non è il caso di soffermarsi dopo quanto già detto a proposito delle Revisioni idealistiche del 1933 e di Filosofi del Novecento, e di quanto si dirà a proposito de Ilritorno alla ragione. Su quelle più latamente culturali offrono una serie di elementi i consigli e i giudizi editoriali che in questo periodo il D. era spesso fichiesto di dare o dava direttamente a Giovanni Laterza. Molto spesso in sintonia con quelli di Croce, non erano però neppure rari i casi di più o meno netta differenziazione. Valgano come esempi la sua maggiore disponibilità verso studi "scientifico-divulgativi e d'intonazione un po' filosofica" assai diffusi all'estero e la cui assenza considerava "una lacuna della nostra cultura", la sua insistenza, non condivisa da Croce, per far tradurre Reconstruction in philosophy di J. Dewey (che apparve nel 1931 con una sua introduzione) e la sua, via via sempre più netta, propensione per storici quali M. Rostovtzeff, S. de Madariaga e H. Pirenne (di cui riuscì a far pubblicare Mahomet et Charlemagne e avrebbe voluto fosse tradotta anche l'Histoire d'Europe). Sulle questioni politiche, infine, se nella sostanza il suo antifascismo non era diverso da quello di Croce e poteva apparire più intransigente solo nella forma di certe sue reazioni (in occasione della guerra d'Africa, per esempio, contrariamente a Croce, rifiutò di dare il suo contributo alla raccolta dell'"oro per la patria"), per il resto le vecchie differenziazioni degli anni precedenti il suo riavvicinamento a Croce, dopo il passaggio di questo all'opposizione, non erano certo scomparse, anche se egli aveva messo loro la sordina. Tipico il caso dell'antigiolittismo che il D. già nella Storia del liberalismo europeo aveva ritenuto, date le circostanze, politicamente opportuno attenuare, ma che rimaneva in lui ben saldo.

Salvo un durissimo articolo contro Gentile, La carriera di un filosofo (Appunti per un brano di biografia), scritto, non a caso, per la rivista di Carlo Rosselli Quaderni di "Giustizia e Libertà", e da questa pubblicato nel marzo 1932, con lo pseudonimo Ermoli, il D. non collaborò né alla stampa clandestina né a quella dell'emigrazione, e non partecipò a nessuna delle iniziative che l'antifascismo democratico tentò di mettere in piedi in Italia con scarsissimi risultati e pesanti salassi. Ruppe però drasticamente i rapporti personali con quei suoi amici, anche a lui molto cari, come Missiroli, che avevano aderito o ceduto al fascismo e non accettò nessuna forma di collaborazione con istituzioni collegate al regime, come l'Enciclopedia Italiana, alla quale, invece, collaborarono altri antifascisti legati a Croce.

Per il D. il compito di un liberale, per di più impegnato come lui nel lavoro intellettuale e nell'insegnamento, era - in genere e a maggior ragione nella particolare situazione politica italiana del tempo - quello di dedicare tutte le energie al proprio lavoro in modo da poter influire sulla formazione culturale e morale dei giovani, trasmettere loro i valori della libertà e, attraverso la cultura, contrastare il campo al fascismo e, in particolare, alla sua azione per fare di essi dei fascisti integrali. In questa logica si spiega la sua accettazione, nel 1933, del giuramento imposto dal regime ai professori universitari: nonostante la repugnanza che tale atto suscitava in lui, finì (come, del resto, suggeriva anche Croce) per piegarvisi, convinto che la cosa più importante fosse non perdere il contatto diretto con i giovani e non precludersi la possibilità di influire sulla loro formazione culturale e morale. Lo stesso dicasi per l'iscrizione al Partito nazionale fascista, alla quale si piegò solo nel 1940, tra gli ultimi del gruppo crociano, quando essa fu praticamente imposta a tutti gli ex combattenti.

Agli inizi del 1941, forse per reazione all'umiliazione subita, forse per le speranze suscitate tra gli antifascisti dai gravissimi scacchi inferti dalle forze armate greche a quelle italiane, il D. decise di ripubblicare la Storia del liberalismo europeo, ormai introvabile da anni. Nel febbraio Laterza chiese la necessaria autorizzazione al ministero della Cultura popolare che la concesse ("Si tratta di un'opera che ha avuto, e seguita ad avere, larghissima diffusione fra gli studiosi e italiani e stranieri; meritatamente, perché è concepita con criteri scientifici ineccepibili e condotta con acutezza d'indagine e di considerazioni. È vero che l'esaltazione - implicita o esplicita - di alcune posizioni dottrinarie ormai superate deve essere accolta con ogni riserva; ma, dato che nel suo complesso questa storia del Liberalismo è ritenuta pur sempre una delle opere fondamentali della moderna cultura, sembra che se ne possa autorizzare la ristampa"), sicché in luglio il volume fu nuovamente in libreria. Per quasi un anno la cosa non suscitò reazioni. Nell'estate del 1942 su Il Popolo d'Italia apparve però un duro attacco al libro e al suo autore che indusse Mussolini ad intervenire personalmente. Il ministro dell'Educazione nazionale, G. Bottai, invitò allora il D. ad apportare, pena la destituzione dall'insegnamento, modifiche ad alcune parti del libro e, ottenuto un rifiuto, lo collocò a riposo.

È probabile che il provvedimento fosse in qualche modo legato alle prime ancor vaghe informazioni raccolte dalla polizia sulla attività antifascista che da qualche tempo si stava organizzando a Bari attorno alla casa editrice Laterza e ad alcuni intellettuali direttamente o indirettamente legati ad essa in varie località della penisola (G. Calogero, A. Capitini, C. L. Ragghianti, A. Omodeo, L. Russo). Ciò che è certo è che il nome del D. appare sin dall'aprile 1942 nei documenti di polizia relativi al "movimento liberal-socialista", che la prima perquisizione della sua abitazione ebbe luogo il 12 aprile e che un documento di quei giorni gli attribuiva la paternità, con T. Fiore ed Omodeo, del programma del movimento stesso. Certo è anche che a quell'epoca il D. era in contatto con il costituendo Partito d'azione e in rapporto con R. Mattioli per studiare la possibilità di dar vita ad una rivista "culturale" della quale sarebbe dovuto essere uno degli animatori principali con P. Pancrazi, U. Morra e L. Salvatorelli, in pratica l'équipe che alla fine del 1944 avrebbe fatto La Nuova Europa. Nonostante le notizie in possesso della polizia, all'arresto del D. si arrivò solo l'11 giugno 1943, per la leggerezza di un giovane collegato al gruppo antifascista barese. Tradotto nel carcere di Bari, fu rimesso in libertà a seguito del 25 luglio.

Fatto ritorno a Roma, in una intervista rilasciata il 31 luglio a IlResto del carlino e da questo pubblicata il giorno dopo, il D. si dichiarava non d'accordo con coloro che escludevano la possibilità di collaborare col governo Badoglio: data la gravità del momento era necessario non creare ostacoli al nuovo governo e facilitarne l'opera e - primo in Italia - aggiunse che era sperabile che "al più presto" fossero abrogate le leggi razziali "che pesano in modo così inumano sull'Italia". Coerentemente a questa posizione, qualche giorno dopo accettava di reggere, in qualità di commissario, la Confederazione professionisti ed artisti (una decisione questa che molti nel Partito d'azione non approvarono) e la nomina a rettore dell'università di Roma. Sicché a maggior ragione, sopravvenuto l'8 settembre, dovette nascondersi per sfuggire ai fascisti e trovò rifugio (grazie all'interessamento di mons. P. Barbieri) nel palazzo extraterritoriale delle Congregazioni, riuscendo per altro a non interrompere completamente i contatti con gli amici del suo partito.

Liberata nel giugno 1944 Roma, riprese subito l'attività politica con tale impegno da essere definito da Mussolini nella Corrispondenza repubblicana del 6 ott. 1944 il "turpe de Ruggiero".

Per comprendere l'attività politica e in genere la posizione del D. dopo la liberazione di Roma è opportuno tener ben presente che tra il 1944 e il 1946 egli ebbe più volte occasione di scrivere e di parlare della propria partecipazione alla vita politica di quegli anni come di una parentesi nella propria attività di studioso (nell'avvertenza premessa a Ilritorno alla ragione, scritta nel marzo 1946, si legge: "La nostalgia degli studi mi richiama con insistenza sempre maggiore ai miei lavori interrotti, dai quali mi ha temporaneamente distolto la necessità di svolgere un'attività pratica in servizio del paese, in un momento difficile di transizione. Penso che, ritornando agli studi, continuero a servire il paese nel modo più appropriato alle mie attitudini e alla mia vocazione"); una parentesi alla quale il suo senso di responsabilità gli impediva di sottrarsi, ma che egli non vedeva l'ora finisse. E ciò ancor di più quando ben presto la nuova realtà politica gli apparve assai diversa da quella auspicata dal suo liberalismo e, quindi, più necessario lavorare per una educazione politica che fare politica in senso proprio. Il che per altro non deve indurre a considerarlo una sorta di utopista per un verso deluso e per un altro sicuro che le idee camminino da sole, ché, al contrario, come giustamente affermò nel 1963 F. Lombardi, se il D. non era un politico, era però "il più politico dei nostri filosofi che abbiano fatto politica".

Il 18 giugno 1944, su indicazione del Partito d'azione, fu nominato ministro della Pubblica Istruzione del governo Bonomi, la cui sede, per volontà degli Alleati, fu in un primo momento a Salerno. Succeduto ad Omodeo, che aveva retto nel secondo gabinetto Badoglio il ministero nei mesi immediatamente precedenti con criteri assai spesso irrealistici, suscitando reazioni e diffusi malumori tra i docenti, gli studenti e le loro famiglie, il D. si trovò a dover fronteggiare una situazione difficilissima e resa vieppiù grave dalle interferenze e dall'inesperienza degli Alleati, dalle pastoie della burocrazia (specie del ministero del Tesoro), dalla sottovalutazione dei problemi dell'istruzione che, sotto il quotidiano drammatico incalzare di tanti altri problemi, mostrava il governo, dalle smanie di chi avrebbe voluto procedere subito a una radicale riforma degli ordinamenti scolastici e, infine, da alcune sgradevoli querelles più o meno personali (caso Buonaiuti, accuse rivoltegli da Omodeo di considerare irriti e nulli i decreti e le disposizioni da lui presi o promossi, ecc.) che denotavano solo assenza di realismo politico e di tempismo.

In questa situazione (a proposito della quale si vedano Un'esperienza personale di governo, in L'Italia libera del 23 genn. 1945, e il più analitico Esperienze di un ministro, in Idea, genn. febbr. 1945) la sua politica fu quella esposta in una circolare del 30 giugno ai rettori, provveditori, insegnanti ed alunni di ogni ordine e grado: "Tutto quello che si può e si deve ragionevolmente fare in questi primi tempi di riassestamento è lavorare strenuamente perché la scuola ricominci a funzionare, evitando di compiere qualunque atto che comunque pregiudichi l'organica ricostruzione di domani. Riattrezzare gli edifici scolastici, curare la revisione e la ristampa di alcuni libri di testo più essenziali (in particolare modo i manuali di storia e i testi per le scuole elementari), semplificare e coordinare la pletorica legislazione del fascismo e annullare alcune delle storture più gravi (specialmente per ciò che concerne la scuola media unica), ripristinare gradatamente l'interrotta tradizione di serietà e di decoro in tutta la vita della scuola, ecco una materia di lavoro più che sufficiente a questo periodo di attività ministeriale. Ciò non vuol dire che non si possa parlare di sostanziali riforme, ma bisogna parlarne come di oggetto di meditazione e di studio, a cui tutti coloro che si interessano della scuola debbono rivolgere le loro menti. Io sarò pago se, nei prossimi mesi, mentre compiremo il lavoro più urgente di puntellamento e di adattamento dell'edificio scolastico, potremo, insieme con tutti i sinceri amici della scuola, preparare i piani della ricostruzione futura, per poterli presentare già elaborati al nuovo Parlamento che dovrà in ultima istanza discuterli ed attuarli. Noi dovremo preparare la Costituente della scuola che avrà per l'avvenire del paese una importanza non minore di quella che si sta preparando per le altre istituzioni fondamentali dello Stato. Come primo orientamento di questo lavoro, bisogna fin d'ora aver presente che, dalle infinite rovine prodotte dal fascismo e dalla guerra, due cose cominciano ad emergere, ancora integre o più prontamente reintegrabili: la tradizione secolare della cultura e le forze del lavoro. Queste due parti del patrimonio nazionale sono state finora troppo dissociate l'una dall'altra, cosicché la cultura talvolta ha degenerato in generico accademismo ed il lavoro si è poco elevato dal livello della bruta forza fisica. Bisognerà integrare l'una con l'altra, in modo che la cultura diventi attività formativa e insieme forza specificatrice e qualificatrice del lavoro".

Data la difficoltà della situazione e la brevità della sua permanenza al ministero, i risultati conseguiti furono però tutto sommato modesti e ancor minori furono le soddisfazioni derivanti dal suo lavoro; sicché, sopravvenuta ai primi di dicembre dello stesso anno la crisi del governo, il D. fu ben lieto che la non partecipazione degli azionisti al successivo lo liberasse dagli impegni governativi e gli permettesse. per un verso, di cominciare a tornare ai suoi studi e, per un altro verso, di dedicarsi ad altre forme di impegno più congeniali al suo modo di intendere la politica. In quanto ex ministro, l'anno successivo sarebbe stato nominato membro della Consulta nazionale. Come scrisse sul Corriere d'informazione il 21 febbr. 1946 (Impressioni di un consultore), l'esperienza tratta dalla partecipazione a questa istituzione avrebbe però suscitato in lui più pessimismo e preoccupazioni che speranze circa la strada sulla quale si stava avviando la democrazia italiana. Un "senso di irrealtà" gli parve caratterizzasse buona parte dei lavori della Consulta: la tendenza dei partiti "a diventare aggruppamenti d'interessi economici e sociali, a cui manca quella "generalità" che è il vero tratto distintivo della politica", e a ridurre questa a transazioni, e il "conformismo" da essi imposto ai loro rappresentanti, minacciavano di ridurre questi a marionette e di privare il Parlamento di ogni vitalità e della sua precipua funzione di istanza suprema ispirata all'interesse dell'intera comunità.

Lasciato il governo, il D. si dedicò, per un verso, a quella che definiva "l'internazionale della cultura", al ristabilimento cioè dei rapporti culturali tra l'Italia e gli altri paesi, da quelli dell'America latina (dove fece due lunghi viaggi nel 1946 e nel 1948), all'URSS, alla Svizzera, e all'attività di organismi internazionali quali l'Unesco e il Pen Club; per un altro verso al nascente movimento federalista europeo; per un altro verso ancora a una serie di iniziative che si ricollegavano a questi ideali, quale, per esempio, il Corpo nazionale giovani esploratori italiani. L'impegno maggiore lo riservò però al settimanale politico-culturale La Nuova Europa (che si pubblicò dal 10 dic. 1944 al 17 marzo 1946) di cui fu con L. Salvatorelli (che ne era il direttore), M. Vinciguerra e U. Morra uno dei collaboratori più significativi ed assidui, contribuendo a farne l'espressione della migliore cultura liberaldemocratica di quegli anni e, al tempo stesso, della "difesa ideologica e culturale di una impostazione democratica avanzata, moderna, rispetto al tentativo di fare del Partito d'azione un partito a qualificazione socialista" (La Malfa). A livello quotidiano collaborò poi al Corriere d'informazione-Corriere della sera (luglio 1945-ottobre 1948), a IlMessaggero (molto saltuariamente nel 1947-48), al Corriere di Milano (ottobre 1947-giugno 1948), a La Stampa (agosto-ottobre 1948) e, per quel che riguarda la stampa di partito, a L'Italia libera (con pochissimi articoli nel 1945) e a IlMondo (dicembre 1945-gennaio 1946) sul quale videro la luce alcuni dei suoi articoli politicamente più significativi.

Fu comunque su La Nuova Europa che il D. trattò quelli che considerava i problemi di fondo del momento, dando alla sua collaborazione al settimanale il carattere di un discorso unitario di cui i vari temi affrontati, fossero essi filosofici, storici, di teoria politica ovvero legati talvolta alle vicende politiche nazionali ed internazionali del momento, costituivano né più né meno che scansioni logiche. Tant'è che i più significativi articoli apparsi su La Nuova Europa da lui raccolti in volume avrebbero dato vita a Il ritorno alla ragione, a un'opera cioè fortemente unitaria e che, non a torto, egli considerava "un riesame critico, a venti anni di distanza e a contatto di nuove, cruciali esperienze, dei giudizi politici contenuti nella mia Storia del liberalismo europeo".

Tra i temi trattati su La Nuova Europa e presenti anche ne Ilritorno alla ragione, due sono agli effetti della biografia intellettuale del D. particolarmente importanti: quello concernente i limiti dello storicismo crociano e quello, solo apparentemente più legato all'attualità politica, concernente la natura non liberale del liberal-socialismo.

Ridotta all'osso, la critica che il D. muoveva allo storicismo e a quello crociano in particolare (e, per estensione, alla "mentalità storicistica" e alle sue conseguenze rispetto al comportamento -la libertà - dell'individuo e, dunque, alla politica) era che la visione storicistica sarebbe "troppo retrospettiva": "essa conclude una fase della realtà storica, ma non ne apre una nuova; perciò essa sacrifica alla storia fatta la storia da fare", cioè l'azione, "la nuova storia". Da qui l'esigenza di protendersi "al di là dello storicismo", pur senza rinnegarlo tout court, ma, anzi, salvandone le conquiste, consapevoli però che esso è stato il prodotto di un mondo che sta ormai sgretolandosi e che, quindi, non può più soddisfare completamente l'esigenza di valori, norme, ideali che assilla l'uomo moderno. E di farlo fondendo "in un getto la ragione storica e la ragione metastorica", lo storicismo con l'eredità illuministica di una ragione ideale "dove tutto ciò che nello spirito vi è di eterno trova il suo rifugio e la sua meta, donde il fuggevole divenire si giudica e si misura con senso di distanza e con capacità di dominio, perché non si è travolti nel suo gorgo".

L'articolazione di questo discorso, continuamente in movimento tra i piani della filosofia, della morale e della politica, ha offerto molteplici occasioni di contestazione (il primo dei critici fu lo stesso Croce con una lunga lettera-risposta pubblicata da La Nuova Europa l'11 febbr. 1945) e, morto il D., ha contribuito a stendere sul discorso stesso il velo del silenzio o del rifiuto più o meno esplicito per "scarsa consistenza filosofica". P, significativo che, salvo C. Antoni, quasi nessuno abbia rilevato il filo, sottile ma robusto, che collega i saggi raccolti ne Ilritorno alla ragione all'ultimo volume della Storia della filosofia, lo Hegel, che il D. dette alle stampe nel 1948, poco prima di morire, dove la difesa e la critica di Hegel muovono dalla stessa esigenza profonda che muove la difesa e la critica dello storicismo di qualche anno prima: "la fede nell'efficacia pratica del pensiero" che è stata "il principio animatore della personalità di de Ruggiero" e che "spiega l'intera sua evoluzione intellettuale ed anche i suoi atteggiamenti politici" (Antoni). In realtà, se il discorso del D., volendosi mantenere all'interno dell'idealismo e (volendo evitare la soluzione attualistica per gli sviluppi che con Gentile questa aveva avuto sul terreno politico) dello storicismo crociano, risulta sul piano strettamente filosofico uno sforzo più abbozzato che realizzato di superamento dell'impasse dell'idealismo stesso, è però un fatto che esso, per un verso, ha costituito l'unico tentativo in questo senso venuto dall'interno dell'idealismo italiano e, per un altro verso, ha anticipato una serie di problemi che sono stati poi al centro del dibattito filosofico internazionale. E li ha anticipati con una sensibilità alla quale concorreva certo in misura rilevante la particolare formazione ed evoluzione del pensiero deruggieriano nei decenni precedenti, ma contribuiva anche la sua particolare capacità di cogliere e in qualche caso di anticipare - in un momento di generale ottimismo quale fu quello immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale - la gravità e i rischi della nuova realtà che questa aveva determinato e le sue conseguenze esistenziali, culturali e politiche, tutte, quale più quale meno, sfavorevoli allo sviluppo della libertà individuale e collettiva. Il che, tra l'altro, spiega l'estrema durezza del giudizio che, suppergiù nello stesso periodo, egli riservò all'esistenzialismo, filosofia della crisi si, ma che dava alla crisi una soluzione nihilistica, nella quale l'esistenza ha sempre la meglio sulla ragione ed è privata dall'angoscia per la morte di ogni stimolo all'azione anticipatrice della libertà. Tutto il contrario cioè di ciò che sul piano etico pensava il D.: "Vi sono... periodi di crisi, di trapasso, in cui viviamo nello scontento e nell'indecisione, tra una vecchia routine che più non ci appaga o che addirittura ci ripugna, e una prospettiva nuova che non ci offre ancora una solida presa. Sono i periodi in cui è ingrato vivere a coloro che non hanno la forza di scegliere e la capacità di prevedere, e che, amando lasciarsi condurre passivamente da altri, non trovano più le consuete guide sicure e vagano incerti e smarriti. Ma sono questi anche i periodi in cui è più degno vivere, per coloro che vogliono vivere da uomini, cioè da artefici del proprio avvenire".

Anche l'altro discorso da lui svolto su La Nuova Europa e pure presente ne Ilritorno alla ragione, quello sulla natura non liberale del liberal-socialismo, affondava le radici lontano nel tempo. Si ricollegava infatti a quanto già scritto nella Storia del liberalismo europeo e, ancor prima, in numerosi articoli del primo dopoguerra sulla democrazia e il socialismo, sul liberalismo e i liberali italiani, sul contenuto politico nuovo che era necessario dare - allora e a maggior ragione ora - al liberalismo, sulla sua capacità di realizzare, meglio e più compiutamente degli altri indirizzi politici, quanto di moderno, di progressivo, di liberale questi perseguivano, ma non erano in grado di realizzare che a scapito o, almeno, a rischio della libertà. In questo contesto è evidente che non si può ridurre la polemica contro il liberal-socialismo ad una mera operazione politico partitica, anche se sarebbe assurdo negare che la scelta del momento per pubblicare l'articolo centrale di essa (il 6 maggio 1945, quando ormai le posizioni all'interno del Partito d'azione andavano delineandosi chiaramente e con esse la contrapposizione tra l'anima liberaldemocratica e quella socialista) sia stata meramente casuale. Negando al liberal-socialismo l'appartenenza all'indirizzo liberale ("Nel liberal-socialismo l'accento batte sul secondo termine. E il socialismo non è un nome che possa prendersi in un significato vario e generico ... L'aggettivo liberale apposto ad esso non può sostanzialmente modificarlo, ma solo introdurre in esso una qualifica più determinata. In realtà il liberal-socialista è un socialista che, per effetto delle esperienze degli ultimi tempi e della dura coazione esercitata a suo danno da un regime dittatoriale, vuol giungere alla realizzazione del suo programma salvando, per quanto è possibile, la libertà individuale. Che questo proposito implichi un'attenuazione dei presupposti dittatoriali della sua dottrina è innegabile, ed è anche possibile che esso esiga una revisione dell'originario classismo; ma ciò non toglie che resti intatta la struttura fondamentale del suo pensiero e che l'esigenza della libertà sia in qualche modo secondaria"), il D. voleva però soprattutto ribadire la sua concezione del liberalismo e la sua convinzione che solo esso fosse in grado di assicurare e garantire tutte le libertà, non solo quelle cosidette negative. Da qui il suo contrapporre al liberal-socialismo il liberalismo sociale, un liberalismo cioè che, senza ricorrere ad un principio di socialità non suo, svolgesse "in tutta la sua estensione il principio stesso della libertà" per promuovere la libertà concreta ed effettiva di tutti e in tutti i campi: "l'esigenza, profondamente sentita, di un rinnovamento sociale che spezzi il monopolio dei vecchi ceti parassitari e dei nuovi ceti plutocratici che usurpano una parte notevole della ricchezza comune; la necessità di una trasformazione strutturale dello Stato, che adegui questo organo alla nuova funzione politica e sociale: tutto ciò può trovare appagamento in un rinnovato liberalismo".

In un primo momento il D. aveva creduto che il rinnovato liberalismo, piuttosto che nel Partito liberale, ancora largamente condizionato da una mentalità moderata (della cui sopravvivenza Croce era largamente responsabile, dato che il suo storicismo "troppo retrospettivo" non gli permetteva la percezione del bisogno di rinnovamento che saliva dalla società) potesse trovare nel Partito d'azione la sede adatta a svilupparsi. In realtà dovette presto ricredersi. Da qui, prima, il suo concentrare pressoché tutte le proprie energie nella battaglia politico-culturale sulle pagine de La Nuova Europa; poi, quando al congresso di Roma del febbraio 1946 (a cui prese parte assai attiva) prevalsero le tendenze che volevano fare del partito una sorta di terzo partito socialista, la sua decisione di uscirne e di dar vita, con F. Parri, U. La Malfa e altri ex azionisti, al Movimento della democrazia repubblicana (più noto col nome di Concentrazione democratico-repubblicana con cui si presentò alle elezioni del successivo giugno), di cui illustrò il manifesto programmatico su La Nuova Europa del 3 marzo 1946 e per il quale si candidò alle elezioni politiche del giugno 1946 in Campania (si veda a quest'ultimo proposito Ungiro elettorale nel Mercurio del marzo-aprile 1946). Dopo l'insuccesso elettorale della Concentrazione e il successivo scioglimento del Movimento della democrazia repubblicana, si iscrisse al Partito repubblicano. più per solidarietà però con alcuni amici che fecero la stessa scelta che con l'intenzione di continuare a svolgere attività politica (nel 1948 rifiutò l'offerta di essere portato candidato).

Dal 1946 il D. (che nel 1944 era stato nominato socio nazionale dell'Accademia dei Lincei) si dedicò essenzialmente agli studi, all'insegnamento (alla fine del 1946 passò dalla cattedra di storia della filosofia del magistero a quella della facoltà di lettere e filosofia) e alle funzioni derivanti dalla sua appartenenza (dal gennaio 1945) al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, di cui era vicepresidente. In quest'ultima veste, passato nel luglio 1946 il ministero della Pubblica Istruzione alla Democrazia cristiana, ebbe con il nuovo ministro, G. Gonella, scontri via via più duri che culminarono nell'aprile 1947 nelle sue dimissioni dal Consiglio superiore stesso (alle quali si associarono G. Colonnetti, P. Calamandrei, A.C. Jemolo e C. Marchesi). Causa delle dimissioni fu la procedura seguita dal ministero per convalidare. contro il parere del Consiglio superiore, la gran parte delle nomine a professore universitario "per alta fama" fatte in periodo fascista. Nelle successive elezioni per il Consiglio superiore, tenutesi nel febbraio 1948, già in pieno clima di riscossa clericale, né il D. né gli altri membri del precedente Consiglio superiore che con lui si erano dimessi furono rieletti.

L'offensiva clericale e gli attacchi alla cultura laica che caratterizzarono i mesi a cavallo delle elezioni del 18 apr. 1948 spinsero il D. a dare la propria adesione all'Alleanza della cultura, senza però che ciò lo portasse ad avvicinarsi ai comunisti (che sin dall'inizio controllarono largamente l'iniziativa) o ad attenuare il suo rifiuto del marxismo, che rimase sempre per lui una sorta di religione i cui dogini (determinismo economico, lotta di classe, materialismo storico) considerava senza validità e una delle maggiori e più nefaste cause della "corsa delle formazioni politiche verso le polarizzazioni estreme".

Morì improvvisamente a Roma il 29 dic. 1948 a seguito di un attacco cardiaco.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Min. d. Publ. Istruz., Dir. gen. Istruz. sup., Liberi docenti, fasc. De Ruggero [sic], Guido;Ibid., Pres. Cons. d. ministri, 1940-43, fasc. 14.3/811; Ibid., Min. d. Cult. pop., b. 17, fasc. 238 De Ruggiero Guido; Ibid., Min. d. Int., Direz. gen. P. s., Div. Aff. gen. e ris., 1940, A. I, b. 36, fasc. Ruggero (De), prof. Guido; 1943, K 5, fasc. Bari; Ibid., Div. Polizia politica, categ. I, fasc. Croce Benedetto, ins. De Ruggiero fu Eugenio; Ibid., Segret. part. Duce, Cart. ris., b. 1, fasc. 6, Bagalà Giovanni; Ibid., Archivio Repubblica soc. ital., Min. Publ. Istruz., Professori ordinari, fasc. De Ruggiero Guido; Roma, Archivio privato De Ruggiero.

C. Gily Reda, G. D.: un ritratto filosofico, Napoli 1981, in cui è riportata una buona bibliografia (pp. 321-325) da integrare con L. Sturzo, Geschichte des europäischen Liberalismus, in Abendland, 10 marzo 1926, pp. 163-166; V. Laterza, La sinistra crociana, in Italia unita, nov.-dic. 1947, pp. 292-302; G. D., a cura di R. De Felice, con la partecipazione di U. La Malfa-F. Lombardi, in Terzo programma, gennaio-marzo 1963, pp. 265-272; B. Widmar, G. D., in IlProtagora, giugno 1966, pp. 25-53; A. Greppi Olivetti, Due saggi su R. G. Collingwood con un'appendice di lettere inedite di Collingwood a G. D., Padova 1977; D. Coli Sarfatti, G. D.: cultura e politica 1910-1922, in Annali dell'Istituto di filosofia d. Univ. di Firenze, I (1979), pp. 359-386; Id., Note su D. e Croce, in Dimensioni, giugno 1979, pp. 36-50; F. Lo Moro, Il giovane D. nelle lettere a Carlini (1912-1921), in G. Campioni-F. Lo Moro-S. Barbera, Sulla crisi dell'attualismo. Della Volpe, Cantimori, D., Lombardo-Radice, Milano 1981, pp. 153-209; D. Cofrancesco, Europeismo e cultura. Da Cattaneo a Calogero, Genova 1981, pp. 166-172; D. Coli, Croce, Laterza e la cultura europea, Bologna 1983, passim; R. De Felice, Intellettuali di fronte al fascismo, Roma 1985, ad Indicem.

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