DELLE COLONNE, Guido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 38 (1990)

DELLE COLONNE, Guido

Margherita Beretta Spampinato

Nacque probabilmente a Messina nei primi decenni del sec. XIII. Di lui sappiamo soltanto che fu giudice a Messina.

La sua attività di pubblico funzionario è documentata tra il 1243 e il 1280 da quindici atti ufficiali, sette dei quali con sottoscrizione autografa, in cui il cognome compare per la prima volta come "de Columpnulis", forse forma originaria del nome, se non si vuole pensare ad uno sdoppiamento fra il "magister Guido de Columpnulis iudex" che compare nei primi due documenti noti, del marzo e del giugno 1243, e il "Guido de Columpnis iudex" che compare in tutti gli altri documenti. Resta che il giudice Guido "de Colunipnis" in una testimonianza del 1271-72 dichiara di aver esercitato funzioni di giudice a Messina per più di venticinque anni, cioè almeno dal 1246. Ciò porta la sua nascita intorno al 1210-20, il che lo rende pressappoco contemporaneo di Giacomo da Lentini, mentre spesso, a torto, è stato aggregato alla generazione di Manfredi. La posizione alta entro il canzoniere Vat. lat. 3793 sembra suffragare tale datazione.

Non osta alla sua cittadinanza messinese il fatto che egli abbia esercitato l'ufficio di giudice nella sua città d'origine, in quanto non ebbe la carica di giudice maggiore ma di giudice a contratto o giudice minore, cosa che le costituzioni del Regno permettevano (V. Di Giovanni, G. D., p. 181, e F. Torraca, Studi..., p. 141). A conforto della sua origine messinese si può citare ancora, oltre all'attestazione del manoscritto Vat. Lat. 3793 (le cui rubriche riportano esplicitamente "Messer Guido delle Collonne di Mesina"), la testimonianza di Dante, il quale nel De vulgari eloquentia (II, VI, 6 e II, V, 4) citando due canzoni, che anche i codici gli attribuiscono, lo dice "Iudex de Columpnis de Messana". Da scartare è, pertanto, la tesi del Monaci che volle identificare il D. con un membro della famiglia romana dei Colonna, la quale in Sicilia fu detta "de Romanis".

Giustificati dubbi rimangono ancora sull'identificazione del D. rimatore con quel Guido Delle Colonne che scrisse la Historia destructionis Troiae (proposta più volte, anche se dubitosamente, dagli studiosi di fine secolo, dal Gaspary, dal Gorra, dal Morf, dal Cesareo, ma esclusa recisamente dai filologi moderni come il Contini e il Folena), nonostante gli sforzi recenti in proposito di R. Chiantera e l'assai più accorto e convincente articolo di C. Dionisotti. Autore della Historia è un Guido Delle Colonne giudice messinese (risulta dal prologo: "per me iudiceni Guidonem de Columpnis messanensem"), che dichiara di aver cominciato l'opera sua nel 1272, di averla interrotta nello stesso anno dopo la morte dell'arcivescovo Matteo de Porto, a cui era dedicata, e di averla ripresa e terminata in soli tre mesi nel 1287. Se con il Contini si considera la data di nascita del Guido rimatore risalente al 1210-20 è assai difficile credere che lo stesso nel 1287 avesse conservato tanto vigore da poter stendere in tre mesi quasi tutta la Historia, anche se il Dionisotti ritiene ancora più arduo credere "all'esistenza immediatamente successiva e probabilmente in parte contemporanea di due omonimi, entrambi messinesi, entrambi giudici, entrambi uomini di lettere a tempo perso, e accordatisi per giunta a scrivere, l'uno soltanto rime volgari..., l'altro soltanto la prosa latina dell'Historia" (p. 456).

L'Historia, composta da un prologo, trentaquattro libri e un epilogo, si rifà ad una fonte precisa da tempo individuata nel Roman de Troie di Benoît de Saint-Maure. L'unica edizione moderna disponibile dell'opera è quella curata dal Griffin, che ha recensito novantaquattro dei centotrentasei manoscritti che ne - formano la tradizione, basando tuttavia il suo testo solo su cinque manoscritti datati, il più antico dei quali è del 1334 e il più recente del 1353. La ricchezza della tradizione manoscritta attesta un notevole successo dell'Historia (così come le numerose traduzioni dell'opera sia in italiano sia in area romanza e germanica), singolare in un periodo in cui si traduceva generalmente dal latino al volgare e non viceversa.

Del D. sono pervenute cinque canzoni, tradite oltre che dal citato manoscritto Vat. lat. 3793, dal Laurenziano Rediano 9, dal Palatino 418 (ora B. R. 217), dal Chigiano L. VIII. 305, dal Vat. lat. 3214, intorno alle quali non esistono rilevanti questioni attributive, tranne che per La mia vitè si fort'e dura e fera, per le quali si rimanda, comunque, all'esemplare edizione del Contini. Esse sono: La mia gran pena e lo gravoso affanno, trascrittanel Vat. lat. 3793 in cui compare, però adespota; Gioiosamente canto, che al D. è assegnata dal Vat. lat. 3793 e dal Laur. Red. 9, mentre il Pal. 418, il Chigiano L. VIII. 305 e il Vat. lat. 3214 la riportano in versione ridotta (stanze I-IV e II) e l'attribuiscono a Mazzeo di Ricco; essa è data al D. nel Libro siciliano, con lezione divergente (per quanto si possa giudicare dalla prima stanza riprodotta dal Barbieri); La mia vitè si fort'e dura e fera, chegli è esplicitamente assegnata solo dal Pal. 418, poco fidato in fatto di attribuzioni e che compare ultima di una serie di adespote nel Vat. lat. 3793; Amor, che lungiamente mhai menato, che è nel Vat. lat. 3793e nel Pal. 418, mutilo, ma integrabile dall'edizione della "giuntina", la quale risale ad un codice affine al Palatino; Ancor che l'aigua per lo foco lassi, tramandata tanto dal Laur. Red. 9quanto dal Pal. 418 (in cui compaiono solo le prime tre stanze) fra poesie di altri autori, ma con esplicita assegnazione al Delle Colonne.

Il D. fu assai apprezzato anticamente per l'abilità tecnica e retorica. Dante lo cita accanto al Notaro per la canzone Amor, che lungiamente m'hai menato (menzionata, sempre nel De vulgari eloquentia, anche tra quelle che iniziano con endecasillabo e qui dice il nome dell'autore, "Iudex de Columpnis de Messana") come esempio di poeti che usarono il volgare illustre (De vulg. eloq., I, 12); lo menziona nuovamente accanto a Giraut de Bornelh, Rinaldo d'Aquino, Cino da Pistoia, ecc. per la stessa canzone, tra i poeti. che scrissero "cantiones illustres" (ibid., II; 5), ed infine accanto ai maggiori poeti provenzali, francesi, stiinovisti, per la canzone Ancor che l'aigua per lo focolassi, come esempio di "suprerna constructio" sintatticostifistica e di grado "et sapidus et venustus etiam et excelsus" (ibid., II, 6). Per gli stessi motivi ebbe un lungo periodo d'oblio da cui lo hanno tratto l'opera del Contini e il gusto moderno assai più scaltrito ed avvezzo a leggere i testi attraverso il filtro di una mediazione storico-letteraria e più incline ad apprezzare gli esperimenti lirici di un'"ars dictandi" quanto mai raffinata ed elaborata.

I temi dei componimenti del D. sono quelli tipici della poesia siciliana, a loro volta, per la maggior parte, di derivazione occitanica. Nella prima canzone, La mia gran pena e lo gravoso affanno, ilD. canta la gioia per amore conquistato dopo lungo soffrire. È tra i più leggeri e semplici componimenti del suo breve canzoniere in cui permane, tuttavia, un gusto strenuo della tecnica ed un'eccezionale capacità retorica e metrica.

La canzone presenta due piedi identici e la sirma collegata mediante rima interna secondo lo schema "ABCABC (c5) D (d5) EE." Le stanze sono capfinidas, ossia tutte collegate tra loro dal ripetersi nel primo verso di ogni strofa di una parola che compare nella fine della strofa precedente. Numerose sono le ripetizioni delle rime e in particolare "soferire" è parola in rima che compare in tutte le stanze, tranne l'ultima, in cui "sentire" (v. 44) si ripete dal V. 26. Frequenti anche le variazioni sinonimiche come la gradatio "inavanza" (v. 23), "montare" (v. 40), "sale" (v. 42). Tutta la poesia gioca sul costante contrappunto tra "bene" e "male".

La seconda canzone, Gioiosamente canto, ha come tema la compiuta letizia, il joi della lirica provenzale, per l'amore finalmente ricambiato. Lo schema metrico è quello della canzone con due piedi identici di settenari "abbc" e sirma di endecasillabi "DDEE". Un collegamento interno è dato dalla rima "c" che forma anche rima al mezzo al v. g. Non mancano le raffinate rime equivoche: "sete" dei vv. 21 e 22 e "fina" dei vv. 40 e 44. La descrizione della donna è quasi da laude stilnbvistica: "Ben passa rose e fiore la vostra fresca cera, / lucente più che spera; e la bocca aulitosa / più rende aulente aulore che non fa d'una fera / c'ha nome la pantera, / che in India nasce ed usa. / Sovr'ogn' agua, amorosa-donna, sete / fontana che m'ha tolta ognunqua sete / per ch'eo son vostro più leale e fino / che non è al suo signore l'assessino" (vv. 13-24). Rispetto al topico modello provenzale vi è un arricchimento di sapienti metafore e di comparazioni (pantera, fontana, assassino) e di giochi etimologici ("e la bocca aulitosa / più rende aulente aulore").

Nella terza canzone, La mia vitè sifort'e dura e fera, della cui ascrizione al D. si può fortemente dubitare, il tema è costituito dalla convenzionale richiesta di grazia dell'amante infelice all'insensibile donna amata. La fronte della canzone è composta da tre serie di endecasillabi "AB", nella sirma dallo schema "edc (c)-D", il primo verso è ottonario, i due successivi settenari, l'ultimo endecasillabo con rima interna secondo la divisione "4+7". Tutto il linguaggio della poesia è intessuto di provenzalismi e di crudi gallicismi. L'angosciosa condizione di una lunga sofferenza d'amore, condensata quasi nell'espressione ossimora "ben este afanno dilittoso amare" (v. 9), ribadita dalla "dolze pena" del v. 10 e dal "dolze mal" del v. 13, è il motivo iniziale da cui si dipanano le prime tre stanze della'canzone Amor, che lungiamente mhai menato, mentre le ultime due svolgono il concetto della potenza smisurata d'amore. La canzone è ricca di ornamenti retorici quali ripetizioni, anafore, ossimori, endiadi ("vinto e stancato" al v. 4; "'ncresca e grave" al v. 17; "guerra e prova" al V. 26; "convenga e stiale bene" al V. 2 8; "in pregio e in grandezza" al v. 30; "vost'argogliare e vostra altezze" al v. 3 8, "estar tacente - e non far dimostranza" al v- 43; tasconde ed incoverchia" al v. 49; "mi sbatte e smena" al v. 63), di metafore intellettuali e sottilmente astratte, da quella cavallerizza dell'inizio ("Amor, che lungiamente m'hai menato / a freno stretto senza riposanza, / alarga le toi retene in pietanza") a quella marinara della chiusa ("Dunque, madonna, gli occhi e lo meo core / avete in vostra mano, entro e di fofe, / c'Amor mi sbatte e smena, che no abento, 1 si come vento - smena nave in onda: / voi siete meo permel che non affonda"), dall'assassinio ("c'ho più durato - ch'eo non ho possanza, / ... / più che no fa assessino asorcotato / che si lassa morir per sua credanza") al trave segato e al vento impetuoso, dal saggio guerriero al sole.

In questa serie di ardite illustrazioni metaforiche della fenomenologia amorosa, il D. mostra di saper utilizzare assai bene il suo bagaglio culturale di origine scolastica, interpretando in modo personale la tematica convenzionale che la tradizione cortese gli offriva. Il tema dell'ineluttabilità d'amore, infatti, è svolto con tono quasi scientifico con continui richiami aforistici ("Amor fa disviare li più saggi", "Più folle è quello che più s'innamora"), che conferiscono alla vicenda personale una validità universale da fenomenologia generale dell'amore. La canzone è composta da cinque stanze ciascuna di tredici versi misti di endecasillabi e settenari secondo lo schema "ABB (b5) A / (a5) BBAB" con sirma "CCD (d5) EE", tutta intessuta di rime ricche o addirittura derivative: "amare-chiarnare" (vv. 9 e 10), "serrainserra" (vv. 18 c. 21), "convene-sconvene" e "avene" (vv. 29, 31 s.), "sente-consente" (vv. 41 e 42), "sorvechia-incoverchia" (vv. 48 e 49).

Ad altissimo livello d'espressione si situa l'altra canzone che piacque a Dante, Ancor che l'aigua per lo foco lassi, con una tematica che preannunzia Al cor gentile del Guinizzelli. La sapienza retorica e metrica del D. è posta al servizio di una necessità d'amore che al Contini è apparsa quasi umanistica: "Imagine di neve si pò dire / om che no ha sentore / d'amoroso calore: / ancor sia vivo, non si sa sbaudire" (vv. 19-23), mentre il motivo della speranza ("0 colorita e bianca / gioia de lo meo bene, / speranza mi mantene, / e s'eo languisco, non posso morire" vv. 47-50) raggiunge "un massimo di soavità riuscita, non diremo certo prestilnovistico, ma altrimenti non reperibile in Sicilia" (Contini, Le rime…, p. 195). Anche l'abilità ritmica del D. trova il suo culmine in questa canzone scandita in cinque stanze, ciascuna di diciannove versi, endecasillabi e settenari, con la fronte divisibile in due piedi che si corrispondono specularmente (il secondo inverte le rime del primo) e la lunga sirma indivisa secondo lo schema "AbbA / BaaB / bccDedeffgG". Molte le rime ricche, notevole la rima derivativa del v. 59 "porto" legata a "sporto" del v. 62 ed a "diporto" del v. 65 e quella equivoca "sete" ai vv- 51-53. Di sapore "petroso" o, meglio, da trobar clus, le rime in "anca": "arranca" (v. 40), "manca" (v. 41), "abranca" (v- 43), "stanca" (v- 46). La composita struttura della poesia si svolge in un fluire continuo di lucide metafore a carattere scientifico, in quello che Contini definisce come un "esemplare usufruimento delle nozioni scientifiche in funzione metaforica" (Le rime…, p. 195), metafore originali anche quando talvolta riprendono comparazioni tradizionali (come quella della calamita e del ferro nell'ultima strofa).

L'arditezza della tecnica che caratterizza il breve canzoniere del D. lo pone come tramite sulla linea che da Arnaut Daniel arriva alle Pietrose, mentre il vivido linguaggio poetico, ricco di immagini e paragoni visivi, e, ancor più, l'intensa meditazione sull'amore condotta con fine penetrazione psicologica e con la precisa coscienza della potenza fatale della passione, lo collocano come ideale anello di congiunzione tra la lirica d'amore trobadorica occitanica e il dolce stil novo, tanto che "rischia forte di dover esser chiamato lui il primo Guido" (ibid., p. 195).

Edizioni: le canzoni del D. sono tradite dal manoscritto Vat. lat. 3793 della Biblioteca apostolica Vaticana, fiorentino, pubblicato in edizione interpretativa da A. D'Ancona e D. Comparetti, con annotazioni critiche di T. Casini nell'ultimo volume, Le antiche rime volgari secondo la lezione del cod. Vat. 3793, Bologna 1875-88; in diplomatica dalla Società filologica romana: F. Egidi con S. Satta, G. B. Festa e G. Ciccone, Il libro de varie romanze volgare, Roma 1901-1906; dal Laurenziano Rediano 9, della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze, pisano, edito diplomaticamente, per la sezione delle rime, da T. Casini, Il canzoniere Laurenziano Rediano 9, Bologna 1900; dal Palatino 418, ora segnato Banco Rari 217 della Nazionale di Firenze, edito diplomaticamente da A. Bartoli e T. Casini, Ilcanzoniere Palatino 418della Biblioteca nazionale di Firenze, Bologna 1881; dal Chigiano L. VIII. 305 della Vaticana, edito diplomaticamente da E. Monaci e E. Molteni, IlCanzoniere Chigiano L. VIII. 305, Bologna 1887; dal manoscritto Vat. lat. 3214, edito diplomaticamente da M. Pelaez, Rime antiche italiane secondo la lezione del cod. Vaticano 3214e del cod. Casanatense d.v. 5, Bologna 1895.

Necessari per la ricostruzione del canzoniere del D. sono anche la cosidetta Giuntina, Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani in dieci libri raccolte e stampate dagli eredi di Filippo di Giunta, Firenze 1527 e il Libro siciliano in G. M. Barbieri, Dell'origine della poesia rimata, pubblicato da G. Tiraboschi, Modena 1790. Per i rapporti tra gli antichi codici e per la costituzione del testo critico delle rime si veda l'edizione di G. Contini, importantissima per il commento, Le rime di G. D., in Boll. del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, II (1954), pp. 178-200, riprodotta con minimi ritocchi in Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, I, pp. 95-110, con nota ai testi nel II volume, p. 807 e quella di B. Panvinil Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 74-82 e 403-407.

Bibl.: E. Monaci, Di G. D. trovadore e della sua patria, in Rendic. della R. Accad. dei Lincei, cl. di scienze mor., stor. e filol., I (1892), pp. 190-198; V. Di Giovanni, G.D. giudice di Messina e i giudici in Sicilia nei secoli XIII e XIV, ibid., III (1894), pp. 171-182; Id., Per la storia della scuola poetica sicil., ibid., V (1896), pp. 255-262; F. Scandone, Ricerche nuovissime sulla scuola poetica siciliana del sec. XIII, Avellino 1900, p. 21; F. Torraca, Studi sulla lirica ital. del 1200, Bologna 1902, pp. 366-468; F. Scandone, Notizie biogr. di rimatori della scuola poetica siciliana, Napoli 1904 (Poi in Studi di letteratura italiana, VI, Napoli 1904-1906), p. 99, E. Zacco, Vita e opere di G.D., Palermo 1908; L. Genuardi, G.D. giurista, in Arch. stor. messinese, n.s., I (1934), pp.64-70. Sull'ipotesi che il rimatore sia da identificarsi o merio con l'omonimo compilatore della Historia destructionis Troiae, sivedano, a favore o contro: A. Gaspary, La scuola poetica siciliana, Livorno 1882, p. 17; E. Gorra, Testi ined. di storia troiana, preceduti da uno studio sulla leggenda troiana in Italia, Torino 1887, pp. 105-108, e la rec. al volume a cura di H. Morf, in Romania, XXI (1892), pp. 90 s.; G.A. Cesareo, Le origini della poesia lirica e la poesia sicil. sotto gli Svevi, Milano-Palermo 1924, pp. 54-57; R. Chiantera, G. D. poeta e storico latino del sec. XIII e il problema della lingua nella nostra primitiva lirica d'arte, Napoli 1965; C. Dionisotti, Proposta per Guido giudice, in Riv. di cultura class. e mediev., VII (1965), pp. 452-466. Il testo dell'Historia è leggibile in G. Delle Colonne, Historia destructionis Troiae, a cura diN. E Griffin, Cambridge, Mass., 1936, su cui le rec. di F. Franceschini, in Boll. di filologia classica XI-XII (1937), pp. 288-291, e di G. Hamilton, Romanic Review, XXIX (1938), p. 384. Per un profilo critico del D. si ricorra a G. Bertoni, IlDuecento, in Storia letteraria d'Italia, Firenze 1910, pp. 126 s.; D. Mattalia, Letter. italiana. I minori, Milano 1961, p. 65; G. Folena, Cultura e poesia dei Siciliani, in E. Cecchi-N. Sapegno, Storia della lett. ital., Milano 1965, pp. 319-322; E. Pasquini, Le origini e la scuola siciliana, in Letteratura italiana. Storia e testi, Bari 1970, pp. 203-210; M. Marti, Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce 1971, pp.31-42; M. Beretta Spampinato, La scuola poetica siciliana, in Storia della Sicilia, IV, Palermo 1980, pp. 415 s.

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