GUIDO di Pietro, detto il Beato Angelico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDO di Pietro, detto il Beato Angelico

Magnolia Scudieri

Nacque nei pressi di Vicchio di Mugello, probabilmente poco prima del 1400. Divenne poi fra Giovanni nel convento dei domenicani riformati di S. Domenico di Fiesole. Sono scarse le notizie sulla sua famiglia: si conoscono solo un fratello minore, anch'egli religioso in S. Domenico col nome di fra Benedetto, e una sorella, Checca. Mancano informazioni più precise, oltre che sulle origini, anche sugli anni della sua prima giovinezza, sulla formazione e sulla prima attività.

Fino alle ricerche e alle scoperte documentarie di Werner Cohn e Stefano Orlandi negli anni Cinquanta del Novecento, si era ritenuto che G. fosse nato nel 1387, sulla scorta delle indicazioni di Vasari che lo diceva morto nel 1455 a sessantotto anni. Vasari e, dopo di lui, Filippo Baldinucci, erano stati probabilmente tratti in inganno dalla data 1407 apposta in margine al passo della Chronica quadripartita di S. Domenico di Fiesole in cui viene ricordata la vestizione di "fra Giovanni", non avendo osservato che all'interno del testo la data della vestizione è sostituita da puntini di sospensione. Il ritrovamento di due documenti dai quali risulta che nel 1417 e nel 1418 G. era attivo a Firenze come pittore, ma ancora allo stato laicale, toglie qualsiasi plausibilità alla vestizione nel 1407. Il primo documento è costituto dalla registrazione del suo ingresso nella Compagnia di S. Niccolò al Carmine il 31 ott. 1417, su presentazione del miniatore Battista di Biagio Sanguigni, più anziano di qualche anno. L'altro è rappresentato dalle disposizioni di pagamento emanate in suo favore il 28 gennaio e il 15 febbr. 1418 dai Capitani di Orsanmichele per una tavola d'altare eseguita per la cappella Gherardini in S. Stefano al Ponte, attualmente dispersa. L'importanza della commissione rende difficile pensare che si trattasse dell'opera prima del pittore e che egli potesse avere meno di vent'anni. Sembra pertanto ragionevole porre la sua data di nascita qualche anno prima del 1400.

Il primo documento che si riferisce al pittore nella sua nuova condizione di religioso è solo del 1423: si tratta del pagamento, da parte dell'ospedale di S. Maria Nuova, di una Croce dipinta, di cui viene proposta l'identificazione con quella oggi conservata a Firenze nella chiesa di S. Marco. Considerando che nell'anno di noviziato non era consentito lavorare, la data dell'ordinazione religiosa dovrebbe essere fissata tra il 1418 e il 1422.

Nonostante che gli elementi per ricostruire la sua attività giovanile a cavallo tra il secondo e il terzo decennio siano assai scarsi, le ricerche, condotte negli ultimi trenta anni in seguito alla revisione critica avviata da John Pope Hennessy nel 1974 di tutto il corpus di opere attribuite al pittore e ai suoi allievi, hanno condotto alla formulazione di nuove e convincenti proposte. Esse, pur con diverse angolature, si muovono in una stessa direzione interpretativa, verso l'arretramento della datazione di alcune opere, il cui stile tardogotico viene ora più verosimilmente interpretato come espressione degli esordi culturali del pittore e non più come manifestazione di un gusto conservatore e attardato. L'individuazione più circostanziata delle opere da situare nella fase giovanile, pur rimanendo in un ambito ipotetico, ha facilitato la messa a fuoco delle componenti culturali della sua formazione artistica e ha aiutato a riconoscere e a delimitare le fasi successive del suo percorso stilistico, marcate da differenti influenze.

L'acquisita consapevolezza che il Trittico di s. Pietro martire (Firenze, Museo di S. Marco), eseguito ante 1429, non è, come a lungo è stato considerato, il punto iniziale della carriera del pittore, già attivo da oltre dieci anni, ma solo una tappa della trasformazione in atto del suo linguaggio dalla fase schiettamente tardogotica a quella rinascimentale, contribuisce a trovare una nuova chiave di lettura di quest'opera, apparentemente meno significativa nel suo eclettismo stilistico. L'adesione un po' impacciata alle prime esperienze di Masaccio, che vi si legge unitamente all'influenza di Gentile da Fabriano, trova più facile comprensione se se ne anticipa la datazione di qualche anno in prossimità delle opere eseguite alla metà del decennio dai due artisti, e assume il valore di una risposta immediata alle novità così significative che apparivano sulla scena fiorentina. Del resto, nel tentativo di superare la tradizionale struttura a "trittico" della tavola unificandola in alto sul fondo e dipingendo gli spazi tra le cuspidi, G. rivela di essere intenzionato non solo ad accogliere gli stimoli delle nuove esperienze elaborate da altri artisti, ma di contribuire con idee e proposte proprie al processo di trasformazione in direzione rinascimentale.

Di conseguenza appare logico situare in un momento antecedente il polittico con la Madonna in trono tra angeli e quattro santi di S. Domenico di Fiesole, in origine sull'altare maggiore della chiesa, la cui datazione è stata sempre più anticipata dagli studiosi, fino al 1421-22.

Esso, anche se modificato notevolmente nel 1501 da Lorenzo di Credi - che l'ha ricondotto a forma rettangolare e ne ha coperto l'oro del fondo con un paesaggio - conferma pienamente le asserzioni di Baldinucci (1681) a proposito dei supposti maestri di G., indicati in Gherardo Starnina e in Masolino da Panicale, attivi a Firenze, l'uno dal 1404 al 1413, e l'altro, gravitante nella bottega di Lorenzo Ghiberti probabilmente già assai prima del 1422, anno in cui la sua presenza vi è documentata. Nel dipinto infatti, privo tanto di sentori masacceschi quanto di riflessi significativi di Lorenzo Monaco, si coniugano perfettamente un certo gusto per il gioco lineare e gli effetti cromatici caldi e brillanti, già cari a Starnina, e una tendenza ad ammorbidire i contorni e il modellato, derivata da Ghiberti e sostenuta in pittura da Masolino. Analoghi sono i riferimenti culturali che si individuano nel gruppo di tavole che sono state recentemente raccolte intorno alla pala di S. Domenico. Fra queste gioca un ruolo chiave la raffinata Madonna dei Cedri del Museo nazionale di S. Matteo a Pisa, di forte impronta masolinesca, già assegnata alla metà del terzo decennio e oggi ritenuta ancora più antica, databile al 1420 o anche al 1418.

Ai primi anni del terzo decennio sono da assegnare la Madonna col Bambino e quattro angeli del Museo dell'Ermitage a San Pietroburgo; la Madonna col Bambino e dodici angeli dello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte; la Madonna col Bambino e due angeli del Museum Boymans-Van Beuningen di Rotterdam, nella quale si registra anche una forte attenzione per i modi di Arcangelo di Cola, cui l'opera è stata attribuita in passato; l'Adorazione dei magi della Fondazione Abegg di Riggisberg. Nel gruppo sono state recentemente inserite anche due tavole di notevole problematicità: la Tebaide degli Uffizi e la Crocifissione Griggs del Metropolitan Museum di New York.

La prima, già attribuita non senza significato a Starnina e successivamente identificata con quella di G. ricordata in casa Medici nell'inventario del 1492, dovrebbe porsi proprio all'inizio dell'attività del pittore, intorno al 1420. La seconda, condotta con probabilità da due artisti - G. per le figure in secondo piano e Giovanni Toscani per quelle in primo piano - è un po' più tarda. Le figure ascrivibili a G. rivelano una forte suggestione dalla pittura di Gentile, che affiora nel chiaroscuro sfumato dei volti fortemente caratterizzati, spingendo la datazione a poca distanza dall'Adorazione dei magi che Gentile completò nel 1423.

Lo stile e la tecnica adottati nella Crocifissione ritornano ancora in uno dei tabernacoli di S. Maria Novella, ora al Museo di S. Marco, quello con l'Adorazione dei magi, databile pertanto intorno alla metà del decennio.

In questo nuovo panorama degli inizi di G., che si è venuto delineando con gli studi recenti, sembra ridursi alquanto, nella formazione artistica del pittore, l'importanza del ruolo avuto da Lorenzo Monaco, ripetutamente indicato come il suo maestro. È innegabile che quest'ultimo, una delle figure dominanti della scuola fiorentina fino al 1424, abbia costituito per G. uno dei modelli di riferimento, all'interno però di un panorama culturale vasto e articolato, in cui l'artista ha sempre cercato un proprio originale modo di esprimersi rinnovando le ormai stanche formule tardogotiche alla luce di una rivisitazione diretta e aggiornata dei grandi maestri del primo Trecento, in particolare Giotto. Anche il supposto tirocinio iniziale con Lorenzo per apprendere l'arte della miniatura presso lo scriptorium di S. Maria degli Angeli, ipotizzato anche in base alla vicinanza della sua abitazione al monastero nel secondo decennio, non trova al momento sufficienti elementi di conferma nell'esiguo numero di miniature che possono essergli riferite, in primis nel Messale 558, ora al Museo di S. Marco, ritenuto concordemente opera abbastanza giovanile. Sembra del resto evidente che, alla spiccata predilezione per le immagini di piccolo formato nella pittura su tavola, che farebbero supporre una pratica abituale della miniatura, non abbia corrisposto un'intensa attività in quell'ambito, praticata comunque all'occasione con piena disinvoltura e con una compiutezza da pittore. G. si dimostrò comunque abile in ogni tecnica pittorica, oltre che nella tempera su tavola e su pergamena.

Perduti i dipinti su tela e cera per S. Maria Novella ricordati dalle fonti, restano invece in cospicua testimonianza gli affreschi, che diventarono, dal quarto decennio, il suo genere di pittura preferito e quello a cui il suo nome rimase legato nel tempo. Lasciò i primi saggi delle sue capacità nel convento di S. Domenico dove, a tutt'oggi, rimangono due dei quattro affreschi che vi eseguì: una Madonna col Bambino, staccata con la sua sinopia da sopra una porta della chiesa, e un Crocifisso affrescato nella sala del capitolo, che, nella posa del capo reclinato in avanti in forte scorcio, mostra viva impressione di quello dipinto da Masaccio nel polittico di Pisa (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) commissionato nel 1426. A un'epoca più avanzata risalgono i due affreschi staccati e alienati nell'Ottocento: la Crocifissione, ora al Louvre, e la Madonna col Bambino tra i ss. Domenico e Tommaso, al Museo dell'Ermitage.

Per S. Domenico, G. eseguì anche altre opere su tavola, ora all'estero o disperse. Le due più importanti, commissionate probabilmente dai Gaddi e in origine collocate sul tramezzo della chiesa, sono l'Annunciazione, ora al Prado, e l'Incoronazione della Vergine, ora al Louvre.

Entrambe sono opere assai problematiche, oggetto di controversie critiche per datazione e attribuzione, anche se già la Cronaca del convento, dicendole eseguite da "fra Giovanni" molti anni prima della consacrazione della chiesa, avvenuta nel 1435, fornisce un'indicazione circostanziata. Oggi si propende per una datazione precoce dell'Annunciazione, al 1425-26, poco dopo la pala dell'altare maggiore, nel periodo maggiormente influenzato da Gentile e da Masolino, in cui si spiega più facilmente la presenza di uno spiccato gusto tardogotico entro un contesto compositivo e strutturale che anticipa i dettami classicistici enunciati da F. Brunelleschi dieci anni dopo a proposito delle pitture per S. Lorenzo. Occorre sottolineare che l'Annunciazione divenne uno dei soggetti preferiti da G. che nel tempo sviluppò una serie di varianti iconografiche dello stesso schema che contribuirono in modo sostanziale alla sua fama.

Strettamente dipendenti dall'Annunciazione sono le due tavole con lo stesso soggetto, situabili già nel terzo decennio, di Cortona (Museo diocesano) e di San Giovanni Valdarno (Museo di S. Maria delle Grazie). Per quest'ultima esiste anche l'ipotesi che sia da identificare con il dipinto commissionato nel 1432 dalla chiesa di S. Alessandro a Brescia e mai arrivato a destinazione.

Il dipinto con l'Incoronazione della Vergine è solitamente ritenuto più tardo dell'Annunciazione, con proposte di datazione che oscillano dal 1429-30 al 1434-35. La pala esprime, infatti, nella sintesi straordinaria tra elementi di tradizione gotica e impaginazione rinascimentale, una maturità artistica tale da farla ritenere eseguita in un momento vicino alla consacrazione della chiesa avvenuta nel 1435. L'elemento più innovativo e caratterizzante, oltre all'ardito spazio scenico prospetticamente impostato dal sotto in su e alla solida corporeità delle figure, è rappresentato dal particolare uso della luce - una luce naturale che scorre sulle figure indagandone ogni particolare - secondo un gusto che di solito si osserva nei fiamminghi. In futuro una simile sintesi non ricomparirà più nelle opere del pittore, che, tralasciati i riferimenti tardogotici, elaborerà un linguaggio caratterizzato da ritmi più pausati e classici, da schemi prospettici più proporzionati e da una luce morbida e naturale che non scopre i dettagli della realtà, ma li avvolge penetrando nel colore e sostanziandolo con risultati che rimarranno a lui propri, mirabilmente espressi soprattutto negli affreschi.

L'attività di G. nel terzo decennio è in gran parte costituita da molte opere di piccole e medie dimensioni dove emerge la sua capacità di narratore attento e vivace, ricco di inventiva e di curiosità, anche ritrattistica, di figure e ambienti. È una tendenza espressiva particolare quella che si manifesta in questi dipinti, sostanzialmente fedele al gusto gotico, anche laddove esso ospita aperture concettuali e compositive assolutamente nuove. Tipici esempi ne sono i tabernacoli-reliquiario di S. Maria Novella e il Giudizio finale di S. Maria degli Angeli, ora al Museo di S. Marco.

Di questa tavola, recenti ricerche hanno messo a fuoco i fondamenti teologici e filosofici dell'iconografia, assai importanti anche per una migliore comprensione della personalità di G. che viene sempre più configurandosi come quella di un artista colto e sensibile, inserito nel clima di studi e di interessi cari all'umanesimo fiorentino. Si rafforza anche l'ipotesi di un intenso rapporto di collaborazione e di scambio culturale tra il pittore e gli intellettuali più avanzati di quella cerchia e di una loro attiva partecipazione alla realizzazione dei soggetti delle sue pitture. Nel caso di questa iconografia che presuppone lo studio di testi patristici e classici, con particolare riferimento al mito di Er contenuto nella Repubblica di Platone, il probabile committente appare come il consulente ideale. Si tratta di Ambrogio Traversari, studioso di patristica, conoscitore della lingua greca e in genere della cultura classica, fautore dell'unificazione della chiesa occidentale e orientale, divenuto priore di S. Maria degli Angeli nel 1430 e abate generale dell'Ordine nel 1431. Nella tavola il pittore ha dilatato l'immagine del Giudizio divino, consegnata dai Vangeli di Matteo e di Giovanni, in una visione resa più ecumenica dalla presenza, ai lati di Cristo, non solo degli intercessori - la Vergine e s. Giovanni - ma anche dei patriarchi, di altri personaggi del Vecchio Testamento e di santi come s. Francesco e s. Domenico, presenza certamente mediata dagli scritti patristici (Eusebio da Cesarea, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo). Il dipinto piacque molto ai contemporanei e fu più volte replicato anche dalla bottega (si vedano le repliche della Galleria nazionale di palazzo Barberini a Roma e degli Staatliche Museen di Berlino).

A esso si legano stilisticamente i tabernacoli-reliquiario eseguiti tra il 1424 e il 1434, anno della morte del committente fra Giovanni Masi, già sacrista di S. Maria Novella.

Si tratta di una serie di dipinti di grande raffinatezza con composizioni miniaturizzate che derivano o anticipano pitture con lo stesso soggetto realizzate in grande formato. In mancanza di una cronologia certa anche di queste ultime, resta aperto il problema se i tabernacoli le abbiano precedute oppure seguite. Quello con l'Adorazione dei magi, fortemente influenzato da Gentile, potrebbe essere il primo, intorno al 1424, seguito a breve distanza da quello con l'Incoronazione della Vergine - versione semplificata di quella del Louvre - affine stilisticamente all'altro con i Funerali (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum) e prossimo alla tavola col Giudizio finale, e infine da quello con la Madonna della Stella i cui angeli festanti sembrano la versione in miniatura di quelli del Tabernacolo dei linaioli.

Verso la fine del terzo decennio l'attività di G. cominciò a farsi intensa con richieste anche da chiese e conventi non domenicani. Del resto sulla scena fiorentina - morto Lorenzo Monaco e allontanatosi Gentile da Fabriano nel 1425, scomparso anche Masaccio nel 1428 e allontanatosi Masolino nel 1429 - G. si poneva senz'altro come il pittore di maggior rilievo, dato che Paolo Uccello, l'altra figura di spicco, sarebbe comparso solo nel 1431.

Entro il terzo decennio è da porre anche la realizzazione di almeno altri due polittici di notevole importanza, smembrati e oggi solo parzialmente ricostruiti, testimonianza della dispersione che le opere di G. hanno subito. L'uno è il trittico di cui è stata suggerita la ricomposizione con la Madonna col Bambino e la Trinità (conservata nel Museo di S. Marco) al centro, due pannelli con Santi ai lati (in deposito presso lo stesso museo) e, nella predella, cinque pannelli con Storie di s. Francesco dispersi tra i Musei Vaticani, il Lindenau Museum di Altenburg e gli Staatliche Museen di Berlino. In seguito al ritrovamento di un documento di pagamento effettuato da parte della Compagnia di S. Francesco in S. Croce di Firenze nel 1429 in favore di G. per un dipinto, ne sono stati identificati, pur ipoteticamente, anche la provenienza e la datazione. Le figure della parte centrale appaiono come l'ultima propaggine tardogotica del pittore che affida agli scomparti della predella la sua nuova più razionale visione della rappresentazione dell'ambiente e dello spazio.

I risultati delle stesse ricerche si apprezzano anche nei pannelli della predella dell'altro polittico (con l'Imposizione del nome al Battista ora al Museo di S. Marco, il S. Giacomo che libera Ermogene al Kimbell Museum di Fort Worth, le Esequie della Vergine al Philadelphia Museum of art e l'Incontro tra s. Domenico e s. Francesco al Fine arts Museum di San Francisco), la cui parte principale resta ancora da ricostruire, dopo l'individuazione di un solo pannello con S. Giacomo Maggiore, già al Minneapolis Museum of arts.

Nell'Imposizione del nome al Battista la naturalezza con cui le figure sono disposte nello spazio del piccolo giardino e l'articolazione degli elementi architettonici, studiata per costruire effetti di profondità, insieme con la cura con cui è descritto l'ambiente, rivelano un'assimilazione ormai completa di certe novità di linguaggio espresse da Masaccio, in particolare nel Tributo affrescato nella cappella Brancacci, suggerendo una cronologia poco posteriore a quegli affreschi, intorno al 1428.

In contiguità stilistica con l'Imposizione si trova l'Incoronazione della Vergine degli Uffizi, già nella chiesa di S. Egidio annessa all'ospedale di S. Maria Nuova: in particolare, i pannelli della predella con lo Sposalizio della Vergine e i Funerali, conservati presso il Museo di S. Marco.

Nel primo di essi G. usa nella composizione la stessa idea applicata nell'Imposizione, ovvero la struttura a zig-zag dell'architettura per costruire l'illusione della profondità spaziale. Nelle figure del pannello centrale, tuttavia, il pittore indulge a modulazioni lineari che rivelano anche un forte interesse per la maniera di Ghiberti, spingendo la datazione ai primi anni del quarto decennio, quando cresce in G. l'interesse per quell'artista.

Ai primi anni Trenta, in base ad approfondimenti documentari recenti, dovrebbe anche risalire la Deposizione di S. Trinita, oggi al Museo di S. Marco. Le vicende storiche del dipinto, che segna nel percorso artistico di G. una svolta definitiva in senso rinascimentale, sono complesse e non ancora del tutto chiare.

Iniziato da Lorenzo Monaco su commissione di Palla Strozzi per la sagrestia di S. Trinita, destinata a cappella funeraria del padre Nofri scomparso nel 1418, il dipinto rimase incompiuto probabilmente per il sopraggiungere della morte del pittore. Di sua mano rimangono le cuspidi e tre scomparti di predella con l'Adorazione dei magi e Storie dei ss. Nicola e Onofrio, separati dalla pala in antico. Non abbiamo elementi per ricostruire l'aspetto della pala secondo il progetto di Lorenzo, modificato sostanzialmente da G. quando fu chiamato a completarla o a sostituirne il pannello centrale. Certamente adesso le Storie della predella non trovano più corrispondenza con la parte principale soprastante, lasciando pensare che il programma iconografico e compositivo di Lorenzo fosse assai diverso. G., ignorando la tripartizione dello spazio suggerita dalle cuspidi, ha impostato una scena ambientata entro uno spazio reale e continuo che si espande in profondità lungo due direttrici in diagonale che utilizzano come fulcro la Croce. Adottando leggi prospettiche ha sostituito un paesaggio realistico, che fotografa le colline toscane, agli astratti fondi aurei e ai paesaggi surreali di Lorenzo, ma anche a quelli fiabeschi di Gentile, con la cui Adorazione dei magi collocata nei pressi, la nuova pala era chiamata a confrontarsi. La rappresentazione dell'evento trascende la pura fedeltà storica, per divenire l'oggetto di una meditazione tra i dotti personaggi riuniti sulla destra, fra i quali, nella figura con i simboli della Passione in mano, è forse da scorgere Palla Strozzi. La cura con cui sono stati scelti i testi delle iscrizioni poste sotto ciascuno dei tre gruppi di figure, il ductus classico della grafia e la presenza dell'iscrizione in greco ed ebraico, oltre che in latino, sul cartiglio della Croce, sono tutti elementi che fanno emergere ancora una volta il legame del pittore con la cultura umanistica mediata in questo caso anche dal committente, non solo ricco banchiere, ma anche colto e appassionato bibliofilo.

Il quarto decennio del Quattrocento è quello centrale dell'attività di G., in cui alla piena maturità artistica corrisponde la massima espansione della produzione sia per commissioni pubbliche sia per devozione privata, certamente con l'aiuto di collaboratori e allievi. Tra questi doveva essere senza dubbio presente Zanobi Strozzi, ricordato anche da Vasari, e forse Battista di Biagio Sanguigni, amico del maestro di vecchia data, che abitava allora con Strozzi a Fiesole.

Nel 1433 giunse anche l'incarico per quello che rimarrà il suo dipinto più monumentale: il Tabernacolo dei linaioli del Museo di S. Marco, che segna il momento di massima tangenza con Ghiberti.

L'enorme tabernacolo, che andava a ornare il salone delle adunanze nel palazzo dell'arte, situato nel centro di Firenze e distrutto nell'Ottocento, fu commissionato a G. un anno dopo che era stata assegnata la cornice a Ghiberti. L'aspetto particolarmente scultoreo dei santi negli sportelli e il morbido plasticismo degli angeli musicanti rivelano che il rapporto tra i due artisti, certamente già in contatto da tempo, divenne più stretto in quell'occasione e che G., per far fronte a esigenze di monumentalità per lui nuove, trovò naturale ispirarsi alle sculture del più anziano maestro. Ghiberti, del resto, rivendicava a sé stesso nei Commentari un ruolo-guida per gli artisti che avessero dovuto realizzare figure più grandi del naturale. Nella rappresentazione della Madonna col Bambino G. entra, invece, direttamente nel solco della tradizione delle "maestà" del Trecento, rinnovandola però, con l'invenzione dei tendaggi aperti a scoprire il sacro gruppo, complice forse l'esigenza di mettere in risalto, con la presenza di splendidi tessuti, l'attività dei committenti. I pannelli della predella, oltre a offrire interessanti spaccati urbanistici in cui, pur trasfigurata, ben si riconosce Firenze, sembrano contenere dei riferimenti simbolici legati ai nuovi concetti umanistici, a conferma della partecipazione di G. a quel clima culturale. È stato, per esempio, suggerito che, nella scena della predica di s. Pietro, i tre gruppi di figure che assistono alla predica possano essere la rappresentazione metaforica della borghesia cittadina, a destra, della devozione popolare, al centro, e dei colti letterati a sinistra, e quindi alludere simbolicamente alla necessità di congiungere cultura religiosa e cultura umanistica partendo dalla conoscenza dei testi originali.

Strettamente legata allo stile del Tabernacolo è la Pala di Annalena, al Museo di S. Marco, forse eseguita su commissione di Cosimo de' Medici per la cappella di famiglia in S. Lorenzo, certamente dopo il suo rientro dall'esilio nel 1434.

L'ipotesi è suffragata dalla corrispondenza che esiste tra la sua tipologia strutturale e la richiesta, avanzata da Filippo Brunelleschi nel 1434, che i dipinti di quella chiesa fossero quadrati e senza ornamenti. La pala sarebbe dunque la prima nella quale viene realizzato lo schema moderno della "sacra conversazione", in cui i santi che affiancano la Madonna in trono col Bambino vengono disposti a semicerchio intorno a loro su uno sfondo architettonico unito, di gusto ghibertiano. Nella predella, più minutamente descrittiva, è stato suggerito di riconoscere l'intervento di un collaboratore, per alcuni identificabile con Zanobi Strozzi.

Nella seconda metà del quarto decennio l'attività di G. proseguì con intensità anche per sedi esterne all'area fiorentina, mentre trasformazioni importanti segnavano la vita dei domenicani riformati di Fiesole, coinvolgendo in pieno anche quella del pittore.

Nel 1436 infatti, i domenicani vinsero la loro battaglia per farsi assegnare dal papa una sede definitiva entro le mura della città. Papa Eugenio IV, anche su pressione dei Medici, sancì con una bolla del 31 genn. 1436 la cessione definitiva del convento di S. Marco da parte dei monaci silvestrini, che l'abitavano, ai domenicani. Così alcuni frati lasciarono in fretta S. Domenico per installarsi a S. Marco, che trovarono in condizioni assai precarie di conservazione; ma fra essi non c'era G. che rimase in qualità di vicario a S. Domenico. È evidente che finché il convento non fu restaurato e reso abitabile da Michelozzo col finanziamento mediceo, G. non lasciò il convento di Fiesole, dove aveva sede il suo laboratorio, certamente con molte tavole in lavorazione.

Nel 1438, Domenico Veneziano, in una lettera scritta da Perugia a Piero de' Medici per ottenere l'affidamento della nuova pala per l'altare maggiore della chiesa di S. Marco, adduceva a suo favore la motivazione che i migliori pittori del momento, come G. e Filippo Lippi, erano molto occupati. Una delle tavole in corso di lavorazione era senza dubbio la Deposizione dalla Croce per l'altare della Compagnia di S. Maria della Croce al Tempio (Museo di S. Marco), commissionata nel 1436 da fra Sebastiano di Iacopo Benintendi, nipote della beata Villana delle Botti raffigurata nella tavola, ma terminata solo nel 1441, data inscritta nell'orlo della veste della Vergine.

Il dipinto, di intensa liricità, trae ispirazione da un'idea compositiva trecentesca, rifacendosi in particolare alla versione dipinta da Giottino, che G. presentò rielaborata, alla luce delle proprie recenti esperienze, in un linguaggio pacatamente espressivo che richiama la Deposizione di S. Trinita, ma si avvicina anche agli affreschi di S. Marco ai quali, nel 1441, stava lavorando.

Nel 1434-35 è anche da porre l'avvio del trittico di S. Domenico a Cortona, ora al Museo diocesano, con la realizzazione del pannello centrale con la Madonna in trono col Bambino fra angeli, completato con ogni probabilità qualche anno più tardi, entro comunque il 1438, anno in cui le fonti dicono che la chiesa era fornita di tutte le sue pitture. Entro quella data o in quell'anno stesso, in cui è documentata la sua presenza a Cortona, G. eseguì anche l'affresco con la Madonna col Bambino tra i ss. Domenico e Pietro martire e gli evangelisti in una lunetta sopra la porta della chiesa di S. Domenico che, pur nella sua consunzione, si manifesta stilisticamente prossimo agli affreschi di S. Marco.

Gli impegni per Cortona sembrano essersi incrociati con quelli per Perugia, dal momento che, secondo la testimonianza degli Annali tardocinquecenteschi della chiesa di S. Domenico, risalirebbe al 1437 la commissione del Polittico di s. Niccolò per la cappella Guidalotti, ora smembrato tra la Galleria nazionale dell'Umbria e i Musei Vaticani.

Il polittico rivela una maturità artistica tale da farlo ritenere eseguito, o comunque completato, senza dubbio alcuni anni più tardi. Le affinità con gli affreschi di S. Marco, in particolare con la Madonna delle Ombre per la comune ricerca di effetti luministici, e con l'Annunciazione per la tipologia del volto della Vergine sovrapponibile a quello nel medaglione del polittico, suggerirebbero una datazione intorno al 1443, probabile anno conclusivo degli affreschi marciani. Tutto ciò si accorderebbe anche con la data 1444 del polittico senese di Sano di Pietro, già nella chiesa dei gesuati, che sembra presupporre l'esistenza di quest'opera. Esiste tuttavia anche l'ipotesi che il polittico sia stato eseguito subito dopo l'elezione al papato di Niccolò V, avvenuta nel 1447, per il riconoscimento delle sembianze del pontefice nel s. Nicola.

Gli anni che corrono tra il 1437 e il 1443 furono comunque molto intensi per G. che profuse gran parte del suo tempo e delle sue energie per la chiesa e il convento di S. Marco, dove realizzò, oltre alla pala per il nuovo altar maggiore della chiesa, il suo più esteso ciclo di affreschi, che trova nella Cronaca (Morçay, p. 16) la sua prima lusinghiera citazione fra le cose che rendono insigne il convento: "Tertium insigne apparet in picturis. Nam tabula altaris maioris et figurae capituli, et ipsius primi claustri et omnium cellarum superiorum […] omnes pictae sunt per quemdam fratrem […] qui frater Johannes Petri de Mugello dicebatur, homo totius modestiae et vitae religiosae". Le date estreme di questo periodo corrispondono, la prima, alla costruzione del dormitorio mediano con le prime venti celle, e, la seconda, alla consacrazione della chiesa rinnovata.

Acquisito il patronato sulla cappella maggiore della chiesa nel 1438, i Medici vollero per il nuovo altare maggiore - ridedicato, oltre che a Marco, anche ai ss. Cosma e Damiano loro patroni - una nuova tavola d'altare che fosse simbolo e celebrazione del mecenatismo mediceo e del loro prestigio anche culturale, dandone incarico a Guido. Certamente la commissione arrivò dopo il 1° apr. 1438, data della richiesta di Domenico Veneziano a Piero de' Medici per l'affidamento di quella tavola, ma forse prima del 26 dicembre, data della lettera con cui i Priori del Comune di Cortona ringraziavano Cosimo per aver donato alla chiesa di S. Domenico il polittico di Lorenzo di Niccolò che ornava l'altar maggiore della chiesa di S. Marco. Il polittico, però, arrivò a Cortona solo nel 1440, quando la tavola nuova che doveva sostituirlo non era ancora completata, come specificamente è annotato nella Cronaca, anche se è probabile che lo fosse di lì a breve, per non lasciare troppo a lungo sguarnito l'altare maggiore. Intanto dal 1439 a Firenze si andava svolgendo un evento di grande portata storica: il concilio che realizzò l'unificazione della Chiesa occidentale e orientale, obiettivo perseguito da umanisti come Leonardo Bruni, Ambrogio Traversari e Tommaso Parentucelli. L'evento fu anche una straordinaria occasione per conoscere usi, costumi e tradizioni diverse che destarono grande impressione nei Fiorentini. Anche G. subì il fascino dell'Oriente, di cui, nella pala di S. Marco, lasciò un'eco precisa nella raffigurazione del prezioso tappeto disteso davanti al trono della Madonna. Nella sua decorazione geometrica a sei riquadri trovò un mezzo efficace per costruire una scansione prospettica dello spazio con il punto di fuga sul petto della Vergine e insieme una perfetta griglia prospettica di trentasei quadrati entro cui porre correttamente l'intera scena, come consigliava nel De pictura (1436) Leon Battista Alberti. Nel suo complesso il dipinto, pur fortemente danneggiato da un antico tentativo di restauro con la soda, è ancora capace di trasmettere le novità concettuali che stanno all'origine della sua immagine, in cui un ruolo decisamente moderno è giocato anche dalla luce che genera straordinari effetti luministici, al pari di quelli realizzati in alcuni degli affreschi del convento. Dalla Cronaca si arguisce che i lavori di ricostruzione del convento ebbero un corso intermittente, interrompendosi nel 1438-39 (periodo in cui si concentrarono sulla chiesa) e riprendendo poi dal 1440 fino al completamento nel 1443. G. potrebbe dunque aver lavorato a scaglioni secondo l'iter dei lavori architettonici, affrescando nel 1437 o nel 1438 le prime venti celle, oppure aver iniziato più tardi quando i lavori erano in via di completamento. Ci sono comunque, nell'ambito del ciclo, delle variazioni stilistiche che rafforzano l'ipotesi di una realizzazione cronologicamente diversificata, anche se alcune di esse sono da attribuire all'esecuzione da parte di collaboratori. L'unità complessiva che tuttavia il ciclo mantiene, implica che essi lavorarono sempre sotto stretto controllo del maestro e probabilmente sulle sinopie da lui tracciate sull'intonaco. Si potrebbe per esempio supporre che, eseguiti gli affreschi sul lato esterno del primo dormitorio est, quasi completamente autografi, egli abbia impostato il lavoro per gli affreschi delle celle sul lato interno, lasciandone l'esecuzione, come si può facilmente osservare, a più collaboratori, per potersi recare a Cortona - dove è presente nel 1438 - per condurre a fine le opere per S. Domenico, che sappiamo più numerose di quelle giunte fino a noi. Dal 1440 ripresero i lavori architettonici nel convento ed entro il 1442 l'ala nord sembra essere stata completata. È così probabile che tra il 1441 e il 1442, epoca in cui è da porre, per testimonianza documentaria, la realizzazione della Crocifissione nella sala capitolare, siano stati realizzati anche gli altri affreschi nel chiostro e quelli nelle celle del corridoio nord. In molti di questi si avverte la presenza, accanto a quella del maestro, di allievi, fra i quali si distingue Benozzo Gozzoli, probabile autore anche degli affreschi del corridoio dei novizi a sud, che dovrebbero essere stati eseguiti per ultimi.

Negli affreschi di S. Marco, ritenuti universalmente il suo capolavoro, G. si esprime, tuttavia, con un linguaggio assai diverso da quello incontrato finora nelle sue opere su tavola, destinate a un pubblico di fedeli, per lo più semplice e ignorante. Rivolti esclusivamente ai confratelli domenicani, ordine colto per istituzione, e destinati inoltre alla loro meditazione privata, a esclusione dei pochi situati in ambienti di uso collettivo, gli affreschi presentano un linguaggio espressivo depurato da qualsiasi notazione descrittiva superflua. La raffigurazione dell'evento sacro è espressa in termini di sinteticità assoluta, con forti valenze simboliche, coerenti con la particolare funzione didattica o teologica affidata a ciascun affresco. Così si passa da immagini di valore simbolico semplice, come quelle delle lunette sopra le porte nel chiostro di S. Antonino, allusive alle funzioni esplicate negli ambienti, a immagini di valore simbolico più complesso, con intenti anche didascalici e celebrativi, come la grande Crocifissione nella sala capitolare, databile entro il 1442. L'inserimento, fra gli astanti, di svariati santi, fra cui tutti i fondatori dei più importanti ordini monastici, assume il significato di un invito all'unità della chiesa nel nome di Cristo, che potrebbe riferirsi anche al dibattito oggetto del contemporaneo concilio di Firenze. Inoltre, l'affresco rappresenta anche una testimonianza insostituibile per la storia del restauro e per la conoscenza della tecnica artistica. È infatti il primo affresco di grande estensione consolidato sul muro fra il 1967 e il 1974 con la tecnica dell'applicazione dell'idrossido di bario e uno dei rari esempi in cui c'è la possibilità di leggere, a causa della caduta del pigmento blu, l'aspetto degli strati preparatori della porzione di pittura dello sfondo. Sulle pareti di S. Marco, tuttavia, il tema della Crocifissione, e in particolare l'Adorazione delCrocifisso da parte di s. Domenico, è un soggetto ricorrente, legato ai fondamenti dell'Ordine, cui sono affidati, secondo il luogo, messaggi diversi. Nel dormitorio lo troviamo ripetuto in ogni cella del corridoio sud destinato ai novizi, con un domenicano inginocchiato in vario atteggiamento, col preciso intento didattico di illustrare i vari modi di pregare dettati da s. Domenico. Con uno schema iconografico tradizionale è dipinto più volte nelle celle del primo corridoio destinate ai frati più giovani, quelle dove si registra una forte presenza di aiuti accanto al maestro, mentre con uno schema più ricco e libero compare in quelle del corridoio nord destinate ai conversi, fra le ultime opere del maestro nel convento.

Studi recenti hanno messo a fuoco l'importanza di distinguere i destinatari delle celle e di collegare gli affreschi con alcuni aspetti della regola e della storia dell'Ordine per capire meglio il programma illustrativo delle pitture, certamente non casuale, nonostante le sue apparenti incongruenze. Altri hanno avviato la ricerca del significato teologico che presiede all'intero ciclo e delle sue radici filosofiche. È stata formulata l'ipotesi che la chiave interpretativa degli affreschi delle celle vada trovata nelle dottrine neoplatoniche dello Pseudo Dionigi e in particolare nell'organizzazione triadica che sovrintende al trattato De ecclesiastica hierarchia (Spike). Il collegamento diventa ancora più verosimile considerando che i testi dello Pseudo Dionigi sono stati oggetto di studio e commento per tutto il Medioevo, in particolare a opera di Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, e che furono tradotti dal greco in latino proprio nel 1436 da Ambrogio Traversari, di cui sono noti i contatti con G. e con Cosimo de' Medici. Infine non è da sottovalutare che probabilmente G. lo raffigurò accanto ai profeti nella cornice della Crocifissione nel capitolo, in basso a sinistra. L'intera ipotesi interpretativa, che rafforza l'idea che per il programma degli affreschi delle celle G. abbia avuto consulenti nella cerchia umanistica, merita ulteriori approfondimenti, aprendo comunque la strada a un approccio in chiave teologica e filosofica assolutamente necessario per una loro effettiva comprensione. Lo stretto legame tra il contenuto e la rappresentazione presuppone infine un ruolo attivo nell'ideazione da parte di G., del quale vengono emergendo, con gli studi degli ultimi anni, la statura intellettuale oltre a quella artistica e a quella religiosa, tratteggiate da Vasari in poi in esclusiva versione devota. La completa autografia del ciclo, pur nella varietà degli aiuti che vi collaborarono, trova conferma e conclusione nei tre affreschi sulle pareti dei corridoi - la Madonna delle Ombre, il S. Domenico in adorazione del Crocifisso, l'Annunciazione - eseguiti in ultimo, probabilmente entro il 1443, anno della consacrazione della chiesa, o, secondo alcuni, entro il 1445, ultimo anno della permanenza di G. a S. Marco, dove partecipò alla redazione di un documento che stabilì la separazione tra i conventi di S. Marco e S. Domenico di Fiesole.

L'assenza di G. da un'assemblea del capitolo a S. Domenico nel gennaio 1446 fa ritenere che fosse andato a Roma già dalla fine del 1445, chiamato da Eugenio IV, che aveva potuto ben apprezzarlo nel suo lungo soggiorno fiorentino. Purtroppo sia gli affreschi nella cappella del Sacramento, sia quelli nell'abside di S. Pietro, cui stava lavorando nel marzo-giugno del 1447, poco dopo la morte di Eugenio IV, sono andati distrutti con le trasformazioni successive della basilica, tranne un frammento con Testa di Cristo, oggi nel Museo del Palazzo di Venezia.

Nel 1446 intanto G., ritenuto "famosus ultra omnes pictores italicos", ricevette la commissione per gli affreschi nella cappella di S. Brizio nel duomo di Orvieto, cui dette inizio nell'estate del 1447.

La commissione, molto ben documentata, fu tra le più sfortunate. Il pittore, pur con l'aiuto di Benozzo Gozzoli e di altri due aiutanti, portò a termine entro la fine di settembre, tra varie difficoltà, soltanto due vele della volta con Cristo giudice e Sedici profeti.

Rientrato a Roma, G. fu subito impegnato dal nuovo papa Niccolò V - l'umanista Tommaso Parentucelli, amico di Cosimo de' Medici - in due grandi lavori: gli affreschi della sua cappella e del suo studio privato, cui si riferiscono documenti del 1448-49. Scomparsa ogni traccia dello studiolo, andato distrutto sotto Giulio II, resta, a testimonianza dell'attività romana di G., solo la cappella Niccolina, in cui gli affreschi con le Storie dei ss. Stefano e Lorenzo recentemente restaurati, documentano lo stile assai più monumentale e solenne che G. raggiunse in quegli anni, sotto l'influenza dei monumenti romani e dell'ambiente culturale pontificio, frequentato dagli intellettuali e dagli studiosi di cultura classica e patristica più avvertiti dell'epoca.

In questi affreschi la rappresentazione dell'architettura diventa preponderante sulle figure che con ritmi e cadenze sempre più classici raccontano l'historia con nuova padronanza dello spazio scenico, celebrando, sul piano teologico, la continuità tra la Chiesa paleocristiana e quella contemporanea.

Echi della pausata grandiosità paleocristiana, ammirata nel soggiorno romano, si avvertono in una delle ultime opere su tavola dipinte da G. per i Medici, dopo il rientro a Fiesole, dove fu priore dal 1450 al 1452: la pala per il convento francescano di Bosco ai Frati rappresentante la Madonna col Bambino e santi, ora al Museo di S. Marco, completata dopo il 1450. Echi, che non si colgono, invece, nei pannelli dell'Armadio degli argenti (Museo di S. Marco), commissionatogli da Piero de' Medici per la Ss. Annunziata già nel 1448 quando era ancora a Roma, ma condotto a termine con collaboratori alcuni anni più tardi.

Sostanzialmente le pitture nei pannelli riassumono sul piano artistico il suo percorso fiorentino e sul piano teologico esaltano il tema dell'unità tra la vecchia legge dei patriarchi e la nuova legge introdotta da Cristo, secondo quanto affermato da s. Tommaso d'Aquino.

L'attività e la vita degli ultimi anni non sono sufficientemente note. Dalla scarsità di opere riferibili a questo periodo e dal rifiuto della importante commissione per la cappella absidale del duomo di Prato si deduce che le sue condizioni di salute non fossero buone. Nel 1452 finì il suo priorato a Fiesole, ma rimase ancora nel convento, pare senza impegni di rilievo, a eccezione forse del tondo con l'Adorazione dei magi, eseguito per casa Medici, ora alla National Gallery di Washington, lasciato incompiuto e poi terminato da Filippo Lippi. Non si era affievolito però il prestigio di cui aveva sempre goduto, se nel 1454 veniva indicato, con Filippo Lippi e Domenico Veneziano, tra i maestri cui chiedere una valutazione degli affreschi di Benedetto Bonfigli nel palazzo dei Priori a Perugia. Restano sconosciute le cause e la data del suo ritorno a Roma, dove si trovava quando, il 18 febbr. 1455, lo colse la morte in S. Maria sopra Minerva. Qui fu sepolto nella cappella di S. Tommaso d'Aquino.

Intorno alla lastra tombale con l'"hic iacet" che ci restituisce, con i realistici tratti di una maschera mortuaria, l'effigie di un uomo piccolo e minuto, furono collocate, per volere del papa, altre due iscrizioni (di cui una perduta) che ricordano il generale apprezzamento che G. riscosse durante la sua vita, tanto per le sue qualità di pittore che per quelle di uomo religioso. Una prima definizione letteraria di tali qualità si trova già nel 1469, nel Theotocon di fra Domenico da Corella, probabile autore degli epitaffi, che coniò per G. l'epiteto di "angelicus pictor". La definizione si arricchì di termini e di significati nel 1481 con Cristoforo Landino che, ispirandosi al concetto ficiniano di mens angelica come equivalente cristiano del concetto filosofico di sapienza, chiamò G. "angelico et vezoso et divoto et ornato molto con grandissima facilità". Angelico divenne con Giorgio Vasari l'epiteto stabile di G., in seguito unito a quello di Beato, anche se la beatificazione ufficiale è avvenuta solo il 3 ott. 1982.

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