GUIDI, Guido Novello

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61 (2004)

GUIDI, Guido Novello

Mario Marrocchi

Figlio del conte Guido (VIII) e di Giovanna Pallavicini, nacque intorno al 1227.

Il padre era uno dei cinque fratelli - con molta probabilità il primogenito - discendenti dal conte Guido (VII) che, rimasti orfani nel secondo decennio del secolo XIII, avevano gestito unitariamente i possedimenti familiari per diversi anni finché, in circostanze e con modalità ancora non del tutto chiarite dalla storiografia, avevano ancorato ciascuno la propria azione su un castello principale dopo la morte prematura di uno dei fratelli, Ruggero. Alla morte del padre (1239) il G. e il fratello Simone si trovarono così con un proprio patrimonio distinto da quello dei cugini, anche se è probabile che i rapporti tra i vari rami fossero ancora assai stretti, come del resto lascia supporre la formale tutela che proprio Guido (VIII) e Tegrimo Guidi esercitarono su Ruggero e Guido Guerra, figli del fratello Marcovaldo, a partire dal 1229, anno della morte di quest'ultimo. Fu, invece, proprio al livello generazionale del G. che si consumarono scelte politiche che portarono i discendenti della vecchia famiglia comitale a militare su schieramenti opposti, sebbene la storiografia recente sia attenta a riconoscere - di là dalle diverse scelte assunte rispetto alle parti filoimperiale e filopontificia - indiscutibili contiguità nelle linee adottate da questi esponenti del ceto nobiliare, nel segno di una continuità di posizioni dominanti sia in ambito rurale, con il mantenimento del fulcro della loro azione in castelli dei diversi contadi, sia in ambito cittadino nel quale i Guidi andavano a inserirsi, in particolare a Firenze.

Se il padre del G. militava senza indugi nel partito imperiale, non meno decisa era la madre, sorella del marchese Uberto Pallavicini, fedele partigiano di Federico II, e in tale clima il G. venne allevato. Sappiamo che nel 1239 era ancora minorenne e che, nell'aprile 1247, riceveva un segno tangibile di tale contiguità all'Impero, ottenendo con il fratello un privilegio di conferma dei territori di loro spettanza, parte del vecchio, amplissimo dominio che i Guidi avevano costituito tra Tuscia e Romania: si può allora supporre che in quell'anno fosse maggiorenne e non da molto.

Da allora in avanti il G. compare con posizioni via via sempre più autorevoli nel campo dei ghibellini toscani assumendo un ruolo importante negli scontri che a cavallo del 1250 Firenze, insieme con le sue tradizionali alleate, ebbe nei confronti di Pisa, Siena e Pistoia. Nel 1252 lo troviamo testimone in un documento di pagamento ai cavalieri della Lega ghibellina "in castro Fighine" (Davidsohn, II, p. 562 n. 2). Ma in questa fase, d'altro canto, il G. dimostrò l'opportunismo che anche in seguito avrebbe segnato la sua condotta, stipulando, nel settembre, un trattato con la Parte guelfa di Firenze che permetteva a lui e ad altri fuorusciti il rientro in città.

Ciò non significava, comunque, che il G. avesse abbandonato progetti più ambiziosi ma solo che doveva anche fare i conti con la realtà, resa ulteriormente cruda dai costi comunque sostenuti negli anni di scontro aperto. Non a caso dovette anch'egli in quel periodo accettare, come i cugini dei vari rami della dinastia, di cedere a Firenze i diritti su alcuni importanti centri - Empoli, Cerreto, Vinci, Montemurlo e Montevarchi - per far fronte alle difficoltà derivanti dal grave dissesto economico che aveva colpito la famiglia. Iniziavano, comunque, lunghi anni di attesa di un reale riscatto, durante i quali gli scontri che coinvolsero più o meno costantemente le città e le famiglie toscane videro sempre il G. muoversi abilmente e stringere rapporti sempre più fitti con la ghibellina Siena al punto che, mentre i guelfi fiorentini si rivolgevano a lui e agli altri esiliati ghibellini nella speranza di ottenere un risultato che li aiutasse nella lotta contro Siena, proprio il G. e gli altri capi della parte ghibellina, stando alle fonti, tenevano costantemente informate le autorità di Siena sulle proposte che venivano loro avanzate.

Il G. sperava infatti di rientrare prima o poi in Firenze non solo ai danni dei guelfi ma anche del regime di popolo: l'occasione maturò con la giornata di Montaperti, quando il G. guidò le schiere ghibelline in campo. La vittoria gli spianò la strada per il ritorno: già il 25 nov. 1260, poco meno di tre mesi dopo il famoso scontro del 4 settembre, il conte Giordano di Anglano, vicario di Manfredi re di Sicilia, nominava il G. podestà per due anni.

Tale restaurazione del potere ghibellino trovava quindi nell'appoggio svevo un puntello fondamentale. Tutte le istituzioni di popolo vennero soppresse, a cominciare dal Consiglio degli anziani, dal capitano, dalle società armate e dalle altre magistrature. La presenza continua a Firenze di truppe tedesche garantiva la tenuta del regime. Una volta assunto il potere e data una relativa calma alla città, il G. tentò anche di recuperare il rapporto con il pontefice, forse perché si rendeva conto di quanto fosse importante l'appoggio della Chiesa per mantenere il suo potere, ma il papa, Urbano IV, non si mostrò favorevole a tale accordo. I successivi e continui scontri dei ghibellini con i loro tradizionall rivali portarono nel frattempo, nonostante le vittorie conseguite, a gravi conseguenze sul piano della stabilità finanziaria, al punto che il G. dovette intervenire a più riprese sulla tassazione dei cittadini fiorentini.

Nel 1264 moriva Farinata degli Uberti, vecchia guida della Parte ghibellina: il G. rimase così capo pressoché incondizionato e la sua persona acquistò un sempre più forte prestigio presso Manfredi, dal quale fu nominato nel 1264 suo vicario per la Toscana, con il potere di procedere, a sua volta, alla nomina di podestà nelle varie città toscane.

I legami con Manfredi erano, a parere del Davidsohn (II, p. 725), rafforzati dal fatto che il G. aveva sposato una figlia illegittima di Federico II. Diverso è quanto sostenuto nel Litta, secondo cui il G. ebbe tutti i suoi figli da Gherardesca Novella di Ugolino o Gherardo Della Gherardesca. Di certo la scelta dei nomi attribuiti dal G. ai suoi discendenti - Giovanna, Federico, Manfredi e Guglielmo - riflettono pienamente la sua adesione al programma politico della casata sveva.

Il G. assumeva così per due anni, fino al 1266, un ruolo di rilievo assoluto nello scacchiere politico, anche in considerazione dell'estrema importanza che il territorio toscano assumeva nel quadro dei rapporti tra Papato e Impero. Un ruolo, però, non semplice, anche in considerazione del potere delle diverse città che intendevano fieramente difendere una loro autonomia, sebbene fedeli all'Impero; per esempio, nel 1265 i Pisani pretesero dal G. la restituzione di alcuni castelli che erano stati tolti ai Lucchesi e che, sebbene fossero in precedenza di dominio pisano, il G. aveva preso in consegna per Manfredi, ponendoli sotto la sorveglianza di Firenze. Ma, come grazie a Manfredi il potere dei ghibellini e, dunque, del G. si affermò per un breve periodo in Tuscia, così il declino del principe svevo significò un netto ridimensionamento delle aspirazioni del Guidi. L'alleanza tra Clemente IV e Carlo d'Angiò fiaccava giorno dopo giorno la parte ghibellina, proprio mentre nello schieramento avverso si andava segnalando, sempre più importante, il ruolo assunto dal cugino del G., Guido Guerra Guidi, figlio di Marcovaldo, che ormai da molti anni aveva abbracciato la causa guelfa. Proprio Guido Guerra si segnalò in un primo scontro aperto tra le truppe di Manfredi e quelle di Carlo, il 20 genn. 1266 a San Germano, che precedette di poco la definitiva sconfitta della fazione imperiale avvenuta a Benevento (26 febbraio).

Le conseguenze negative per il G. arrivarono solo in un secondo tempo: egli tentò di trovare un accordo con il papa che, nonostante l'importante ruolo assunto presso Manfredi dal G., non si dimostrò del tutto insensibile a una simile ipotesi, anche perché rimaneva comunque Corradino di Svevia a incutere un certo timore. Ma, se inizialmente il progetto del G. sembrava prendere una piega positiva - il pontefice aveva infatti accettato di concedere anche la revoca della scomunica sulla città, a patto che si giungesse a una tregua tra le parti in lotta -, ben presto gli equilibri mutarono, proprio per l'evolversi dei rapporti interni a Firenze che si fecero infuocati, tanto che in novembre il G. preferì fuggire dalla città, scortato da tre membri del Consiglio dei trentasei, una magistratura da poco istituita allo scopo di favorire la pacificazione fra i diversi schieramenti.

In maniera tanto poco onorevole si chiudeva la fase più felice della parabola politica del G. il quale, comunque, ancora per diversi anni mantenne un ruolo di spicco in ambito toscano. Nell'ultimo tentativo di ripristinare il potere svevo fu a fianco di Corradino fino alla sconfitta definitiva di questo, avvenuta a Tagliacozzo il 23 ag. 1268. In seguito cercò nella città di Siena un altro alleato: è qui che lo ritroviamo guidare le schiere cittadine nella sfortunata battaglia di Colle Val d'Elsa contro i guelfi fiorentini (giugno 1269), per poi ricoprire, l'anno successivo, la carica di podestà, capitano generale e capitano del Popolo. In questa nuova veste il G. tentò anche, ma invano, di stringere un'alleanza con Carlo I d'Angiò, re di Sicilia. Pur di ottenere qualche risultato, consegnò come ostaggi al sovrano due suoi figli, Giovanna e Federico, i quali per lungo tempo rimasero nelle mani del re. Quando si giunse a un accordo tra guelfi e ghibellini in Siena, non solo il G. venne esonerato dalle cariche, ma si trovò a dover fronteggiare una lotta aperta che Carlo intraprese nei confronti suoi e del fratello Simone, ordinando di attaccare i loro beni: i due castelli di Ganghereto e Gava furono i primi a cadere. Quando si giunse, nel 1273, agli accordi di pace tra le parti, le condizioni per Simone e il G. furono particolarmente dure perché, sebbene prosciolti dai tanti bandi che li avevano colpiti, fu preteso che i due figli del G., da poco tempo restituiti alla famiglia, tornassero in qualità di ostaggi presso il sovrano angioino insieme con Manfredi, un altro dei figli del Guidi.

Nonostante ciò anche negli anni successivi, non appena se ne presentò l'occasione, il G. tentò di riattivare la fazione ghibellina in Toscana e nel 1275, mentre ricopriva l'incarico di podestà a Faenza, egli vide, al pari degli altri ghibellini, la possibilità di ridare vita alle proprie aspirazioni per il tentativo di spedizione di Rodolfo d'Asburgo. Ma anche gli scontri di questi anni furono tutt'altro che favorevoli alla sua parte, tanto che gli veniva vietato l'ingresso in Firenze finché il papa non glielo avesse riconcesso. Nel 1282 l'alleanza antiangioina capeggiata da Pietro d'Aragona cercò nel G. il referente per la Toscana: ma anche questa volta non vi fu alcuna conseguenza positiva.

Il tramonto definitivo della sua vicenda doveva avvenire con la sconfitta di Campaldino del 1289, anno in cui lo ritroviamo podestà del Comune di Arezzo, all'epoca controllato da forze ghibelline.

Sembra anche che il G. rinunciò a intervenire attivamente nello scontro con i suoi uomini, facendo così venire meno l'unica possibilità di riprendere una battaglia iniziata favorevolmente per la sua parte ma che poi aveva visto un capovolgimento di fronte grazie alla coraggiosa e audace iniziativa di Corso Donati: sul G. ricadde così buona parte della responsabilità di tale storica sconfitta.

Comunque, in quello stesso anno prese parte alle trattative che i ghibellini fiorentini fuorusciti intesserono con Firenze per rientrare in città, ma la diffidenza nei loro riguardi non fece approdare a una soluzione per loro favorevole. Inoltre, nel 1290, quando i Fiorentini mossero contro Arezzo, i possedimenti e i castelli del G., fra cui quello di Poppi, furono devastati. Ormai avanti negli anni, il G. non partecipò personalmente ai combattimenti: doveva avere all'incirca sessantacinque anni quando morì, nel 1293.

La lunga vita attiva del G. e la relativa abbondanza documentaria che ne attesta le varie fasi hanno fatto sì che egli venisse fatto oggetto di accorte e puntuali descrizioni da parte di diversi studiosi, nell'ambito di ricerche attinenti alle complesse vicende toscane del secolo XIII. In particolare, molto spazio è stato a lui dedicato, nella Storia di Firenze, da Robert Davidsohn il quale ne ha evidenziato le contraddizioni, gli slanci mistici e l'ammirazione per Francesco d'Assisi che convivevano con la fede nell'astrologia - per molti anni si fece accompagnare da un indovino e astrologo, Guido Bonatti -, il desiderio del buon vivere in terra e quello di assumere un potere sempre più solido. Sempre il Davidsohn ricorda che, durante i giorni decisivi dello scontro in Firenze nel 1265, egli non si rendesse conto della gravità dell'ora e che spendesse il suo tempo dilettandosi con il gioco degli scacchi, con l'arabo Buzzecca che si esibiva in partite simultanee nel palazzo del podestà, proprio allora costruito. Ma se sul piano strategico e politico la sua figura non fu particolarmente brillante, pure certi giudizi negativi espressi non solo dal Davidsohn sulla sua persona sembrano influenzati da un certo modo moraleggiante di fare storia più che da un'attenta analisi della sua figura, i cui insuccessi andrebbero semmai letti nel più ampio contesto del fallimento consumatosi nella seconda metà del Duecento degli ideali ghibellini, ai quali il G. non venne mai meno.

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