TARLATI, Guido

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TARLATI, Guido

Pierluigi Licciardello
Gian Paolo G. Scharf

– Nacque verso il 1270, ad Arezzo o in uno dei castelli della famiglia, da Angelo di Tarlato.

Il lignaggio da cui discendeva è noto come Tarlati o da Pietramala. Il primo cognome nasce dal soprannome di un avo, mentre il secondo prende origine dal principale castello detenuto dalla famiglia, a poca distanza dalla città. Si trattava di una casata di tradizione signorile e ‘castellana’, inurbatasi nel XII secolo e affermatasi nella politica cittadina nel secolo successivo.

La versatile strategia dei Tarlati riservò a ogni membro del vasto consortile un ruolo differente, nei vari campi dell’eminenza sociale, non ultimo quello della Chiesa aretina, per tradizione molto forte nel condizionamento dell’azione comunale. Conformemente a ciò Guido Tarlati fu avviato abbastanza presto alla carriera ecclesiastica e il primo documento che lo riguarda ce lo mostra canonico della cattedrale nel 1299. I successivi gradini furono ascesi abbastanza velocemente: nel 1302 era arciprete della Pieve, seconda chiesa della città, ma ciò non comportava il fatto che dovesse rinunciare al seggio in cattedrale, poiché nella particolare situazione aretina le due chiese erano giuridicamente unite dal 1252. Negli stessi anni cumulò anche la carica di pievano di S. Antimo, nella vicina diocesi tifernate e in una zona molto vicina agli interessi signorili della famiglia (Valcerfone).

Un’intensa azione ecclesiastica, che anche successivamente lo caratterizzò, in tutte le mansioni pastorali, permise che il suo nome e le sue attitudini fossero conosciute in città: come pievano di S. Antimo provvide all’amministrazione della sua pieve che non sembra aver risentito della vicinanza degli interessi familiari; come arciprete della Pieve urbana si distinse soprattutto per catalizzare i lasciti post mortem degli usurai o presunti tali, che in questo modo volevano conquistarsi l’assoluzione.

Oltre a mettere nelle sue mani un ingente patrimonio, ciò gli permise di ‘egemonizzare’ il clero urbano. Il capitolo cattedrale del resto, come specchio fedele della situazione politica cittadina, era diviso in fazioni e Tarlati si impose a capo di quella che bordeggiava le simpatie ghibelline prevalenti in Arezzo.

In un primo momento tale posizione non ostacolò la sua carriera ecclesiastica e nel 1312, alla morte del precedente vescovo Ildebrandino Guidi, Tarlati fu eletto alla cattedra aretina dal clero diocesano e confermato dal pontefice il 7 luglio. Pur essendo stato al seguito di Enrico VII tra l’ottobre e il dicembre del 1311, fu capace di presentarsi in un primo tempo come pacificatore ed esecutore in città della politica di conciliazione del sovrano. In questo clima crebbe anche il suo peso politico nel Comune, grazie pure al forte ascendente che la carica vescovile ancora conservava ad Arezzo.

Tale ruolo politico era noto anche fuori dalla città, come prova una lettera della signoria fiorentina a lui diretta nel 1314, nella quale gli si riconosceva già il compito di arbitro della politica aretina. Si potrebbe quindi pensare a una signoria ‘occulta’, prima del riconoscimento formale da parte del Comune cittadino.

Gli anni 1314-21 furono fondamentali per la costruzione del consenso e per il consolidamento del potere, in un periodo di non belligeranza con le città vicine. Gli accordi con Firenze (29 settembre 1314) e con Siena (26 gennaio 1315) lasciarono agli aretini la libertà di estendere la loro egemonia su Lucignano e Monte San Savino, in Valdichiana, mentre, pur senza rompere formalmente la pace con i fiorentini, un contingente di cavalieri, sotto la guida di Pier Saccone Tarlati (v. la voce in questo Dizionario), fratello di Guido, partecipò alla battaglia di Montecatini (29 agosto 1315). Nel frattempo il vescovo ricevette la sottomissione, a titolo personale, di vari castelli del Casentino: Vogognano, Subbiano, Tulliano, Raggiolo (già dei conti Guidi), e nel 1321 acquistò Valenzano, Chiusi della Verna e Montefatucchio. Con questa mossa si rafforzava la presenza del vescovado aretino nella viscontaria della Montagna, dove già deteneva vari castelli, tra cui Bibbiena e Gressa. In questi anni Tarlati fu molto attivo anche nel governo della Chiesa aretina, reprimendo il dissenso religioso, regolamentando i movimenti nati spontaneamente dal basso e disciplinando ospedali e compagnie laicali.

Nel 1314 condannò un gruppo di spirituali francescani che avevano occupato i conventi di Arezzo e Asciano, e nel 1318 scacciò i fraticelli dalle Celle di Cortona e dalla chiesa di S. Maddalena a Valbona. Dette inoltre una regola alle recluse di S. Maria al Ponte delle Gagliarde ad Arezzo e alle religiose di S. Croce a Civitella, nonché ai tre eremiti senesi fondatori di Monte Oliveto (26 marzo 1319). Approvò gli statuti della compagnia dei disciplinati della Ss. Trinità e del Crocifisso di Arezzo, concesse indulgenze (1315-16), favorì la nascita degli ospedali di S. Agostino (o del Vescovado) e di S. Maria dell’Oriente. Inoltre, concesse indulgenze ai due grandi santuari diocesani di S. Margherita a Cortona (1320) e della Verna (1322).

Promosse inoltre importanti lavori urbanistici ad Arezzo, in un momento di congiuntura economica favorevole, edificando un nuovo circuito murario (dal 1319), riparando le vie di comunicazione e risanando il lago del Comune in Valdichiana. Commissionò anche importanti opere ai migliori artisti dell’epoca, chiamando a lavorare in città il senese Pietro Lorenzetti (al polittico della Pieve, 1320) e il fiorentino Buonamico, detto Buffalmacco (nella cappella Tarlati in cattedrale). In cattedrale, inoltre, proseguì i lavori, rimasti interrotti nel 1289 per la morte del vescovo Guglielmino Ubertini, e li condusse fin quasi all’attuale facciata.

In politica interna operò un riavvicinamento con le principali famiglie guelfe, accogliendo tra i suoi consiglieri Bico Albergotti, che troviamo al suo fianco fin dal 1314, e strinse un’ampia rete di relazioni personali, sancite anche da giuramenti di fedeltà in forma vassallatica, con personaggi appartenenti a vari strati sociali. Perseguì anche un’accorta politica fiscale, rivedendo le imposizioni a detrimento del contado e a favore della città, e mise mano a una nuova redazione statutaria, le cui norme sono confluite nello statuto redatto all’indomani della sua morte, nel 1327 (il primo di Arezzo conservato per intero).

Punto di arrivo di questa intensa e molteplice attività fu la nomina a signore, che gli fu concessa dal consiglio comunale aretino il 14 aprile 1321 per un anno e il successivo 6 luglio a vita, «nemine discordante» (Annales Arretinorum maiores et minores, a cura di A. Bini - G. Grazzini, in RIS, XXIV, I, 1909-1912, p. 16). La signoria non comportò l’abolizione delle istituzioni comunali, perché furono lasciati in vita il consiglio e il podestà, ma i podestà furono reclutati tra le famiglie ghibelline, soprattutto in quelle terre, come le Marche, che erano favorevoli alla linea politica del signore.

Tarlati intraprese invece una politica aggressiva contro le signorie locali del territorio aretino (soprattutto in Casentino e in Valtiberina), per ricompattare sotto la sua autorità l’antico comitato e per estendere l’egemonia aretina sull’alta Valtiberina, una zona strategica per il controllo delle comunicazioni verso le Marche e quindi verso l’Adriatico. Tra il 1322 e il 1324 sottomise i castelli di Chiusi della Verna, Montalone, Fronzola (avamposto contro Poppi, centro del potere dei Guidi in Casentino), Castel Focognano, Rondine e Caprese, tentando inutilmente di prendere Casteldelci, feudo dei della Faggiola. Si mosse però prudentemente contro Firenze e Siena, fornendo soltanto aiuti al ribelle senese Deo dei Tolomei (dicembre del 1322).

La sua azione più significativa fu la conquista di Città di Castello, dove entrò il 2 ottobre 1323 con l’aiuto degli esuli ghibellini, scacciando il signore Branca Guelfucci e il vescovo titolare, Ugolino della Branca. Quest’ultima mossa non fu tollerata dal papa Giovanni XXII, cui non era sfuggito il sostegno dato da Tarlati alle rivolte ghibelline che avevano agitato l’Umbria e le Marche.

Nel 1319 Muzio di Francesco era salito al potere ad Assisi con l’aiuto di Tarlati, che si era impadronito del tesoro pontificio per la somma di 14.000 fiorini. Da Assisi la rivolta si era estesa a Nocera Umbra e a Spoleto, dove il vescovo di Arezzo aveva inviato suo fratello Pier Saccone con una schiera di cavalieri tedeschi. Quest’ultimo aveva conquistato il castello di Campello e aveva anche tentato di attaccare Rimini. Nell’aprile del 1322 il vescovo aveva inviato uomini a Urbino in soccorso di Federico da Montefeltro, ma non aveva fatto in tempo a salvarlo dalla morte, avvenuta nel corso di una sollevazione popolare. Già il 5 aprile 1320 il pontefice aveva ammonito Tarlati a desistere dalla sua attività nelle terre della Chiesa; e il 12 aprile 1324 lo scomunicò solennemente, affidando a due inquisitori di provata esperienza (Giovanni da Ancona e Servusdei da Penna San Giovanni) l’apertura di un processo per eresia nei suoi confronti.

Del processo non ci sono conservati gli atti, che forse non furono mai redatti, a eccezione di una lunga serie di deposizioni testimoniali sui fatti accaduti in Umbria nel 1319-20 (U. Pasqui, Documenti..., 1916, n. 728).

In ogni caso la condanna fu emessa entro il 18 luglio 1325, quando il vescovo, riconosciuto colpevole, fu dichiarato decaduto dalla sua carica. Da questo momento il dissidio con il papato diventò insanabile e le posizioni dei contendenti si radicalizzarono. Giovanni XXII infatti dapprima esentò i cittadini di Cortona dal pagamento di un censo di 1000 fiorini che dovevano all’episcopato aretino (18 maggio 1325), quindi promosse la città a sede diocesana, decurtando una parte del territorio diocesano di Arezzo, e vi insediò come vescovo Ranieri Ubertini (19 giugno 1325); deposto Tarlati dalla cattedra aretina, lo sostituì con il fratello di Ranieri, Boso Ubertini, preposto della Canonica, nominato vescovo il 5 dicembre 1326.

Tarlati non riconobbe questi atti, e continuò a esercitare il suo potere su Arezzo e Città di Castello, tentando invano di occupare Cortona difesa da forze perugine. Punì severamente gli Ubertini, esiliandoli, distruggendone i castelli, facendo inserire nello statuto comunale una norma che li condannava per la perdita di Cortona; e si legò ancor più alle forze ostili a Firenze e alla Chiesa.

Dette così ospitalità a Muzio di Francesco, ricercato dall’Inquisizione, e inviò una schiera di 300 cavalieri in aiuto a Castruccio Castracani, vittorioso contro i fiorentini nella battaglia di Altopascio (23 settembre 1325). Conquistò Bucine e Laterina, centri storicamente aretini, che i fiorentini avevano preso dopo Campaldino, nel Valdarno; riprese con la forza Lucignano e Monte San Savino, tornati nelle mani dei senesi, distruggendo quest’ultimo dalle fondamenta. Attaccò inoltre Fratta (Umbertide) e continuò a sostenere i ghibellini marchigiani: il 29 gennaio 1326 scrisse una lettera ai signori di Fermo, Baccalario e Mercennario Filismini, per coordinare un attacco contro le due città delle Marche fedeli al pontefice, Ascoli e Ancona.

Rispose infine all’appello di Ludovico il Bavaro, anch’egli condannato per eresia, che agli inizi del 1327 stava scendendo in Italia per reclamare la corona imperiale e per sostenere il partito ghibellino. Fu con l’imperatore a Trento nel gennaio del 1327 e lo accompagnò a Milano, dove lo incoronò re d’Italia il 13 maggio; con lui si portò a Pisa per preparare un attacco contro Firenze (6 settembre 1327). Qui si accese un diverbio con Castruccio Castracani e il vescovo, offeso e amareggiato, lasciò la città per fare ritorno alle sue terre.

Al campo imperiale aveva contratto una febbre malarica che lungo la via del ritorno lo portò alla morte, avvenuta a Montenero sull’Amiata, il 21 ottobre 1327. In fin di vita volle chiedere perdono al pontefice e riconciliarsi con la Chiesa.

Tarlati fu sinceramente compianto dagli aretini e il fratello e successore Pier Saccone volle celebrarne la memoria con un magnifico monumento funebre, realizzato nel 1330 dai senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura.

Lasciò il ricordo di un principe magnifico, di un nobile e magnanimo signore, capace di portare la sua città al massimo dello splendore e di farla uscire da una dimensione locale, inserendosi da protagonista, come leader del ghibellinismo italiano, nelle vicende dell’Italia centrale. Ma in un giudizio storico equilibrato non devono sfuggire gli elementi di debolezza e di incertezza che si addensarono nei suoi ultimi anni di vita: la scomunica e l’interdetto sulla città, la crescente tensione con Firenze e con Siena, mentre la Chiesa e la lega guelfa reclamavano la restituzione di Città di Castello.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Notarile Antecosimiano 9934-9937 (notaio Giunta di Mencio da Montelucci, 1316-1324); Annales Arretinorum maiores et minores, a cura di A. Bini - G. Grazzini, in RIS, XXIV, 1, Città di Castello 1909-1912, pp. 15-22, 43 s.; U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo nel medioevo, II, Firenze 1916, nn. 704-744, passim; Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, II, Parma 1991, libri X, capp. 71-346, e XI, capp. 3-36.

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