Groot, Huig van

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Giurista, filosofo, teologo e filologo olandese (Delft 1583 - Rostock 1645). Considerato il fondatore del diritto naturale, o giusnaturalismo, moderno, nella sua opera principale De iure belli ac pacis (1625), in cui sostenne l'esistenza di un diritto internazionale, si avverte  un maggiore distacco da preoccupazioni di ordine teologico e un più vivo senso di autonomia della ragione rispetto a un Tommaso o a un Suarez, alle cui dottrine possono essere avvicinate alcune sue formulazioni. La mentalità di G. è quella di un umanista cristiano, di tradizione erasmiana; egli cerca, al di sotto di un sistema teologico o di un sistema di norme giuridiche, una trama razionale che ne costituisce l'essenza e che sorregge le altre componenti non sostanziali.

Vita e pensiero

D'ingegno precocissimo, si laureò in legge a quindici anni, quindi esercitò l'avvocatura, ma non rinunciò agli studi umanistici e teologici. Partecipò attivamente alle lotte politico-religiose del suo paese, prendendo partito, nella controversia tra arminiani e gomaristi, per i primi. Condannato all'ergastolo dopo la condanna subita dall'arminianesimo nel sinodo di Dordrecht (1619), riuscì a evadere e si rifugiò in Francia, dove nel 1625 pubblicò De iure belli ac pacis. Fu poi ad Amburgo e a Stoccolma, chiamatovi da Gustavo Adolfo che lo nominò (1634) suo ambasciatore a Parigi. Sfuggito a un naufragio durante un viaggio che lo avrebbe riportato in patria, riparò a Rostock dove si ammalò e morì. Nei prolegomeni al De iure belli ac pacis troviamo un'affermazione di giustizia universale, ossia dell'esistenza di un certo numero di norme valide. Si può infatti riconoscere nell'uomo adulto, "oltre che una spiccatissima tendenza alla vita sociale ..., anche la facoltà di conoscere e di agire secondo principî generali: e quanto si riferisce a tale facoltà non è certo comune a tutti gli animali, ma è proprio della natura umana". Abbiamo dunque come dati originarî l'inclinazione alla vita sociale e la capacità di formulare norme generali. Questa attività razionale rivolta alla conservazione della società è la fonte del diritto propriamente detto, "il quale comprende l'astenersi dalle cose altrui, la restituzione dei beni altrui e del lucro da essi derivato, l'obbligo di mantenere le promesse, il risarcimento del danno arrecato per colpa propria, il poter essere soggetti a pene tra gli uomini" . Tutto questo sarebbe valido anche se ammettessimo che Dio non fosse o non si occupasse dell'umanità. Questo concetto dell'autonomia della ragione è ripreso anche altrove, quando G. ribadisce la razionalità del diritto, che neppure Dio potrebbe mutare, come non può influire sull'esattezza di una proposizione matematica. Il criterio per stabilire se una determinata norma è di diritto naturale o no è duplice: un criterio a priori, consistente nel commisurare tale norma alla natura razionale e sociale dell'uomo, un criterio a posteriori, consistente nello stabilire se essa è ritenuta giusta presso tutti i popoli, o almeno presso i più civili. Da queste posizioni generali discende un atteggiamento politico-religioso tollerante rispetto alle opinioni religiose, che va oltre la stessa tolleranza arminiana. Ma la tolleranza di G. non implica affatto una concezione che sia in qualche modo limitatrice della sovranità dello stato, la quale è anzi ribadita in termini sostanzialmente assolutistici. Quanto poi al problema della guerra e quindi dei rapporti internazionali, che occupa la più gran parte del De iure belli ac pacis, G. sostiene la tesi della "guerra giusta": la guerra non contrasta con la natura dell'uomo, solo che deve essere resa "legale", ossia regolata da norme internazionali.

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