I cattolici e la scuola pubblica tra conflitti e partecipazione

Cristiani d'Italia (2011)

I cattolici e la scuola pubblica tra conflitti e partecipazione

Luciano Pazzaglia

Lo Stato italiano è sorto, com’è noto, dallo sviluppo dello Stato sabaudo nell’intreccio con il più ampio movimento risorgimentale che andò facendosi strada un po’ in tutti gli Stati preunitari. Chi voglia conoscere la storia della scuola del nostro paese deve, perciò, tener conto delle linee di tendenza inaugurate dalla politica scolastica del Regno di Piemonte e di Sardegna. In quest’ottica merita, intanto, rilevare che l’art. 1 dello Statuto concesso nel 1848 da Carlo Alberto riconosceva il cattolicesimo religione dello Stato. Si trattava di un riconoscimento che, come si vedrà, avrebbe a lungo fatto sentire il suo peso. Occorre altresì ricordare che, quando Carlo Alberto decise di concedere lo Statuto, il ministro della Pubblica istruzione Cesare Alfieri di Sostegno avrebbe desiderato che la Carta costituzionale predisponesse alcuni precisi impegni anche in tema di scuola: ma, alla fine, si preferì non fare alcun cenno al riguardo. Questa scelta doveva, naturalmente, esporre la materia scolastica alla discrezionalità del governo e del Parlamento. In realtà, non fornendo la Carta alcuna indicazione in proposito, fu la legislazione ordinaria che venne fissando gli orientamenti di fondo del sistema dell’istruzione prima e dopo l’Unità. Se si tiene conto che il potere civile era allora proteso a consolidare le proprie strutture anche riguardo al potere religioso, non è difficile immaginare la linea portante di quella che sarebbe stata la politica scolastica dei decenni successivi. Nel campo dell’istruzione i governi del Regno sabaudo e poi del Regno d’Italia, al di là delle teorie cui dicevano di voler improntare la loro azione a tutela delle libertà individuali, si volsero ad affermare il primato e le competenze dello Stato, con l’inevitabile ridimensionamento del ruolo della Chiesa nella scuola pubblica e dei privilegi di cui le scuole da essa dipendenti avevano fino ad allora goduto. Ma la Chiesa, com’è intuibile, non si adattò tanto facilmente a vedere circoscritta la propria sfera d’azione e continuò comunque a rivendicare la piena conformità di tutto l’insegnamento con i principi della dottrina cattolica.

L’intransigentismo cattolico e la libertà d’insegnamento

L’indirizzo della politica scolastica piemontese era sufficientemente delineato fin dalla legge Boncompagni del 2 agosto 1848 che assegnava al ministro della Pubblica istruzione del Regno sabaudo la direzione di tutti gli istituti scolastici pubblici e privati, lasciando un certo spazio all’intervento dell’amministrazione circa i criteri per regolarizzare i titoli dei religiosi e delle religiose che ambivano all’insegnamento e per concedere il riconoscimento della qualifica alle scuole private che ne avessero fatto domanda. Nel 1857 il Parlamento subalpino, durante la discussione del disegno della cosiddetta legge Lanza, approvava un ordine del giorno che riconosceva, in maniera esplicita, il principio della libertà d’insegnamento, ovvero la libertà dei privati di dar vita a scuole proprie. La concezione cui si faceva riferimento era però quella, come allora si disse, di una ‘libertà regolata’, in modo da evitare che un eccesso d’autonomia finisse con il mettere in moto alcune spinte centrifughe in contrasto con le esigenze intrinseche degli sviluppi dello Stato. La normativa della legge Lanza consentiva, invero, ai cittadini l’esercizio del diritto di fondare e gestire istituti scolastici, ma si guardava dall’ammettere le scuole private a godere dei sostegni dell’erario e dell’autonomia didattica.

Il principio della libertà vigilata sarebbe rimasto anche alla base della legge Casati 13 novembre 1859, n. 3725, varata dal Piemonte alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza e destinata a diventare la legge fondamentale del sistema educativo postunitario. Vale forse la pena di rilevare come, nella scelta dei soggetti imputati a farsi carico del finanziamento dei vari settori dell’istruzione, la Casati rivelasse l’impostazione elitaria che la classe alla guida dell’Italia legale aveva inteso darle: infatti, mentre per il finanziamento dell’istruzione superiore e di parte della secondaria (ovvero del liceo classico) era previsto che si utilizzassero le casse dello Stato, per gli altri ordini di scuola e soprattutto per le elementari era stabilito di ricorrere ai bilanci, per la verità non molto floridi, delle autonomie locali. Stante tale situazione, non deve meravigliare che l’analfabetismo abbia continuato a costituire, per il paese, una delle sue piaghe più persistenti.

Tuttavia, se la linea di sviluppo della politica scolastica del Regno sabaudo e poi del Regno d’Italia si mosse all’insegna di una certa demarcazione fra le istituzioni pubbliche e la società, la borghesia liberale che accompagnò la nascita dello Stato unitario non si propose di scardinare Dio dalle coscienze, infrangendo lo stretto legame che tradizionalmente univa il civis e il fidelis. A tale riguardo è sufficiente ricordare che, in linea per altro con l’art. 1 dello Statuto, la legge Casati poneva l’insegnamento della religione cattolica tra le materie costitutive dei programmi scolastici delle elementari, mentre per le secondarie era contemplata addirittura la figura di un direttore spirituale. Non meno interessanti erano alcune delle disposizioni predisposte per l’istruzione superiore. Infatti, la legge del 1859, se prescriveva che il privato docente esercitasse la propria attività all’interno delle università di Stato impedendo di fatto che potessero nascere università private con rilevanza pubblica, all’art. 106 disponeva che fossero suscettibili di punizione tutti quei docenti universitari che avessero impugnato con gli scritti o con l’insegnamento i principi della religione e della morale cattolica. Si aggiunga che il Regolamento attuativo della Casati per le scuole elementari stabilì che ogni scuola era tenuta a essere fornita, tra le altre suppellettili, di un crocefisso (RD 15 settembre 1860, n. 4336). Solo l’inasprirsi del conflitto fra Stato e Chiesa doveva spingere la borghesia liberale ad attestarsi su posizioni più marcatamente anticlericali1, in parallelo con la contestazione con la quale, dall’altra parte, la Chiesa decise di contrastare lo Stato e le istituzioni pubbliche fino alla preclusione imposta ai propri fedeli di partecipare alle elezioni parlamentari.

Fra i primi provvedimenti decisi dalla cosiddetta sinistra storica sono da segnalare due leggi chiaramente concepite con l’intento di dare un’impronta più laica all’istruzione: la legge del 23 giugno 1877, n. 3918, che aboliva la figura del direttore spirituale nei licei, nei ginnasi e nelle scuole tecniche, e la legge del 15 luglio 1877, n. 3961 (detta comunemente legge Coppino), che, al momento di definire i programmi della scuola elementare, non parlava più dell’insegnamento della religione cattolica. Sarà però opportuno precisare che, se non si faceva più parola dell’insegnamento cattolico, non significava che tale insegnamento cessasse di esistere. Da questo punto di vista si può senz’altro affermare che il significato assegnato al silenzio della legge Coppino sull’insegnamento religioso fu ben diverso da quello con cui fu interpretata analoga disposizione introdotta, nel 1882, in Francia su iniziativa del ministro Jules Ferry. Infatti, mentre nella scuola elementare francese dopo di allora l’insegnamento della religione sarebbe stato considerato semplicemente soppresso e sostituito dal previsto insegnamento delle prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino, in Italia prevalse l’interpretazione secondo cui l’insegnamento della religione cattolica non era più materia obbligatoria ma i comuni, da cui le scuole elementari dipendevano, erano tenuti ad assicurarlo tutte le volte che le famiglie l’avessero richiesto, anche se sul piano amministrativo si sarebbe aperto un lungo e talvolta aspro contenzioso.

Com’è facile immaginare, in seguito a tali provvedimenti, gli ambienti cattolici ufficiali espressero sulla politica scolastica dei governi liberali un giudizio molto critico. Il 19 novembre 1875, nel dare notizia del programma messo a punto dalla seconda assemblea dell’Opera dei congressi (la struttura di coordinamento delle varie organizzazioni cattoliche costituita sotto l’egida del pontefice), «L’Osservatore romano» scriveva:

«L’insegnamento e l’educazione della gioventù sono divenute a poco a poco un vero monopolio del Governo. Il danno che ne proviene alla fede ed alla morale della crescente gioventù, il diritto più sacro dei parenti manomesso, la missione d’insegnare, data da Cristo alla Chiesa, misconosciuta, ed infine la oppressione della coscienza cattolica reclamano tutta l’opera nostra al riparo»2.

Nella sua opposizione alle istituzioni liberali nate dal Risorgimento, la Chiesa, che – in nome della verità di cui si sentiva depositaria – aveva a lungo sostenuto il principio del proprio monopolio educativo, non esitava a farsi ora sostenitrice della libertà d’insegnamento, ancorché al momento l’assumesse più come una ipotesi che non come una vera e propria tesi da difendere in ogni tempo e in ogni circostanza. È appena il caso di sottolineare come, presso le posizioni più chiuse dell’opposizione cattolica, la prospettiva con cui si guardava alle istituzioni educative cattoliche era quella per così dire ‘autosegregazionista’, secondo cui tali istituzioni avrebbero dovuto avere «una preminente funzione di contestazione politica e istituzionale», con compiti quindi non solo scientifici ma anche, e soprattutto, ideologici3. Fu in quest’ottica d’impianto controversistico che, nel corso degli anni Settanta, prese a diffondersi il primo movimento in favore di un’università cattolica.

Occorre però aggiungere che, se questa fu la linea seguita nei pronunciamenti ufficiali, sul piano del vissuto le cose si svilupparono in maniera meno rigida di quanto certe contrapposizioni di principio avrebbero potuto far pensare. A tale proposito sarebbe interessante conoscere quello che fu l’insegnamento cattolico attraverso analisi particolareggiate delle singole scuole e del concreto impegno dei loro insegnanti. Interessanti indicazioni provengono dagli studi condotti sulle congregazioni religiose in particolare di formazione ottocentesca, come per esempio i salesiani di don Bosco. Il grande educatore piemontese scrisse, com’è noto, una Storia d’Italia che si caratterizzava per la sua connotazione temporalista e che avrebbe dovuto precisamente servire a diffondere presso le nuove generazioni l’idea che la causa nazionale si identificava con quella papale. È però parimenti noto che la congregazione salesiana, così come molti altri istituti religiosi maschili e femminili di nuova formazione, si preoccupò di concorrere all’innalzamento delle fasce sociali più deboli, assolvendo a compiti che, per lungo tempo, neppure la scuola pubblica di Stato sarebbe stata in grado di soddisfare, quali la lotta all’analfabetismo, l’educazione popolare, l’istruzione professionale. Il contributo delle congregazioni religiose ottocentesche all’elevazione del popolo fu tanto più significativo, in quanto, nel favorire l’alfabetizzazione e l’istruzione tecnica dei ragazzi poveri e abbandonati, esse incentivarono non solo la diffusione degli strumenti formali dell’alfabeto, ma anche la promozione di alcune dimensioni come la razionalità, l’applicazione, la capacità d’iniziativa e, sul piano più propriamente civile, valori come l’osservanza delle leggi e il rispetto per le autorità costituite. Si potrebbe osservare che, nel promuovere quest’opera educativa a vasto raggio, gli istituti religiosi agirono più sulla spinta dei fatti che non per consapevolezza esplicita; va tuttavia riconosciuto come, attraverso questa capacità di adattamento alle trasformazioni socio-economiche oltre che ai bisogni delle persone, essi si ponessero ben al di là dei conflitti ideologici fra l’istruzione delle scuole pubbliche e quella delle scuole cattoliche e partecipassero in modo non irrilevante ai processi di modernizzazione della società italiana.

La forza delle cose avrebbe, per altro, finito con l’imporre un cambiamento sul piano degli orientamenti della stessa Opera dei congressi, dove, pur proseguendo nelle critiche contro la linea di sviluppo della scuola dopo l’Unità e pur ribadendo gli obiettivi strategici dell’intransigentismo cattolico – presenza dell’istruzione religiosa nei programmi scolastici, riconoscimento della libertà scolastica, fondazione di un’università cattolica –, si sarebbe cominciato a considerare la scuola pubblica con rinnovato interesse. Tra le ragioni che spinsero in tal senso ci fu, senza dubbio, la considerazione che il sistema d’istruzione attivato dallo Stato era, comunque, frequentato da numerosi figli di famiglie cattoliche e che non pochi posti d’insegnante continuavano a essere ricoperti da cattolici, e, in particolare nelle scuole secondarie, anche da sacerdoti. Rispetto a questa situazione risultava difficile disinteressarsi completamente della scuola pubblica e delle persone che in essa operavano. Non è senza significato che nel 1893 Giuseppe Tovini, noto esponente dell’Opera dei congressi, decidesse di fondare «Scuola italiana moderna», una rivista didattico-professionale (ancor oggi attiva) che avrebbe dovuto raggiungere e orientare i maestri nel loro insieme e, per il loro tramite, gli studenti e le famiglie. Tra Otto e Novecento, all’interno del movimento cattolico si prese insomma consapevolezza che, senza rinunciare a chiedere l’effettivo riconoscimento delle proprie scuole, i cattolici avrebbero fatto bene a essere presenti anche in quelle dello Stato, se volevano contribuire a diffondere il cattolicesimo nella società. Si veda, per esempio, il risalto che nel 1908 la «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie» (il periodico fondato da Giuseppe Toniolo) dava all’articolo appena uscito su «Studium» (La lotta per la scuola in Francia e in Germania) a opera di M. Spahn, il quale rilevava come, a differenza dei cattolici francesi tutti presi dalla preoccupazione di difendere la scuola libera al punto da disinteressarsi di quella pubblica, i cattolici tedeschi, pur continuando a rivendicare i loro diritti religiosi, avessero più opportunamente preferito riconoscere la scuola dello Stato e chiederne, dall’interno, la confessionalizzazione4.

Ma altrettanto emblematico delle nuove prospettive che, sulle questioni dell’istruzione, stavano facendosi strada in campo cattolico doveva risultare il dibattito che, tra Otto e Novecento, tornò ad accendersi sull’università cattolica e al quale parteciparono un po’ tutte le correnti del movimento cattolico, con il coinvolgimento di esponenti dell’intransigentismo come Tovini e don Davide Albertario, di conciliatoristi come don Antonio Stoppani, di novatori come padre Giovanni Semeria e don Romolo Murri. Per inquadrare meglio quelle discussioni, si tenga presente che dal 1882 uomini politici come il ministro della Pubblica istruzione Guido Baccelli avevano messo a punto alcuni innovativi progetti a sostegno di una maggiore autonomia universitaria, anche se, in concreto, non se ne era poi fatto nulla.

Nel 1884, in un volume dal titolo Il dogma e le scienze positive, ossia la missione apologetica del clero nel moderno conflitto tra la ragione e la fede, don Antonio Stoppani trovava del tutto singolare che, in un paese cattolico come l’Italia, dovessero essere invocate delle università cattoliche; ma, di fronte all’impronta razionalista e materialista che gli sembrava connotare l’insegnamento pubblico, conveniva sull’opportunità che l’auspicio fosse soddisfatto. A suo avviso, tuttavia, bisognava che fossero rispettate almeno due condizioni: la prima, che, all’interno dell’ortodossia, fosse ammessa una certa pluralità di concezioni culturali-filosofiche; la seconda, che non si sottraessero alle università statali i non molti professori cattolici rimasti a dare testimonianza della loro visione del mondo. Stoppani riteneva che, prima di tutto, i cattolici avrebbero dunque dovuto mettersi a studiare sul serio e concludeva che, alla fine, avrebbero forse scoperto come non ci fosse più bisogno di fondare università con il nome di cattoliche, dato che in una nazione cattolica non sarebbe stato difficile chiedere e ottenere che l’insegnamento fosse conforme ai principi del cattolicesimo. Rispetto a questa argomentazione Francesco Traniello ha giustamente osservato come, persino negli ambienti conciliatoristi, fosse non agevole giungere a concepire una diaspora di insegnanti e scienziati nella scuola pubblica al di fuori di un certo confessionalismo, «sia pure di un confessionalismo che tendeva a fare appello al principio stesso della sovranità popolare, attraverso l’idea-forza, di natura sociologica, della ‘nazione cattolica’»5.

Merita tuttavia notare come, negli ambienti cattolici, prendesse a diffondersi la convinzione che la battaglia in difesa di un’università cattolica non doveva diventare un alibi per abbandonare l’università pubblica al suo destino e che, in ogni caso, la nascita di un ateneo cattolico aveva senso solo se ci si liberava della visione autoreferenziale con cui era stato inizialmente concepito e se ci si impegnava in un serio sforzo culturale e scientifico che mettesse gli scienziati cattolici alla pari con gli altri studiosi. Queste indicazioni erano destinate ad acquistare rilevanza in particolare nelle riflessioni di Giuseppe Toniolo e, quindi, di Agostino Gemelli che nel 1921, fondando a Milano l’Università Cattolica del Sacro Cuore, avrebbe consentito il raggiungimento di un obiettivo a lungo vagheggiato.

Dal separatismo liberale al neoconfessionalismo fascista

Agli inizi del Novecento la questione scolastica dava, per altro, la stura a nuovi conflitti, anche se lo scenario e i protagonisti non sarebbero stati più gli stessi. Nelle polemiche condotte contro la Chiesa cattolica, il posto dei liberali fu infatti preso dai socialisti, persuasi che lo Stato fosse assolutamente incompetente di fronte ai problemi religiosi e che la scuola pubblica dovesse, pertanto, conformarsi al principio della neutralità più rigorosa, ovvero al principio di una laicità di tipo negativo. Indicativa fu la mozione presentata alla Camera dei deputati nel dicembre del 1906 da un gruppo di socialisti e radicali (generalmente ricordata con il nome del primo firmatario Leonida Bissolati), in forza della quale i suoi promotori, rivendicando la laicità delle istituzioni pubbliche, domandavano la soppressione di ogni forma d’insegnamento religioso, anche laddove, come nelle scuole elementari, esso continuava a resistere sia pure in termini molto marginali. Agli inizi del 1908 la mozione, sottoposta finalmente alla discussione e al voto, fu respinta, grazie in particolare all’azione del presidente del Consiglio Giovanni Giolitti che, per evitare una pericolosa rottura con la Chiesa, non esitò a prendere posizione contro i socialisti e i radicali, prefigurando quell’intesa che, d’ora in poi, si sarebbe realizzata fra le forze clericali, da un lato, e i liberali moderati, dall’altro.

Nel frattempo, il quadro si colorava, però, di nuove sfumature. Sul versante della cultura laica, a fianco della visione negativa della laicità, doveva farsi strada un paradigma di laicità diverso: quello di una laicità positiva, tendente ad ancorare la scuola pubblica a una religione, se non a una mistica, della patria. Fin dal 1907, in occasione del discorso tenuto al congresso della Federazione nazionale degli insegnanti di scuola media, Giovanni Gentile si faceva assertore della tesi secondo cui la scuola, lungi dal rinchiudersi in un’assurda e inconcludente neutralità, avrebbe dovuto fornire una vera e propria fede, poiché solo una scuola chiaramente orientata sarebbe stata in grado di concorrere alla formazione dei giovani. Non occorre sottolineare che la fede qui auspicata aveva ben poco da spartire con quella del cattolicesimo, nonostante che, limitatamente alla scuola elementare, Gentile fosse disposto ad ammettere l’insegnamento della religione cattolica, in attesa che alle superiori il suo posto potesse essere preso dalla filosofia. Ma non meno interessanti erano le tesi di cui, sul fronte dei cattolici, si faceva assertore Tommaso Gallarati Scotti, coinvolto nelle vicende della cosiddetta crisi modernista e simpatizzante della Lega democratica nazionale, il minoritario ma vivace movimento cattolico fondato da don Romolo Murri. Persuaso che i cattolici avrebbero fatto meglio a prodigarsi in favore più della libertà d’insegnamento che non della conservazione nella scuola pubblica di un’ora di religione a suo giudizio ormai senza efficacia, il patrizio milanese precisava che questa libertà andava ovviamente rivendicata non in astratto, ma nel quadro di alcuni impegni che non potevano essere più rinviati. In altri termini egli stimava che i cattolici dovessero accettare il sistema della libertà fino in fondo, in modo da non prestare più il fianco all’accusa di chiedere la libertà solo dai banchi dell’opposizione e, secondariamente, assumessero la libertà d’insegnamento non per creare un contraltare alle scuole ufficiali, ma per porre in atto alcuni progetti educativi che, stimolando l’insegnamento pubblico a migliorare la propria qualità, andassero a beneficio della cultura e del progresso civile.

Le forze liberali al governo erano però lontane dal riconoscere un sistema d’istruzione fondato sul principio di una maggiore autonomia. Durante i primi anni del Novecento, la politica scolastica italiana fu, anzi, segnata da un progressivo interventismo dello Stato. Ricordiamo a titolo esemplificativo la legge 8 luglio 1904, n. 407 (legge Orlando), che estendeva l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età, consentendo ai comuni di istituire appositi fondi che servissero a sostenere il soddisfacimento del diritto allo studio; la legge 15 luglio 1906, n. 383 (legge per il Mezzogiorno) che istituiva le prime scuole elementari statali; e, soprattutto, la legge 4 giugno 1911, n. 487 (legge Daneo Credaro), in forza della quale le scuole elementari comunali, a eccezione di quelle dei comuni capoluoghi di provincia, sarebbero passate allo Stato, anche se era previsto che i comuni continuassero a farsi carico delle spese relative ai locali, agli arredi, ai materiali didattici e ogni comune procedesse alla istituzione di un patronato (eretto in ente morale) per assicurare una certa assistenza scolastica. Alessandro Ferrari ha osservato come questo più marcato accentramento statuale, che a taluni parve rappresentare – nella continuazione del processo di unificazione nazionale – l’equivalente italiano della laicizzazione francese, finisse con il costringere i cattolici ad accantonare definitivamente ogni astensionismo e ad alzare il livello della loro partecipazione politica, se volevano evitare che «le riforme (di fatto ineludibili) si trasformassero in strumenti per una loro marginalizzazione»6.

Com’è noto, il salto di qualità dell’impegno dei cattolici nella vita politica si sarebbe avuto nel 1919, all’indomani della Grande guerra, con la costituzione del Partito popolare. Non è di certo casuale che il partito fondato da don Luigi Sturzo dedicasse il secondo dei dodici punti del proprio programma precisamente al settore dell’istruzione, per la quale si indicavano i seguenti obiettivi: «Libertà d’insegnamento in ogni grado. Riforma scolastica. Lotta contro l’analfabetismo. Educazione e coltura popolare. Diffusione popolare dell’istruzione professionale». Fin dal 1919 Sturzo ebbe modo di precisare che, se si batteva per la libertà d’insegnamento in tutti gli ordini e gradi, non intendeva mortificare la scuola pubblica statale, ma fare in modo che accanto a tale scuola coesistesse una rete di scuole che, sorte dalla libera iniziativa, servissero a favorire una maggiore integrazione fra le istituzioni pubbliche e il dispiegarsi della società nei suoi dinamismi. Nel rileggere il programma del Partito popolare si noterà come, a fianco degli aspetti politico-istituzionali quali la libertà d’insegnamento, Sturzo mostrasse di voler tenere presenti anche aspetti di carattere più sociale, quali la lotta all’analfabetismo o la diffusione popolare dell’istruzione professionale. Secondo l’ideologia classicista e retorica dell’Italia legale, dalla legge Casati in poi il liceo classico aveva continuato a rappresentare il modello formativo dei ceti dirigenti medio-alti e a costituire il miraggio della piccola borghesia umanistica alla ricerca della propria affermazione. Sturzo si era convinto che una prospettiva del genere era molto riduttiva e che, se si voleva rispondere ai nuovi bisogni del paese e avviare a soluzione in particolare alcune criticità nelle quali era impigliato il Mezzogiorno, bisognava cercare di rafforzare e diffondere il settore dell’istruzione professionale, in modo da aiutare la crescita di un ceto medio fatto di piccoli commercianti e ragionieri, di coltivatori specializzati e di conduttori di piccole aziende artigianali, di impiegati del terziario e di tecnici minori.

Il fascismo avrebbe, però, seguito tutt’altra strada. Chiamato da Mussolini alla guida del ministero, nel 1923 Giovanni Gentile procedette alla riforma dell’istruzione, che, ponendo al centro il liceo classico quale via privilegiata per la formazione delle classi dirigenti del nuovo Stato, ribadiva e rafforzava l’immagine elitaria e selettiva della scuola italiana. I successori di Gentile all’Istruzione – l’ingegnere Giuseppe Belluzzo (che si propose di dare maggiore peso agli studi scientifici e tecnici) e Giuseppe Bottai (che fece un tentativo per aprire i programmi scolastici al lavoro), ambedue cattolici – cercarono di mutare questo indirizzo, ma per tutti gli anni del regime fascista la scuola avrebbe continuato a conservare, pressoché intatta, l’impronta che da tempo la caratterizzava.

Significativamente più rilevanti rispetto ai contenuti della tradizione liberale sarebbero stati gli elementi di novità introdotti dalla riforma Gentile in tema di rapporti tra Stato, cultura e società. La riforma assicurava, infatti, l’insegnamento della religione cattolica come parte integrante dell’istruzione promossa dalla scuola elementare. Notiamo come, in linea con quanto sostenuto fin dal 1907, Gentile assicurasse la presenza di tale insegnamento nei programmi della scuola primaria e non ai livelli successivi dell’istruzione, dove, a giudizio del ministro, esso avrebbe dovuto essere sostituita dalla filosofia. La riforma Gentile prevedeva, inoltre, l’introduzione degli esami intermedi per il passaggio da un grado all’altro dell’istruzione e di un esame di Stato a conclusione degli studi secondari. Tale provvedimento andava a intercettare un’insistente richiesta dei cattolici. Da tempo, infatti, essi ritenevano che, in attesa di vedere instaurarsi un sistema coerentemente fondato sul principio dell’autonomia scolastica, gli esami di Stato avrebbero comunque posto gli studenti su un medesimo piede di partenza, indipendentemente dal tipo di scuola frequentato. La riforma del 1923 consentiva, infine, ai privati di aprire istituzioni universitarie suscettibili di riconoscimento da parte dello Stato.

Se teniamo conto degli aspetti qui richiamati, non c’è da meravigliarsi che, in generale, il mondo cattolico accogliesse la riforma Gentile con diffusi consensi, anche se non mancarono i distinguo7. Il gruppo che faceva capo a «La Civiltà cattolica», per esempio, si compiaceva per il fatto che Gentile avesse riconosciuto la libertà d’insegnamento, ma lamentava che la scuola pubblica continuasse a godere di una situazione di privilegio. Padre Gemelli e i vertici dell’Azione cattolica (Ac) erano ovviamente molto soddisfatti per le nuove prospettive aperte sull’università, oltre che per l’importanza assegnata all’insegnamento religioso nelle elementari, ma criticavano l’impianto idealistico su cui la riforma gentiliana poggiava. Appena furono varati i provvedimenti sull’università, il rettore della Cattolica non perse comunque tempo e, grazie anche al beneplacito del ministro, ottenne che il proprio ateneo, fino a quel momento sorretto dalla sola sanzione canonica, ricevesse anche la sanzione giuridica, in virtù della quale avrebbe cominciato ad allocare titoli con valore legale.

Una posizione a sé assunsero gli esponenti del Partito popolare. Essi, pur accogliendo con favore le disposizioni della riforma del 1923 sull’insegnamento religioso, sull’esame di Stato e sulle università libere, non mancarono di richiamare l’attenzione sul carattere strumentale che, nella visione di Gentile, quelle disposizioni avevano. In effetti, come sull’insegnamento religioso nelle elementari, così anche sulla questione della libertà d’insegnamento la convergenza fra i cattolici e il titolare dell’Istruzione era in gran parte fittizia. Gentile aveva invero accettato d’introdurre l’esame di Stato non perché volesse effettivamente mettere le scuole non statali su un piede di parità con quelle pubbliche, ma perché riteneva che le prove predisposte e gestite dallo Stato dovessero costituire un filtro per scremare gli allievi migliori destinati a coprire i posti di responsabilità nella vita pubblica. Pertanto, nell’ottica del ministro, le scuole non statali dovevano servire, non come voleva Sturzo, a raccordare lo Stato e le sue istituzioni con la società, ma più semplicemente a raccogliere e a seguire gli studenti non in grado di far fronte alla selezione che, attraverso l’opera delle sue scuole, lo Stato avrebbe attivato per formare e reclutare la classe dirigente.

La riforma di Gentile fu definita da Mussolini la più fascista delle riforme, ma la visione del capo del fascismo era molto più spregiudicata di quella del suo ministro dell’Istruzione. In realtà Mussolini, preoccupato com’era di accrescere attorno a sé il consenso della Chiesa, non esitò ad accantonare il suo ben noto anticlericalismo e a utilizzare la religione come instrumentum regni. Nel 1929, al termine di lunghe trattative, fascismo e Santa Sede sottoscrivevano i Patti del Laterano, che mettevano termine alla questione romana. Ricordiamo che, in apertura, il trattato del Laterano confermava, consacrando in forma ancora più solenne, l’art. 1 dello Statuto albertino, secondo cui la religione cattolica era da considerarsi religione dello Stato. Ma, com’è noto, il trattato era accompagnato da un Concordato che i due contraenti avevano sottoscritto per regolare le cosiddette materie miste, tra le quali anche la questione scolastica. In forza degli artt. 35 e 36 il Concordato non solo faceva proprie le disposizioni in materia di esame di Stato, ma soprattutto poneva l’insegnamento della religione cattolica a fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica in ogni suo ordine e grado, ben oltre dunque il settore della scuola elementare. Se a ciò si aggiunge l’art. 29, che aboliva le limitazioni poste agli ordini religiosi dalla precedente legislazione consentendo alle loro scuole di usufruire con maggiore facilità di alcuni istituti come il pareggiamento, possiamo senz’altro dire che il separatismo difeso dalla tradizione liberale aveva ormai ceduto il posto a una prospettiva di stampo chiaramente neoconfessionale8. Non è del resto a caso che, di fronte agli accordi intervenuti fra Stato e Chiesa, Gentile, il quale credeva nel valore assoluto dello Stato e nella preminenza della filosofia sulla religione, manifestasse la sua profonda contrarietà.

Gli storici hanno rilevato, per altro, come gli accordi del 1929 poggiassero su un fraintendimento, se non su un inganno, che i due contraenti avevano dissimulato, ma che non avrebbe tardato a manifestarsi nello scontro che subito essi avrebbero avuto proprio sul tema dell’educazione della gioventù. Mussolini accedette invero a quegli accordi nella persuasione che, fra il vecchio mito cattolico e il giovane mito fascista, alla fine sarebbe stato quest’ultimo a vincere e a permeare di sé lo Stato. Ma, dal canto suo, la Chiesa si predispose a sottoscrivere i Patti Lateranensi nella speranza che, al contrario, essi fornissero le condizioni per procedere a una cattolicizzazione delle istituzioni pubbliche. Sintomatiche furono le polemiche che si accesero dopo i discorsi con i quali nel maggio del 1929, al momento in cui i Patti vennero discussi in Parlamento, Mussolini tenne a rivendicare il primato dello Stato fascista sulla Chiesa: «Lo Stato fascista – affermava il presidente del Consiglio – rivendica in pieno il suo carattere di eticità: è cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista»9. I vertici ecclesiastici non avrebbero, però, potuto sottoscrivere un’affermazione del genere. Basti ricordare il vigore con cui fin dal 14 maggio 1929 Pio XI, parlando agli allievi del collegio di Mondragone, si schierava contro il monopolio educativo e scolastico dello Stato e affermava il diritto-dovere della Chiesa all’educazione dei giovani10.

Quello che tuttavia merita notare è il fatto che il pontefice, se per un verso prendeva posizione contro lo Stato totalitario, per altro verso riconosceva allo Stato nel campo dell’educazione alcune innegabili competenze:

«In un certo modo si può dire – egli sosteneva nel citato discorso agli allievi del collegio di Mondragone – che esso [lo Stato] è chiamato a completare l’opera della famiglia e della Chiesa, perché lo Stato più di chiunque altro è provveduto dei mezzi che sono messi a sua disposizione per le necessità di tutti»11.

In termini ancora più espliciti Pio XI si esprimeva nell’enciclica Divini illius magistri del 31 dicembre 1929, anche se essa venne redatta in un’ottica naturalmente più ampia di quella riguardante le semplici vicende italiane:

«Principalmente appartiene allo Stato, in ordine al bene comune, promuovere in molti modi la stessa educazione ed istruzione della gioventù. Dapprima e per sé, favorendo ed aiutando l’iniziativa e l’opera della Chiesa e delle famiglie […]. Di poi, completando questa opera, dove essa non arriva o non basta, anche per mezzo di scuole ed istituzioni proprie […]. Inoltre lo Stato può esigere e quindi procurare che tutti i cittadini abbiano la necessaria conoscenza dei loro doveri civili e nazionali, e un certo grado di cultura intellettuale, morale e fisica, che, attese le condizioni dei nostri tempi, sia veramente richiesto dal bene comune»12.

È stato giustamente osservato come tali affermazioni imprimessero alla dottrina ufficiale della Chiesa in tema di educazione una svolta, riconoscendo che l’istruzione pubblica assolveva a un compito di grande rilievo. Da quel momento, rassicurati dalle aperture della gerarchia oltre che dalle garanzie concordatarie, numerosi insegnanti cattolici entrarono nella scuola di Stato, anche se, nel contesto politico del momento, questa scelta venne non di rado a saldarsi con l’adesione alla visione fascista di cui la scuola pubblica si faceva portatrice. Per vedere profilarsi fra gli insegnanti cattolici di tale scuola un chiaro approdo alla democrazia si sarebbero dovuti attendere gli anni della guerra, quando, sotto l’incalzare dei tragici avvenimenti bellici, molti di loro intrapresero un severo e profondo esame di coscienza13.

Il dibattito alla Costituente e l’inchiesta del ministro Gonella

Chiusa l’esperienza fascista, il 2 giugno del 1946 l’Italia optava per la Repubblica ed eleggeva un’assemblea cui era affidato di redigere la nuova Carta fondativa. Alla fine di giugno l’Assemblea costituente cominciava la sua attività, mentre a metà luglio Alcide De Gasperi formava il suo secondo governo, del quale entravano a far parte, oltre ai democristiani, le sinistre e i repubblicani. Forti del comune impegno dispiegato nella lotta di liberazione, i partiti che presero parte alla Costituente affrontarono i difficili problemi con grande apertura di spirito e di collaborazione, anche dopo il gennaio del 1947, quando le difficoltà nel frattempo insorte nella compagine governativa condussero De Gasperi a rompere l’alleanza con le sinistre. Particolarmente significativo doveva risultare il confronto che, all’interno dell’Assemblea, si sviluppò tra democristiani e comunisti; ma non meno rilevante sarebbe stato il concorso delle altre forze politiche, dai socialisti agli esponenti del Partito repubblicano e del Partito d’azione. Possiamo senz’altro dire che, grazie allo sforzo compiuto dall’Assemblea costituente, l’Italia riusciva a darsi un assetto costituzionale che le consentiva d’inserirsi nel solco del più solido costituzionalismo europeo, non solo per la visione personalista e solidarista che la Carta repubblicana faceva propria, ma anche per il modo con cui quella visione fu messa a punto e acquisita, senza alcun cedimento verso i radicali modelli di costituente giacobina14. La buona volontà dei costituenti non garantì, naturalmente, che sulle singole materie i compromessi sui quali si riuscì a trovare l’accordo fossero tutti inappuntabili e ugualmente lineari.

Nel corso della preparazione della nuova Costituzione sorse il problema se ci si dovesse occupare anche delle questioni scolastiche. Alcuni costituenti erano assolutamente contrari; ma altri, in particolare democristiani e comunisti, ritennero che si trattava di argomenti da cui non era possibile prescindere. A differenza dello Statuto albertino varato un secolo prima, la Carta del 1948 doveva pertanto contemplare anche due articoli (33 e 34) espressamente dedicati ai temi dell’istruzione, alla cui formulazione dette un particolare contributo Aldo Moro (e, per parte comunista, Concetto Marchesi). In forza dell’art. 33 veniva stabilito che arte e scienza erano libere, così come libero era il loro insegnamento; che alla Repubblica competeva di dettare le norme generali sull’istruzione e di istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi; che enti e privati avevano il diritto di promuovere scuole e istituti di educazione, sia pure ‘senza oneri per lo Stato’; che la legge ordinaria, nel varare la normativa concernente le scuole non statali richiedenti la parità, avrebbe assicurato a esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle statali15. L’art. 34, volto a tutelare il diritto allo studio e a fissarne le condizioni, precisava che la scuola era aperta a tutti; che l’istruzione inferiore, di almeno otto anni, era obbligatoria e gratuita; e che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, avevano diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi.

Per chi come Sturzo si era a suo tempo battuto per un ampio riconoscimento delle iniziative educative e scolastiche della società civile, gli orientamenti della Costituzione sopra richiamati costituirono motivo di preoccupazione, come risulta dalle note che nel 1947 il sacerdote siciliano, rientrato in Italia dall’esilio impostogli dal fascismo, scrisse a commento dell’esito verso cui il dibattito costituzionale stava ormai dirigendosi16. Egli riteneva infatti che quell’esito, recepito poi nei citati articoli 33 e 34, fosse suscettibile di evolvere verso un doppio sbocco, ovvero sia verso «un più deciso monopolio statale», sia verso «una meno impacciata libertà». In questa prospettiva decisiva sarebbe stata, secondo lui, la politica scolastica effettivamente perseguita. Sturzo chiariva una volta di più che egli era ben lungi dall’augurarsi uno smantellamento della scuola pubblica statale: «La scuola di Stato – egli affermava – è talmente stabilita nella sua struttura legislativa e burocratica, che sarebbe non solo vano ma sotto certi aspetti anche dannoso tentare di smontarla»17. Ma, a suo avviso sarebbe stato necessario che essa fosse affrancata dai pesanti vincoli cui era sottoposta. In sostanza, Sturzo riteneva che ogni scuola, statale o privata che fosse, dovesse godere della più ampia autonomia. Ma questa prospettiva, prima d’imporsi all’attenzione, avrebbe faticato non poco a farsi strada.

Il sistema scolastico destinato ad accompagnare la ripresa della vita democratica sarebbe, per altro, venuto a dipendere non solo dagli artt. 33 e 34, ma anche da altre disposizioni costituzionali, di cui, lì per lì, non si avvertirono forse tutte le implicazioni che esse avevano in campo educativo. Non si dimentichi che, sulla base dell’accordo intervenuto fra cattolici e comunisti e perseguito ai più alti livelli (per i cattolici, dallo stesso De Gasperi e, per i comunisti, dal segretario politico del Pci Palmiro Togliatti), i costituenti decisero di recepire, con l’art. 7 della nuova Costituzione, i Patti Lateranensi e il Concordato. Da parte di taluni storici si è sottolineato il valore che quell’accordo rivestiva. Senz’alcun dubbio esso contribuì a porre le premesse per un superamento delle vecchie polemiche fra clericalismo e anticlericalismo, così come concorse a favorire l’adesione della Chiesa, e delle sue organizzazioni, alle neonata Repubblica. L’approvazione dell’art. 7 avrebbe però fatto sentire tutto il suo peso, al di là dell’assicurazione fornita da Dossetti quando, intervenendo nella discussione, aveva precisato che non era intenzione dei cattolici incuneare il Concordato e il Trattato nella Costituzione. In realtà, quali che fossero le intenzioni di parte cattolica, restava il fatto che, con il richiamo al Concordato, l’istruzione pubblica avrebbe continuato ad avere nel cattolicesimo il proprio ‘fondamento e coronamento’.

I cattolici, nel frattempo, riuscivano a conquistare nella vita del paese spazi sempre più ampi. Alle elezioni del 18 aprile 1948, indette per la formazione del primo Parlamento repubblicano, la Dc otteneva una strepitosa vittoria e, alla fine di maggio, De Gasperi poteva presentare il suo quinto governo, dove alla guida della Pubblica istruzione confermava Guido Gonella, un professore di diritto formatosi nelle file della Fuci e dei Laureati cattolici, che sedeva alla Minerva (sede del Ministero della Pubblica istruzione) fin dal 1946. Non occorre ricordare che, in quelle prime elezioni parlamentari, la Dc poté ottenere un così vistoso successo anche perché sostenuta dalla imponente e diffusa rete delle organizzazioni cattoliche, dall’Azione cattolica all’Associazione dei lavoratori cattolici (Acli), oltre che naturalmente dalle parrocchie. Si tenga presente, inoltre, il sostegno che la Dc ricevette dall’associazionismo magistrale d’ispirazione cristiana: intendiamo riferirci all’Associazione italiana maestri cattolici (Aimc), che era diretta da Maria Badaloni, e all’Unione cattolica italiani insegnanti medi (Uciim), che era guidata da Gesualdo Nosengo. Sorte nel 1944, alla ripresa della vita democratica, le due associazioni si erano già distinte per il lavoro che, attraverso i loro organi di stampa, avevano svolto in appoggio alle tesi sostenute da Moro e Dossetti nella messa a punto degli articoli 33 e 34 della Costituzione. Ma, per i dibattiti sulla scuola e in particolare per l’animazione cristiana della scuola pubblica, la loro importanza era destinata a crescere18.

Fin dai primi mesi del 1947 Guido Gonella – ricordiamo che, per diversi lustri, il Ministero della Pubblica istruzione sarebbe rimasto, salvo qualche breve parentesi, appannaggio pressoché esclusivo della Dc – decise di avviare a Roma un esperimento di scuola popolare. L’iniziativa ebbe un buon risultato, tanto che il 17 dicembre 1947 il ministro fece emanare un decreto legislativo per estendere la scuola popolare a tutt’Italia. Il decreto stabiliva che tale scuola, costituita da corsi gratuiti diurni e serali, poteva sorgere, oltre che nelle sedi delle scuole elementari, anche presso altre realtà (fabbriche, aziende agricole, istituzioni per emigranti, ospedali, carceri) e sanciva che i suoi corsi si sarebbero articolati secondo i seguenti tre obiettivi: a) assicurare l’istruzione elementare a coloro che, superato il dodicesimo anno di età, non ne fossero stati in possesso; b) fornire l’istruzione del corso elementare superiore a chi avesse ultimato gli studi inferiori; c) aggiornare e rafforzare l’istruzione primaria di coloro che avessero completato gli studi superiori, dando loro l’opportunità di prepararsi a qualche attività artigiana o di proseguire, magari, gli studi. La scuola popolare, grazie anche all’appoggio che l’iniziativa trovò presso l’Aimc – fra il 1948 e il 1958 i maestri cattolici organizzarono, su tutto il territorio nazionale, 19.091 corsi popolari per adulti, coinvolgendo ben 453.539 utenti –, assolse a una funzione molto importante nella lotta all’analfabetismo. È sufficiente dire che nel 1951 la percentuale di analfabeti scendeva al 12,9% e che, nelle rilevazioni di dieci anni dopo, subiva un’ulteriore riduzione attestandosi all’8,3%. Inoltre, nell’offrire a consistenti fasce di cittadini gli strumenti per uscire dalla situazione di subalternità, la scuola popolare concorse all’arricchimento della vita sociale e allo sviluppo della democrazia nel paese.

Il nome di Gonella è tuttavia legato in via principale alla grande inchiesta sulla scuola di cui si fece promotore e per la quale, fin dall’aprile del 1947, nominava un’apposita Commissione nazionale che seguisse l’iniziativa. La sua idea era che, prima di procedere a una generale riforma dell’istruzione, sarebbe stato necessario raccogliere nella società e nel mondo del lavoro, oltre che nel settore specifico della scuola, il più ampio ventaglio di opinioni e proposte. La Commissione, articolata in diverse sottocommissioni e costituita da studiosi, uomini di scuola ed esperti rappresentativi dei vari indirizzi ideologici e culturali, operò per circa due anni, organizzando tra l’altro convegni di studio, assicurando la pubblicazione di una rivista del Ministero («La Riforma della scuola»), promuovendo ricerche specifiche e formulando questionari da sottoporre alle varie categorie di persone di cui si stimava opportuno conoscere il parere. Quella promossa dalla Commissione nazionale fu, dunque, un’inchiesta di grande momento che coinvolse diversi livelli di responsabilità, anche se i principali interlocutori sarebbero stati, ovviamente, gli insegnanti.

Negli ambienti cattolici l’inchiesta fu seguita non solo con interesse, ma anche con viva partecipazione. Basterebbe ricordare il lavoro compiuto, all’interno della Commissione, da uomini come Luigi Stefanini, Gesualdo Nosengo, Aldo Agazzi, Giovanni Gozzer e, più in generale, l’opera sostenuta dall’Aimc e dall’Uciim, ambedue impegnate nel sollecitare la base docente d’ispirazione cattolica a farsi carico dei problemi nazionali dell’istruzione nel loro complesso. I dibattiti cui le due associazioni dettero vita per preparare le risposte alle questioni elaborate dalla Commissione Gonella mostrano che sugli indirizzi generali della scuola esse erano su posizioni molto vicine. I loro punti di vista si allontanavano sulle modalità con cui si sarebbe dovuto attuare il completamento dell’istruzione obbligatoria. Infatti, mentre l’Aimc era per un triennio post-elementare per tutti come ultimo ciclo dell’istruzione inferiore e come tale da affidare ai maestri, l’Uciim si batteva per l’introduzione di una scuola media unitaria distinta in tre indirizzi: umanistico, tecnico e pratico.

Com’è noto, l’iniziativa di Gonella si concluse con un nulla di fatto, perché il disegno di legge che sulla base dell’indagine venne elaborato non riuscì neppure a essere discusso. Su questo esito pesarono diverse ragioni: la prolissità dell’indagine protrattasi per di più troppo a lungo, l’acuirsi delle tensioni fra le forze politiche e le previsioni di spesa per la riforma che furono ampiamente superiori alle effettive disponibilità dell’erario. Al fallimento del disegno di legge non furono però estranee le divisioni che si fecero strada fra gli stessi cattolici. Abbiamo accennato alle divergenze fra Uciim e Aimc sulla soluzione da fornire alla questione della post-elementare; ma abbastanza rilevanti dovevano risultare le diverse valutazioni sulla vexata quaestio dei rapporti tra scuola pubblica di Stato e scuole non statali. Gonella, nel suo ruolo di responsabile della Minerva, intendeva dare una risposta ai problemi dell’istruzione nazionale nel loro insieme e pensava pertanto a una riforma che servisse a qualificare tutta la scuola, statale e non statale; uomini come padre Gemelli o i responsabili della Federazione degli istituti educativi dipendenti dall’autorità ecclesiastica (Fidae) erano invece dell’idea che bisognasse approfittare della presenza di un cattolico all’Istruzione per dar vita a un sistema scolastico favorevole alle scuole cattoliche, al di là della restrizione costituzionale del ‘senza oneri per lo Stato’.

L’insuccesso del progetto di Gonella fu causa di viva delusione e l’idea di un riforma complessiva del sistema scolastico fu, al momento, accantonata, con la conseguenza che l’assetto istituzionale dell’istruzione restò per diversi anni immutato. Il protrarsi di questo ristagno doveva risultare tanto più pesante in quanto, per contro, il quadro socio-demografico della scuola era destinato a registrare, in tempi relativamente brevi, profondi cambiamenti19. Possiamo senz’altro dire che, nell’immediato dopoguerra, la politica scolastica venne a essere regolata, in sostanza, dalle disposizioni introdotte per via amministrativa con il ricorso alle circolari. I provvedimenti decisi con l’intervento del Parlamento ebbero, per lo più, carattere molto particolare – non a caso vennero anche detti ‘leggine’ – e furono spesso varati su pressione dei sindacati per appianare questioni concernenti lo stato del personale della scuola.

L’idea che i problemi potessero essere risolti grazie all’intervento dell’amministrazione fece sì che i cattolici non avvertissero più come urgente neppure la definizione di una legge ordinaria sulla parità, in forza della quale anche gli istituti paritari sarebbero stati chiamati al rispetto delle regole concordate. Nell’accennare a questa inadempienza, Leopoldo Elia ha parlato di un peccato contro lo spirito di diritto20.

Da qui non si deve, tuttavia, concludere che per i cattolici la questione scolastica avesse perduto di rilievo. Nel 1955 essi dedicavano a tale questione la loro XXVIII Settimana sociale, svoltasi a Trento dal 25 settembre al 1° ottobre. L’andamento dell’incontro rifletteva il clima di fiducia da cui l’Italia, incamminata verso il boom economico, era allora attraversata. Diversi relatori si pronunciarono chiaramente per la tesi di chi pensava che, per sostenere lo sviluppo in corso, bisognava non solo favorire i processi di scolarizzazione di massa, ma cercare di adeguare i contenuti della scuola alle trasformazioni socio-economiche. Qualche scaramuccia si ebbe sulla questione del ciclo successivo alle elementari tra chi come Gesualdo Nosengo, presidente dell’Uciim, riaffermava l’esigenza di una media unitaria nel suo ordinamento e differenziata sul piano didattico e chi come padre Gemelli, una volta sostenitore della media unica, si era ora avvicinato alla tesi della post-elementare dell’Aimc di Maria Badaloni. Quanto alla questione dei rapporti tra scuola di Stato e scuole non statali, è interessante rilevare come monsignor Michele Pellegrino, invitato a Trento per riferire su scuola ed educazione integrale dell’uomo, raccomandasse ai cattolici di sviluppare e potenziare le loro scuole, cercando però di essere attivamente presenti in quelle dello Stato «nella leale accettazione delle situazioni attuali di diritto e di fatto, per realizzarvi in misura sempre maggiore i valori umani e cristiani»21. Non diversamente da monsignor Pellegrino si sarebbe espresso il cardinale Giuseppe Siri.

Le aperture dei due prelati mostrano come da parte della Chiesa gli antichi pregiudizi stessero cedendo il posto a valutazioni più serene. Il mondo cattolico, nel suo insieme, era tuttavia ancora lontano dall’accettare senza riserve la scuola pubblica, anche se crescente era il numero dei fedeli cristiani portati a frequentarla. Molto interessanti sarebbero state le risposte acquisite dall’inchiesta svolta, qualche anno dopo, dalla rivista «Leggere» fra ottanta professori universitari, uomini di scuola e di cultura d’ispirazione cattolica22. Il quarto quesito dell’inchiesta chiedeva se, a giudizio dell’interpellato, le scuole statali erano in grado di concorrere in modo acconcio alla formazione delle nuove generazioni secondo i principi e i valori della tradizione spirituale del popolo italiano23. Dalle risposte emergeva che, senza dubbio, molti erano ormai pronti ad accettare, se non proprio ad avvalorare, le istituzioni educative pubbliche. È tuttavia da sottolineare come, a giustificazione di questa fiducia, venisse non di rado invocata la garanzia fornita dalle disposizioni concordatarie. In altri termini diversi degli interpellati dicevano di riconoscersi nella scuola di Stato non tanto per il valore in sé che, in quanto scuola aperta alle diverse correnti ideologiche e culturali, essa poteva rappresentare, quanto piuttosto per il carattere confessionale che il Concordato le avrebbe comunque imposto di rispettare. Inoltre, fra le altre risposte, non mancavano quelle di coloro che, fin da allora, si dicevano preoccupati per il fatto che molti professori della scuola pubblica statale fossero di orientamento laicista e marxista. Negli ambienti più conservatori del mondo cattolico questa riserva sarebbe riemersa a più riprese.

Tra centro-sinistra e concilio Vaticano II

Dopo le elezioni del 25-26 maggio 1958 giunse alla guida del governo Amintore Fanfani, che confermava alla Minerva l’on. Moro (già titolare del dicastero con il precedente governo Zoli). Con la costituzione del governo Fanfani, sostenuto dall’alleanza fra democristiani e socialdemocratici, anche la politica scolastica parve assumere un maggior dinamismo. Su iniziativa del ministro Moro fu varato il decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 1958, n. 585, che introduceva l’insegnamento dell’educazione civica negli istituti e scuole d’istruzione secondaria e artistica24. Nella Premessa, precisato che di per sé l’educazione civica avrebbe dovuto pervadere ogni insegnamento, si sottolineava l’opportunità che essa potesse comunque disporre di un preciso quadro didattico con un proprio orario e programma, e si auspicava che essa si giovasse, in particolare, «di un costante riferimento alla Costituzione della Repubblica che rappresenta il culmine della nostra attuale esperienza storica, e nei cui principi fondamentali si esprimono i valori morali che integrano la trama spirituale della nostra civile convivenza»25. L’iniziativa di Moro ebbe, però, scarso seguito, poiché, nel vivo della lotta politica, le identità di parte finirono con il prevalere sull’identità collettiva. Non deve dunque stupire che l’esigenza di coltivare il senso di una cittadinanza comune, nel nome dei valori della Costituzione repubblicana, faticasse a smuovere le passioni della coscienza popolare.

Sul finire dello stesso 1958 il governo Fanfani metteva a punto un interessante Piano decennale per l’istruzione, in forza del quale, per gli anni 1959-1969, veniva prospettato uno straordinario impegno finanziario, in modo da assicurare la copertura di diversi capitoli di spesa riguardanti l’edilizia scolastica, l’assistenza e le borse di studio, le attrezzature e le dotazioni di materiale didattico, oltre che gli organici dei docenti. Gli interventi previsti avrebbero dovuto interessare un po’ tutti i settori dell’istruzione: dalla scuola materna all’università. Il Piano si stagliava nel quadro di quella che venne allora detta la cultura della programmazione. Ma per vedere questa cultura prendere un’effettiva consistenza si sarebbe dovuto attendere il 1962, che avrebbe condotto a nuovi equilibri politici. Nel gennaio di quell’anno la Dc, allora guidata da Moro e impegnata in una significativa riflessione sul suo ruolo nella società – nel settembre del 1961 essa aveva tenuto a San Pellegrino il primo di alcuni importanti convegni ideologici –, celebrava a Napoli il congresso che dava via libera all’apertura verso i socialisti.

All’indomani del congresso, nel febbraio del 1962 Fanfani, succedendo a se stesso, costituiva un esecutivo che si reggeva sull’apporto del tripartito Dc, Psdi e Pri, ma che prevedeva – fatto del tutto inedito – l’astensione dei socialisti e che dava così inizio alla stagione del cosiddetto centro-sinistra. Con il nuovo governo Fanfani, la guida dell’Istruzione passava nelle mani dell’onorevole Luigi Gui, che si era laureato in filosofia presso l’Università Cattolica ed era stato eletto alla Costituente e al Parlamento nelle liste della Dc di Padova. Gui sarebbe rimasto alla Minerva per ben sei anni e cinque mesi, durante i quali fu chiamato a gestire la non facile collaborazione dei democristiani con i socialisti e in particolare con il loro esperto di politica scolastica on. Tristano Codignola.

La costituzione del centro-sinistra permise, intanto, che sul Piano decennale la discussione facesse un passo in avanti, anche se, al momento, di esso fu approvato solo uno stralcio, con il titolo Provvedimenti per lo sviluppo della scuola nel triennio dal 1962 al 1965 (legge 24 luglio 1962, n. 1073). Lo stralcio prevedeva, tra l’altro, l’istituzione di una Commissione d’indagine che, calcolate le previsioni di crescita della scuola, prospettasse il fabbisogno finanziario e, soprattutto, le necessarie modifiche di ordinamento. Gui non mancò di dare attuazione a questa indicazione e nominò subito la commissione, a presiedere la quale chiamò il democristiano on. Giuseppe Ermini. Questa Commissione, costituita dai rappresentanti delle varie forze politiche dell’arco costituzionale, condusse un approfondito lavoro, al termine del quale, nel luglio del 1963, presentò al ministro due ponderosi volumi, dove erano contenute le indicazioni che avrebbero dovuto preordinare una riforma di tutto il settore, dal potenziamento dell’istruzione professionale al rinnovamento dell’università.

Ma il fatto più rilevante che, sul fronte delle vicende scolastiche, caratterizzò l’avvio del centro-sinistra fu, senza dubbio, l’approvazione della legge 31 dicembre 1962, n. 1859, che aboliva la scuola di avviamento, aperta solo agli istituti e alle scuole professionali, e introduceva la scuola media unica per tutti, da cui sarebbe stato possibile passare a qualsiasi scuola media d’ordine secondario (a eccezione del liceo classico, per accedere al quale si sarebbe richiesto, ancora per qualche tempo, che in terza media lo studente approfondisse lo studio del latino). Una recente ricerca condotta sulla politica scolastica del centro-sinistra ha posto in risalto il valore storico di questa legge, cui andava il merito di dare finalmente attuazione al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’istruzione per otto anni, con l’introduzione di un triennio unitario il quale, nel rinviare la scelta fra studio e lavoro, avrebbe per altro consentito allo studente di verificare meglio le proprie reali attitudini26. Le discussioni che accompagnarono il varo della media unica dovevano mostrare come, anche in questa fase, i cattolici si presentassero all’appuntamento con alcune divisioni interne, dovute non solo alla contrapposizione tra Uciim e Aimc, ma anche alla diversa valutazione che del provvedimento davano, da un lato, gli esponenti del cattolicesimo democratico e, dall’altro, gli ambienti cattolici più conservatori. Per farsi un’idea delle posizioni dei secondi è sufficiente scorrere i commenti de «La Civiltà cattolica», a giudizio della quale la media unica avrebbe provocato un generale abbassamento del livello degli studi.

L’introduzione di tale scuola fu senz’altro favorita dal contesto del cosiddetto miracolo economico che, agli inizi degli anni Sessanta, animò la vita del paese. Quella felice congiuntura fece infatti sì che, in parallelo con la richiesta da parte delle imprese di mano d’opera qualificata, crescesse la domanda d’istruzione delle classi lavoratrici, ormai consapevoli dell’importanza della scuola come strumento di mobilità sociale. Taluni studiosi hanno lamentato la miopia delle forze politiche del centro-sinistra le quali, trascurando la situazione propizia del momento, non seppero affiancare al varo della media unica una riforma delle modalità di formazione e aggiornamento della docenza. In realtà solo un’adeguata preparazione professionale avrebbe messo gli insegnanti in condizione di fronteggiare le esigenze culturali e didattiche che l’accesso di massa al primo livello dell’istruzione media comportava. Ma il rimprovero potrebbe riguardare anche altri aspetti, come l’assenza di un coerente impegno per l’attuazione di quel dopo scuola che pure l’art. 3 della legge 1859 prevedeva. L’esperienza compiuta proprio in quegli anni da don Lorenzo Milani a Barbiana dimostrava che solo una seria scuola a tempo pieno avrebbe permesso ai figli delle classi sociali più sprovvedute di recuperare l’arretratezza socio-culturale da cui erano gravati.

Nel frattempo il centro-sinistra si andava definendo in termini più precisi. Infatti, dopo un breve intermezzo rappresentato dal governo dell’on. Giovanni Leone subentrato nella primavera del 1963 a Fanfani, nel novembre di quello stesso anno l’on. Moro dava vita a un governo quadripartito che, oltre alla Dc, al Psdi e al Pri, registrava la partecipazione diretta dei socialisti. Ma fin dalla primavera del 1964 emergeva, una volta di più, come fosse difficile riuscire a trasformare la collaborazione fra democristiani e socialisti in una vera e propria azione di governo: i socialisti, per bocca di Codignola, imputavano a Gui di procedere senza una loro previa consultazione sui provvedimenti via via predisposti, mentre il ministro rivendicava a sé una certa autonomia nelle scelte di propria competenza. Il casus belli, che nel luglio del 1964 portò alla caduta del governo Moro, fu la decisione dell’esecutivo di un aumento della spesa pubblica a favore della scuola non statale: un aumento che dette luogo a una divaricazione nella quale si ripercuotevano non solo il diverso modo d’intendere il famoso ‘senza oneri per lo Stato’, sancito dall’art. 33 della Costituzione, ma anche le resistenze di coloro che, soprattutto dentro il Psi, mal si adattavano a un’intesa fra democristiani e socialisti.

Nonostante queste tensioni, nel volgere di qualche settimana Moro riusciva a ricomporre le fratture della propria maggioranza e tra il 1964 e il 1965 Gui, riconfermato nella sua carica di responsabile dell’Istruzione, poteva presentare, in linea con quanto auspicato dalla ricordata Commissione Ermini, due rilevanti disegni di legge: uno volto a introdurre la scuola materna statale e uno teso a promuovere alcune modifiche all’ordinamento universitario. Ma nel gennaio del 1966, durante la discussione alla Camera sul disegno di legge concernente la scuola materna statale, un gruppo di ‘franchi tiratori’ appartenenti alle forze di maggioranza votava contro quel disegno di legge, provocando la caduta del governo. È interessante rilevare come a far scoppiare la crisi fosse ancora una volta un provvedimento di politica scolastica, a riprova di quanto la scuola si prestasse ad alimentare le conflittualità fra le parti. Nel voto dei franchi tiratori si coagularono, infatti, la riluttanza di alcuni settori moderati della Dc, preoccupati per la concorrenza che le scuole materne statali avrebbero potuto fare alle cattoliche, e le riserve della sinistra socialista, che avrebbe voluto un maggiore e più esplicito impegno dello Stato in materia. Nel febbraio del 1966, raccolti di nuovo i cocci della coalizione, Moro costituiva il suo terzo governo di centro-sinistra, che sarebbe durato fino al giugno del 1968. Prima della fine della legislatura, Gui ebbe la soddisfazione di vedere istituita la scuola materna statale, con legge 18 marzo 1968, n. 444, che poneva l’Italia all’avanguardia nel settore dell’educazione infantile; non poté invece compiacersi dell’approvazione della progettata riforma universitaria, intorno a cui si levarono non solo le proteste degli studenti ormai incamminati verso la cosiddetta contestazione, ma anche, e soprattutto, le critiche dei numerosi professori universitari che, presenti in Parlamento, guardavano con riluttanza alle disposizioni con cui il disegno di legge prevedeva, tra l’altro, l’obbligo del tempo pieno e l’incompatibilità fra cattedra e mandato parlamentare.

Tra il 1962 e il 1965 la Chiesa aveva, intanto, celebrato il concilio ecumenico Vaticano II, indetto e avviato da Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI. L’avvenimento fu seguito dagli studiosi delle vicende religiose e più ampiamente dall’opinione pubblica con grande interesse e partecipazione, tanto più che, fin dalle prime sedute, doveva chiaramente trasparire la fiduciosa apertura con cui la maggioranza dei padri conciliari intendeva guardare ai problemi posti dalla cultura moderna. Tra gli altri documenti prodotti dal concilio ci fu anche la dichiarazione Gravissimum educationis, espressamente dedicata ai problemi educativi. Nel confrontare il contenuto del documento – molto breve – con altri testi conciliari come per esempio quello della Gaudium et spes o della Dignitatis humanae, numerosi commentatori non nascosero una certa delusione. In realtà, la Gravissimum educationis si limitava a fornire alcuni orientamenti di carattere generale, affidando alle conferenze episcopali il compito di dare a essi concreta attuazione, tenuto conto delle varie situazioni locali. È tuttavia interessante rilevare come, rispetto allo schema elaborato dalla commissione preparatoria incaricata di predisporre i testi da discutere, il sia pur breve dibattito in assemblea avesse consentito d’introdurre alcune interessanti sottolineature. Nella sua redazione definitiva il documento aveva infatti allargato l’impegno della Chiesa ad assicurare l’educazione cristiana a tutti i battezzati e non ai soli studenti delle scuole cattoliche, così come aveva cercato di definire le scuole cattoliche sulla base non tanto della loro realtà ‘istituzionale’, quanto piuttosto del profilo di comunità animate dallo spirito evangelico e dedite a soddisfare le attese e i bisogni educativi degli allievi27. Occorre però notare come, nel dopo concilio, taluni ambienti cattolici italiani non si limitassero a chiedere un aggiornamento delle istituzioni cattoliche secondo le prospettive conciliari, ma, in analogia con quanto asserito dai cattolici di altri paesi europei, affermassero che, nel clima delle nuove aperture della Chiesa, le realtà educative cattoliche non avevano più ragione di essere. Questa tesi doveva risuonare anche nelle discussioni sul ruolo dell’Università Cattolica: verso la metà degli anni Sessanta ci fu infatti chi giunse a sostenere che i cattolici, se volevano essere coerenti con la cultura del dialogo propiziata dal concilio, avrebbero dovuto abbandonare il ‘ghetto’ del loro ateneo per entrare nelle università di Stato e collaborare con gli uomini di tutte le fedi28.

In quel momento le strutture educative pubbliche presentavano, però, elementi di criticità non irrilevanti. Le forze politiche e sociali, consapevoli dell’importanza acquisita dall’istruzione quale strumento di consenso oltre che di promozione personale, non solo seguirono con sempre maggiore attenzione le vicende della politica scolastica, ma cercarono altresì di allargare la loro presenza direttamente nella vita stessa della scuola e dell’università. Non desta pertanto stupore che nelle aule scolastiche e negli atenei riecheggiassero gli stessi conflitti che agitavano le piazze. Su questo sfondo è da collocare il saggio con cui nel 1964 l’esponente dell’Uciim Giovanni Gozzer, preoccupato per le tensioni da cui la scuola pubblica era attraversata, proponeva di limitare i compiti di tale scuola a quelli dell’integrazione civico-sociale (preparazione del cittadino), dell’integrazione culturale (trasmissione dei contenuti culturali), dell’integrazione professionale (preparazione all’esercizio di un’attività lavorativa) e di lasciare la responsabilità della formazione propriamente detta all’iniziativa delle famiglie e delle associazioni libere e volontarie29.

A suo giudizio, lo Stato avrebbe potuto affidare l’attivazione del servizio scolastico anche ai privati; l’unica condizione loro richiesta sarebbe stata quella di organizzare il servizio in modo che tutti i membri della comunità potessero eventualmente parteciparvi senza sentirsi vincolati sul piano della libertà o della scelta dei valori. Gozzer, naturalmente, non escludeva che, dal canto loro, i privati potessero istituire scuole coerenti con i loro orientamenti ideologici; ma pensava che iniziative di tal genere non avrebbero avuto diritto ad alcuna sovvenzione statale. Il saggio dello studioso cattolico fu al centro di vivaci polemiche. L’aspetto maggiormente criticato era naturalmente l’idea secondo cui la scuola pubblica, per essere liberata dalle tensioni che la caratterizzavano, avrebbe dovuto essere ‘deideologizzata’30.

Quanto questa visione peccasse di astrattezza sarebbe chiaramente apparso sul finire degli anni Sessanta, nel vivo della contestazione innescata dal cosiddetto Sessantotto, che prese corpo innanzi tutto nelle proteste degli studenti contro l’università e la scuola. Nella persuasione che il sistema dell’istruzione affermatosi in Occidente fosse subalterno all’ideologia della società neocapitalistica, la rivolta studentesca si fece assertrice di una scuola volta a combattere il presunto carattere oppressivo del sistema sociale, con la indizione, da parte degli studenti, di corsi alternativi a quelli tradizionali. Ma abbastanza presto dalla scuola e dall’università si sarebbe passati a mettere in discussione ogni altra struttura istituzionale, compresa la Chiesa. Agli inizi la cultura di riferimento della contestazione fu il marxismo, ma altrettanto importante per il movimento contestativo sarebbe divenuto il pensiero del filosofo tedesco Herbert Marcuse. Grazie all’influsso di Marcuse, la protesta si caricò di una componente libertaria che, con la valorizzazione della soggettività, doveva condurre a una rivoluzione dei costumi, in particolare nei rapporti tra i sessi e tra i giovani e gli adulti. In Italia, presso gli studenti, un posto di rilievo ebbe, però, anche la proposta pedagogica di don Milani: «Marcuse, don Milani e Lin Piao – scriveva un documento di Potere operaio (uno dei tanti gruppi scaturiti dalla contestazione) – sono i numi tutelari della religione del Movimento studentesco»31.

Com’è noto, il Sessantotto ebbe un rilevante seguito anche presso gli studenti cattolici e attecchì persino in non poche scuole tenute da religiosi. A livello universitario, uno dei primi focolai della rivolta si ebbe, anzi, nell’autunno del 1967 proprio dentro le mura dell’Università di padre Gemelli, divenuta ben presto anche centro della contestazione religiosa, al punto che nel 1970 una rivista cattolica aperta come «Il Regno» si chiedeva se fosse plausibile che la cristianità italiana sostenesse tanti sacrifici per mantenere in vita un ateneo dove allignavano posizioni così eversive32. Ma in genere le istituzioni cattoliche, impegnate per altro nel riaffermare i valori dell’ordine e dell’autorità, furono percepite nell’immaginario collettivo come i luoghi più propizi per tenere i figli al riparo dagli sconvolgimenti sociali del momento e molte famiglie, anche non praticanti, finirono con il preferirle alla scuola pubblica.

Nei primi anni Settanta, in corrispondenza con la sempre più avvertita necessità di un superamento del centralismo che dalla legge Casati caratterizzava il sistema scolastico italiano nel suo insieme, venne per altro approvata, con l’attivo contributo dei cattolici, la legge 30 luglio 1973, n. 477, che avrebbe condotto al varo dei decreti delegati del 197433. Tali decreti introducevano una serie di norme riguardanti alcune importanti materie come l’aggiornamento e la sperimentazione nonché lo stato giuridico degli insegnanti. Non c’è dubbio, tuttavia, che l’aspetto più innovativo di tale legislazione fosse la messa a punto dei cosiddetti organi collegiali, in adesione alle tesi della pubblicistica giuridica più avanzata, secondo cui il soggetto responsabile dell’istruzione era non tanto lo Stato quanto la scuola chiamata a interagire con la più vasta comunità sociale. Il relativo decreto prevedeva alcune inedite e interessanti strutture di governo quali, a livello della singola unità scolastica, il collegio dei docenti (dotato di poteri deliberativi in materia di funzionamento didattico) e il consiglio di circolo o di istituto (investito di significative attribuzioni programmatorie circa la vita scolastica). È bensì vero che, fermo restando nella sostanza il precedente assetto centralistico dell’istruzione, le novità introdotte dai decreti delegati ebbero conseguenze di modesta portata e, per certi versi, furono anzi all’origine di non poche frustrazioni. Ma, come subito ben videro alcuni studiosi34, l’introduzione della gestione sociale nella scuola costituì, comunque, una svolta di grande rilievo da cui, durante gli anni Ottanta, si sarebbero prese le mosse per compiere un ulteriore passo nella direzione dell’autonomia scolastica.

Sulla scuola si erano, nel frattempo, accesi ulteriori dibattiti con speciale riguardo alla riforma della scuola secondaria di secondo grado. Dopo l’istituzione della media unica erano stati introdotti, tra gli altri, due provvedimenti, come l’istituzione della ‘maturità professionale’ (legge 27 ottobre 1969, n. 754), che sanciva la piena appartenenza degli istituti professionali alla scuola secondaria, e la liberalizzazione degli accessi all’università (legge 11 dicembre 1969, n. 910), in virtù della quale gli studenti provvisti di diploma di scuola secondaria avrebbero potuto iscriversi a tutte le facoltà universitarie. Alla luce anche di queste non irrilevanti scelte, studiosi, uomini politici, associazioni magistrali e sindacati ritennero che la riforma degli studi d’istruzione secondaria di secondo grado non potesse essere più dilazionata: tra i sostenitori della necessità di un provvedimento in materia dovevano distinguersi i vertici dell’Uciim. Nel 1971 si celebrava a Frascati un importante convegno indetto dal governo italiano per l’individuazione degli indirizzi che avrebbero dovuto caratterizzare i nuovi studi secondari; ma, al momento di definire la ristrutturazione dell’intero ciclo, si profilarono alcune divergenze che andarono via via accentuandosi e quella che sembrava una riforma ormai a portata di mano non venne, né allora né dopo, mai approvata35. La scuola secondaria avrebbe così continuato a ruotare attorno al tradizionale liceo gentiliano.

I primi anni Settanta sarebbero stati caratterizzati anche da un intenso dibattito attorno alla questione dell’insegnamento della religione cattolica. Per la verità il tema era all’ordine del giorno già da tempo: fin dagli anni Cinquanta non erano infatti mancati uomini di cultura e associazioni d’ispirazione laica – come per esempio l’Associazione per la libertà religiosa – che chiedevano la soppressione di detto insegnamento. Ma ultimamente la questione era stata fatta oggetto di nuova attenzione anche da parte degli ambienti cattolici. Nel 1970 la Conferenza episcopale italiana (Cei) aveva emanato il documento Il rinnovamento della catechesi il quale, considerate le sempre più vivaci contestazioni cui il principio concordatario del fondamento e coronamento era sottoposto, cercava di giustificare la presenza della religione cattolica nei programmi scolastici in nome dei fini propri della scuola. Ma altrettanto interessante doveva risultare il convegno interideologico sull’insegnamento della religione nella scuola promosso nel 1971 dalla rivista salesiana «Orientamenti pedagogici», in occasione del quale diversi studiosi sostennero l’opportunità che la scuola, tenuto conto della rilevanza culturale della religione, si premurasse di attivare in proprio un insegnamento religioso al di fuori degli accordi concordatari.

Le discussioni sull’argomento ebbero un’accelerazione verso la metà degli anni Settanta, dopo che il Parlamento aveva nel frattempo approvato la legge sul divorzio e gli elettori – chiamati a pronunciarsi su detta legge – si erano dichiarati contrari alla sua abrogazione. Nel 1974, all’indomani di tali avvenimenti che condussero alla caduta del governo Fanfani, l’onorevole Moro riceveva l’incarico di costituire un nuovo esecutivo. Al momento di presentare il proprio programma, l’esponente democristiano, ben consapevole dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nella vita del paese, accennava all’opportunità di un’iniziativa dello Stato per procedere, in accordo con la Santa Sede, a un aggiornamento del Concordato. La prospettiva di una revisione concordataria ebbe l’effetto di riaprire il dibattito anche sulla questione dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica. In casa cattolica, tra le posizioni di chi era favorevole a una sostanziale conservazione dell’assetto tradizionale e coloro che invece – come gli esponenti delle cosiddette comunità di base – chiedevano un’abrogazione del discusso insegnamento, si profilò la posizione di alcuni pedagogisti dell’Università Cattolica e di uomini della cultura e della politica come Pietro Scoppola, che se ne fece portatore in Parlamento: essi proponevano che, senza escludere un insegnamento confessionale facoltativo dipendente dalla Chiesa, fosse istituito un corso di cultura religiosa non confessionale, ma obbligatorio per tutti. La proposta, che venne fatta propria dalla Lega democratica e sostenuta, tra gli altri, dalla rivista «Religione scuola» oltre che dalla dirigenza dell’Aimc36, incontrò l’opposizione non solo degli ambienti laici, timorosi di un rafforzamento della religione nella scuola, ma anche dei vertici della Chiesa e di non pochi ambienti cattolici, preoccupati del rischio di una possibile emarginazione dell’insegnamento religioso tradizionale.

Le trattative fra Stato e Chiesa, ufficialmente aperte nel 1976, si conclusero nel 1984. Per quel che riguardava la questione scolastica due erano, in particolare, le novità introdotte. La revisione concordataria non prevedeva più alcuno speciale trattamento per le scuole cattoliche, ma, in linea con il dettato costituzionale che parlava della libertà della scuola senza specificazioni di sorta, s’impegnava a garantire alle scuole cattoliche ‘parità’ rispetto sia alle scuole pubbliche, sia a quelle sorte per così dire dal basso. Si trattava di una prospettiva di non secondaria importanza, che mostrava come la stessa Chiesa accettasse di vedersi riconosciuto uno spazio pubblico non in nome della propria specificità religiosa, ma in quanto componente storicamente operante nella società civile37.

Altrettanto significative risultavano le conclusioni dei nuovi accordi in tema d’istruzione religiosa. Le due parti contraenti, preso atto del carattere laico dello Stato repubblicano oltre che della rilevanza storico-culturale esercitata nel paese dalla Chiesa, stabilivano che da quel momento la scuola pubblica avrebbe assicurato l’insegnamento della religione cattolica solo a chi avesse inteso avvalersene, e tale insegnamento sarebbe stato, in ogni caso, impartito con modalità compatibili con le altre discipline scolastiche. Negli anni successivi, la questione dell’insegnamento religioso avrebbe tuttavia continuato a far discutere, in modo particolare per la situazione di coloro che, rinunciando per l’appunto a utilizzare l’insegnamento loro offerto dalla collaborazione fra Stato e Chiesa cattolica, rischiavano di avere un’ora ‘vuota’. Nel 1989, sollecitata da un ricorso riguardante precisamente la situazione che attendeva chi nelle scuole statali non avesse scelto l’ora di religione, la Corte costituzionale emetteva un’importante sentenza, la cui redazione venne affidata a Francesco Casavola, studioso di diritto oltre che esponente di rilievo del mondo cattolico38. La sentenza non si limitava a sciogliere la questione specifica del ricorso in oggetto, ma forniva anche alcune linee interpretative dell’assetto dello Stato repubblicano che meritano d’essere sottolineate.

Nel riconoscere che la laicità era «il principio supremo» dell’ordine costituzionale, la Corte precisava che questo principio non comportava «indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni», ma costituiva la «garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»39. Com’è facile rilevare, quello qui prefigurato era il profilo di una laicità aperta e positiva, impegnata a riconoscere le varie concezioni del mondo nel più ampio rispetto della pluralità delle posizioni in campo. In altri termini, i membri della Corte costituzionale ritenevano che la Carta repubblicana avesse fatto suo l’impianto di uno Stato democratico che, diversamente da quanto accadeva con lo Stato liberale, intendeva garantire alla religione, non meno che a ogni altra espressione della vita spirituale e intellettuale, le condizioni per un suo libero manifestarsi e svilupparsi. Secondo quanto emergeva dalla sentenza, la scuola pubblica, lungi dall’ignorare il momento religioso, avrebbe dunque dovuto favorirne lo studio, anche se naturalmente sarebbe stata tenuta a guardarsi non solo dal promuovere una confessione a scapito o con esclusione delle altre, ma anche dall’avvantaggiare l’opzione religiosa con pregiudizio per ogni altra visione della vita. Le indicazioni della Corte costituzionale venivano, indirettamente, a rafforzare la prospettiva di chi auspicava l’istituzione di un corso di cultura religiosa per tutti che consentisse l’approfondimento di tali problematiche.

Autonomia e sistema scolastico integrato

Il sistema centralistico e burocratico dell’istruzione continuava, per altro, a opporre le resistenze passive dei suoi meccanismi, mentre le forze sociali e politiche faticavano a trovare un accordo per promuovere una riforma degli ordinamenti. Di fronte a questo stato di cose cresceva la domanda di una radicale rigenerazione del sistema. Nei primi mesi del 1986 i vertici del Psi, sempre più al centro della scena politica, proponevano che lo Stato attribuisse alle famiglie, per ogni figlio impegnato negli studi, un buono scuola da spendere liberamente presso l’istituzione scolastica di proprio gradimento, pubblica o privata che fosse40. L’idea non era nuova, poiché, già sul finire degli anni Settanta, c’erano stati alcuni parlamentari democristiani che avevano presentato una proposta di legge, persasi poi per strada, che mirava all’introduzione dei cosiddetti buoni credito da spendere dove si fosse ritenuto più opportuno. Nuovo era il fatto che il rilancio dell’ipotesi del buono scuola avvenisse per iniziativa di un partito che, tradizionalmente attestato su posizioni stataliste, sembrava ora scoprire la validità di un sistema fondato sulla presenza di canali formativi pubblici e privati su un piano di pari dignità e in concorrenza tra di loro. La proposta socialista, che se approvata avrebbe innescato un processo di ‘mercatizzazione’ dell’istruzione, fu vivamente attaccata da parte di vari rappresentanti dell’area laica e comunista i quali osservavano che, prevedendo un indiretto finanziamento alle scuole non statali, essa contravveniva al principio del ‘senza oneri per lo Stato’ e andava contro lo spirito della Costituzione orientata, a loro avviso, nel senso di un primato delle istituzioni pubbliche41.

Maggiormente favorevoli furono le accoglienze riservate alla proposta da taluni settori dell’aerea cattolica. In quel momento, tuttavia, presso i cattolici presero corpo anche altre ipotesi, come per esempio quella del Movimento popolare, noto prolungamento politico di Comunione e liberazione, il movimento fondato da don Luigi Giussani. Gli esponenti del Movimento, dubitando della validità educativa di una istituzione come la scuola pubblica statale aperta a tutte le fedi, sostenevano la necessità di articolare tale scuola in tante scuole quante erano le famiglie culturali del paese, in modo da dare a ogni utente la possibilità di scegliersi quella a lui più acconcia42. La prospettiva qui delineata presentava aspetti che avrebbero potuto farla accostare alla proposta dei socialisti, ma, a differenza di questa che ammetteva comunque un canale formativo statale sia pure assoggettato alle logiche di mercato, la linea del Movimento popolare tendeva a dissolvere la scuola pubblica laica in una serie di scuole di tendenza ciascuna corrispondente al proprio gruppo ideologico di riferimento.

Dobbiamo però dire che, in quel momento, la maggioranza del mondo cattolico propendeva chiaramente per un’altra soluzione. Numerosi pedagogisti cattolici così come larghi settori dell’associazionismo cattolico – come l’Aimc, l’Uciim e la stessa Ac con i suoi movimenti – erano infatti persuasi che, se si voleva superare l’impasse di un assetto scolastico scarsamente integrato con la società, la via da seguire non era né il buono né la spartizione ideologica della scuola pubblica, ma la linea dei costituenti, che avevano concepito il principio della sussidiarietà strettamente congiunto con quello della solidarietà. In altri termini si auspicava che, nella diffusione dei beni dell’istruzione e della cultura, lo Stato, pur continuando a promuovere scuole proprie, si associasse anche parte delle istituzioni educative private con la possibilità che, in cambio di un servizio di qualità, esse potessero ricevere il titolo di paritarie e il sostegno dell’erario secondo modalità da studiare. Gli assertori di questa soluzione osservavano che, una volta sgravato di parte degli impegni di gestione, lo Stato avrebbe, tra l’altro, potuto esercitare meglio i compiti più propri della programmazione e del controllo. Ma si aggiungeva che, per rendere il sistema dell’istruzione più aperto verso la società oltre che più sciolto rispetto alle pastoie del suo opprimente impianto burocratico, occorreva che le singole scuole fossero dotate di autonomia, secondo quanto a suo tempo auspicato da Sturzo43.

L’idea di una maggiore responsabilizzazione delle singole scuole era destinata a conquistare consensi presso il mondo sindacale e l’associazionismo magistrale dei vari orientamenti, oltre che presso un ampio arco di forze politiche, compresa la Lega Nord (il movimento apparso sulla scena nei primi anni Ottanta). Per vedere il progetto dell’autonomia entrare nell’agenda della politica scolastica si sarebbero, però, dovuti attendere i primi anni Novanta. Nell’aprile del 1993, sullo sfondo della cosiddetta tangentopoli e della crisi di credibilità da cui furono colpiti i partiti tradizionali, a presiedere la compagine governativa era stato chiamato Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Banca d’Italia, il quale, d’accordo con il ministro dell’Istruzione Rosa Russo Jervolino (proveniente dalle file democristiane), faceva inserire nella legge finanziaria 1994 una delega al governo per l’adozione, entro nove mesi, di vari decreti legislativi in materia di autonomia delle scuole e di riforma del ministero dell’Istruzione. Ma, essendo nel frattempo divenuto presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, il nuovo esecutivo lasciava scadere i termini entro i quali la delega andava esercitata.

Il discorso sarebbe stato ripreso dal governo costituito da Romano Prodi, esponente del cattolicesimo democratico che, alla guida di una coalizione di centro-sinistra raccolta sotto il simbolo dell’Ulivo, vinceva le elezioni anticipate dell’aprile 1996. Nel marzo del 1997, discutendosi il disegno di legge sul decentramento collegato alla legge finanziaria, il ministro dell’Istruzione Giovanni Berlinguer, esponente dei Democratici di sinistra, riusciva a far passare un articolo volto a introdurre l’autonomia delle scuole (art. 21, legge 15 marzo 1997, n. 59). Il corrispettivo regolamento sarebbe stato varato con Dpr 8 marzo 1999, n. 275. Dalla lettura dell’art. 21 della legge si potrebbe, forse, rilevare che la prospettiva dell’autonomia scolastica messa a punto dal ministro dell’Istruzione nel quadro della riforma amministrativa era improntata più alla logica del decentramento dei servizi che non a quella di una vera e propria responsabilità delle singole scuole. È tuttavia indubbio che, nel prevedere per ciascuna di esse la possibilità di acquisire progressivamente capacità di autonomia organizzativa, didattica e di ricerca, le nuove disposizioni introducevano, almeno a livello di orientamento generale, una svolta di grande rilievo. Ogni istituto sarebbe stato messo in condizione di elaborare il proprio progetto educativo in stretta cooperazione con la società civile e con le ‘identità private’ in essa presenti.

Berlinguer (che restava alla guida dell’Istruzione anche dopo che nel 1998 il governo Prodi cedeva il passo al governo guidato da Massimo D’Alema) s’impegnava, altresì, per condurre in porto un altrettanto qualificante punto del programma dell’Ulivo: il riconoscimento del principio della parità scolastica, tutelato dalla Costituzione ma rimasto lettera morta. A tale proposito sarebbe interessante seguire i diversi passaggi che contrassegnarono la preparazione dell’apposito provvedimento legislativo, cominciando con l’esaminare il documento Una nuova idea per la scuola sottoscritto, nel luglio del 1994, da esponenti del cattolicesimo democratico e da rappresentanti del Partito dei Democratici di sinistra a sostegno di un sistema formativo pubblico, nazionale e unitario44 per venire, quindi, alle conclusioni raggiunte dalla Commissione D’Amore istituita in forza del decreto ministeriale 4 luglio 1996 con il compito di raccogliere, precisamente, materiale e suggerimenti che servissero alla elaborazione del previsto disegno di legge45.

Possiamo dire che la prospettiva su cui sembrava ormai esserci una generale convergenza di vedute era quella di un sistema educativo integrato del quale avrebbero fatto parte tanto le scuole pubbliche quanto le scuole private. In questa direzione si muoveva anche il documento Per un rinnovamento dell’istruzione presentato il 13 maggio 1995 dal Gruppo nazionale scuola cattolica costituito presso l’Ufficio per l’educazione, la scuola e l’università della Cei. Le divergenze sorgevano sulla questione del finanziamento pubblico delle scuole non statali, per il quale restava la tradizionale obiezione del ‘senza oneri per lo Stato’. Interessanti sono al riguardo le diverse soluzioni allora evocate, anche se da tempo circolanti nei dibattiti. I firmatari del documento ulivista del luglio 1994 suggerivano di risolvere il problema con la detrazione delle tasse scolastiche pagate dalle famiglie; lo schema della Commissione D’Amore proponeva, invece, di riconoscere alle scuole paritarie la possibilità di ricevere il sostegno dell’erario «nella prospettiva di garantire a tutti gli alunni del sistema pubblico integrato lo stesso rapporto con le diverse istituzioni scolastiche»; infine, il testo elaborato dal Gruppo nazionale scuola cattolica della Cei rivendicava, senza giri di parole, il diritto della scuola non statale al finanziamento dello Stato, in analogia con quanto già si faceva con gli interventi legislativi promossi da alcune regioni o con le convenzioni stipulate tra gli enti locali e numerose scuole materne non statali46.

La parità scolastica veniva finalmente varata con la legge 10 marzo 2000, n. 62, nella quale erano in larga misura trascritti i risultati del lavoro svolto dalla Commissione D’Amore. In forza di tale legge, il sistema scolastico sarebbe risultato costituito da un insieme di scuole – scuole statali, scuole paritarie private, scuole degli enti locali – che, pur nella diversità dei loro profili, avrebbero concorso a realizzare il sistema pubblico nazionale d’istruzione. Le scuole paritarie avrebbero goduto della più ampia libertà sul piano dell’orientamento culturale e dell’indirizzo pedagogico-didattico; ma avrebbero dovuto aprirsi a tutti coloro che, accettato il loro progetto educativo, avessero domandato d’iscriversi (ivi compresi i portatori di handicap), così come avrebbero dovuto evitare d’imporre agli alunni le attività extra-curriculari che «presuppongano o esigano l’adesione a una determinata ideologia o confessione religiosa». Si precisava, inoltre, che la parità sarebbe stata riconosciuta solo a quelle scuole che avessero presentato alcuni precisi requisiti, tra i quali un progetto educativo in armonia con i principi costituzionali, l’istituzione e il funzionamento di organi collegiali improntati alla partecipazione democratica, l’organica costituzione di corsi completi, il ricorso a docenti forniti del titolo di abilitazione, l’accensione di contratti individuali di lavoro per personale dirigente e docente in linea con i contratti nazionali.

La legge estendeva il principio della parità anche agli aspetti economici. Infatti, non solo era previsto in bilancio un piano straordinario per l’attuazione della parità nella distinzione delle competenze tra Stato e regioni (che sarebbero state successivamente regolate con il nuovo articolo 117 della Costituzione47), ma, nel solco di quanto prospettato dalla Commissione D’Amore, ci s’impegnava anche a mettere gli alunni delle scuole sia statali sia paritarie in condizione di soddisfare «il diritto allo studio e all’istruzione» con borse di studio da assegnarsi «prioritariamente» a favore di famiglie svantaggiate, senza alcun cenno al merito scolastico48. Qualcuno ha rilevato che, connettendo la parità con il diritto allo studio e all’istruzione, si ponevano le premesse per un possibile ampio intervento integrativo delle regioni. Ma si è altresì fatto notare come, nel prevedere l’istituzione delle borse di studio, la legge non delimitasse in modo alcuno gli ambiti di destinazione, avallando così l’interpretazione che, anche se formalmente rivolte alle famiglie, dette borse avrebbero potuto essere utilizzate per coprire, indirettamente, le eventuali spese sostenute dalle scuole, come per esempio quelle per il personale insegnante o addirittura per le attività di natura propriamente confessionale. Non c’è, quindi, da stupirsi che nell’opinione diffusa la legge abbia potuto essere letta come una transazione per risolvere la questione del finanziamento pubblico alle scuole private e che su questo punto si siano ravvivate le controversie. Da parte laica si levavano, infatti, alcune voci per ribadire che il finanziamento, diretto o indiretto, delle scuole paritarie si scontrava con il principio di laicità e, in ogni caso, con la clausola esclusiva prevista dalla Costituzione49, mentre da parte cattolica si osservava, invece, che il ‘senza oneri’ non poteva, in alcun caso, valere per le scuole paritarie50. Gli esperti sono dell’idea che, per sciogliere la questione in modo chiaro e inequivocabile, sarà molto verosimilmente necessario l’intervento del giudice costituzionale51.

Bisogna però dire che nell’opinione pubblica l’idea di un sistema scolastico che accolga nel suo seno tanto le scuole pubbliche statali quanto le private paritarie è stato recepito con generale soddisfazione. Per rendersi conto del considerevole passo compiuto basterebbe pensare al fossato che, nei primi anni dopo l’Unità, separava i sostenitori delle due scuole. L’acquisizione della nuova prospettiva è stata, certo, possibile perché da parte laica si sono abbandonate antiche pregiudiziali nei riguardi della scuola privata, ma anche perché si è verificata un’importante evoluzione in casa cattolica. In realtà, al di là delle posizioni di alcuni movimenti che continuano a sostenere la tesi della gestione delle scuole interamente affidate alla società civile, numerosi sono ormai i cattolici che, senza misconoscere il valore delle istituzioni cattoliche, non solo militano nella scuola pubblica di Stato, ma sono anche dell’idea che questa sia meritevole della più ampia stima, dato l’importante ruolo che ha svolto e può svolgere. Di fronte al processo in corso si sente talvolta osservare che, nell’aderire a un sistema scolastico pubblico nazionale, le scuole cattoliche corrono il rischio di stemperare il loro carattere proprio; ma non mancano coloro per i quali tale adesione rappresenta, al contrario, un fatto di grande rilievo, se non altro per la sollecitazione con cui essa può spingere dette scuole a ripensare il loro ruolo in rapporto non solo alla Chiesa, ma anche alla società. Nulla, per altro, esclude che si possa dar vita a scuole private al di fuori del sistema pubblico nazionale, magari con compiti particolari di servizio, di sperimentazione, di ricerca.

Personalmente mi auguro che il mondo cattolico nel suo insieme, liberato dalle preoccupazioni concernenti la questione dei rapporti scuola pubblica-scuola privata che hanno a lungo ipotecato le strategie della sua politica scolastica, possa da qui ripartire per raccogliere, con intelligenza e in dialogo con le altre forze presenti nel paese, le sfide che si vanno profilando all’orizzonte: da quelle politico-istituzionali, come per esempio la prospettiva di una possibile regionalizzazione dell’istruzione nel quadro della progettata riforma dello Stato, a quelle più propriamente socio-culturali, connesse alla sempre più impellente esigenza di definire una scuola pubblica (statale e non statale) all’altezza del contesto multiculturale e multireligioso del nostro vivere sociale. Una scuola che, nel laico rispetto delle varie identità (religiose, culturali, territoriali), si sforzi al tempo stesso di alimentare una cittadinanza comune fondata sui valori della visione umanista e democratica della nostra Carta costituzionale.

Note

1 Nel campo della scuola, già eloquente segno di questa spinta anticlericale fu, per esempio, la legge del 7 luglio 1866, n. 3036 in seguito alla quale gli istituti religiosi, privati della personalità giuridica, furono costretti a trasferire il patrimonio dei loro istituti scolastici al ministero della Pubblica istruzione: cfr. in questo stesso volume il contributo di Angelo Gaudio su Scuole cattoliche e formazione di base.

2 Cit. Chiesa e Stato nella storia d’Italia. Storia documentaria dall’Unità alla Repubblica, a cura di P. Scoppola, Bari 1967, p. 105.

3 Cfr. F. Traniello, Appunti sulla preistoria dell’Università Cattolica, «Vita e pensiero», 49, 1966, 9-10, pp. 715-721, in partic. p. 716.

4 «I cattolici tedeschi – riferiva la rivista di Toniolo riprendendo lo scritto di Spahn – hanno percorso insieme la larga e magnifica via della loro nazione. Mentre i correligionari francesi rimasero troppo a lungo sotto il dominio di dottrine liberali, essi seppero socializzarsi e democratizzarsi a tempo opportuno. Mentre quelli si tirarono sempre indietro timidamente dalla vita politica e generale della loro nazione, i cattolici tedeschi si lasciarono e si lasciano compenetrare dalla vita dello Stato e della società nazionale» («Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 16, 1908, 46, pp. 530- 534, in partic. p. 531).

5 F. Traniello, Appunti sulla preistoria dell’Università Cattolica, cit., pp. 716-717.

6 A. Ferrari, Lo statuto giuridico delle scuole confessionali in Francia e in Italia: una comparazione di lungo periodo, tesi di dottorato di ricerca in Discipline ecclesiastiche, XI ciclo, Università degli studi di Milano, p. 105; questo ampio lavoro è stato poi in larga parte ripreso in Id., Libertà scolastiche e laicità dello Stato in Italia e in Francia, Torino 2002.

7 Per questo mi permetto di rinviare a L. Pazzaglia, Consensi e riserve nei giudizi dei cattolici sulla riforma Gentile (1922-1924), in Opposizione alla riforma Gentile, «Quaderni del Centro Studi ‘C. Trabucco’», 7, 1985, pp. 35-114.

8 Sugli effetti del Concordato in tema di scuola cfr., fra la molta letteratura in argomento, A. Ferrari, Libertà scolastiche e laicità, cit., pp. 76 segg.; per un più ampio inquadramento della questione scolastica nei rapporti fra Chiesa e fascismo cfr. A. Gaudio, Scuola, Chiesa e fascismo. La scuola cattolica in Italia durante il fascismo (1922-1943), Brescia 1995.

9 B. Mussolini, Gli accordi del Laterano. Discorsi al Parlamento, Roma 1929, p. 196.

10 L’educazione, Roma 1957 (Insegnamenti Pontifici, 3), pp. 206-211.

11 Ibidem, p. 209.

12 Ibidem, pp. 233-234.

13 Emblematico del viaggio compiuto da molti insegnanti cattolici nelle istituzioni del regime fu l’itinerario di Aldo Agazzi che, dopo aver abbracciato il fascismo, sarebbe divenuto uno dei più convinti e leali sostenitori della scuola democratica della Repubblica: cfr: Educazione, società, scuola. La proposta pedagogica di Aldo Agazzi, a cura di C. Scurati, Brescia 2005.

14 P. Scoppola, La coscienza e il potere, Bari 2007, p. 166.

15 Mette conto ricordare che, nel corso del dibattito svoltosi sulla questione dei rapporti scuola pubblica-scuola privata, si era avuta anche la proposta del cristiano-sociale Gerardo Bruni. Questi aveva infatti presentato alcuni emendamenti in forza dei quali, se tutti gli istituti scolastici erano da considerarsi pubblici e come tali avrebbero avuto diritto al medesimo sostegno dello Stato, ogni scuola avrebbe dovuto assicurare un insegnamento e un’educazione civica d’ispirazione democratica e nazionale. Quella di Bruni era una voce isolata e come tale non ebbe alcun seguito; ma le sue idee erano destinate a riemergere nei dibattiti più recenti: sulle posizioni dell’on. Bruni cfr. L. Musselli, Chiesa e Stato dalla Resistenza alla Costituente, Torino 1990, pp. 77-169.

16 Cfr. L. Sturzo, La libertà della scuola, «Idea», 3, 1947, 7, pp. 387-393.

17 Ibidem, p. 388.

18 Il contributo dell’Aimc e dell’Uciim ai dibattiti sulla scuola nell’immediato dopoguerra è stato studiato da R. Sani, Le associazioni degli insegnanti cattolici nel secondo dopoguerra 1944-1958, Brescia 1990; ma sarebbe oltremodo opportuno che la ricerca fosse estesa al ruolo che le due associazioni continuarono a svolgere negli anni successivi.

19 Sullo scarto tra immobilismo istituzionale e accelerato cambiamento del quadro socio-demografico della scuola, con particolare riguardo alla scuola secondaria, cfr. M. Dei, Cambiamento senza riforma: la scuola secondaria superiore negli ultimi trent’anni, in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, II, Una società di massa, a cura di S. Soldani, G. Turi, Bologna 1993, pp. 87-127.

20 L. Elia, Moro, lo Stato e la giustizia sociale, in Moro, la Democrazia cristiana e la cultura cattolica, Roma 1979, p. 77.

21 Società e scuola, Atti della XXVIII Settimana sociale dei cattolici d’Italia, (Trento 1955), Roma 1956, p. 133.

22 Ottanta risposte all’inchiesta sulla scuola italiana, «Leggere», 7, 1961, 9-10, nr. monografico.

23 Il quesito era così formulato: «Esiste effettivamente, a Suo avviso, un contrasto obiettivo fra scuola statale e scuola non statale? Vi sono situazioni di disagio nel mondo cattolico italiano nei confronti della scuola statale? Come giudica Lei la tesi che, salve le libertà e i diritti costituzionali degli Enti e dei singoli, la scuola statale, quale risulta secondo il Concordato con la Santa Sede, può rappresentare uno strumento adatto alla formazione della gioventù, in quanto rispetti sia la coscienza religiosa sia gli intrinseci valori della tradizione del nostro popolo? O ritiene che tale certezza si abbia solo estendendo gradualmente le scuole religiose?» (ibidem, p. 3).

24 DPR 13 giugno 1958, n. 585, Programmi per l’insegnamento dell’educazione civica negli istituti e scuole di istruzione secondaria e artistica.

25 Ibidem.

26 D. Gabusi, La svolta democratica nell’istruzione italiana. Luigi Gui e la politica scolastica del centro-sinistra, Brescia 2010.

27 E. Vandermeersch, École: Église et Laïcité. La rencontre des deux France. Souvenirs de la loi Debré (1960-1970), Paris 2008, pp. 58-61.

28 Per queste discussioni cfr. L. Pazzaglia, L’idea di Università Cattolica nell’impegno culturale di Giuseppe Lazzati, in Fede e cultura in Giuseppe Lazzati, a cura di L.F. Pizzolato, Milano 2007, pp. 130-132.

29 G. Gozzer, I cattolici e la scuola, Firenze 1964.

30 Sul saggio di Gozzer e sulla discussione cui dette luogo cfr. L. Pazzaglia, Dalla scuola del disimpegno ideologico alla scuola del dialogo. Linee di sviluppo, «Vita e pensiero», 48, 1965, 10, pp. 784-799.

31 R. Beretta, Il lungo autunno. Controstoria del Sessantotto cattolico, Milano 1998, p. 31.

32 E. Franchini, Cosa succede alla Cattolica?, «Il Regno/Attualità», 15, 1970, 3, pp. 50-52.

33 Per un approfondimento dei dibattiti sulla scuola durante gli anni Settanta rinvio a G. Tognon, La politica scolastica italiana negli anni Settanta. Soltanto riforme mancate o crisi di governabilità?, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, II, Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana, G. Marramao, Soveria Mannelli 2003, pp. 61-87.

34 U. Pototschnig, Un nuovo rapporto fra amministrazione e scuola, «Rivista giuridica della scuola», 14, 1975, 3, pp. 243-265.

35 Sulle ragioni che, negli anni Settanta e Ottanta, hanno impedito l’attuazione della riforma secondaria superiore, cfr., fra la molta letteratura in argomento, M. Dei, Cambiamento senza riforma, cit., pp. 117-127; G. Bertagna, La riforma necessaria. La scuola secondaria superiore 70 anni dopo la riforma Gentile, Brescia 1993.

36 Merita ricordare che, nel corso delle discussioni, la proposta andò assumendo due varianti: la prima, detta anche del doppio binario, secondo la quale tutti avrebbero dovuto seguire il corso di cultura religiosa e chi l’avesse voluto avrebbe potuto frequentare, a suo piacimento, anche quello confessionale; e la seconda variante, secondo cui lo studente era tenuto a optare per uno dei due. La prospettiva del doppio binario fu al centro del convegno indetto a Roma da «Religione e scuola» nel 1982: Società civile, scuola laica e insegnamento della religione, a cura di F. Pajer, Brescia 1983.

37 A. Ferrari, Libertà scolastiche e laicità, cit., pp. 123-124.

38 Sentenza della Corte costituzionale, 12 aprile 1989, n. 203.

39 Ibidem.

40 Cfr., per esempio, C. Martelli, Scuola cattiva? Prova col buono, «Mondo economico», 10 marzo 1986.

41 Si veda, per tutti, P. Sylos Labini, Martelli e il trucco del buono scuola, «la Repubblica», 5 marzo 1986.

42 Cfr. al riguardo le tesi sostenute dal Movimento popolare fin dal convegno tenuto a Rimini nel 1976: Pluralismo culturale, scuola e società. La scuola italiana tra cultura di Stato e pluralismo culturale, Milano 1977.

43 Per farsi un’idea dei primi approcci allora compiuti in ambienti cattolici sul tema dell’autonomia cfr. le discussioni promosse su impulso del senatore Beniamino Andreatta e in parte riprese nella rivista dell’Agenzia di ricerche e legislazione da lui diretta: La riforma delle istituzioni, «Arel informazioni», maggio 1986, pp. 25-70. In termini molto più puntuali la questione sarebbe stata ripresa in un convegno di studio tenuto a Brescia nel maggio 1987 e i cui atti sarebbero apparsi in Uguaglianza, autonomia, riforme nella scuola. Prospettive di sviluppo per il sistema dell’istruzione, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1988.

44 Il documento Una nuova idea per la scuola. Un sistema formativo pluralistico e flessibile caratterizzato da efficienza ed equità può essere consultato sulle colonne de «Il Regno/Attualità», 1994, 16, p. 467.

45 Sui lavori e sulle conclusioni della Commissione D’Amore (così detta dal nome del suo presidente Matteo D’Amore) cfr. i resoconti forniti da parte di uno dei suoi componenti: M. Reguzzoni, La parità scolastica, «La Civiltà cattolica», 148, 1997, 2, pp. 466-476; Id., Servizio privato d’interesse pubblico e parità scolastica, «Aggiornamenti sociali», 48, 1997, 7-8, pp. 537-548.

46 Il documento predisposto dal Gruppo nazionale scuola cattolica non escludeva che, per la soluzione del finanziamento, potessero essere impiegati anche altri accorgimenti, come per esempio la retribuzione del personale o il buono scuola. Per un’attenta analisi delle tre posizioni qui richiamate cfr. A. Ferrari, Libertà scolastiche e laicità, cit., pp. 307-310.

47 In seguito al quadro normativo posto in atto dal nuovo articolo, le regioni sarebbero venute a godere di una competenza ‘concorrente’ in tema di istruzione e di una competenza ‘esclusiva’ in tema di formazione e istruzione professionale, oltre che, più in generale, di una competenza in tema di diritto allo studio.

48 A. Ferrari, Libertà scolastiche e laicità, cit., p. 319.

49 Per farsi un’idea dell’accoglienza che la legge sulla parità e più in generale la politica scolastica dell’Ulivo hanno avuto in taluni ambienti della cultura laica e di sinistra cfr., per esempio, le riserve e le perplessità sollevate da R. Fornaca, La politica scolastica della Chiesa dal Risorgimento al dibattito contemporaneo, Roma 2000, pp. 163 segg. o da G. Ricuperati, Per un nuovo concetto di pubblico nella scuola italiana, in Chiesa e scuola. Percorsi di storia dell’educazione, a cura di M. Sangalli, Siena 2000, pp. 253 segg.

50 Per tale interpretazione cfr. le osservazioni avanzate, per esempio, da G. Dalla Torre, La scuola cattolica nella parità, «Pedagogia e vita», 62, 2004, 1, pp. 12-34.

51 Nel porre in risalto l’importanza di questa decisione, Ferrari osserva che si tratta, alla fine, di scegliere se adottare un principio di laicità che si limiti a registrare le pressioni di una società sempre più protagonista o un principio di laicità che, sia pure aprendosi alle istanze sociali, intenda comunque garantire l’alterità e la sovranità dello Stato rispetto a ogni potere religioso: «Spetterà, così, probabilmente al giudice costituzionale, già interpellato, inutilmente, sulla questione, a dover scegliere tra un principio di laicità ‘cieco’, meramente recettivo delle istanze delle diverse componenti sociali, più attento ai rapporti di forza che ad una funzione di effettiva garanzia e, dunque, alla fine, sostanzialmente inutile, ed una laicità non irrimediabilmente slegata da quella distinzione tra ordini e sovranità distinte da cui ha tratto origine e che, soprattutto nel momento di massima ‘pubblicizzazione’ della società civile, pare consentire, con la piena indipendenza dell’ordine religioso, anche quella dello Stato» (A. Ferrari, Libertà scolastiche e laicità, cit., p. 325).

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