I plebisciti e le elezioni

L'Unificazione (2011)

I plebisciti e le elezioni

Gian Luca Fruci

La congiuntura politica decisiva per il processo di unificazione, che si apre nell’aprile 1859 con la guerra franco-piemontese all’Austria e si conclude nel marzo 1861 con la proclamazione del nuovo Stato nazionale, è accompagnata e continuamente rilanciata dal nesso fra procedure plebiscitarie ed elezioni. Fra agosto e settembre del 1859, in Toscana, nei Ducati di Modena e Parma, nelle Legazioni in rivolta, le autorità provvisorie filo-sabaude promuovono delle consultazioni per la nomina di assemblee rappresentative che all’unisono deliberano la decadenza delle dinastie di antico regime (e del potere pontificio) e contestualmente richiedono l’annessione al Regno costituzionale di Sardegna, sancita virtualmente, a Parma e Modena, dalla promulgazione e, in Toscana e nelle Romagne, dalla pubblicazione dello Statuto albertino. Le elezioni si svolgono a suffragio maschile allargato – nelle province emiliane convocando alle urne tutti i maschi di 21 anni compiuti che sappiano leggere e scrivere, in Toscana ridimensionando i criteri censitari della ripristinata legge elettorale del 1848 – in un contesto consensuale nazional-patriottico che prepara e annuncia sia il ciclo decennale di consultazioni plebiscitarie che legittima sul piano interno e sovranazionale le successive tappe dell’unificazione italiana, sia le declinazioni antipluraliste delle votazioni politiche a suffragio ristretto che si svolgono alla fine di marzo 1860 nel Regno di Sardegna allargato a Lombardia, Toscana, Emilia e nel gennaio 1861 per la nomina della prima Camera nazionale.

Dalle elezioni consensuali ai plebisciti

Fra 1860 e 1870 più di tre milioni di ex sudditi degli antichi Stati italiani si esprimono con meccanismi differenti, ma sempre caratterizzati dall’applicazione del suffragio universale (maschile), a favore prima dell’ingrandimento dello Stato costituzionale piemontese, poi della progressiva costruzione del Regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia. Decine di migliaia di essi, appartenenti ai Ducati di Modena e Reggio, di Parma e Piacenza e alle province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo, hanno già votato, insieme ai lombardi, nella primavera del 1848 per la formazione (inattuata) del Regno dell’Alta Italia, mentre i cittadini delle «provincie parmensi» sono convocati separatamente anche nell’agosto 1859, prima del voto plebiscitario che coinvolge l’Emilia e le Romagne a metà marzo 1860.

Le consultazioni dell’aprile-maggio 1848 nei Ducati padani, in Lombardia e nelle province venete di terraferma, e quelle dell’agosto 1859 a Parma si svolgono tramite sottoscrizioni su pubblici registri, aperti per settimane nei municipi e nelle parrocchie, sul modello degli «appelli al popolo» sperimentati nella penisola in epoca rivoluzionaria e napoleonica (segnatamente nel febbraio 1799 per chiedere l’unione del Piemonte alla Repubblica francese; nell’estate del 1804 in occasione del voto che, anche nei dipartimenti italiani aggregati al territorio transalpino e nell’isola d’Elba, sanziona l’ereditarietà della corona imperiale ai discendenti maschi della famiglia Bonaparte; nel maggio-giugno 1805 per ratificare l’annessione della Repubblica ligure all’Impero francese e la trasformazione della Repubblica di Lucca in principato satellite (sotto l’egida di Felice Baciocchi e di sua moglie Elisa, sorella di Napoleone).

I «comizi nazionali» organizzati nell’annus mirabilis 1860 in Toscana, in Emilia e nelle Romagne (11-12 marzo), nelle province meridionali e in Sicilia (21 ottobre), nelle Marche e in Umbria (4-5 novembre), si tengono, invece, in uno o due giorni, con scheda manoscritta o stampata, alla maniera delle pratiche di suffragio «par oui ou par non» che legittimano nel dicembre 1851 il colpo di Stato del principe-presidente Luigi Bonaparte e fondano nel novembre 1852 il Secondo Impero. E con le medesime procedure hanno luogo le successive consultazioni che chiudono il processo di unificazione, nel 1866 a Mantova e nelle Venezie (21-22 ottobre) e nel 1870 a Roma e nel Lazio (2 ottobre).

Nonostante il loro carattere di voto adeliberativo senza alternativa e il controllo esercitato direttamente o indirettamente su di esse dalle élites liberal-costituzionali monarchiche, le consultazioni popolari di unificazione del 1860, del 1866 e del 1870 costituiscono per le classi popolari una significativa occasione di accelerato e diffuso apprendistato politico, e – più in generale – una pagina fondamentale del processo unitario inteso come «movimento di massa» secondo la lettura analitica suggerita dalla nuova storiografia risorgimentistica, sia nella sua declinazione critica (Banti, Ginsborg 2007) sia nella sua versione classica (Isnenghi, Cecchinato 2008). Il quadro della partecipazione elettorale, delineabile per sette votazioni ufficiali su otto (le sottoscrizioni parmensi del 1859 non hanno effetto legale), rivela una forte capacità di mobilitazione politica che, da un lato, raggiunge il suo apice nel clima di (comprensibile) entusiasmo per la fine del potere temporale del papa, dall’altro, si mostra più forte negli ex possedimenti pontifici – eccetto l’area marchigiana – e nei territori di debole o antica statualità rispetto a realtà con forti tradizioni autonomistiche. Ai due estremi dell’asse della partecipazione si collocano, infatti, da una parte il 62,4% delle Marche e il 71,9% della Toscana nel 1860; dall’altra l’80,7% del Lazio nel 1870 e il 79,7% dell’Emilia nel 1860. Di poco inferiori rispetto a quelli più elevati sono gli altri dati disponibili: 75,2% della Sicilia, 79,3% dell’Umbria e 79,5% della parte continentale del Regno delle Due Sicilie (un risultato quest’ultimo tanto più rilevante se si tiene conto che in alcune province il voto è ostacolato dalla presenza di truppe borboniche e dalle insorgenze legittimiste). Le percentuali dei suffragi favorevoli descrivono ovunque un’adesione unanimistica, che oscilla fra il minimo del 92,6% nelle Marche e il massimo del 99,9% a Mantova in Veneto e nelle province friulane di Udine e Pordenone.

Indicatori del «profilo di massa» e del successo di queste consultazioni sono, oltre al dato rilevante della partecipazione, la dinamica gioiosa e la connessa scenografia teatrale di festa – ora indotta, ora spontanea, ora l’una e l’altra – in cui si tengono le operazioni di voto, che s’incastonano in un più ampio e lungo ciclo di dimostrazioni nazional-patriottiche, coinvolgendo non solo gli elettori (tutti i maschi adulti di 21 anni compiuti), ma l’intera società, e precisamente, in molteplici forme ufficiose ed extralegali, tutti i soggetti esclusi dal diritto elettorale plebiscitario come donne, minori, esuli, stranieri (combattenti per l’Unità) e finanche gli ex sudditi degli antichi Stati italiani che risiedono all’estero o nella penisola (ma al di fuori delle loro «piccole patrie» di origine) al momento delle consultazioni popolari di unificazione. Particolarmente intensa e diffusa è la mobilitazione femminile, addirittura sollecitata dai governi provvisori quando si traduce in manifestazioni di sentimento nazional-patriottico, ma causa di timori e reazioni scomposte da parte di patrioti di primo piano, allorché in alcuni contesti le donne utilizzano gli spazi inediti di presa di parola aperti dalle procedure di «suffragio nazionale» per rivendicare pubblicamente i loro diritti politici, negati dall’assetto costituzionale e legislativo del nuovo Stato in costruzione.

Come segnala Niccolò Tommaseo nel Dizionario della lingua italiana redatto con Bernardo Bellini, questi processi di voto sono definiti «plebisciti» a posteriori «per le solite imitazioni di Francia», dove il lemma – mutuato dal linguaggio giuridico di Roma antica – è reintrodotto definitivamente nel 1851 dal futuro Napoleone III per indicare il contenuto testuale della formula sottoposta a ratifica popolare, secondo una declinazione non antiquaria di «plebiscito» già adottata nel maggio 1805 dal ministro degli Esteri francese Talleyrand in una lettera indirizzata a Christophe Saliceti, emissario incaricato di organizzare il voto di annessione della Liguria alla Francia. L’identificazione della voce plébiscite con l’intera procedura di voto si afferma sul finire del Secondo Impero a seguito di uno slittamento semantico, che rende possibile, sull’onda della polemica antibonapartista della Terza Repubblica, il progressivo diffondersi dell’accezione peggiorativa, oggi usuale, del termine, anche se occorrenze estensive del vocabolo si riscontrano già durante il Primo Impero – ad esempio nel 1807 per la penna di un grafomane di genio come Antoine Fantin Desodoards – o prima del 1848 da parte di François-Auguste-René de Chateaubriand e di Pierre-Joseph Proudhon.

Nel linguaggio politico italiano la parola e le sue varianti lessicali conservano più a lungo un significato neutro, se non positivo. Nei volumi Le Assemblee del Risorgimento, pubblicati dalla Camera dei deputati nel 1911 in occasione del cinquantenario dell’Unità, come già in una raccolta documentaria pubblicata nel 1884 dallo storico ufficiale di casa Savoia Nicomede Bianchi, tutte le votazioni di fusione con il Piemonte svoltesi dal 1848 in avanti ricevono l’appellativo di «plebisciti». Mentre l’espressione che si riscontra usualmente sia nei testi normativi sia nel discorso elettorale del 1848 è quella di «liberi voti», calco dal sintagma libres votes utilizzato nel periodo rivoluzionario per indicare le consultazioni popolari sulle leggi fondamentali del 1793 e del 1795 e poi trasferito nel vocabolario politico della penisola nel triennio patriottico in occasione delle procedure democratiche di ratifica delle costituzioni delle repubbliche Cispadana e Ligure nel 1797 e Cisalpina nel 1798. La parola «plebiscito» fa la sua comparsa nella legislazione elettorale italiana per opera di Giuseppe Manfredi, governatore provvisorio di Parma, che la utilizza nel decreto dell’8 agosto 1859 per indicare la formula di aggregazione al Regno di Sardegna. Un enunciato simile presenta la norma dell’8 ottobre 1860 nelle Province napoletane, mentre spie della trasformazione semantica in atto sono le varianti che si riscontrano nel decreto siciliano del 15 e in quello marchigiano del 21 ottobre 1860, dove, da un lato, i «comizi elettorali», dall’altro, il «Popolo», sono chiamati a «votare per plebiscito» ovvero a «statuire con Plebiscito» l’adesione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II (Mongiano 2003, pp. 335, 339). Il vocabolo non ricorre negli altri decreti elettorali del 1860 e del 1866, ma riappare, infine, per significare l’intero procedimento di voto nella normativa emanata il 28 settembre 1870 dalla Giunta provvisoria di governo di Roma e nel proclama del giorno successivo, con cui si fissa per il 2 ottobre la data del «Plebiscito del popolo romano e della provincia» (Fruci 2007, p. 568).

Nell’Italia liberale, la parola e la cosa incontrano una fortuna che travalica il campo semantico giuridico-istituzionale e politico-elettorale. La loro applicazione si allarga ai discorsi e alle pratiche emozionali che circondano i riti di devozione verso la famiglia reale e le dinamiche di solidarietà patriottica che si sviluppano in occasione di eventi traumatici e di catastrofi nazionali. Si pensi a espressioni ricorrenti come «plebiscito di dolore», coniato per illustrare le molteplici dimostrazioni popolari di cordoglio per la morte di Vittorio Emanuele II, o come «plebiscito d’amore», sotto il cui titolo la «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia» raccoglie l’insieme delle felicitazioni a Umberto I per lo scampato attentato del 1878. All’indomani del terremoto di Messina del 1908, sono altresì denominate «plebisciti del dolore» le processioni patriottiche durante le quali nelle principali città italiane migliaia di cittadini e cittadine, non di rado accompagnati dai propri figli, depongono le loro offerte in urne ricoperte dalla bandiera tricolore secondo scenografie e cerimonie mutuate direttamente dai plebisciti risorgimentali e dai loro (misconosciuti) antenati del periodo rivoluzionario e napoleonico.

I liberi voti alle origini del Risorgimento

Le pratiche di approvazione «per sì o per no» fondate sul suffragio universale maschile che definiamo ex post «plebiscitarie» hanno nella penisola una storia lunga e strutturano profondamente la socializzazione degli italiani alle procedure elettorali democratiche e dirette fin dalle origini del Risorgimento. Fra la primavera del 1797 e l’autunno del 1798 centinaia di migliaia di cittadini partecipano ai comizi elettorali o, in alternativa, alle feste federative che si celebrano nelle repubbliche create o rigenerate dalle armate francesi per l’accettazione di un ventaglio di costituzioni-sorelle modellate su quella termidoriana dell’anno III. Il 19 marzo 1797 sono convocate le assemblee primarie della Repubblica cispadana per sanzionare la carta approvata dal congresso di Modena sotto la supervisione di Napoleone Bonaparte, mentre a Milano il 9 luglio dello stesso anno la prima costituzione della Repubblica cisalpina è giurata e acclamata da un vastissimo pubblico di ogni sesso ed età durante la Festa della Federazione che si svolge nello spazio dell’antico lazzaretto, ribattezzato Campo di Marte. Il 2 dicembre 1797 hanno luogo i comizi nelle parrocchie della Repubblica ligure per la convalida della costituzione rimaneggiata da Bonaparte in persona dopo la controrivoluzione scoppiata alla vigilia del voto inizialmente fissato per il 14 settembre 1797. La cerimonia milanese è replicata il 20 marzo 1798 in piazza San Pietro, dove per la proclamazione collettiva dell’atto costituzionale ricevuto dal generale Louis-Alexandre Berthier, nuovo comandante in capo dell’armata d’Italia, si tiene quella che un testimone oculare non sospettabile di simpatie rivoluzionarie come Alessandro Verri definisce l’«assemblea generale di tutti i popoli della Repubblica Romana» (cit. in Fruci 2010, p. 92). Il 25 ottobre 1798, infine, per iniziativa dell’ambasciatore Joseph Fouché e del generale neogiacobino Guillaume-Marie-Anne Brune, successore di Bonaparte e Berthier alla guida dell’esercito francese nella penisola e protagonista del colpo di Stato democratico del 19 ottobre precedente, si aprono le assemblee distrettuali della Repubblica cisalpina per la sanzione – in seguito annullata dal Direttorio transalpino – di una versione emendata della costituzione imposta dall’allora ambasciatore Claude-Joseph Trouvé con il colpo di Stato conservatore del 31 agosto 1798.

Queste prove di «voto universale» – secondo una locuzione applicata per la prima volta in quel tornante al campo semantico elettorale – sono le antecedenti dirette del momento plebiscitario risorgimentale del 1848-70. Con esso condividono la matrice e alcuni lineamenti peculiari, oltre ai tratti classici dell’istituto plebiscitario, configurabile come una ratifica a posteriori, non deliberativa, «monosillabica» e, di fatto, senza facoltà di opzione, il cui esito positivo non si misura in base al risultato (acquisito) del voto, ma alla capacità di mobilitazione elettorale e, di conseguenza, alla comunicazione mediatica delle cifre dell’accesso ai registri o alle urne da parte dei cittadini.

In primo luogo, le consultazioni popolari del 1797-98 e del 1848-70 sono procedure insieme di diritto pubblico e di diritto internazionale che legittimano al contempo un potere personale, una realtà statual-territoriale e una legge fondamentale. Nel periodo rivoluzionario, infatti, i liberi suffragi di sanzione costituzionale si definiscono altresì come atti fondativi d’inedite compagini statali e come gesti di approvazione democratica della figura e dell’operato politico dei «generali costituenti» francesi, che dominano, di fatto, le nuove repubbliche militari. Sebbene non compaia espressamente nei dispositivi sottoposti al voto popolare, il nome di Bonaparte monopolizza – in anticipo rispetto alla Francia – la scena elettorale e recita una parte fondamentale nel discorso favorevole alle ratifiche costituzionali del 1797, presentate come un atto di omaggio al nuovo Licurgo transalpino, mentre nel 1798 un riconoscimento simile è riservato a Brune, suo fedelissimo imitatore e futuro maresciallo dell’Impero. Inoltre, come attesta anche l’iconografia, il primo generale in capo dell’armata d’Italia è protagonista assoluto della cerimonia federativa cisalpina del 9 luglio 1797 e, insieme a Berthier, è presente in absentia anche nella simmetrica festa del 20 marzo 1798. Analogamente, nel 1848-70, gli elettori sono chiamati a legittimare con il loro assenso un nuovo Stato (prima l’immaginato Regno dell’Alta Italia, poi il costruendo Regno d’Italia), una nuova carta costituzionale (lo Statuto albertino) e un nuovo sovrano-guerriero con i suoi discendenti (Carlo Alberto nel 1848, in seguito suo figlio Vittorio Emanuele II). I comizi si configurano sia come un sacramento unanimistico dell’unità nazionale, sia – per i liberali moderati e i democratici costituzionali – come una consacrazione collettiva del capo della comunità nazionale, il cui nome compare in modo appariscente nelle formule sottoposte all’approvazione popolare e la cui figura ricopre un ruolo chiave in tutta la «messa in scena» plebiscitaria.

In secondo luogo, ispirandosi direttamente o indirettamente al modello politico termidoriano, le pratiche plebiscitarie del breve come del lungo Risorgimento fanno ricorso alla sovranità democratica, costruendo in via eccezionale corpi elettorali universalistici e inclusivi, allo scopo di consacrare istituzioni basate, invece, su normative elettorali che concepiscono la cittadinanza politica come una funzione anziché come un diritto e la riservano, in ultima istanza, a coloro che possono esercitarla saggiamente perché in condizioni di indipendenza personale (economica o culturale). Tutte le costituzioni del triennio rivoluzionario 1796-99 sottoposte a convalida o a giuramento popolare richiedono agli elettori di secondo grado di essere proprietari, usufruttuari o affittuari di beni per determinati valori di rendita annua e contengono articoli di vigenza posticipata che vincolano l’iscrizione sul registro civico dei «giovani» all’esercizio di un’arte meccanica e alla prova di saper leggere e scrivere, mentre le leggi fondamentali cisalpina e romana del 1798 stabiliscono da subito il pagamento di una contribuzione diretta, fondiaria o personale, anche per l’ammissione alle assemblee primarie (la normativa elettorale rivoluzionaria prevede il voto a due o più gradi). Di contro, lo Statuto albertino del 1848, sanzionato dai plebisciti risorgimentali, disegna uno Stato retto da un «governo monarchico rappresentativo» in cui il riconoscimento del voto per la Camera elettiva è regolato dalla legislazione ordinaria. Al momento della proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, un meccanismo binario, censitario e capacitario, ereditato con lievi modifiche dallo Stato sabaudo e fondato sul prerequisito dell’alfabetismo, riconosce la cittadinanza politica attiva esclusivamente al 7% dei maschi adulti che abbiano compiuto 25 anni.

A fronte di questi comuni «caratteri originali», i liberi voti del 1797-98 si diversificano dalle consultazioni popolari del 1848-70 per la loro oscillazione permanente verso la soluzione illiberale e manipolativa come via per realizzare l’aspirazione antipluralista e unanimistica propria della lunga storia delle procedure elettorali democratiche. Le ratifiche del triennio rivoluzionario sono processi partecipativi densi di opacità e continuamente in bilico fra apprendistato democratico di stampo olistico e laboratorio di controllo coercitivo del suffragio, se non direttamente di correzione ex post del risultato elettorale allorquando i voti-desideri delle autorità repubblicane non corrispondono ai voti-numeri espressi dai cittadini. Al contrario, i «liberi voti» del 1848-70 si caratterizzano non tanto per le pressioni sugli elettori o le manipolazioni del suffragio, quanto per la partecipazione improntata al principio «una nazione, un voto», in cui la celebrazione dell’identità nazionale rivelata si sostituisce apertamente all’espressione della democrazia. Gli attori del tempo interpretano le procedure plebiscitarie come il coronamento dell’intero processo risorgimentale: i comizi si trasformano pertanto in un festival della comunità nazionale ritrovata che il linguaggio coevo traduce con espressioni icastiche quali «suffragio nazionale» e «voto della nazione». Nel momento breve del plebiscito, attraverso lo slittamento dal suffragio universale all’esultanza universale, si assiste a una sorta di sospensione temporale che configura una «comunità egualitaria», in cui l’imperativo della concordia prevale su ogni divisione di partito, di classe, di genere e di età. In questo quadro concettuale ed emozionale, si (di)spiegano gli atti di «cittadinanza paradossale» delle donne e dei minori, oltre che di molti militanti repubblicani che non solo votano, ma partecipano attivamente alla riuscita dei plebisciti valorizzando il loro profilo di rito nazional-patriottico e velando quello di celebrazione monarchica.

Dal 1848, e in particolare nella congiuntura 1860-70 si delinea un modello plebiscitario liberal-patriottico che si connota per la limitata attenzione verso i profili formali delle procedure elettorali piuttosto che per la loro manomissione, per la polarizzazione dei caratteri corali e unanimistici delle pratiche elettorali sette-ottocentesche anziché per la loro rarefazione, aprendo spazi inediti alla partecipazione popolare e traiettorie inattese di emancipazione giovanile e di genere. Dal punto di vista politico, la peculiarità del momento plebiscitario risorgimentale consiste nel calare un istituto antipluralista e di matrice bonapartista in una cornice liberal-rappresentativa, lasciando in eredità all’Italia unita un mito di fondazione declinabile come vettore di mobilitazione politica sia dall’universo monarchico-costituzionale sia da quello radical-repubblicano a seconda del profilo valorizzato: atto collettivo di investitura diretta del potere esecutivo, manifestazione patriottica di nazionalità o evento immaginato che ridisegna i confini della cittadinanza in senso inclusivo e radicalmente democratico.

La festa della nazione

Fin dal 1848 liberali moderati e democratici condividono una comune concezione antipluralista in chiave nazional-patriottica del suffragio universale, che nel 1860 si riverbera su un’analoga idea del processo plebiscitario, concepito come una professione pubblica e collettiva del sentimento nazionale. La votazione plebiscitaria non è considerata un gesto individuale volontaristico, ma piuttosto un atto collettivo di epifania nazionale, precisamente l’ultimo e il più solenne momento di rivelazione dell’identità italiana, culmine celebrativo di un percorso disseminato di prove e di segni che, a cominciare dalle molteplici forme della militanza patriottica, attraversa tutto il Risorgimento. Sul modello del giuramento patriottico, il consenso plebiscitario non è pertanto un rito fondativo, ma confermativo, sacralizzato dalla memoria dei sacrifici compiuti. All’indomani della votazione toscana, il presidente del governo provvisorio Bettino Ricasoli parla perentoriamente di «un altro decreto della Nazionalità Italiana», mentre Giuseppe Mazzini, nonostante le critiche sul piano procedurale, immagina il plebiscito nelle province meridionali come «una immensa manifestazione italiana a favore dell’Unità della Patria» (cit. in Fruci 2007, p. 575).

La convocazione dei comizi nel decennio 1860-1870 si colloca all’interno di un vasto movimento di appelli, cortei e adunanze di carattere nazional-patriottico, al quale gli attori del tempo riconoscono lo stesso valore morale e politico del suffragio plebiscitario. Di norma, le «libere dimostrazioni» dei cittadini a favore dell’unificazione sollecitano e accompagnano l’istituzionalizzazione della raccolta dei voti. Le petizioni, per lo più destinate al sovrano, ma anche agli uomini forti delle annessioni come Ricasoli in Toscana, Luigi Carlo Farini in Emilia e Giuseppe Garibaldi nel Regno delle Due Sicilie, costituiscono un fondamentale strumento di mobilitazione politica parallela allo svolgimento dei plebisciti, in particolare per gli esclusi di fatto o di diritto dal suffragio universale. Non di rado, le dimostrazioni pubbliche a favore dell’Unità sono considerate o proposte come sostitutive dell’espressione legale della volontà popolare. Nel 1859, in Lombardia, i municipi e le congregazioni provinciali dichiarano pubblicamente di accettare la fusione sancita dal suffragio universale nel 1848 e promuovono indirizzi succedanei del voto che conseguono migliaia di firme (anche femminili). Esemplificativo delle espressioni extralegali (e privatistiche) di appartenenza alla comunità italiana, che trovano il loro modello nelle procedure di autodeterminazione per mezzo dei «notai del popolo» ampiamente praticate nel triennio rivoluzionario 1796-1799, è il Memorandum ai popoli e ai governi d’Europa, redatto nel settembre 1859 da Tullo Massarani. L’atto, ricoperto da quindicimila firme rogate dai notai dei distretti mantovani dell’Oltrepò assegnati di nuovo al dominio austriaco dall’armistizio di Villafranca, è emblematicamente definito «plebiscito dei Transpadani» dal suo autore e proclama «l’italianità per continui e molteplici e gravissimi documenti provata, della nostra gente infelice» (Massarani 1892, p. 28).

In questo quadro che disegna, tanto sul piano pratico quanto su quello discorsivo, il processo plebiscitario come coronamento di una serie di dimostrazioni rivelatrici del sentimento nazionale, si situano le giornate del voto che riproducono linguaggi e repertori di azione delle manifestazioni di giubilo nazional-patriottico. Le narrazioni e l’iconografia descrivono all’unisono una serie di gesti e di comportamenti che illustrano uno «spirito del plebiscito» caratterizzato dall’impulso all’affratellamento analogo a quello che segna il 1848 in Francia all’indomani della proclamazione del suffragio universale e nella penisola prima e dopo l’inizio della prima guerra d’indipendenza. Le giornate plebiscitarie sono caratterizzate da baci, abbracci, calorose strette di mano, che coinvolgono spesso anche volontari ed eserciti liberatori. E sono costellate di episodi eclatanti di coesione civile che mettono in scena il superamento di antiche divisioni politiche e municipali. La consegna delle urne alle autorità dei capoluoghi per gli scrutini complessivi delle schede diventa l’occasione per l’incontro e la conseguente pubblica riconciliazione fra comunità separate da rivalità secolari. Spesso, come segno dell’abbattimento simbolico delle barriere fra città e campagna, gli elettori rurali che si recano nei borghi vicini per votare sono accolti entusiasticamente e festeggiati con lanci di fiori dal popolo minuto urbano. I testimoni traducono la gioia individuale e collettiva che denota le procedure plebiscitarie con espressioni quali «contento universale» e «universale letizia». L’accenno partecipato all’emozione, all’allegria e alla soddisfazione scolpite sui volti dei votanti sono un leitmotiv comune sia alle cronache, sia ai carteggi.

Attori e osservatori (italiani e stranieri) sono concordi nell’interpretare il processo plebiscitario come un grandioso festival della nazionalità. Da un capo all’altro della penisola, le piazze e le vie, gli edifici pubblici e privati, i negozi e i monumenti sono ricoperti di bandiere e di cartelli inneggianti all’Unità, mentre elettori e non, uomini e donne, giovani e bambini portano ostentatamente emblemi e coccarde tricolori appuntate su abiti e copricapi. L’attivismo minuzioso e capillare dei governi provvisori, delle associazioni politiche e dei notabili-patrioti nella preparazione dello «spettacolo morale» dei plebisciti raggiunge una forte uniformità scenica, in particolare a seguito del lavoro paradigmatico svolto dalla Società nazionale italiana, diretta dal siciliano Giuseppe La Farina, in occasione delle consultazioni della primavera del 1860 in Toscana ed Emilia, che diventano un autentico modello organizzativo e cerimoniale per le successive votazioni, segnate da una serie di coreografie e di momenti topici comuni. Nel 1894, Federico De Roberto rievoca nel suo capolavoro – I Viceré – «i sì colossali» che a Catania «eran tracciati sui muri, sugli usci, per terra», narrando che «al portone del palazzo il duca ne aveva fatto scrivere uno gigantesco, col gesso; e il domani, in città, nelle campagne, frotte di persone li portavano al cappello, stampati su cartellini di ogni grandezza e d’ogni colore» (De Roberto 1990, p. 263). In particolare, un ruolo chiave, accanto al risalto cromatico dello spazio pubblico tricolore, ricoprono gli inni e le musiche patriottiche che tramite le bande accompagnano l’intera dinamica plebiscitaria dalle processioni elettorali, all’atto di voto e finanche al momento dello scrutinio. I sì all’unificazione non campeggiano soltanto su muri e cartelli, ma riecheggiano così continuamente nelle grida dei votanti, aggiungendo un ulteriore elemento di sonorità patriottica alle giornate elettorali.

Le operazioni di voto assumono ovunque un carattere corale, portato tanto di una concezione monista del suffragio universale, quanto dell’applicazione di direttive che hanno lo scopo di promuovere una partecipazione ampia e ordinata nella prospettiva ideale (e auspicata) della «partecipazione universale». La mobilitazione elettorale avviene per corpi sia in campagna, da parte delle comunità rurali, sia in città, da parte delle congregazioni di arti e mestieri, degli apparati statali e dei gruppi professionali, degli studenti e dei professori universitari, dei militari (regolari e volontari, anche stranieri) e del clero, che si recano a deporre i bollettini nelle urne in schiera compatta. Il corteo elettorale, al quale si aggregano anche gli esclusi dal voto, è uno dei principali momenti in cui si articola la festa della nazionalità, trovando ricezione nelle stampe e spazio sulle riviste illustrate del tempo insieme agli altri capitoli della sceneggiatura plebiscitaria che colpiscono l’immaginario dei contemporanei e attirano l’attenzione di giornalisti e disegnatori: il «grande atto patriottico» della deposizione della scheda nell’urna, lo scrutinio pubblico dei voti, la proclamazione solenne dei risultati e la loro consegna ufficiale al sovrano.

Le narrazioni del voto si addensano, in particolare, su Napoli, dove i seggi sono collocati nei saloni di grandi edifici o in padiglioni tricolori allestiti all’aperto e il decreto elettorale prevede la presenza di tre urne, una vuota nel mezzo e due laterali contenenti le schede col sì e col no, da cui ciascun votante prende quella di sua preferenza e la depone nell’urna vuota. Il sistema di suffragio palese risponde senza dubbio a esigenze di controllo da parte delle autorità, ma riflette soprattutto un sostanziale disinteresse per la segretezza e, più in generale, per i profili formali del voto che caratterizza tutta la legislazione elettorale plebiscitaria, la cui preoccupazione precipua è quella di favorire la più larga partecipazione possibile, autentica posta di un processo elettorale concepito e messo in atto in forme unanimistiche. Una simile architettura procedurale rientra perfettamente nell’idea adeliberativa e puramente confermativa delle consultazioni popolari condivisa dagli attori del tempo che, non a caso, tendono a esibire in ogni modo la loro scelta unitaria, coinvolgendo nella pubblicizzazione del voto anche i pochi oppositori dell’annessione, che spesso si recano al seggio, accolti dall’ilarità generale, con il no impresso a caratteri cubitali sul cappello.

Le serate elettorali, scandite dal rito del trasporto notturno delle urne scortato dalle guardie civiche verso i luoghi preposti alla loro custodia, sono rischiarate dalle luminarie e dai fuochi d’artificio, attrazioni simmetriche allo sparo di mortaretti e al lancio di palloni che decorano la giornata plebiscitaria, insieme agli atti di pubblica beneficenza, soprattutto nelle province meridionali. Il lungo processo plebiscitario ha la sua apoteosi nella proclamazione solenne dei risultati, alla quale è propedeutico lo «spoglio generale» dei verbali provenienti dalle province che ha luogo nelle ex capitali presso le Corti supreme riunite in seduta pubblica di fronte a una folla composita di cittadini e cittadine. Nelle province napoletane e in Sicilia, questo momento è regolato dalla legislazione elettorale che si sofferma anche sugli aspetti scenografici. A Palermo, la normativa emanata dal pro-dittatore Antonio Mordini stabilisce che l’esito sia letto dal balcone della piazza dei Tribunali, mentre il decreto di Giorgio Pallavicino Trivulzio, ideatore con Daniele Manin della Società nazionale, prevede che a Napoli il presidente della Suprema Corte annunci il risultato dello scrutinio generale da una tribuna appositamente collocata sulla piazza di San Francesco di Paola, successivamente ribattezzata piazza del Plebiscito, come altri analoghi spazi urbani meridionali che ospitano la comunicazione istituzionale dei risultati elettorali. In un quadro unanimistico come quello plebiscitario, l’esibizione ufficiale e pubblica del dato numerico dei suffragi investe di un surplus di legittimazione corale l’esito espresso dal voto e rappresenta un’ulteriore dimostrazione di coesione del corpo politico allargato, unito prima nell’attesa trepidante, poi nell’acclamazione gioiosa del risultato prefigurato che avviene – spesso di notte – in scenari suggestivi quali piazza della Signoria a Firenze, Palazzo dei Dogi a Venezia e il Campidoglio a Roma.

A conclusione del processo elettorale, quando il sovrano non è impegnato in campagne militari come nell’autunno del 1860, la cerimonia di accettazione dei risultati sposta il palcoscenico dell’esultanza dai territori liberati alla capitale del Regno sabaudo. L’imponente rituale della consegna dei «voti» si divide in due tempi. Il primo giorno è dedicato all’ospitalità e all’affratellamento. Prima del convivio serale con le magistrature cittadine, le rappresentanze delle province annesse si esibiscono nella sfilata in carrozza per le vie di Torino o Firenze. Durante questi cortei è come se gli abitanti della capitale rivivessero il tripudio e la concordia del momento plebiscitario al quale non hanno preso parte, ma di cui hanno potuto leggere i resoconti e ammirare le illustrazioni. Il secondo giorno è, non a caso, dominato dalla figura del monarca. La scena si trasferisce, infatti, a Palazzo Reale, dove nella sala del trono avviene lo scambio di omaggi e l’incontro delle deputazioni con il sovrano, che successivamente firma i decreti di annessione e si mostra al balcone con la famiglia per ricevere le acclamazioni del popolo plaudente. Quest’apparizione segna l’entrata fisica del re sul palcoscenico plebiscitario, coronando un’onnipresenza virtuale di immagini, voci e parole che informa i linguaggi e le pratiche delle operazioni di voto, durante le quali la festa della nazionalità s’intreccia alla consacrazione della casata «eletta» a regnare sull’Italia.

Il sovrano plebiscitario

Nell’immaginario dei liberali moderati e dei democratico-costituzionali, la concordia nazionale celebrata nelle giornate elettorali s’incarna nella figura del monarca. Il nome del sovrano risalta nelle formule di fusione insieme ai riferimenti all’Italia e allo Statuto, modulati secondo le congiunture politiche. Nel testo del plebiscito delle province napoletane e della Sicilia, pensato da Francesco Crispi e redatto materialmente dal giurista Raffaele Conforti, è chiesto programmaticamente di votare «per l’Italia una ed indivisibile, con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti», mentre le altre formule sono costruite, con poche varianti, intorno alla domanda di adesione alla «monarchia» o al «governo» costituzionale «del Re Vittorio Emanuele II». L’evviva rivolto al sovrano, spesso in coppia con quello all’Italia, connota diffusamente (e programmaticamente, in base alle direttive della Società nazionale) le pratiche di voto aggiungendosi, nei cortei elettorali e nei seggi, alle ovazioni in favore del sì. Alle acclamazioni si aggiungono i ritratti, i busti, le effigi, le iscrizioni che campeggiano sui balconi, sulle finestre, nei locali pubblici e nei palazzi governativi, nei cartelli issati durante le processioni elettorali, nei seggi e nelle sale di scrutinio, completando la coreografia plebiscitaria con l’immagine e il nome del re. Nell’assemblea elettorale riunita nell’aula magna dell’università di Napoli, una scultura raffigurante Vittorio Emanuele II con lunghi mustacchi domina l’arcata centrale superiore, circondata dagli stemmi di casa Savoia e racchiusa fra due pannelli che recano scritte inneggianti all’Unità e al re d’Italia. Le colonne della parte inferiore, invece, sono addobbate da medaglioni con incise in sequenza alternata le iniziali «VE» e «GG», spia della compresenza della figura di Garibaldi nell’immaginario plebiscitario meridionale, sebbene in funzione collaborante rispetto a quella del sovrano.

L’idea che la consultazione abbia per fine di esprimersi a favore di Vittorio Emanuele II è ampiamente veicolata dal linguaggio plebiscitario. Questa strategia discorsiva va incontro all’orizzonte di attesa di molti elettori che fanno mostra di concepire in questo modo il loro suffragio. Il discorso pubblico esprime in modo formidabile questa investitura personale attraverso la polisemia della locuzione «Re eletto», attribuita a Vittorio Emanuele II e significativamente vergata insieme alla sua effigie sulle monete d’argento da cinquanta centesimi, da una e da due lire eseguite dalla zecca di Firenze all’indomani del plebiscito toscano del 1860. Per la sua ambiguità semantica, l’espressione «Re eletto», presente fin dal settembre 1859 nella formula di giuramento adottata per impiegati e militari dagli Stati emiliani e dalla Toscana, si presta perfettamente a una declinazione religiosa e provvidenziale. Nei molteplici frammenti del discorso plebiscitario, «l’eletto della Nazione» diventa così il «Re Salvatore», il «Redentore Re d’Italia», «l’Angelo di Dio» e l’«uomo mandato da Dio», un «Miracolo di Re».

L’idea della venuta e dell’elezione del sovrano s’intreccia con quella della dedizione dei popoli e degli individui alla monarchia di Savoia, all’interno di uno schema argomentativo che tende a esaltare il ruolo guerriero e paterno del sovrano cui i neo-italiani dichiarano di affidare i loro destini politici. Tuttavia, la rappresentazione del plebiscito come atto di unione personale al re non si esprime soltanto nei linguaggi di quelli che votano o che invitano a deporre la scheda nell’urna. Il discorso monarchico e quello dei governi provvisori ne sono fortemente segnati. Il momento solenne della consegna dei risultati costituisce uno spazio ideale per l’espressione di questi materiali retorici che si segnalano per i continui riferimenti a un immaginario politico riconducibile sia all’antico regime sia al nuovo ordine postrivoluzionario napoleonico del soldato-re, le cui forme solenni di accettazione dei suffragi popolari e di presa di possesso dei territori che fanno atto di devoluzione come le repubbliche di Lucca e Genova nel 1805, sono, non a caso, ereditati e riproposti dal re-soldato. Il 18 marzo 1860, Farini definisce «pegno di gratitudine e di fede» i «voti» dell’Emilia a favore di Vittorio Emanuele, che, con formula rituale utilizzata anche in risposta a Ricasoli quattro giorni dopo, dichiara di accettare il «voto solenne» avvalorato dall’unanimità del suffragio universale e di gloriarsi da allora in poi di chiamare «suoi popoli» i toscani e gli emiliani. Il corollario di questa visione dei rapporti fra sovrano e regnicoli è costituito dall’antico rituale dell’entrata nella capitale delle province annesse. Preparata scenograficamente nei più piccoli dettagli tramite archi trionfali artificiali e naturali (come i ponti veneziani sul Canal Grande il 7 novembre 1866), e riproposta di continuo, con la sola eccezione dell’accesso notturno e furtivo a Roma, la cerimonia dell’ingresso reale unisce rito monarchico e rito comunitario, rappresentando l’atto finale della dinamica plebiscitaria.

Le molteplici declinazioni e letture della figura del re nel processo plebiscitario convergono nel disegnare un modello di monarchia «d’antico regime democratico», in cui il sovrano «eletto», padre, santo e guerriero, è il simbolo della concordia e dell’unanimità sancite dal voto universale, inteso nel senso di espressione della «volontà sentimentale» della nazione. Quest’immagine di protettore del popolo e di uomo-popolo, in cui s’intersecano qualità medioevali e connotazioni bonapartiste, è avvalorata, oltre che dal discorso monarchico-liberale, anche dallo stesso Vittorio Emanuele e dai suoi ministri. Il Proclama ai Popoli dell’Italia Meridionale del 9 ottobre 1860, quasi parafrasando una frase pronunciata dal futuro Napoleone I davanti al Consiglio di Stato alcuni mesi dopo il colpo di stato del 18 brumaio, si conclude con una forte assunzione di responsabilità politica da parte del sovrano che dichiara essere suo dovere chiudere definitivamente l’epoca delle rivoluzioni nella penisola. Alla luce di una simile centralità regia, si comprende come, nella congiuntura decisiva del 1859-60, l’interpretazione condivisa del plebiscito quale manifestazione nazional-patriottica sia rafforzata da esigenze politiche convergenti. Ai repubblicani permette di adombrare la vittoria monarchica e la forte legittimazione popolare che la procedura plebiscitaria fornisce ai Savoia. Ai liberali moderati consente, invece, di attenuare la contraddizione del ricorso al voto universale per sancire un assetto politico-elettorale di tipo «aristocratico» che riconosce esclusivamente ai «savi» la cittadina politica attiva, ridimensionando il «precedente increscioso che – paventa il presidente del consiglio Camillo Benso conte di Cavour – potrebbero invocare in un prossimo avvenire sia il partito ultrademocratico guidato da Mazzini e Cattaneo, sia il partito clericale» (Fruci 2007, p. 604).

In realtà, le tensioni olistiche alla concordia e le potenzialità integrazioniste interne al processo plebiscitario non tardano a produrre effetti rilevanti (e non necessariamente negativi per la sua parte politica come temuto da Cavour), sia nell’immediato per le donne e per i minori che trasformano le giornate di voto in un formidabile e inatteso palcoscenico di protagonismo politico, sia nel breve periodo: tanto per l’universo radical-repubblicano che converte il momento plebiscitario in un potente mito di rivendicazione nazional-democratica, quanto per i liberali moderati che rispondono commutando – sul modello bonapartista del Secondo Impero – le prime elezioni per il Parlamento nazionale del gennaio 1861 in un plebiscito sulla monarchia all’ombra della figura di Vittorio Emanuele II.

I voti inattesi delle donne (e dei minori)

Se il profilo di rito celebrativo della patria rivelata e ritrovata che caratterizza il «suffragio nazionale» costituisce la condizione preliminare alla legittimazione della presa di parola femminile nello spazio pubblico plebiscitario, esso contribuisce altresì a far avvertire alle donne un senso di ingiustizia per l’esclusione normativa dall’evento unanimemente pensato e vissuto come l’apoteosi del processo risorgimentale. Da qui il paradosso, per le patriote, di agire e di percepirsi come cittadine senza cittadinanza, costantemente in bilico fra «comunità egualitaria immaginata» e aspirazioni emancipazioniste. La variegata serie di interventi, centrati sul linguaggio classico della «madre patriota» e della «madre cittadina», che le militanti politiche mettono in scena per esprimere la loro adesione al processo di unificazione e alla figura (paterna) del monarca, si configurano così non solo come manifestazioni collettive di appartenenza nazionale, ma anche come autentici atti simbolici di cittadinanza, che in particolare nell’annus mirabilis 1860, si affiancano alla mobilitazione, insieme collaborante e concorrenziale, dei giovani minorenni.

La principale modalità di engagement femminile consiste in pratiche collettive che ricalcano e mimano le procedure elettorali degli uomini. In competizione emulativa con i minorenni, le donne costituiscono seggi separati, fanno irruzione nelle assemblee elettorali con indirizzi e appelli, chiedendo di votare o almeno di vedere messa a verbale la loro volontà unitaria. Le sottoscrizioni e i seggi illustrano un duplice sentimento-intento femminile: manifestare apertamente un consenso al processo unitario succedaneo al suffragio legale; evidenziare l’ingiustizia dell’esclusione dal voto dimostrando in concreto che le donne possono partecipare al processo elettorale senza creare turbative. Non a caso, anche quando non sottoscrivono petizioni o non depongono le loro schede (o, in alternativa, le loro offerte patriottiche) in urne ufficiose, le donne stazionano nelle assemblee elettorali (non di rado con i figlioletti, come evidenzia a scopo tranquillizzante anche l’iconografia) o accompagnano, in particolare a Trastevere nel 1870, i mariti al voto, in deroga a una norma di ordine morale e di buon costume che ritiene scandalosa e perturbante la presenza femminile al seggio.

La seconda forma di partecipazione ha per protagoniste singole donne ammesse a votare per benemerenze patriottiche. I casi più noti coinvolgono nell’autunno del 1860 due personaggi femminili molto diversi fra loro. Da un lato, la popolana trentenne Marianna De Crescenzo, detta la Sangiovannara, taverniera di Monte Calvario a Napoli, protagonista del movimento clandestino antiborbonico, cugina di Salvatore De Crescenzo, il capo della «camorra liberale» alle cui squadre il ministro dell’Interno Liborio Romano affida l’ordine pubblico nell’estate del 1860. Dall’altro lato, la poetessa diciottenne di Recanati, Maria Alinda Bonacci, borghese, cattolica liberale, autrice di epigrafi e carmi per il passaggio del re Vittorio Emanuele II e dell’indirizzo plebiscitario di 275 donne della sua città. La Sangiovannara è un’eroina popolare; «regina» consultata e riverita del suo quartiere, è investita dell’onore di accogliere Garibaldi al suo arrivo a Napoli e di accompagnarlo nella visita alla Madonna di Piedigrotta. Oggetto per un momento dell’attenzione mediatica internazionale, le riviste illustrate del tempo le dedicano ritratti, interviste e articoli che ne fissano l’immagine di «donna guerriera» prediletta del dittatore delle Due Sicilie, accanto al cui busto è fotografata in una riproduzione al collodio in cui appare con i capelli neri e corti, la corporatura robusta, lo scialle sgargiante a fiori, una rivoltella in mano e l’altra appesa alla cintura insieme al pugnale. Patriota temuta, a capo di una squadra personale di armati di entrambi i sessi, Marianna evoca nell’immaginario maschile una modalità virilizzante di accesso al voto riconducibile all’universo perturbante della rivoluzionaria Théroigne de Méricourt, che vestiva da amazzone e portava la pistola e una sciabola donatale dopo l’assalto alla Bastiglia di cui era stata protagonista. Secondo una leggenda metropolitana, raccolta dal giornalista franco-ginevrino Marc Monnier, il diritto elettorale sarebbe stato concesso alla Sangiovannara per essersi battuta come un soldato sotto Capua al fianco dei garibaldini. In realtà, insieme ad altre patriote come Antonietta De Pace, ottiene un riconoscimento dal governo dittatoriale all’indomani del plebiscito, ma nella forma di una pensione mensile per essere stata «in tempi di tenebrosa tirannide» un «esempio inimitabile di coraggio civile e di costanza nel propugnare la causa della libertà» (Fruci 2006, p. 34). La mattina del 21 ottobre 1860, Marianna, al fianco del cugino Salvatore, guida un corteo festante e tricolore che conduce gli esuli Silvio Spaventa e Filippo Cappelli verso il padiglione elettorale del rione di Monte Calvario. Arrivata la comitiva al seggio, il presidente della commissione elettorale accorda straordinariamente il diritto/privilegio di votare alla Sangiovannara, che entusiasta depone il suo sì nell’urna fra gli applausi degli astanti e le arie patriottiche delle bande musicali.

Pochi giorni dopo, il 4 novembre 1860, Alinda, incaricata di portare all’ufficio elettorale l’indirizzo delle donne di Recanati, vota insieme a 239 coetanei analfabeti. Simbolo più rassicurante di donna che accede all’urna per i meriti conquistati sul campo virtuale della poesia patriottica, la sua figura di votante non assurge immediatamente alla cronaca nazionale. Tuttavia, il ricordo del suo gesto si è tramandato attraverso la memorialistica locale e grazie a una quartina del suo carme In morte del primo Re d’Italia, scritto nel 1878 per la scomparsa di Vittorio Emanuele II, in cui l’atto eccezionale è così orgogliosamente evocato:

Fanciulla oscura e timida,

con la scritta del sì sacra parola,

sporsi all’urna la trepida

man, fra le ausonie giovinette io sola! (cit. in Fruci 2006, p. 34)

La tensione fra discesa eccezionale nell’arena elettorale e atto simbolico di cittadinanza attraversa continuamente i linguaggi delle patriote impegnate nelle molteplici forme di adesione al processo plebiscitario. Nelle dichiarazioni di «sorellanza patriottica» come negli indirizzi alle autorità, le cittadine senza cittadinanza utilizzano codici comunicativi centrati sull’emotività che normalizzano, rendendoli accettabili, i contenuti delle loro istanze. Nel rivolgersi al monarca il linguaggio plebiscitario femminile si uniforma ai canoni drammatizzanti tipici delle suppliche di antico regime anche nei testi più apertamente rivendicativi, delineando un discorso ricco di scarti stilistici e funzionale a molteplici (e rassicuranti) livelli di lettura. Il ricorso al registro della deferenza è finalizzato in ultima istanza a caricare di speranze di riscatto il rapporto privilegiato con il sovrano, trasformando la sua figura in un operatore indiretto di emancipazione. La presa di parola femminile è continuamente giustificata con riferimenti alla sfera della passione opposta a quella (virile) della ragione, ma secondo un duplice schema di differente valenza politica. Da un lato, agisce un discorso aderente all’immaginario maschile, fondato sull’esclusione delle donne dallo spazio politico-elettorale, che rimarca l’irripetibilità delle parole e degli atti plebiscitari femminili che derogano temporaneamente (ed esclusivamente sul piano delle pratiche) a concezioni del «debole sesso» indiscutibili sul piano teorico. Dall’altro lato, si sviluppa un discorso che ruota intorno allo stereotipo della sensibilità per configurare un autonomo ordine politico-sentimentale femminile e rivendicare il riconoscimento della cittadinanza politica in nome dei «diritti del cuore» e delle sofferenze patite dalle patriote sia direttamente sia a causa o in luogo dei loro familiari di sesso maschile.

I discorsi dell’atto eccezionale e del «diritto sentimentale» s’intrecciano sovente negli stessi testi, in cui la manifesta volontà di adesione nazional-patriottica si unisce inscindibilmente all’espressione pubblica del dispiacere per l’estrapolazione giuridica dalle votazioni ufficiali. Quest’atteggiamento contrastante, che le donne condividono con i giovani, è sintetizzato efficacemente dalla formula «giubilo intorbidato» coniata nel loro indirizzo dai minorenni di Ancona. I codici dell’amarezza e del rammarico ricevono molteplici codificazioni retoriche, alcune finanche suffragiste. La prima, in continuità con i linguaggi politici femminili del triennio rivoluzionario e repubblicano, è di tipo rigenerazionista e culmina nella prefigurazione, tramite formule allusive, di un futuro coincidente con il compimento del processo unitario, in cui sarà sancito il riconoscimento dei diritti politici femminili. La seconda investe il rapporto fra i sessi, affermando l’uguaglianza fra uomini e donne in base all’equivalente intensità del loro amore per l’Italia. I toni di contestazione rappresentano il contenuto principale di un ulteriore universo discorsivo, che caratterizza, in particolare, la mobilitazione femminile in occasione dei plebisciti del 1866, ma è largamente sperimentato negli indirizzi giovanili del 1860, in cui gli adolescenti lamentano non solo l’impossibilità di partecipare ai comizi, ma anche di combattere per la patria, presentando il proprio destino collettivo come quello di una «generazione mancata».

I codici comunicativi che insistono sull’inclusione virtuale delle donne insieme a quelli che propongono l’«uguaglianza patriottica e sentimentale» dei sessi sono significativamente dominanti nel 1860, allorché la costruzione del nuovo Regno produce nell’universo femminile speranze di integrazione politica che nei primi anni dopo l’unificazione appaiono un obiettivo raggiungibile anche a parte delle élites liberali. I registri discorsivi di protesta e di rivendicazione suffragista prevalgono, invece, nel 1866, alla luce dell’operato deludente delle prime legislature postunitarie. La prima disillusione è causata dalla bocciatura del progetto di legge presentato nel 1863 dal ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi per il riconoscimento dell’elettorato amministrativo – tramite spedizione di scheda firmata – alle donne nubili maggiorenni o separate di corpo e di beni, in analogia (tradita) con quanto in vigore nel periodo preunitario per le donne proprietarie lombardo-venete e toscane che potevano votare per procura nelle consultazioni municipali. Un altro colpo alle aspettative femminili è assestato nel 1865 dalla nuova normativa di unificazione amministrativa che dichiara esplicitamente l’esclusione delle donne dal voto comunale e provinciale, mentre proprio nel 1866 la normativa complementare alla legislazione elettorale plebiscitaria fornisce un riconoscimento alle rivendicazioni manifestate dagli adolescenti durante i plebisciti del 1860, decretando l’ammissione al suffragio dei maschi minorenni, qualora abbiano fatto parte dell’esercito nazionale o si siano battuti come volontari durante le campagne per l’indipendenza nazionale.

A destra come a sinistra, l’universo politico liberale ripropone periodicamente (senza successo) il voto amministrativo femminile, ma rifiuta decisamente la cittadinanza politica alle donne. Di quest’immaginario sono rivelatrici le risposte pubbliche dettate principalmente dalla preoccupazione di attenuare le potenzialità emancipazioniste della loro mobilitazione che governanti e attori politici di primo piano forniscono alle militanti plebiscitarie. Esemplare, a questo proposito, è l’ambiguo plauso che Ricasoli indirizza alle donne toscane il 21 marzo 1860 invitandole esplicitamente ad abbandonare la scena politica per uniformarsi a canoni di comportamento più consoni al genere femminile e compendiabili nella classica (e tranquillizzante) «opera eccitatrice di pubbliche virtù» (cit. in Fruci 2006, p. 48).

Elezioni plebiscitarie

Per ammissione dei suoi stessi sostenitori, la repubblica non è mai realisticamente all’ordine del giorno durante la congiuntura 1859-60, quando «la monarchia – ricorda il conte mazziniano Aurelio Saffi – si imponeva al Paese come una necessità» e «noi ci inchinavamo ossequenti alla volontà dei più» (Saffi 1899, p. 111). In questo quadro politico, oltre che nel fuoco di una strategia che individua nelle annessioni il mezzo per rovesciare gli equilibri politico-territoriali della penisola in attesa di ulteriori (e auspicati) sviluppi rivoluzionari, s’inserisce nel corso del 1860 la mobilitazione plebiscitaria repubblicana – promossa dallo stesso Mazzini – sia nel centro, sia nel Sud d’Italia alla luce di un’interpretazione del voto come celebrazione del principio di nazionalità propedeutica al completamento del processo unitario tramite la liberazione di Venezia e Roma. I casi più esemplificativi (anche perché evidenziano la forza mobilitante del discorso plebiscitario liberale-monarchico in ambienti democratici molto diversi fra loro come quelli dei ceti artigiani urbani e dell’esulato) sono l’iniziativa del capo-popolo mazziniano Giuseppe Dolfi a Firenze, dei notabili radicali Piero Cironi e Giuseppe Mazzoni a Prato, e, infine, di Saffi, che da Oxford invia, insieme a numerosi proscritti di convinzioni repubblicane, l’adesione al plebiscito emiliano del marzo 1860.

Fin dall’estate del 1859, dopo essere stato il principale protagonista della riuscita del moto anti-lorenese del 27 aprile, il fornaio Dolfi s’impegna con gli esponenti della Società nazionale per incanalare in direzione annessionistica l’ondata di entusiasmo per le vittorie franco-piemontesi nella seconda guerra d’indipendenza, prima promuovendo petizioni in ogni centro toscano a favore della fusione con il Regno sabaudo, poi formulando in nome del popolo un solenne indirizzo unitario a Vittorio Emanuele II. Nonostante le pressioni in senso opposto di Mazzini, che Dolfi protegge e ospita quando fra agosto e settembre soggiorna clandestinamente a Firenze, il leader di borgo San Lorenzo collabora a lungo con il governo nazional-liberale di Ricasoli, offrendo la propria formidabile esperienza di organizzatore e mediatore politico alla mobilitazione popolare plebiscitaria del marzo 1860, durante la quale per sua iniziativa sono apposte alle porte delle sezioni elettorali della capitale fiorentina delle cassette per le offerte a favore dell’acquisto di armi in difesa della patria. Allo stesso modo, a Prato l’esito positivo del plebiscito è, prima, annunciato dal successo della sottoscrizione per il milione di fucili, che dal 4 al 15 dicembre 1859 coinvolge circa cinquemila persone, fra cui quasi mille donne e moltissimi minori; poi, minuziosamente organizzato sotto la direzione di Cironi e Mazzoni grazie all’apporto di militanti radicali borghesi (negozianti, rivenditori, impiegati) e popolari (sarti, calzolai, legnaioli) che alla vigilia della votazione animano anche una grande riunione preparatoria al teatro Metastasio.

L’8 marzo 1860, trovandosi nell’impossibilità di recarsi a Londra, Saffi spedisce il suo voto al Comitato italiano, presieduto da tre patrioti domiciliati, per affari o in esilio, nel Regno Unito. Due di essi sono di sicura fede repubblicana: Emanuele Rosselli (bisnonno di Carlo e Nello), ricco negoziante romano trapiantato a Livorno con succursale nella capitale inglese; Valerio Pistrucci, professore di Lingua e letteratura italiana al King’s College, figlio del poeta e disegnatore evangelico Filippo, cofondatore insieme a Mazzini e direttore della scuola italiana di Londra nei primi anni Quaranta. Tramite un invito pubblicato dal «Times» il 6 marzo 1860, il Comitato raduna i cittadini dell’Italia centrale residenti a Londra presso la London Mechanic Institution per deporre il loro voto secondo i decreti dei governi di Toscana ed Emilia. I 139 intervenuti (80 emiliani e 59 toscani) si esprimono tutti per il sì, deliberando di inviare un indirizzo agli italiani in patria. Saffi aggiunge il proprio suffragio sostenendo che in quel momento l’annessione costituisce un grande passo verso l’Unità d’Italia e che esprimersi a suo favore è pertanto il dovere di ogni italiano che ami la patria.

Il fatto che, in quei giorni del marzo 1860, il compiacimento per le fusioni monarchiche come viatico verso l’unificazione conquisti anche un repubblicano puro e integerrimo come Saffi è spia di un sentimento diffuso nell’universo democratico. Mazzini cerca di contrastarlo ricordando che il mezzo non deve essere scambiato per il fine, ma per molti patrioti radicali questo stato d’animo e l’intensa azione politica a favore delle annessioni rappresentano la diretta e ideale conseguenza della partecipazione alla guerra del 1859 nei corpi volontari garibaldini sotto l’egida sabauda. Anche dopo essere rientrato nell’ortodossia mazziniana e aver rifiutato la candidatura offertagli dagli elettori di Forlì alle votazioni politiche dell’aprile 1860, Saffi non nasconde la forte ammirazione per il re guerriero e patriota, contrapposto al suo governo (e quindi alla rappresentanza eletta che lo esprime), secondo un registro retorico da «bonapartismo di sinistra» tipico del linguaggio garibaldino e, più in generale, del discorso degli eredi del Partito d’azione dopo l’Unità. La partecipazione individuale e collettiva ai plebisciti del 1860 in Italia centrale e meridionale è pertanto continuamente esibita, rivendicata e valorizzata dall’universo repubblicano nel corso del movimento elettorale del 27 gennaio e del 3 febbraio 1861 per la nomina di quello che il discorso pubblico chiama il «primo Parlamento nazionale». Lo svolgimento della formula progettuale del plebiscito del 21 ottobre 1860 nelle Due Sicilie è assunto come programma unificante della costellazione democratica che si presenta alle urne sotto la bandiera di Garibaldi in nome della continuazione, legittimata dal voto popolare, della rivoluzione nazionale. L’evento plebiscitario si trasforma così in un mito mobilitante e in uno strumento acuminato di lotta politica, che i radical-repubblicani utilizzano per presentare le prime elezioni dell’Italia unita come una consultazione in cui una «setta moderata» (e unitaria malgré soi) si oppone al partito della nazione che vuole proseguire e completare il programma di unificazione, convalidato dal plebiscito meridionale, attraverso la liberazione di Roma e Venezia.

Se per i seguaci di Garibaldi e Mazzini le consultazioni politiche del 1861 diventano un nuovo voto (a suffragio limitato) sulla nazione in progress, i liberali moderati rispondono estendendo all’intera penisola il discorso già sperimentato nell’ultimo voto del Regno (ampliato) di Sardegna del 25 marzo 1860 e configurando le elezioni come un rinnovato momento di legittimazione della monarchia riservato ai «savi» che hanno accesso alla cittadinanza politica. La cavouriana Unione liberale e, in particolare, la Società nazionale propongono pertanto una declinazione aristocratico-bonapartista del confronto elettorale quale manifestazione di consenso verso il sovrano e il regime costituzionale da esprimere tramite il voto per il candidato designato dal governo sul modello della «candidatura ufficiale» praticata nel coevo Secondo Impero. Esemplificativa è la vignetta pubblicata il 26 gennaio 1861 dal periodico satirico torinese filo-cavouriano «Il Fischietto» e dedicata alle elezioni del giorno seguente (Ultimo definitivo appello del Fischietto agli elettori politici). A destra è raffigurato un seggio elettorale situato all’interno di un palazzo che reca lo stemma sabaudo e la scritta «Italia e Vittorio Emanuele» sopra il portone retto da due colonne-statue di Garibaldi e Cavour, mentre a sinistra i democratici sono rappresentati su una zattera alla deriva e sotto l’insegna «Italia e Vattelapesca».

All’indomani dell’Unità, le elezioni sono quindi concepite sia dai liberali che dai radicali non tanto come un’arena pluralista di confronto politico, quanto piuttosto come una contesa irriducibile su chi sia legittimato a rappresentare e interpretare validamente l’unanimità delle giornate plebiscitarie attraverso una riconsacrazione permanente (e di parte) del programma «Italia e Vittorio Emanuele». In questo modo, i cittadini censitario-capacitari del nuovo Regno sono chiamati a confermare la volontà espressa nei plebisciti da un corpo elettorale democratizzato che l’uno o l’altro schieramento riconosce alternativamente per autentica. Ma quanti e chi sono questi elettori? Attraverso quali meccanismi di voto si esercita la loro sovranità privilegiata? In breve, come funziona il processo rappresentativo del nuovo Regno?

Votare ed eleggere dopo l’unificazione

Essere cittadino italiano, saper leggere e scrivere, avere 25 anni compiuti costituiscono i titoli preliminari per l’esercizio della cittadinanza politica attiva secondo la legge elettorale del 17 dicembre 1860, che presiede lo svolgimento delle consultazioni per la prima Camera italiana (il Senato è di nomina regia e vitalizia). Attraverso il binario censitario della normativa, che modifica il decreto elettorale del 20 novembre 1859 a sua volta esemplato sulla codificazione subalpina del 17 marzo 1848, sono ammessi al voto coloro che pagano almeno 40 lire di imposte dirette, mentre il binario capacitario apre le liste elettorali ai laureati e a una serie di categorie professionali, fra cui: docenti universitari e di istituti secondari, magistrati, procuratori legali, notai, farmacisti, veterinari, ragionieri, geometri, impiegati statali, ufficiali in pensione. Oltre agli analfabeti e ai minori, dal corpo elettorale sono esclusi gli interdetti, i falliti, varie categorie di condannati giudiziariamente e le donne. Queste ultime, però, da un lato concorrono con le loro contribuzioni al calcolo del censo del marito, dall’altro, quando siano vedove o separate, possono delegare il censo al figlio o al genero.

Analogamente, il padre può trasmettere ai figli i propri diritti elettorali e viceversa avvalersi delle imposte relative ai loro beni sotto la sua amministrazione per raggiungere i requisiti fiscali di ammissione al voto. Il meccanismo di formazione del censo si basa pertanto non solo sui contributi pagati da chi è investito effettivamente dell’esercizio del suffragio, ma anche su quelli dei suoi parenti, secondo una tradizione legislativa risalente alla Francia della prima metà dell’Ottocento, che fa dei legami familiari una categoria del diritto di voto e dell’elettore la proiezione del «censo di famiglia». Le prerogative elettorali acquisite per via capacitaria sono perciò individuali, mentre il suffragio censitario investe l’elettore della rappresentanza virtuale dell’intera famiglia, intesa come comunità morale e socio-politica. Disporre dei requisiti censitari o capacitari richiesti dalla normativa non significa, tuttavia, essere elettore. Per diventarlo effettivamente occorre superare il passaggio fondamentale dell’inserimento nelle liste elettorali, dove si riscontrano scarti considerevoli fra aventi diritto e iscritti. La legislazione italiana prevede liste permanenti da sottoporre a revisione annuale, secondo un sistema misto di iscrizioni e cancellazioni d’ufficio da parte delle autorità municipali e statali, nonché di richieste e reclami demandati ai cittadini.

L’elettorato passivo è, invece, giuridicamente «universale» secondo i parametri del tempo, nel senso che sono dichiarati eleggibili tutti i regnicoli italiani di sesso maschile – eccetto alcune incompatibilità e incapacità stabilite per legge – che abbiano compiuto 30 anni e prestino giuramento di fedeltà al re e allo Statuto. I deputati, eletti per cinque anni, non hanno diritto ad alcuna indennità o retribuzione; il che contribuisce a rendere in pratica fittizia l’«eleggibilità universale» a favore di notabili aristocratico-borghesi in grado di sostenere continui viaggi e lunghi soggiorni nella capitale. Il sistema di voto si fonda sul collegio uninominale a due turni sul modello francese della Monarchia di Luglio. Si ricorre al secondo turno quando nessuno dei candidati abbia ottenuto un numero di preferenze pari a un terzo degli iscritti nelle liste elettorali e a più della metà dei voti espressi, esclusi quelli nulli. Il ballottaggio si svolge fra i due candidati che hanno riportato più suffragi e risulta eletto chi consegue la maggioranza semplice dei votanti. I 418.000 aventi diritto al voto, che diventano 530.000 nel 1870, sono suddivisi in 443 collegi (508 dieci anni dopo) disegnati secondo confini autonomi da quelli amministrativi. Molto difformi fra loro e al loro interno, le circoscrizioni uninominali contano in media 2.000 elettori nelle aree urbane e 500 in quelle rurali.

La partecipazione elettorale nel 1861 è del 57% – la più alta fino al 1876 quando nella fase di passaggio dalla Destra alla Sinistra storica è superata la fatidica soglia del 60% – e distribuita geograficamente in modo diversificato fra il Nord, che si attesta intorno alla media del 50%, il centro tendenzialmente al di sotto e il Sud che, invece, la supera costantemente, raggiungendo proprio nel 1861 la mobilitazione record del 67%. I dati non particolarmente elevati dell’affluenza sono da leggere sia alla luce del recente impianto delle istituzioni rappresentative nella penisola e del limitato apprendistato all’esercizio della cittadinanza politica che i «savi» condividono con le classi popolari al momento della proclamazione del nuovo Regno, sia alla luce di ragioni pratiche legate al funzionamento e all’architettura del processo elettorale. In primo luogo, allo stesso modo che in altre esperienze liberal-rappresentative come quella britannica, considerevole (e quindi disincentivante per l’afflusso alle urne) è il numero dei collegi di fatto incontestati (un quarto del totale durante l’età della Destra), sia perché il candidato vincente si trova senza avversari, sia perché è privo di oppositori realmente competitivi. In secondo luogo, lungi dall’essere considerato un semplice gesto individuale, l’atto di votare è pensato come un rito collettivo, cui i cittadini sono chiamati a partecipare mostrandosi un autentico «corpo elettorale», termine non a caso ricalcato sul linguaggio politico medievale al pari di «collegio elettorale». Corollario di questa concezione è la persistenza di una procedura laboriosa come quella del voto in assemblea, lasciato in eredità dalla rivoluzione francese ai regimi politici sia liberal-monarchici che democratico-repubblicani ottocenteschi, e quindi anche alla legislazione elettorale del Regno d’Italia. La divisione del collegio elettorale in sezioni, tendenzialmente coincidenti con i mandamenti (unità territoriali fra comune e provincia) contraddice in pratica l’ideale dell’unità di tempo e di luogo del corpo elettorale che caratterizza la pubblicistica e la normativa ottocentesca, ma non il profilo lento e corale del processo di voto. Il giorno della consultazione, gli elettori si riuniscono nella propria sezione, ospitata nelle chiese o nelle dimore signorili, prima di trovare sede – soprattutto nei centri urbani – in scuole e uffici pubblici. Nominano a maggioranza semplice presidente e scrutatori che, dopo aver scelto un segretario di seggio, avviano il processo elettorale tramite la chiamata alfabetica, ripetuta due volte a distanza di ore, degli iscritti nella lista elettorale, che deve rimanere affissa nella sala di voto per tutta la durata delle operazioni. Il presidente consegna all’elettore il «bollettino» da riempire con il nome del candidato prescelto in un tavolo separato, e lo riceve compilato per depositarlo nell’urna, secondo una dinamica di «voto segreto in pubblico» che caratterizza a lungo l’atto elettorale prima dell’introduzione, alla vigilia della prima guerra mondiale, di uno schermo alto due metri a protezione del tavolo riservato ai votanti. Per la maggior parte degli aventi diritto al suffragio recarsi all’assemblea elettorale comporta altresì l’impegno di un viaggio verso il capoluogo di mandamento, che può richiedere molte ore di cammino, e quindi anche dispendiosi e ripetuti (in caso di ballottaggio) pernottamenti fuori casa. Lo spostamento verso il luogo di voto e il protrarsi delle operazioni elettorali per consentire l’arrivo dei cittadini più lontani costituiscono uno spettacolo anche per i non elettori (di entrambi i sessi) che talvolta vi assistono come osservatori partecipanti e, più in generale, un tratto peculiare della mobilitazione politica dell’Italia liberale, con il corollario di tragitti in carrozza e di soggiorni elettorali offerti dagli agenti dei candidati.

Insieme al limitato livello di competizione politica, la complessità pratica del voto in assemblea e le difficoltà per raggiungere materialmente i seggi sono ulteriori e decisivi tasselli che permettono non solo di spiegare, ma anche di valorizzare i dati dell’affluenza elettorale nell’Italia postunitaria, suggerendo altresì di prendere in considerazione il coinvolgimento indiretto nel momento elettorale di un numero di regnicoli (e regnicole) più ampio sia dei votanti sia degli iscritti nelle liste elettorali. Coinvolgimento che si replica prima e dopo il voto in occasione dei tours propagandistici dei candidati o dei deputati nel loro collegio. Minuziosamente organizzati a livello rituale e ampiamente coperti sul piano mediatico dai giornali locali, e anche nazionali quando ne siano protagonisti attori politici di primo piano, questi pellegrinaggi elettorali e postelettorali rappresentano nei primi anni postunitari il principale momento di connessione (e comunicazione) fra rappresentanti e rappresentati, compresi gli esclusi dalla cittadinanza politica, tanto da innescare un autentico genere letterario, di cui Un Viaggio elettorale di Francesco De Sanctis – pubblicato a puntate sulla «Gazzetta di Torino» all’inizio del 1875 e in volume nel 1876 – è soltanto l’esempio più brillante.

Fin dall’indomani dell’Unità, la mobilitazione dei non elettori assume anche carattere politico al fine di rivendicare l’accesso al voto attraverso l’allargamento progressivo delle maglie del regime elettorale censitario-capacitario che si presta strutturalmente a una tale evoluzione poiché in esso la costruzione del corpo elettorale è un processo dinamico ed elastico, caratterizzato molto più dall’inclusione e dalla cooptazione che non dall’esclusione, a seguito dell’opera politica e dell’attivismo autonomo di individui e gruppi. Appropriandosi delle forme di mobilitazione plebiscitaria femminile e richiamandosi proprio a quel precedente storico di applicazione del suffragio universale, i non ammessi al voto allestiscono «elezioni-dimostrazioni» extralegali di protesta, in cui raccolgono su un proprio candidato alternativo un numero di preferenze non di rado superiore all’intero elettorato del collegio al fine di disconoscere l’esito delle votazioni legali e di negare legittimità rappresentativa al deputato ufficialmente nominato. Nella seconda metà degli anni Settanta dell’Ottocento, all’intraprendenza locale dei comitati di non elettori si affianca un movimento nazionale per l’ampliamento del suffragio promosso dall’estrema Sinistra e sostenuto anche dai settori più avanzati della Sinistra costituzionale guidati dall’avvocato e giurista bresciano Giuseppe Zanardelli, il leader liberal-radicale che si guadagna l’appellativo di «Gladstone italiano» come artefice della riforma elettorale del 1882.

La legge del 22 gennaio 1882 abbassa a 21 anni l’età di accesso alla cittadinanza politica (che resta rigorosamente maschile), dimezza il censo a poco meno di 20 lire, introduce il requisito capacitario minimo rappresentato dal completamento dei primi due anni della scuola elementare. La normativa consente altresì in via transitoria di includere nel corpo elettorale tutti quelli che sappiano scrivere di propria mano la domanda di iscrizione nelle liste elettorali davanti a un notaio insieme a una serie di categorie di cittadini, fra i quali chi ha acquisito meriti patriottici durante le guerre risorgimentali, come i decorati della medaglia dei Mille. L’elettorato è allargato in questo modo a circa 2 milioni di cittadini (pari a un quarto della popolazione maschile adulta). La classe dirigente della Sinistra liberale immagina di avere introdotto il «suffragio universale possibile» imperniando sulla scuola la costruzione e l’ampliamento progressivo della cittadinanza politica. Mentre la riforma è vista come una tappa da cui ripartire per ottenere il voto universale maschile (e femminile) da radicali, repubblicani e socialisti riuniti nella Lega della democrazia, che dal 1879, sotto la regia garibaldina di Alberto Mario e Agostino Bertani, ha organizzato da un capo all’altro della penisola meetings per la democratizzazione del suffragio culminati nel «comizio dei comizi» riunito a Roma dal 10 al 12 febbraio 1881. Dopo essere stato il leitmotiv dell’intera campagna, il richiamo ai plebisciti risorgimentali informa anche l’ordine del giorno presentato da Mario a nome del comitato organizzatore e approvato dall’assemblea popolare, che rivendica così la concessione del suffragio universale come atto di restaurazione di un antico diritto «già posseduto ed esercitato nel fondare l’unità d’Italia» (Mario 1984, p. 200). Lo stesso 12 febbraio, la leader emancipazionista Anna Maria Mozzoni, presente in rappresentanza dell’appena costituita Lega degli interessi femminili di Milano grazie al sostegno di Bertani e nonostante le perplessità di diversi promotori, riesce a ottenere l’approvazione a maggioranza di una mozione che afferma il principio del diritto elettorale femminile, fino a quel momento votato soltanto da tre dei circa settanta comizi preparatori svoltisi nei due anni precedenti.

Attraverso queste deliberazioni, i due principali protagonisti degli atti di «cittadinanza paradossale» del momento plebiscitario risorgimentale – le donne e l’universo radical-repubblicano – si ritrovano affratellati a vent’anni dalla proclamazione del Regno d’Italia. I liberi voti non rappresentano più soltanto un mito di fondazione e un vettore di mobilitazione, ma simboleggiano ormai anche un lascito potenzialmente democratico della tradizione risorgimentale agli attori (e alle attrici) della nuova Italia, cui in larga parte è negata fino al 1882 la partecipazione al processo rappresentativo di quel nuovo Stato che, con il loro voto ufficiale o extralegale, hanno celebrato di fronte alla comunità nazionale e contribuito a legittimare davanti all’opinione pubblica internazionale.

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