I programmi figurativi della cristianità in Occidente

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

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I programmi figurativi della cristianita in Occidente

Alessandra Acconci

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Il passaggio dall’era antica a quella cristiana implica un lungo processo di trasformazioni e adattamenti nel percorso della figuratività dell’Occidente, dal IV secolo in poi dominato dai luoghi di culto della nuova religione, in primo luogo le basiliche, dove si sviluppano i temi portanti delle arti visive, in dialettico e costante rapporto tra i prototipi dell’antichità, le nuove istanze estetiche e le esigenze di rappresentatività dei committenti.

Il mosaico e la pittura

Il mosaico della Traditio Legis che probabilmente decorava l’abside di San Pietro in Vaticano già nella seconda metà del IV secolo è l’immagine di una combinazione che con poche varianti viene riproposta nel corso del Medioevo e che introduce negli spazi destinati al culto comunitario i programmi a carattere dottrinario.

La scena dell’abside vaticana, in cui il Cristo, elevato sul monte paradisiaco, consegna nelle mani del successore Pietro il rotolo della Legge, riflette un rituale di investitura organizzato secondo il protocollo regale, il cui impatto visivo doveva essere assimilabile a una dichiarazione religiosa di magniloquente potenza evocatrice, funzionale all’esaltazione del ruolo di Roma cristiana, e in quanto tale presto acquisita nel repertorio degli spazi pubblici basilicali. I soggetti delle Traditio Legis e Clavium vengono replicati sulla cupola del battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli (tra la fine del IV e l’inizio del V secolo), e scelti, a Roma, per la decorazione dell’absidiola laterale del mausoleo imperiale di Costanza. Nella cripta della catacomba dei santi Marcellino e Pietro sulla via Labicana, una complessa e imponente composizione su due registri databile all’età teodosiana (379-395) prevede in alto la composizione fondata sul Cristo in trono tra i principi degli apostoli, in basso l’acclamazione da parte di santi e martiri della catacomba disposti ai lati dell’Agnus Dei issato sul monte paradisiaco, con ogni probabilità riflettendo gli sviluppi dell’arte delle basiliche.

Altre rappresentazioni a carattere dottrinale – Cristo docente, Cristo in trono, la Maiestas Domini – si impongono come temi di fondamentale riferimento nelle absidi a partire dal V secolo, dimostrando l’interazione tra i programmi decorativi che maturano in ambito funerario e la nascente arte monumentale, al punto da far ipotizzare con fondatezza che in alcuni casi la pittura e il mosaico cimiteriale riflettano perduti apparati compositivi sperimentati negli spazi comunitari. Rispetto alla fruizione limitata di simili composizioni, il passaggio all’arte monumentale dà luogo a contesti musivi pervasi di solennità: il consesso apostolico del sacello di Sant’Aquilino a Milano, ad esempio, vede un apollineo e imberbe fanciullo nelle sembianze di Cristo, ancora profondamente radicato nei prototipi dell’arte catacombale.

Sul finire del IV secolo l’approfondimento dell’esegesi biblica lascia emergere tutta la potenzialità simbolica e teologica, ebraica e cristiana, delle Sacre Scritture, fornendo materia per i soggetti iconografici e per il linguaggio simbolico, aprendo al contempo la via all’illustrazione di aspetti meno conosciuti della storia del popolo ebraico. In questo senso sono di esempio la “pinacoteca” della catacomba privata di via Dino Compagni sulla via Latina – il documento più significativo della pittura romana d’età costantiniana, per la proposta di un repertorio di scene vasto e ricercato sia dal punto di vista tematico che stilistico – e le decorazioni del mausoleo a pianta circolare di Costanza a Roma e dell’analogo edificio funerario di Centcelles, presso Tarragona, che ben rispecchiano il gusto della committenza aulica. Nei mosaici di entrambe le vaste rotonde si riflette la contaminazione tra il genere ornamentale d’ambito profano e la decorazione di carattere sacro-narrativo, che nell’esempio iberico è fondata su episodi dell’Antico e Nuovo Testamento, accanto a immagini cicliche (le stagioni) e ufficiali (forse una Apoteosi) tratte dalla pittura trionfale e monumentale.

La croce latina tempestata di gemme, issata sul trono vuoto e qualificato delle insegne imperiali (drappo e cuscino purpurei, suppedaneo) diventa un soggetto iconografico a partire dal mosaico dell’abside della basilica vaticana, in stretto rapporto con l’immagine di Cristo tra Pietro e Paolo rappresentati nel registro superiore della composizione. Tale schema compariva probabilmente anche nell’originaria decorazione musiva dell’abside dell’Ecclesia Salvatoris in Laterano, dove forse già prendeva posto l’immagine lasciata in opera nel rifacimento del tardo Duecento: il busto del Cristo entro il clipeo eretto sulla croce issata in cima al monte paradisiaco. La croce è un soggetto iconografico nuovo, non derivato dall’arte delle catacombe, che viene accolto in campo figurativo con particolare favore al tempo dell’imperatore Teodosio in quanto simbolo del trionfo sulla morte del Christus victor. Con questo significato si impone anche la variante della croce monogrammatica (nata dalle diverse forme di intreccio delle iniziali di Cristo), riservata specialmente agli ambienti battesimali, come nel battistero di Albenga (fine V sec.), e nel battistero napoletano di San Giovanni in Fonte, dove la preziosa croce-reliquiario in versione gemmata annuncia il ritorno di Cristo nel giorno del Giudizio al vertice di un complesso programma decorativo per la volta mosaicata. La cupola emisferica del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (secondo quarto del V sec.) è cosparsa di stelle luminosamente digradanti verso una croce latina centrale; sempre nella città esarcale la croce conquista la conca absidale di Sant’Apollinare in Classe, dove incastona nell’intersezione dei bracci il busto del Salvatore e figura in stretta connessione con il tema della trasfigurazione sul Monte Tabor.

La rappresentazione dell’Etimasia è anch’essa una composizione nuova, introdotta nel repertorio delle immagini cristiane ma esemplata su formule disponibili nell’arte e nell’immaginario del mondo antico: la raffigurazione della seconda venuta di Cristo, del secondo avvento o Parusia, si rappresenta con un Solium regale, cioè un trono gemmato e dorato, unito alla croce e posto entro un globo luminoso, come accade al sommo dell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore a Roma.

Strettamente correlata alla teofania, già verso il traguardo del IV secolo è l’immagine del tetramorfo, cioè la rappresentazione in forma simbolica dei quattro evangelisti così come deriva dalle visioni di Ezechiele (1, 4-14) e Giovanni (Apocalisse 4, 6-8) e dalla concorde illustrazione che ne danno i primi Padri della Chiesa, per i quali il leone, il vitello, l’aquila e l’uomo trovano corrispondenza negli autori dei Vangeli. Il programma della zona superiore del sacello di Santa Matrona nel borgo di San Prisco, presso Santa Maria Capua Vetere, tra V e VI secolo condensa temi che rispecchiano tali esperienze figurative appena maturate a Roma, nei mosaici dell’oratorio eretto presso il battistero lateranense da papa Ilaro e a Ravenna, nel mausoleo di Galla Placidia.

L’autorevole membro della famiglia imperiale sceglie di far rivivere nella decorazione del suo sacello costruito come cappella annessa alla basilica della Santa Croce i significati simbolici un tempo riservati ai cubicoli ipogei, trasfigurandoli con nuovi contenuti estetici e dissimulando completamente con il mosaico l’integrità materiale dell’ambiente. Il Cristo-Buon Pastore domina la lunetta sopra la porta di ingresso; la personificazione del più eloquente tipo cristologico, pur conservando i suoi caratteri bucolici tipici e derivanti dall’arte ellenistica, in questo ambiente veste l’abito regale, è aureolato e reca lo scettro a croce. Sulle altre due lunette trovano posto elementi del più tipico repertorio funerario, ovvero le coppie di cervi che si abbeverano alla fonte, richiamo al Salmo 42, mentre la visione della croce e del tetramorfo destinata alla sommità rimanda all’apparizione in cielo del Figlio dell’uomo che, stando al Vangelo di Matteo (24, 30), precederà il secondo avvento del Signore.

Durante il V e il VI secolo i programmi decorativi riecheggiano controversie teologiche e messaggi di politica religiosa, fissati nel fulcro compositivo dell’abside. A Santa Pudenziana, nel V secolo, la rappresentazione absidale rivela un notevole sforzo di elaborazione concettuale ed esprime una ecclesiologia ormai pienamente strutturata: al centro Cristo in trono, affiancato dalla doppia esedra umana degli apostoli togati come senatori; alle spalle di Pietro e Paolo due matrone personificano le Ecclesiae, chiamate a rappresentare la continuità e l’unità dell’antica e nuova legge divina secondo un passo della Lettera ai Galati di Paolo commentato da Girolamo. Fanno da corollario simbolico al tema del Cristo magister, rex e forse già iudex, oltre al tetramorfo, la croce gemmata innalzata sul Golgota e il riferimento alla Gerusalemme celeste che prende forma attraverso un’articolata struttura architettonica a imitazione di una cinta urbica turrita.

Milano, capitale dell’impero d’Occidente, grazie all’energica azione pastorale del santo vescovo Ambrogio vede sorgere una serie di complessi commemorativi dei martiri locali. Il sacello di San Vittore in Ciel d’Oro (seconda metà del V sec.) presso la basilica eretta nel cimitero ad martyres e poi intitolata a sant’Ambrogio, ha una volta che si presenta come uniforme distesa d’oro, assolutamente priva di articolazioni, salvo il medaglione centrale che contiene il busto di Vittore coronato e laureato come vero atleta della fede, il testimone di Cristo fissato nella sua gloria solitaria nel mezzo di una sfera luminosa.

La basilica di Santa Maria Maggiore sull’Esquilino a Roma viene edificata e completata durante il pontificato di Sisto III, all’indomani del concilio di Efeso (431), che sancisce il dogma della divina maternità di Maria. La decorazione musiva della navata centrale è costituita da una serie continua di pannelli con i principali episodi della storia del popolo di Israele selezionati dal Vecchio Testamento allo scopo di prefigurare l’Epifania del Salvatore, raccontata sull’arco absidale mediante il largo impiego di fonti letterarie sia canoniche che apocrife. Sia dal punto di vista contenutistico che stilistico è imprescindibile il rapporto con le illustrazioni dei libri e con le iniziative culturali promosse alla fine del IV secolo dall’élite aristocratica in favore del recupero della cultura e della tradizione classica. Nell’elaborazione del programma iconografico si è ipotizzato il contributo di Leone I Magno, allora arcidiacono e personalità eminente della Chiesa di Roma; di fatto, il suo spiccato genio pastorale è la fonte dell’imponente programma che rende canonica la selezione di temi operata sulle Sacre Scritture e sull’Apocalisse di Giovanni destinata alle basiliche di Pietro e Paolo e subito divenuta modello per ogni altro ciclo medievale. La sua profonda riflessione cristologica, infatti, contribuisce in misura determinante all’accrescimento delle tematiche iconografiche stabilendo, da allora e per l’intero arco del Medioevo, ruolo e contenuti dell’arte sacra in rapporto all’edificio di culto, in un accordo perfetto tra narrazione dei fatti della storia della Salvezza – eloquente, concisa, storicamente attentibile – e dimensione formale plausibile.

Capitale dell’Impero romano d’Occidente dal 402 al 476, sede del regno ostrogoto di Teodorico il Grande dal 493 al 526 e sede dell’esarca d’Italia in seguito alla riconquista dell’impero da parte di Giustiniano, Ravenna è il luogo in cui si concentrano o passano oggetti, maestranze, linguaggi artistici dell’Occidente e dell’Oriente. L’intenso mecenatismo di Galla Placidia nella prima metà del V secolo è testimoniato dai superbi edifici di culto internamente rivestiti da mosaici. Oltre al mausoleo già ricordato, la basilica della Santa Croce è la sua massima opera commissionata insieme alla Cappella Palatina dedicata a san Giovanni Evangelista, caratterizzata da un perduto programma politico – sull’arco trionfale il Redentore guidava la nave dell’Augusta e dei suoi figli dall’Oriente alla volta di Ravenna – che sottolineava la legittimazione divina alla dinastia valentiniano-teodosiana. La decorazione musiva del Battistero degli ortodossi e quella del più tardo Battistero degli ariani rappresentano l’affermarsi del sistema della divisione della cupola in settori che culminano nella figura del Cristo al centro, come imago mundi, emanazione del Logos. A Sant’Apollinare Nuovo, chiesa della corte ariana di Teodorico, oltre allo spazio assegnato alla rappresentazione laica del potere (ma al momento della riconversione al culto cattolico, nel 570, il vescovo Agnello trasforma l’immagine di Teodorico nel ritratto di Giustiniano), si sviluppa il più antico ciclo cristologico che ci sia pervenuto, verosimilmente da connettere alla fede nell’unica natura umana di Cristo riconosciuta dagli ariani. A Sant’Apollinare in Classe l’abside mette in figura la Trasfigurazione utilizzando il simbolo della croce fiancheggiata dai busti dei profeti Mosè ed Elia e da tre agnelli, identificabili con gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.

La forte impronta astratta delle immagini ravennati rende vivissimo il contrasto con ciò che si produce in quel torno di anni a Roma con il patrocinio papale. Il mosaico commissionato da papa Felice IV per il catino absidale della Chiesa dei Santi Cosma e Damiano sorta entro una dipendenza del Foro della Pace, può dirsi il prodotto più genuino della ricercata dimensione antica che pervade l’Urbe. L’opera è coeva all’abside di San Vitale a Ravenna e Roma è sotto la dominazione gotica, ma non potrebbe esserci distanza maggiore tra i principi estetici che regolano l’arte figurativa nella capitale del regno di Teodorico e nel centro della cristianità, dove il vescovo è insieme il difensore della città, della Chiesa e della tradizione che essa ha ereditato. L’ordinato schema compositivo è quello ormai acquisito delle sette figure, qui solenni e piene di vigoria espressiva come statue romane, chiamate a partecipare all’ingresso del martire in paradiso e all’improvvisa teofania. Nell’insieme l’iconografia riunisce i temi della Traditio legis, del Giudizio particolare, dall’offerta delle corone (aurum coronarium), attraverso una realistica illustrazione del messaggio profetico alludente al trionfo finale di Cristo nel secondo avvento, mentre sull’arco absidale contro un abbagliante fondo d’oro prende posto la visione giovannea dell’apertura dei sette sigilli.

L’irraggiamento del gusto bizantino è soprattutto rappresentato dall’accentuata astrazione e immobilità delle immagini sacre, austere e apparentemente partecipi di un cerimoniale che si avvale di gesti e rituali in uso nella corte terrena. Una solenne cerimonia liturgica è inscenata nell’affresco del primo strato di una parete-palinsesto nella Chiesa di Santa Maria Antiqua nel Foro Romano, già corte d’ingresso del Palazzo Imperiale. La maestosa liturgia dell’aurum coronarium – letteralmente, l’offerta delle corone, che fa parte del rituale di adventus imperiale – inquadra l’immagine di Maria Regina col Bambino coronata e abbigliata da basilissa terrena, secondo le modalità del culto tributato alla Vergine con attributi di regalità attivato sia Roma che a Costantinopoli fin dal V secolo. Al primo strato si sovrappose una Annunciazione di cui resta una figura angelica improntata a una marcata classicità formale di tradizione ellenistica; la stessa aula accoglie verso la metà VII secolo lo stile vibrante, animato da una ripresa dei modi compendiari, nell’affresco con Salomone e i sette figli Maccabei e in seguito una grandiosa composizione del Cristo sul Golgota patrocinata dal greco Giovanni VII.

Durante il VI secolo un nuovo soggetto da destinare ai contesti absidali viene messo a punto a Roma sulla base di sottili e complessi significati simbolici per porre in risalto l’affermazione di Cristo sull’universo. Si tratta del tema iconografico di Cristo sul globo, già apparso nel IV secolo ma ora destinato a collocazioni prestigiose, anche con significative varianti: appare sull’arco della basilica orientale di San Lorenzo fuori le mura, nella piccola chiesa di San Teodoro ai piedi del Palatino e in esempi ravennati (San Vitale) e adriatici (Parenzo, Basilica Eufrasiana) che derivano comunque da Roma. Il mosaico di San Lorenzo al Verano è esemplare anche perché in esso si manifesta la duplice tendenza sempre latente nell’arte altomedievale: da un lato l’astrazione dominante, dall’altro il pungente realismo del ritratto, in questo caso di un papa vivente – Pelagio II – e dei santi Lorenzo e Ippolito che lo affiancano.

Il culto tributato alla Vergine già tra il VI e il VII secolo mostra di aver assunto dimensioni importanti nella pratica liturgica, con immediati riflessi nei programmi decorativi degli spazi di culto d’area ravennate e altoadriatica, come appare dai mosaici della basilica di Eufrasio di Parenzo e le decorazioni della seconda fase di Sant’Apollinare Nuovo. A Roma Giovanni VII dedica alla Vergine Maria un oratorio integralmente mosaicato con l’apporto di maestranze costantinopolitane, posto all’estremità della navata di San Pietro e a noi noto attraverso disegni realizzati nel XVII secolo. Il radicamento del culto mariano è documentato ancora oggi da un importante gruppo di icone; tra queste, la grande tavola della Madonna della Clemenza, persuasivamente datata all’inizio del VIII secolo. La peculiarità di tali opere risiede anche nel loro essere testimonianze della produzione pittorica anteriore al movimento che nell’impero d’Oriente avversa il culto delle immagini (iconoclasmo o iconoclastia); nel pieno infuriare della polemica, Roma e la cristianità d’Occidente guidata dal suo vescovo mantengono inalterate le funzioni proprie delle icone saldamente al centro del culto ufficiale e della devozione popolare.

L’esempio massimo di trasmissione dei temi sperimentati in ambito bizantino in età pre-iconoclasta risiede nella piccola chiesa lombarda di Santa Maria foris Portas presso l’abitato fortificato di Castelseprio (Varese), dove un ciclo di pitture murali di qualità altissima è superstite nell’abside orientale: l’Infanzia del Salvatore, su doppio registro, ispirata a fonti canoniche e apocrife, il Busto di Cristo e l’Etimasia sull’arco. Nella sfera longobarda si assiste a una significativa presa di coscienza di tutta la tradizione antica fino all’ultima esperienza bizantina, specialmente, ma non solo, attraverso la scoperta di Ravenna.

L’impresa musiva promossa da Giovanni VII a ridosso della controfacciata di San Pietro è l’ultima a Roma; anche se in età longobarda l’impiego del mosaico non conosce vere battute d’arresto: la Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia era così denominata per la calotta mosaicata, originariamente connotante anche il cosiddetto Tempietto di Cividale del Friuli. La tradizione del mosaico romano a pasta vitrea riemerge spettacolarmente nell’Urbe tra VIII e IX secolo. Il motore della ripresa è Leone III, il pontefice che promuove i restauri dei cicli paleocristiani di Santa Maria Maggiore e San Paolo a Roma, e che a Ravenna aggiorna l’iconografia dell’arco di Sant’Apollinare in Classe (813) sul modello di quella ostiense. Sono da ritenere sue ideazioni i programmi musivi per le chiese romane dei Santi Nereo e Achilleo, Santa Susanna e del Triclinio Lateranense. Le intenzioni di Leone sono state interpretate in chiave di recupero della tecnica musiva per programmi politici che intendono consolidare il concetto di romanità della Chiesa e dell’impero cristiano. Dopo la definitiva sconfitta dei Longobardi, nel 774, Carlo Magno è diventato per buona parte dell’Occidente l’unico principe e reggitore del popolo cristiano e l’estensione stessa del suo regno tende a significare l’estensione dell’impero romano cristiano. Leone III svolge il ruolo di benefattore della città e delle istituzioni ecclesiastiche con grande prodigalità e in stretta connessione con la volontà di riaffermare l’autorità del papa su Roma e la natura imperiale della dignità pontificale. Nelle decorazioni di importanti luoghi pubblici dell’Urbe fanno irruzione programmi politici che si qualificano come annuncio e giustificazione teorica di avvenimenti contemporanei o immediatamente successivi, come quelli verificatisi nello storico Natale dell’800 con l’incoronazione in San Pietro di Carlo Magno. Ciò appare confermato dalla decorazione dell’abside già appartenente al perduto Triclinio presso il Laterano (poco prima dell’800), sulla quale si propone il tema della missione apostolica come emblematico di una visione provvidenziale della storia e, verosimilmente, delle vittorie del re sui Sassoni e sugli Avari che aprirono la via all’evangelizzazione di popoli ancora pagani. Sull’arco trionfale invece si esplica il vero e proprio programma politico attraverso due ordini di figurazioni parallele, ciascuna con tre personaggi, tra i quali i contemporanei Leone III e Carlo Magno.

Che la tecnica del mosaico e i programmi decorativi consolidati attraverso questa arte godessero dell’apprezzamento dei Carolingi è testimoniato dalla scelta di adottare ad Aquisgrana, sulla volta della Cappella Palatina, una grandiosa Maiestas apocalittica rivolta verso il trono dell’imperatore e dal superstite oratorio di Germigny-des-Prés (Loiret, Francia centrale) fatto costruire dal teologo Teodulfo d’Orléans con un programma imperniato sull’Arca dell’Alleanza rappresentata nel catino absidale (806 ca.). Le stesse botteghe attive per Leone III proseguono la loro attività per gli imponenti interventi promossi da Pasquale I, a Santa Prassede, a Santa Cecilia in Trastevere, e Santa Maria in Domnica. Il successore Gregorio IV patrocina il mosaico dell’abside di San Marco, concludendo un’esperienza artistica e culturale che nell’arco degli ultimi cinquant’anni aveva prodotto numerosi esempi di decorazioni musive a Roma, aggiornandone stile e contenuti.

Fra le testimonianze isolate che perpetuano la tecnica del mosaico e insieme a essa i temi che tradizionalmente vi si associano, sullo scorcio del IX secolo si pone l’abside di Sant’Ambrogio a Milano, probabilmente commissionata dal vescovo Angilberto II con la Maestà di Cristo, gli arcangeli in atto di posare corone sul capo dei martiri milanesi Gervasio e Protasio e scene della vita del vescovo Ambrogio, solo parte in situ. A Roma sul sepolcro di Ottone II viene realizzato l’ultimo mosaico anteriore all’anno Mille, con il Cristo in trono benedicente tra Pietro, che sorregge tre chiavi, e Paolo con una candela accesa e un rotolo. Sebbene molto rimaneggiato, il brano musivo rivela un’attenta e sapiente tecnica. La città, del resto, non aveva ancora perso il magistero artistico e le maestranze altamente formate, se nel 1007 l’abate Gauzlin di Fleury vi si rivolgeva per ornare di mosaici un arco della chiesa abbaziale. Diversamente, circa cinquant’anni dopo il cronista di Montecassino, Leone Marsicano, dichiara invece che i maestri occidentali hanno perso abilità dell’esercizio dell’arte musiva; l’abate dello stesso cenobio, Desiderio, guarda infatti a Costantinopoli per la decorazione della ricostruita chiesa abbaziale, preparando il terreno per una feconda, nuova stagione dell’arte del mosaico, nata sotto l’impulso diretto dell’arte bizantina.

Nell’Europa settentrionale, dove la tradizione della pittura murale è assai meno significativa, le rinascite insulare e carolingia producono effetti di rapida acquisizione di apparati figurativi del repertorio cristiano e di tecniche di linguaggio espressivo, le une e le altre soprattutto penetrate attraverso la straordinaria diffusione di codici miniati e manufatti d’arte suntuaria di particolare esuberanza iconica. La reviviscenza dell’antico viene favorita anche dall’audace politica di concentrazione ad Aquisgrana delle risorse intellettuali e materiali in gran parte sottratte alle corti, alle chiese e alle abbazie lombarde, attuata dal re franco. Il riconoscimento visivo, pubblico, della sovranità di Carlo Magno, l’evidente trasmissione dell’impero cristiano nelle sue mani, è testimoniata anche dai programmi pittorici, a cominciare dagli scomparsi affreschi dell’aula regia di Ingelheim, e probabilmente dal ciclo delle storie di Davide in San Benedetto a Malles, che celebra le virtù del sovrano, poco dopo la sua incoronazione romana, paragonandole a quelle del profeta biblico che ricostruì il Tempio.

Un aspetto interessante e nuovo della pittura europea del IX secolo è rappresentato dalla scelta di determinati programmi aniconici scelti in particolar modo per ambienti sussidiari. In Italia, smaglianti decorazioni fondate su schemi geometrizzanti ripetitivi caratterizzano la fascia parietale bassa della cripta dell’abate Epifanio e alcuni ambienti monastici del complesso di San Vincenzo al Volturno. Fregi ispirati alle tarsie marmoree imitano i sontuosi rivestimenti parietali a crustae marmoree, come già accadeva nella pittura romana; i vani possono ricevere una sobria struttura architettonica dipinta a simulare colonne architravate e plinti marmorei (Lorsch, Torhalle) o soffitti sostenuti da mensole classicheggianti. Con la sensibilità dei pittori romani del secondo stile, oppure dei mosaicisti attivi nella rotonda di San Giorgio a Salonicco nel V secolo, elaborati prospetti architettonici trasformano e dilatano illusionisticamente l’interno di San Julián de los Prados, a Oviedo, dove Alfonso II pone la nuova capitale attorno alla cattedrale di San Salvador, scegliendo la croce costantiniana come unico elemento compositivo nell’abside.

La pittura dei grandi centri monastici è conservata in minima parte rispetto a quanto di essa è tramandato dalle fonti. La chiesa abbaziale di Sankt-Georg a Oberzell esemplifica la produzione monumentale di uno dei maggiori scriptoria dell’età ottoniana, quello della Reichenau, e Müstair, nel cantone dei Grigioni, appartenuto alla corona carolingia, è l’esempio di una pianificazione iconografica fondata su un programma politico: dalle fonti vetero-testamentarie prendono risalto le storie di re Davide e Assalonne, queste ultime considerate come allusione a vicende di storia contemporanea, anche in ragione del riconoscimento di Ludovico I il Pio, o di un suo stretto sostenitore, come committente delle pitture.

Scultura

L’arte ufficiale continua a commissionare opere solenni e altamente rappresentative, che si tratti dei monumentali sarcofagi di porfido prescelti per i sepolcri imperiali fino alla metà del V secolo, oppure dei ritratti di dinasti, dignitari membri del patriziato, attraverso i quali, pur essendo mutate le condizioni della rappresentatività, si perpetua l’arte dell’individuazione fisionomica e dell’idealizzazione del soggetto; o ancora di manufatti funzionali alla glorificazione del sovrano e alla tradizione del monumento, come i bronzi (si pensi al frammentario bronzo capitolino di Costantino che forse reimpiega un colosso del I secolo rilavorandone la maschera facciale), o la perduta statua equestre di Teodorico fatta trasportare da Carlo Magno ad Aquisgrana. Lo storico Eusebio di Cesarea riferisce di statue bronzee del Buon Pastore e di Daniele poste a ornamento di fontane, e nella biografia di papa Silvestro I sono menzionate esplicitamente un complesso di statue d’oro e d’argento raffiguranti Cristo, san Giovanni Battista, cervi e agnelli, posti a decorazione del battistero del Laterano. Tuttavia l’arte scultorea del IV e V secolo è essenzialmente rappresentata dai sarcofagi, settore specializzato di numerose botteghe ubicate per lo più a Roma, Milano, Ravenna e nelle Gallie. Dalle prevalenti composizioni bucoliche o ispirate a figure di filosofi, di oranti, o raffiguranti il Buon Pastore, si passa alla comparsa di soggetti biblici o cristologici su casse che in epoca costantiniana appaiono a doppio fregio e monumentali, con una fitta sequenza di episodi figurati sottoposti a un principio ordinatore che talora prevede suddivisioni con colonnine a sostegno di architravi o archi.

Sui sarcofagi cosiddetti “di Passione” è la croce-trofeo di vittoria il fulcro compositivo; altri temi solenni e trionfali sono direttamente influenzati dalla nascente arte monumentale: il trionfo di Cristo sulla morte; Cristo magister tra gli apostoli; l’aurum coronarium. La costituzione del repertorio iconografico di matrice cristiana investe e connota ogni elemento destinato agli edifici di culto. Le porte lignee di Sant’Ambrogio a Milano (379-386 ca.), in frammenti, e lo straordinario esempio ancora in opera nella basilica di Santa Sabina a Roma (422-432), dimostrano che l’insieme di profezie, leggi e rievocazione evangelica si specchiano ormai in una sorta di esegesi tipologica tra grandi prodigi dell’Antico Testamento ed episodi relativi alla Rivelazione di Cristo, secondo il criterio della narratio parallela, che riflette il pensiero e l’attività omiletica della coeva letteratura patristica, determinando una svolta fondamentale per l’arte cristiana: fare entrare nell’ambito della cultura dei fedeli una larga antologia di storia della Salvezza.

A Ravenna e nell’alto Adriatico, il grandioso programma artistico realizzato da Giustiniano catalizza tutte le “voci” contenute nella cornice dell’impero nell’orizzonte di tradizioni e tendenze fra le più diverse, riunite e plasmate fino al raggiungimento di quella “sintesi giustinianea” che realizza la nascita di un nuovo linguaggio autonomamente bizantino. L’interno di San Vitale conserva ancora gran parte del sontuoso rivestimento di marmi e stucchi; le altre chiese della capitale dell’Esarcato – Sant’Apollinare in Classe, già San Michele in Africisco (ora al Museo Nazionale), la Cattedrale Ursiana (Museo Arcivescovile), Sant’Agata Maggiore e Sant’Apollinare Nuovo – custodivano un campionario di colonne e capitelli, cornici e transenne, tali da qualificarli come interni al passo con tutte le novità provenienti da Costantinopoli e, soprattutto, uniformati ai principi estetici sviluppati nella capitale. La stessa Roma non è tagliata fuori dalle rotte dell’importazione di pregiati prodotti artistici da Costantinopoli. Lo dimostrano i superstiti elementi di arredo marmoreo scelto per la basilica di San Clemente al tempo di Ormisda: colonnine vitinee e raffinatissimi capitellini a traforo recanti il monogramma del presbitero Mercurio, poi divenuto papa con il nome di Giovanni II e, insieme, un imponente complesso di lastre di marmo proconnesio con eleganti e sobrie decorazioni fondate sul tema della croce direttamente confrontabili con i materiali realizzati per la Santa Sofia di Giustiniano, riutilizzate come schola cantorum nella basilica superiore.

L’orizzonte artistico nei regni romano-barbarici evidenzia invece il ricorso al comune repertorio di immagini di matrice tardoantica e paleocristiana insieme a influenze derivanti dalle tecniche di oreficeria di produzione germanica, merovingia, visigotica. La Spagna visigotica e asturiana sviluppa una scultura autonoma in connessione alle membrature architettoniche: a San Juan de Baños de Cerrato nella provincia di Palencia – fondata nel 661 da re Recesvindo –, a San Pedro de la Nave presso Zamora (metà VII sec.), a Quintanilla de las Viñas nella provincia di Burgos (inizi VIII sec.) dilaga la decorazione vegetale, stilizzatissima; gli ordini classici si trasformano, essendo sottoposti alla geometrizzazione. Il capitello corinzio diventa un tronco di piramide, oppure assume una sezione quadrata e include una decorazione istoriata, come ritagliata dal fondo, che in origine appariva colorato. In Gallia le espressioni artistiche del pieno periodo merovingio (V sec. - metà VIII sec.) appaiono sostanzialmente il prolungamento di quelle della tarda antichità, come dimostrano i sarcofagi di Saint-Pierre a Vienne, dell’abbazia di Charenton du Cher (Bourges, Musée du Berry) e le lastre che ricevono un trattamento di grande sensibilità disegnativa a Saint-Maximin e della Basilica della Sainte-Madeleine. Viceversa, a Soissons, il sarcofago del santo vescovo locale, Drausius, proveniente dalla cattedrale di Notre-Dame (Parigi, Musée du Louvre, Antiquités chrétienens) rivela un’abile maestria nel trattamento “in negativo” della pietra, derivante dall’abbassamento del piano di fondo e dall’emergere in sottosquadro dei rilievi, in forma di sinuosi viticci con grappoli e fogliame disposti a incorniciare il clipeo centrale contenente il monogramma di Cristo. L’arte dell’incisione dai forti effetti luministici si concretizza nell’ipogeo delle Dune (cappella funeraria destinata all’abate Mallebaudo) e nel battistero di Poitiers, nella cripta di Jouarre e a Grenoble, in Saint-Laurent. Talora compaiono le figure: a Jouarre, la scultura funeraria connessa alla tomba del vescovo Agilberto mostra una rara illustrazione del Giudizio universale su un lato – con gli eletti, fra uomini e donne, che si fronteggiano affiancati da angeli – e il Cristo in maestà sull’opposto versante, molto somigliante alle analoghe composizioni teofaniche affrescate nelle cappelle copte di Bawit, in Egitto.

Nelle isole britanniche l’arrivo degli Anglosassoni, nel VI secolo, segna l’introduzione degli elementi ornamentali irlandesi e celtici fondati su combinazioni di intrecci animalistici, realizzati mediante incisione, secondo modalità espressive trasmesse ad altre tipologie di materiali, che si tratti di lavorazione dei metalli o delle carpet pages dei codici miniati. Gli esempi scultorei provengono per lo più da monumenti isolati, in maggior parte stele con croci o croci monumentali alte diversi metri e con bracci istoriati che a partire dall’VIII secolo si affermano in Northumbria per lo più con un carattere commemorativo. La celebre croce di Ruthwell rappresenta il punto di arrivo di una tradizione sviluppatasi circa due secoli prima con l’evangelizzazione della regione.

Nell’Italia longobarda la scultura è vista con particolare favore e gioca un ruolo importante nelle strategie artistiche incoraggiate dai committenti. Pilastri e capitelli recuperano lo stile classicheggiante, lastre intarsiate con motivi animalistici replicano entro sobrie e calibrate composizioni i plutei a contenuto simbolico della plastica d’arredo liturgico tardoantica, sontuosi fregi rinvigoriscono l’elemento vegetale; lapidi ordinatamente inscritte si ispirano ai caratteri della capitale in uso nel mondo antico e fanno della scrittura un elemento assimilabile, per i suoi ritmi e i valori chiaroscurali, alle zone ornamentali e persino gli intarsi policromi della più pura espressione artistica costantinopolitana vengono imitati per mezzo di pietre colorate o paste vitree. Monumenti rappresentativi di una cosciente riflessione sul mondo antico sono la Basilica di San Salvatore a Brescia e l’Oratorio di Santa Maria in Valle a Cividale, dove, sull’esempio delle grandi basiliche romane e degli edifici dell’alto Adriatico, affreschi, marmi e stucchi concorrono a qualificare coloristicamente e plasticamente l’organismo architettonico.

Anche la coeva produzione scultorea di Capua, Napoli, Sorrento e aree limitrofe continua a dimostrare un orientamento antichizzante ricettivo delle influenze bizantinomediterranee sempre vive nel territorio campano.

Al corpus della scultura carolingia si inscrivono generi di applicazione della tecnica scultorea piuttosto multiformi e associati a materiali diversi. La virtuosistica lavorazione dell’avorio intagliato è rappresentata in tutte le scuole regionali da una copiosa serie di dittici e piatti di legature di codici, gremite di figurette abilmente lavorate a sbalzo. Nel settore della plastica d’arredo liturgico, invece, prevalgono scelte rigorosamente aniconiche fatte discendere dalle prescrizioni dettate in alcuni brani dei Libri Carolini dallo stesso Carlo Magno il quale, almeno in una fase del suo regno, avrebbe visto come fenomeno non del tutto negativo l’iconoclastia. La Cattedra di San Pietro, commissionata da Carlo il Calvo e oggi inserita nella struttura berniniana, è costituita da formelle d’avorio con le Storie di Ercole, di recupero e forse successivamente inserite nella struttura della cattedra, a cui appartiene invece la ricca ed elaborata decorazione a racemi “abitati” da figure sia umane che animali o fantastiche, e mascheroni classici di aperto gusto antichizzante.

Attraverso lacunose testimonianze materiali e notizie tratte dalle fonti letterarie può essere stabilita la larghissima applicazione dello stucco, materiale duttile con notevoli effetti di resa anche grazie al complemento pittorico. Una sequenza di figure entro arcate è forse identificabile attraverso i resti a Vouneuil-sous-Biard (Poitiers, Musée Sainte-Croix); stucchi figurati policromi in frammenti provengono da Saint-Martin a Disentis nei Grigioni; nicchie cieche e fregi ornamentali sono presenti nell’oratorio dell’abate Teodulfo a Germigny-des-Prés (Musée Historique et Archéologique di Orléans). Nella vita di sant’Angilberto, cappellano alla corte di Carlo Magno a Centula/Saint-Riquier, vengono descritte in stucco le tavole di quattro altari recanti scene di un ciclo cristologico rappresentato fino all’Ascensione. Nel duomo di Hildesheim entro due lunette sovrastanti le porte di accesso alla cripta domina la figura di Cristo tra quattro figure in prosternazione e di Cristo sul globo che incorona due santi. Allo scadere del X secolo si pone verosimilmente il ciborio di Sant’Ambrogio, un unicum in stucco policromo innalzato su colonne di porfido sopra l’altare di Vuolvinio, che rappresenta il tramite di un procedimento artistico ininterrotto proiettato già verso gli esiti della grande ripresa scultorea del romanico padano.

Libri

Le miniature e le preziose rilegature rivelano in pieno la complessità del rapporto tra testo e immagine nei manoscritti medievali.

Le prime sperimentazioni nel campo dell’illustrazione si compiono nel libro della Bibbia e nella Genesi in particolare, libro privilegiato nell’insieme del Vecchio Testamento il cui più antico esemplare miniato, la Genesi Cotton (Londra, British Library, ms. Cotton Otho B. VI), proviene dal mondo greco, ritenuto tradizionalmente opera pittorica di un autore alessandrino del V o inizio VI secolo e oggi superstite in pochi fogli bruciati. Il più imponente è senza dubbio il codice della Genesi di Vienna (Österreichische Nationalbibliothek, Vind. Theol. gr. 31), ascritto alla Siria, contenente una versione abbreviata della Bibbia dei Settanta illustrata con numerose miniature di carattere narrativo nella parte inferiore di ciascuna pagina.

I libri dei Vangeli costituiscono un altro capitolo di grandi cicli di immagini della tarda antichità. Dell’Evangeliario purpureo di Rossano (Rossano Calabro, cattedrale) si conserva completo il Vangelo di Matteo, quasi completo quello di Marco, entrambi accompagnati da quattordici miniature in una narrazione continua. Insieme al Sinopense (Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Suppl. gr. 1286), esso si presume prodotto in ambiente siriaco-antiocheno nella seconda metà del VI secolo, oppure proveniente da uno scriptorium di Cesarea di Palestina. In questi libri il rapporto tra la miniatura e la pittura monumentale diventa stringente: alcune illustrazioni dell’Evangeliario di Rabula (VI sec., Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, cod. Plut. I. 56) derivano senza dubbio da affreschi o mosaici. Intorno al VI secolo anche il libro dell’Apocalisse è oggetto di sperimentazione pittorica. Nel 680 Benedetto Biscop porta con sé da Roma in Inghilterra un volume che contiene immagini tratte dalle visioni giovannee insieme a parallelismi tra Antico e Nuovo Testamento.

Una Bibbia in nove volumi viene scritta a Vivarium, presso Squillace in Calabria, per volontà di Cassiodoro, custode di una vasta biblioteca andata perduta poco dopo la sua morte. Si è conservata solo una copia del cosiddetto Codex Grandior, una Bibbia completa in volume. Il monaco Cheolfrido destinato a diventare abate in Northumbria, dopo un viaggio a Roma nel 678 riportò in patria il codice che divenne il modello per altre tre Bibbie: una di queste è il Codex Amiatinus (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Amiat. I), l’unica conservata completa, prodotta per farne dono a papa Gregorio II, con due miniature a tutta pagina, una delle quali è una Maiestas Domini, copia di un modello tardoantico. Un solo manoscritto miniato del VII secolo potrebbe ricollegarsi alla Spagna (se non al Nord Africa), il Pentateuco di Ashburnham (Parigi, Bibliothèque Nationale, Nouv. Acq. Lat. 2334), contenente il testo dei cinque libri di Mosè, in greco “pentateuco”, di cui si sono conservati poco più di un centinaio di fogli. L’evangeliario portato in Inghilterra nel 596 da Agostino di Canterbury (Cambridge, Corpus Christi College, cod. 286) attualmente non contiene più di due illustrazioni, la più importante delle quali rappresenta san Luca troneggiante entro una solida architettura absidata i cui montanti sono decorati con sei scene che illustrano il testo lucano, tra le ultime prodotte in Italia, dove la figura umana si eclissa dalla decorazione libraria per circa un secolo. Prodotto a Roma intorno al Seicento, l’Evangeliario di sant’Agostino alla fine del VII secolo era in Inghilterra, come attesta la presenza di annotazioni di mano insulare. I primi passi dell’ornamentazione libraria medievale si compiono infatti proprio in Irlanda, isola non romanizzata e di recente conversione al cristianesimo nella quale il latino dei testi sacri è una lingua totalmente estranea ai neoconvertiti e dunque il primo, necessario passaggio di acquisizione, agevolato dalla funzione delle belle immagini. Disponendo degli elementi ornamentali di cui si serve l’orafo insulare per decorare il metallo, con motivi geometrici o zoomorfi, il pittore li sviluppa metodicamente, li raggruppa, li oppone, ne combina i colori con gusto infallibile. Quattro libri dei Vangeli, datati dal 650 circa all’800, rappresentano questa pittura al culmine della sua perfezione. Essi portano il nome delle abbazie alle quali ciascuno di essi veniva riferito: Durrow (Dublino, Trinity College Library, ms. A.5 [57]), Echternach (Parigi, Bibliothèque Nazionale, ms. Lat. 9389), Lindisfarne (Londra, British Museum, ms. Nero D IV) e l’ultimo della serie, Kells (Dublino, Trinity College Library, ms. 58), e rappresentano una sorta di fitta enciclopedia della miniatura insulare al suo apice, sviluppando sulla pagina iniziale una miriade di motivi aniconici di ispirazione astratta fino a costituire un fondo rivestito integralmente, nel cosiddetto stile a tappeto (carpet style), che include le sole stilizzatissime figure degli evangelisti.

Vero centro di cultura cristiana nel Nord Italia è la grande abbazia benedettina di Bobbio in Val Trebbia, fondata dall’irlandese san Colombano e dal re longobardo Agilulfo. Sono superstiti poco meno di 200 codici dei circa 700 prodotti nella biblioteca del cenobio lombardo; la scrittura è l’elemento primario della struttura decorativa del libro, mentre l’ornamentazione è affidata a motivi astratti di stretta parentela con quelli della scultura, delle stoffe e dell’oreficeria a scomparti cromatici “alveolati”. Il gusto per le grandi e ingegnose iniziali prende vita all’interno di raffinati intrecci, anche su sfondo purpureo, caratteristici della miniatura bobbiese, che raggiunge un alto livello formale nel IX secolo. Altro polo di cultura occidentale è, in Gallia, l’abbazia di Corbie, dove muore ed è sepolto l’ultimo re longobardo, Desiderio. Il prestigioso cenobio importa in gran numero libri dall’Italia; il suo scrittorio è un centro di sperimentazione grafica e qui fa la sua comparsa la minuscola carolina. Tutta la civiltà – della Grecia, dell’Italia romana, dell’Italia longobarda e delle isole britanniche – è contemporaneamente presente entro il recinto monastico di Corbie. Il Salterio (Amiens, Bibliothèque Municipale, ms. 18) opera il riuscito tentativo di fondere suggestioni iconografiche e stilistiche diverse attraverso una profusione di figure mostruose nelle iniziali che rappresentano l’unica decorazione del volume, proposto come un vocabolario ornamentale zoomorfo piegato ad adattarsi alle forme dei capolettera.

La produzione dei libri nell’Italia longobarda ha inizio nel momento in cui è rinsaldato il potere sul territorio e resa permanente la conquista, e quando il fattore della conversione dei Longobardi al cristianesimo determina la necessità di accedere a libri liturgici, favoriti dai contatti tra famiglie longobarde, cerchie vescovili e comunità monastiche. La tradizione del libro scritto e miniato continua nel Meridione d’Italia grazie all’opera svolta dai grandi cenobi benedettini di Montecassino e San Vincenzo al Volturno, e nella stessa capitale Benevento, arricchendosi di nuovi innesti provenienti dal mondo bizantino. Una decorazione più opulenta e fantasiosa è suggerita invece dai testi d’uso liturgico. Il libro delle Omelie di Gregorio Magno, composto agli inizi del IX secolo a Vercelli (Archivio e Biblioteca Capitolare, ms. CXLVIII) rappresenta un esempio tra i più significativi dell’alto livello raggiunto dall’arte libraria italiana della fine dell’VIII secolo.

L’illustrazione carolingia nel suo momento iniziale guarda ai modelli sviluppati nel VII e VIII secolo nelle isole britanniche per le ornamentazioni delle iniziali, anche se vi si notano larghissime concessioni alla componente figurativa naturalistica, derivata dall’arte cristiana d’Oriente. La distinzione tra forma e ornamento dà inoltre un grande impulso alla ripresa della figura antropomorfa e all’amplificazione della gamma dei soggetti. Il Nuovo Testamento non è più limitato alle immagini ieratiche e solenni di Cristo e degli evangelisti, giacché le scene dell’Infanzia, dei Miracoli, della Passione, vengono elaborate in articolati cicli narrativi. La grande Bibbia scritta a Tours intorno all’anno 840 (Londra, British Museum, ms. Add. 10546) è un documento al vertice di queste istanze espressive: figure, architetture, paesaggi, costumi e persino colori sono resi in maniera estremamente fedele ai modelli dell’arte tardoantica. Il prodotto più alto della miniatura carolingia, in cui convergono esperienze maturate fino ad allora nelle scuole regie, è riconoscibile nella Bibbia di San Paolo (Roma, Abbazia di San Paolo fuori le mura, Codex membranaceus saeculi IX), realizzata verso l’870 a Reims per Carlo il Calvo.

Anche l’arte inglese entra in uno dei periodi più significativi della sua storia quando le riforme monastiche di san Dunstano preparano il terreno, anche se ciò non rende pienamente conto della creatività artistica che sviluppò uno stile nuovo, maturo ed elaborato, esemplificato dalla Scuola di Winchester, centro di produzione di sontuosi manoscritti miniati che ebbero come modello guida le opere carolinge associate alla scuola di Metz o alla scuola di Ada. La Spagna è invece una regione non raggiunta dalla rinascita carolingia e rimasta al di fuori dalla sfera di influenza delle correnti culturali bizantine, ma molto importante per l’irradiazione dei principi dell’arte islamica determinata dall’invasione araba nell’VIII secolo.

Il risultato più eloquente si coglie nelle varie illustrazioni del Commento all’Apocalisse scritto nel 786 dal Beato di Liébana, nella Spagna del Nord. I codici superstiti datano al X, XI e XII secolo. I miniatori probabilmente operarono con a fronte copie miniate dell’Apocalisse del VI o VII secolo, non inventando le raffigurazioni ma trasponendole in uno stile assolutamente piatto, bidimensionale, con campiture di colore acceso e smagliante e con una profusione di elementi ornamentali di origine islamica.

Gli stili ereditati dalle scuole carolinge, con il collasso dell’impero, sono sostituiti nella seconda metà del X secolo da movimenti nuovi e spontanei. La riforma monastica trova energici sostenitori nei monaci di Cluny: in Inghilterra, Francia, Italia, il nuovo impulso culturale avviene con il determinante apporto dei monasteri riformati, e questo può spiegare la contemporaneità dei movimenti. L’arte ottoniana si esplica con il mecenatismo degli imperatori e delle grandi signorie monastiche governate da vescovi committenti di ogni genere di opera d’arte, come Egberto di Treviri e Bernardo di Hildesheim. La predilezione imperiale per la monumentalità riceve un ulteriore sostegno da Bisanzio attraverso il matrimonio della principessa Teofano con Ottone II, nel 972. La scuola della Reichenau, con opere databili al settimo decennio del X secolo, vede la comparsa dei Libri di Pericopi, manoscritti che contengono i testi evangelici non in sequenza ma ordinati secondo le esigenze del calendario della Chiesa e della liturgia. Essi richiedono un nuovo tipo di illustrazione, in molti casi assimilabile a dettagliati cicli pittorici desunti da illustrazioni paleocristiane e protobizantine.

Vetri

Le fonti letterarie occidentali alludono esplicitamente alle vetrate colorate già a partire dall’epoca altomedievale. Nelle chiese monastiche di Monkwearmouth, Jarrow e Whithorn, in Northumbria, sono stati rinvenuti frammenti vitrei appartenenti a finestre policrome e ciò restituisce la testimonianza diretta delle notizie tramandate dalle fonti letterarie circa il reclutamento di maestranze specializzate da parte di monaci inviati come emissari in Francia tra VII e VIII secolo.

Sono da ricordare i superstiti frammenti da San Vitale a Ravenna, con tracce di pittura. In qualche caso sono superstiti i montanti di queste finestre; in bronzo o legno, a mo’ di transenne, sono presenti nella stessa Ravenna, ad Aquileia e a Grado, ad Albenga. A questo proposito, una novità tecnica è costituita dall’introduzione di righelli di piombo in funzione di montanti in luogo del legno e della pietra. La struttura si alleggerisce, ampliandosi e articolandosi con maggiore facilità, come provano gli straordinari diaframmi che traforano intere pareti nelle cattedrali del basso Medioevo.

Già a partire dal IX secolo assemblaggi di lastre di vetro colorato formano storie, sia policrome che a grisaille (pittura ottenuta dalla polverizzazione dello stesso vetro, temprata col fuoco dopo l’applicazione a pennello). Francia e Germania sviluppano precocemente abilità e procedimenti tecnologici. Pur non mancando in Oriente la conoscenza tecnica della vetrata, è infatti in Occidente che le grandi potenzialità del vetro sono messe in valore. Risalgono all’epoca carolingia i frammenti della vetrata proveniente da Lorsch (Darmstadt, Hessisches Landesmuseum) con l’effigie di una testa maschile barbata e aureolata, in cui forse è da riconoscere san Giovanni Battista, verosimilmente databile allo scorcio del IX secolo. Altri resti sono stati rinvenuti nel complesso episcopale di Rouen e nell’area della chiesa abbaziale di Saint-Denis, dove le indagini archeologiche hanno portato in luce i resti dell’officina impiantata presso la chiesa per realizzare i reticoli di piombo delle vetrate. Non è insolito che un’officina si installi a ridosso del grande cantiere di costruzione: nel grande complesso benedettino di San Vincenzo, sulle rive del Volturno, il refettorio era illuminato da grandi finestre a vetrate policrome. Gli scavi archeologici hanno consentito il ritrovamento di diversi impianti produttivi nell’ambito dell’abbazia; tra queste anche l’officina vetraria dove si lavoravano anche metalli destinati all’utilizzo interno e all’esportazione. Vetri policromi sono segnalati anche nell’ambito dell’abbazia di Farfa e nei grandi centri monastici benedettini d’Oltralpe, come Corvey (Westfalia), San Gallo e Münstair.

Pavimenti

Il mosaico pavimentale rappresenta una tipologia artistica ancora molto diffusa nella tarda antichità nei palazzi, nei complessi termali e nelle prestigiose dimore. Monocromatici o variamente colorati, a composizioni geometriche più o meno complesse oppure a tematica mista, naturalistica e figurativa, a carattere allegorico o mitologico; caratterizzanti gli ambienti sotto forma di emblemata o di fregio perimetrale, o anche di stesura di rivestimento integrale.

L’evoluzione del mosaico geometrico della basilica paleocristiana di Aquileia è esemplare: nel complesso di Teodoro delle aule nord e sud (320 ca.) si assiste al primo tentativo di affrontare un grande ciclo figurativo e simbolico, la storia del biblico Giona, inserita in un paesaggio marino con eroti e pescatori la cui trama si arricchisce di concetti per mezzo di animali simbolici. Nella rappresentazione figurativa si nota l’impiego del ritratto: ben quattordici donatori verranno rappresentati nell’aula teodoriana meridionale. Nell’area di influenza aquileiese rimangono comunque prevalenti gli schemi ornamentali geometrici con un uso assai moderato di elementi fitomorfi e zoomorfi (Grado, Santa Maria delle Grazie, 420-440); nell’intera regione adriatica, inoltre, da Ravenna fino all’Istria, il pavimento viene sistematicamente punteggiato da iscrizioni recanti i nomi di donatori laici ed ecclesiastici, ed eventualmente l’estensione della superficie donata, secondo una consuetudine ampiamente riscontrata nelle chiese dell’area siro-palestinese e nelle sinagoghe della Palestina.

Nell’isola di Maiorca la Basilica di Santa Maria conserva un raro pavimento con scene della Genesi; nella Gallia Belgica, a Blanzy-les-Fismes (Aisne), il mosaico di Orfeo attesta forse la presenza di una bottega del sud della Francia o persino, si è detto, nordafricana. Si conta un cospicuo numero di pavimenti musivi anche nella Britannia meridionale romanizzata del IV secolo, per lo più collocati entro ville rurali. Vi predominano i motivi figurativi, mitologici o allegorici. All’interno di queste “griglie” tematiche assolutamente profane, sorprendentemente può introdursi il monogramma o il busto di Cristo (è il caso dei mosaici di Frampton e Hinton St Mary

Accanto al mosaico, prescelto nelle zone orientali, la tipologia di rivestimento altrettanto usuale è l’opus sectile, ed entrambi talora si possono comporre insieme nello stesso pavimento. Lastre di marmo o pietra colorata affiancate secondo combinazioni geometriche più o meno semplici sono in voga dalla piena epoca imperiale e vengono accolte con favore nel tardoantico. In diverse aule di culto di Roma l’opus sectile e il mosaico marmoreo a grandi tessere creano semplici motivi geometrici intervallati da grandi fiori stilizzati. Dopo una tendenza involutiva registrata nel corso del VII secolo nell’Italia nord-orientale, la ripresa segna anche il rinnovamento dei programmi decorativi con l’inserimento dei motivi aniconici a intreccio e qualche inserzione figurata, per lo più in forma di animali fantastici. La ripresa delle antiche tradizioni si registra parallelamente nel IX secolo in Francia e Catalogna, con il recupero della tecnica musiva e la rimodellazione del repertorio paleocristiano. Nel periodo carolingio il cospicuo riutilizzo di marmi e specialmente del porfido conduce alla riproposizione dei sontuosi rivestimenti a tarsie marmoree – come il presbiterio di Santa Maria in Cosmedin a Roma, dell’età di Adriano I –772(?-795, pontefice dal 772); la Cappella Palatina di Aquisgrana; Saint-Germain-d’Auxerre e il Duomo di Colonia).

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