Sannazaro, Iacopo

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Sannazaro, Iacopo

Carlo Vecce

Nacque a Napoli il 28 luglio 1457 da Cola (discendente di un cavaliere lombardo trapiantato a Napoli al servizio di Carlo III di Durazzo, nel 1381) e dalla nobile salernitana Massella di Santomango. Le difficoltà della famiglia, che aveva perso i feudi nel Regno a causa dell’ostilità della regina Giovanna II, furono acuite dalla morte precoce di Cola (1461). Il giovane S., dopo l’adolescenza passata con la madre a San Cipriano Picentino, tornò a Napoli per iniziare un intenso apprendistato umanistico presso lo Studio (Giuniano Maio) e l’ambiente intellettuale della corte aragonese (Giovanni Pontano); allo stesso tempo si avvicinò alla poesia in volgare, con Cariteo e Pietro Iacopo De Iennaro, e compose alcune egloghe (1480-82 circa), che saranno poi riprese nella composizione di un Libro pastorale nominato Arcadio (1483-85). Sia nelle egloghe sia nel prosimetro S. proiettava, per mezzo dell’allegoria pastorale, le vicende contemporanee che lo coinvolgevano a livello sia individuale (la sottrazione di terre e benefici da parte di funzionari disonesti) sia collettivo (la crisi del Regno di Napoli al tempo della congiura dei Baroni, repressa nel 1486). Intanto, grazie a Giovanni Pontano, segretario di Alfonso d’Aragona duca di Calabria, S. fu ammesso al servizio del duca (1481), seguendolo alla guerra di Otranto (1481) e a quella di Ferrara (1483-84); e uno dei più rilevanti manoscritti dell’Arcadio, il Vat. Barb. lat. 3964, fu realizzato per la colta sposa di Alfonso, Ippolita Sforza (m. 1488). Per il duca S. allestì anche originali spettacoli teatrali chiamati Farse. Negli anni Novanta riprese il Libro pastorale, aggiungendo due prose e due egloghe, e cambiando il titolo in Arcadia; raccolse le rime volgari in un progetto di canzoniere, e le poesie latine in libri di epigrammi ed elegie. Alla fine del secolo tornò alla poesia pastorale, ma in latino, trasferendola dal paesaggio bucolico tradizionale a quello marino napoletano, con le Egloghe piscatorie. Dopo le convulse vicende degli anni 1494-96 (morte del re Ferdinando d’Aragona, successione di Alfonso e sua abdicazione per l’invasione di Carlo VIII, riconquista da parte del figlio Ferrandino e sua morte prematura, successione dello zio Federico), S. passò al servizio del nuovo re Federico (1496), che seguirà fedelmente anche nell’esilio francese (1501-05), dopo la conquista del Regno da parte di francesi e spagnoli (1501); durante la sua assenza, a Napoli, venne pubblicata l’Arcadia (1504). Tornato dalla Francia, S. si appartò dalla vita politica, lavorando al poema sacro in latino De partu Virginis (1526). Morì a Napoli il 16 agosto 1530.

Per quanto non siano documentati contatti diretti tra S. e M., la sua figura (come quella di Pontano), così strettamente legata alla corte aragonese e alla storia politica di Napoli e del Regno, ben conosciuta a Firenze all’epoca di Poliziano e Lorenzo il Magnifico, fu sicuramente nota a Machiavelli.

Un incontro tra S. e M. avvenne comunque, probabilmente a Lione, nel febbraio 1504, quando M. e Niccolò Valori incontrarono il segretario di re Federico, Luca Rosso, impegnato nelle trattative tra Francia e Spagna, e nella prospettiva di una reintegrazione dell’Aragonese sul trono di Napoli. Nello stesso periodo si trovavano a Lione Federico e S. (Vecce 1988, p. 39). I due fiorentini ebbero anche modo di conoscere l’ecclesiastico e storico savoiardo Claude de Seyssel, a sua volta legato al dotto bizantino Giano Lascaris, già al servizio di Lorenzo il Magnifico e ora della corte francese, e in contatto con Sannazaro. Lascaris aveva prodotto diverse traduzioni latine di storici greci, tra cui il frammentario VI libro delle Storie di Polibio, utilizzato da Seyssel nel 1515 per La grant Monarchie de France (Vecce 1988, pp. 27-29).

M. potrebbe aver avuto in quell’occasione la possibilità di leggere la traduzione latina di Lascaris, e in particolare il capitolo De politiarum alternis mutationibus naturali ordine (Polibio VI 51; ricordato anche nel De urbe Roma di Bernardo Rucellai: cfr. Dionisotti 1980, pp. 138-40), determinante per Discorsi I ii (Inglese 2006, pp. 109-14, con bibl. precedente).

Tracce della contemporanea lettura del VI libro di Polibio compaiono nella Pro Gallis apologia di Mario Equicola, composta in prima redazione proprio a Lione nel 1504, dedicata a Lascaris e ampliata in seconda redazione per l’edizione del 1509, in cui il cap. xlv tratta della diuturnitas degli imperi e della loro fatale ciclicità, mentre il cap. xiv esibisce l’indicazione «in sexto annalium» (Vecce 1990). E anche a S. (nella tradizione biografica antica, riferita da Giambattista Crispo) viene attribuita una sentenza ‘polibiana’ sull’ascesa e decadenza delle civiltà, nell’aneddoto in cui (di fronte a Consalvo di Cordoba, conquistatore spagnolo di Napoli) la passata gloria dei Romani è comparata con quella presente della Spagna (I. Sannazaro, Le opere volgari, a cura di G.A. e G. Volpi, 1723, pp. XVIII-XIX).

La medesima tradizione (tramite Crispo) riferisce la posizione critica di S. per le forme rappresentative di autogoverno (a differenza di quanto sosteneva invece De Iennaro, a proposito di Napoli, nel Libro terzo de regimento dell’opera de li huomini):

Non andava volentieri alle Piazze, che così chiamano i pubblici Parlamenti, che ne’ cinque Seggi della Nobiltà di Napoli far si sogliono. Di che domandato una volta, rispose: Perché i voti si contano, e non si pesano. Volendo perciò biasimare che si faceva più conto della moltitudine delle voci che della qualità del parere (I. Sannazaro, Le opere volgari, cit., p. XXXV).

Difficile, ma non impossibile, che S. nei suoi ultimi anni sia venuto a conoscere l’opera di M., che ebbe una precoce diffusione nella cultura napoletana e meridionale (Raimondi 1972).

M. conobbe probabilmente diverse opere di S., diffuse in forma manoscritta anche in ambito fiorentino alla fine del Quattrocento. Doveva colpirlo il forte impegno politico della sua produzione lirica (sia in latino sia in volgare), così diversa dalla contemporanea letteratura cortigiana. Un’attenzione presente anche nelle lettere di S., costantemente informato sulle vicende della politica italiana ed europea per mezzo degli ‘avisi’ di Spagna o di Fiandra (ma si tratta in questo caso di materiali che M. non avrebbe potuto conoscere): tra le tematiche principali, la profonda critica nei confronti del ‘principato ecclesiastico’ e gli esordi della riforma protestante («E si è detto qui di non so che eremite carcerati et altri eresiarchi oltramontani, che cominciano ad improbare li portamenti e costumi de la ecclesia», I. Sannazaro, Opere volgari, a cura di A. Mauro, 1961, p. 330); i timori per il pericolo turco e la crisi militare italiana («Semo in mano di garzoni inesperti. Li boni capitanei o son morti o tanto vecchi che poco aiuto si pò espettar da loro», p. 323); il rapporto tra popoli e governanti («Nosci ingenia hominum: vòleno esser governati con piacevolezza e non con minacce», p. 314).

Tra le Elegie, oltre a quelle per i principi aragonesi (soprattutto II 1 ad Alfonso e III 1 a Federico, composizioni parallele alle scritture politiche meridionali de principe, da Pontano a Diomede Carafa e Maio), si segnalano i testi in cui S. denuncia i soprusi francesi durante l’occupazione di Napoli nel 1495 a Pierre de Rochefort, gran cancelliere di Carlo VIII (I 8).

Tra gli Epigrammi, la celebrazione di un tirannicida, che potrebbe essere il Girolamo Olgiati uccisore di Giangaleazzo Sforza (II 54); gli sferzanti epigrammi sui papi Innocenzo VIII (I 38), Leone X (II 57) e Adriano VII (III 8), e soprattutto contro i Borgia, Alessandro VI (I 22, 51-52, 57-58; II 27-31 e 70), Cesare (I 14-15, 53, 58-59) e Lucrezia (II 4); e infine un singolare elogio di Venezia (I 36), le cui istituzioni politiche repubblicane erano oggetto di ammirazione nel contemporaneo De educatione (1505) di Antonio De Ferrariis, detto il Galateo.

Di particolare interesse, tra le rime in volgare, le grandi canzoni politiche, e soprattutto i capitoli ternari ispirati alla cronaca contemporanea: direttamente legato al mondo fiorentino quello sulla tragica uccisione di Pier Leoni, filosofo e medico personale di Lorenzo de’ Medici (I. Sannazaro, Opere volgari, cit., pp. 216-20).

Inoltre, fu S. il vero promotore dell’edizione delle opere di Pontano a Napoli presso lo stampatore tedesco Sigismondo Mayr, per le cure di Pietro Summonte (1505-1512); tra esse, il De prudentia (1508, pubblicato contemporaneamente a Firenze presso Filippo Giunta da Giovanni Corsi, umanista vicino a Bernardo Rucellai), testo importante per M. anche per il sistematico uso di Livio come fonte esemplare nel confronto fra passato e presente.

Un caso a parte è costituito dall’Arcadia. M. era consapevole che la propria attività di prosatore doveva misurarsi con gli esempi più celebrati del suo tempo, l’Arcadia di S. e gli Asolani di Pietro Bembo. Non è un caso che l’Arte della guerra sia la terza opera in prosa volgare pubblicata a Firenze dai Giunta nel 1521, dopo gli Asolani (1505 e 1515) e l’Arcadia (1514 e 1519; cfr. Coyle 1995, p. 22).

S. e Bembo avevano dimostrato come l’uso del fiorentino e del toscano letterario, modellato sull’imitazione delle ‘tre corone’ (in particolare Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio), potesse affermarsi come strumento di comunicazione sovraregionale, marginalizzando il fiorentino d’uso contemporaneo; e a Venezia, presso Aldo Manuzio, Bembo aveva pubblicato le edizioni di Petrarca (1501) e Dante (1502). L’Arcadia appariva a M. la «ripresa in una forma toscaneggiante, ma affatto diversa da ogni recente esemplare toscano, di quel tema pastorale che era stato sperimentato e rimesso di moda da scrittori toscani nell’età di Lorenzo il Magnifico» (Dionisotti 1980, p. 254). M. risponderà con la difesa del fiorentino d’uso nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in cui però riconoscerà «assai Ferraresi, Napoletani, Vicentini e Veneziani che scrivono bene e hanno ingegni attissimi allo scrivere», alludendo a Ludovico Ariosto, S., Gian Giorgio Trissino e Bembo (cfr. Dionisotti 1980, pp. 296-98).

Rispetto alla tarda posizione del Discorso, però, quando più di dieci anni prima M. cominciò a cimentarsi con la prosa del Principe e dei Discorsi, uno dei suoi modelli principali di prosa moderna fu senz’altro l’Arcadia, o almeno fu tale il segnale che M. intese dare ai lettori contemporanei.

Un testo strategico come la dedica del Principe a Lorenzo de’ Medici esibisce infatti nel periodo d’esordio («Sogliono el più delle volte coloro che desiderano acquistare grazia appresso a uno principe farsegli incontro con quelle cose che in fra le loro abbino più care o delle quali vegghino lui più dilettarsi») una riconoscibile e significativa tessera sannazariana, con medesima funzione incipitaria, dall’inizio del prologo dell’Arcadia: «Sogliono il più de le volte gli alti e spaziosi alberi negli orridi monti da la natura produtti, più che le coltivate piante da dotte mani expurgate negli adorni giardini, a’ riguardanti aggradare» (Arcadia, prologo 1). Simile l’attaco degli Asolani («Suole a’ faticosi navicanti esser caro», I 1): ma alla struttura troppo complicata, ampollosa e retorica di Bembo M. preferisce il ritmo di S., di cui è ripresa la scelta di campo per le «rozze egloghe da naturale vena uscite, così di ornamento ignude exprimendole» (Arcadia, prologo 4):

La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ampie o di parole ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio e ornamento estrinseco, con e’ quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare, perché io ho voluto o che veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata (Principe dedica 4; cfr. Inglese 2006, pp. 84-85).

Da S. proviene anche la struttura complessiva della dedica, l’opposizione tra i ricchi doni dei cortigiani («cavagli, arme, drappi d’oro, prete preziose e simili ornamenti») e l’umile, ma ben più importante «piccolo volume» offerto come «piccolo dono» da M. a Lorenzo. Lo stesso incipit tornerà poi all’inizio del libro V delle Istorie fiorentine: «Sogliono le provincie, il più delle volte, nel variare che le fanno, dall’ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine all’ordine trapassare».

Nella prosa di M., il «ritmo sapiente, pressoché privo di lacune, dei parallelismi e delle dittologie» (Inglese 2006, p 85) echeggia spesso la prosa di S., soprattutto a livello strutturale (enumerazioni, parallelismi, dittologie ecc.). Si confronti, per es., lo schema enumerativo all’inizio della prosa IV dell’Arcadia (1-2: «Alcuni lodarono la giovenil voce piena di armonia inextimabile; altri il modo suavissimo e dolce, apto ad irretire qualunque animo stato fusse più ad amore ribello; molti comendarono le rime leggiadre e tra’ rustici pastori non usitate; e di quelli ancora vi furono [...]») e all’inizio del cap. xx del Principe:

Alcuni principi per tenere sicuramente lo stato hanno disarmati e’ loro sudditi; alcuni hanno tenuto divise le terre subiette. Alcuni hanno nutrito inimicizie contro a sé medesimo; alcuni altri si sono volti a guadagnarsi quelli che gli erano suspetti nel principio del suo stato. Alcuni hanno edificato fortezze; alcuni le hanno ruinate e destrutte (§§ 1-3).

L’interesse di M. per l’Arcadia non era disgiunto da un coinvolgimento diretto nello stesso genere bucolico. Intorno al 1493 il giovane M. aveva infatti scelto la forma del travestimento pastorale per avanzare la richiesta di entrare nella cerchia di Giuliano de’ Medici, figlio del Magnifico: si trattava di un’egloga, “Poscia che a l’ombra, sotto questo alloro”, nella forma del capitolo ternario, tradizionale a Firenze dopo la pubblicazione dell’antologia bucolica presso Antonio Miscomini nel 1482 (in particolare, Bernardo Pulci nella sua traduzione delle egloghe di Virgilio). In seguito, il capitolo in terzine (d’ascendenza dantesca) resterà la forma poetica preferita da M. (Martelli 1971; Inglese 1981, pp. 22-24). Avvio ‘pastorale’ avrà anche la Mandragola, con una ‘canzone’ recitata da ninfe e pastori, che espongono in modo esplicito la loro morale («dietro alle nostre voglie / andiam passando e consumando gli anni»).

M. era ben consapevole del forte coinvolgimento politico che la bucolica moderna aveva nei confronti del presente, da Petrarca e Boccaccio in poi. La letteratura pastorale era anche una forma di comunicazione con il principe, mediata dal travestimento di mittente e destinatario e dalla proiezione allegorica dei rapporti di potere (soprattutto della corte). In questo senso, l’Arcadia di S. rappresentava per M. lo sforzo più ampio e coerente di dare all’allegoria una dimensione compiuta, di trasformarla in una possibile utopia, un altro mondo in cui la violenza e la forza fossero bandite, e le relazioni tra esseri umani ritrovassero l’armonia perduta. Una dimensione illusoria, come dimostravano, nella stessa Arcadia (soprattutto la X egloga), le irrisolte aporie del rapporto con la storia.

Bibliografia: Le opere volgari, a cura di G.A. e G. Volpi, Padova 1723; Opere volgari, a cura di A. Mauro, Bari 1961; Arcadia, a cura di C. Vecce, Roma 2013 (da cui si cita).

Per gli studi critici si vedano: M. Martelli, Preistoria (medicea) di Machiavelli, «Studi di filologia italiana», 1971, 29, pp. 377-405; E. Raimondi, Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980; G. Inglese, introduzione a N. Machiavelli, Capitoli, a cura di G. Inglese, Roma 1981, in partic. pp. 22-24; C. Vecce, Iacopo Sannazaro in Francia. Scoperte di codici all’inizio del XVI secolo, Padova 1988; C. Vecce, Un’apologia per l’Equicola. Le due redazioni della Pro Gallis apologia di Mario Equicola e la traduzione francese di Michel Roté, Napoli 1990; M. Coyle, Niccolò Machiavelli’s The prince. New interdisciplinary essays, Manchester-New York 1995; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006.

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