IATO

Enciclopedia Italiana (1933)

IATO

Antonino PAGLIARO
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. I grammatici intendono per iato quell'incontro di vocali in cui ciascuna conserva il proprio valore sillabico; più comunemente si chiama con questo nome l'incontro di due vocali di cui l'una si trovi in un vocabolo e l'altra nel successivo: l'iato è cioè l'effetto dello stacco detto, in terminologia metrica, dialefe (v.).

La denominazione di hiatus, che risale ai grammatici latini, trova la sua spiegazione migliore nel seguente precetto della Rhet. ad Herennium (IV, 12), 18: "Compositio est verborum constructio, quae facit omnes partes orationis aequabiliter perpolitas. Ea conservabitur, si fugiemus crebras vocalium concursiones, quae vastam ac hiantem orationem reddunt, ut haec est: baccae aeneae amoenissimae impendebant". Che l'incontro delle vocali sia stato considerato dalla rettorica greca e latina come un difetto da evitare, risulta da numerose testimonianze. Fra esse particolarmente esplicita è quella d'Isocrate nelle parole che ci sono state tramandate da Giovanni Siceliota (cfr. Walz, Rhet. Graec., VI, 156,19 seg.): δεῖ τῇ μὲν λέξει τὰ ϕωνήντα μὴ συμπίπτειν χωλὸν γὰρ τοιόνδε. "È necessario che nell'espressione le vocali non s'incontrino. Ché ciò è cosa sgraziata". Cfr. inoltre: Dion. Halic., De comp. verb., 23, Dion. Thr., in Gr. Gr., I,1, p. 112,5 seg.; e per i latini: Cicer., Orat., 44,4;De or., III, 43,172; Quintil., Inst. Or., IX, 4,33; Diom., in Gr. Lat., I, 466,26 segg.; Prisc., II 17,16 segg. Tuttavia a volte viene attribuita allo iato una particolare funzione retorica. Così, in contrasto con i giudizî altrove (v. sopra) espressi, Cicerone (Or., 23,77) afferma: "Habet enim ille tamquam hiatus et concursus vocalium molle quiddam et quod indicet non ingratam neglegentiam de re hominis magis quam de verbis laborantis", e Quintiliano giudica in maniera analoga (Inst. Or., IX, 4,6): "et nonnunquam hiulca etiam decent faciuntque ampliora quaedam, ut pulchra oratione acta".

Per quanto concerne la prassi, si può dire che gli scrittori classici, meno i greci e più i latini, cercano di evitare lo iato. In Omero ricorrono numerosi iati anche indipendentemente dalla vitalità maggiore o minore del digamma; in Tucidide, in Platone, in Demostene gli esempî non fanno difetto (Plat., Alcibiad., p. 105 B: καὶ εἱ αὖ σοι εἶποι ὁ αὐτός; piu rari esempî si hanno nei dialoghi considerati più tardi). Ma l'insegnamento d'Isocrate ha avuto fortuna e già negli scritti di Aristotele e quindi di Polibio e di Plutarco gli esempî di iato sono molto scarsi. Negli scrittori latini lo iato è di regola evitato, ma nella poesia, come finemente notava il Foscolo nel saggio sul digamma in Omero, esso appare non rare volte in servizio d'intenti stilistici.

Limitazioni più o meno rigorose si hanno nella versificazione medievale e moderna. P. es. nella versificazione italiana medievale lo iato in cesura è normalmente ammesso (e che pena / è in voi che sì sfavilla, Dante, Inf., XXXIII, v. 99; Ahi Genovesi, / uomini diversi, ivi, v. 151). Nella versificazione francese l'iato fu condannato da Malherbe, e gli effetti se ne risentono tuttora.

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