Idrobiologia

Enciclopedia del Novecento (1978)

Idrobiologia


di Livia Tonolli

Idrobiologia

sommario: 1. Introduzione. 2. La produzione biologica delle acque interne. 3. Struttura e dinamica di un ecosistema lacustre. 4. Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

L'idrobiologia, vale a dire la scienza che studia gli organismi acquatici in tutti i loro aspetti - tassonomici, fisiologici, associativi, etologici - non dovrebbe frapporre alcuna barriera conoscitiva tra i fenomeni biologici che si svolgono in mare e in acqua dolce: la problematica di base è, infatti, comune. F.-A. Forel, un pioniere nello studio dei laghi, nel suo Le Léman. Monographie limnologique (1892-1904), affermava che l'oceanografia e la limnologia sono sorelle; che i campi di studio di queste due scienze sono analoghi e che si tratta di porre e di risolvere i problemi riguardanti una vasta massa di acqua dormiente e gli esseri che vivono in essa. Concludeva, infine, che la limnologia è l'oceanografia dei laghi. Ciò premesso, lo stesso Forel giungeva tuttavia quasi contemporaneamente a conclusioni contrastanti con il suo assunto, basate su considerazioni che oggi sono accettabili soltanto parzialmente. Esse possono essere riassunte in questo modo: nello studio dei laghi si può svolgere meglio una ricerca sperimentale, senza doversi ridurre alla sola osservazione accidentale; si può interrogare la natura anziché limitarsi ad ascoltarne le lezioni, come accade quando si tenta di analizzare i fenomeni biologici che si svolgono nei mari e negli oceani.

Tutto questo suona oggi un po' ingenuo e romantico. D'altra parte, non si può disconoscere che le differenze esistenti tra ambiente marino da un lato, e quello di laghi, stagni, acque correnti dall'altro, siano per alcuni aspetti veramente profonde. L'origine, la storia, la morfometria, il chimismo, alcune variabili fisiche, le rappresentanze degli organismi che vi sono insediati, con i diversi modi di vita legati alle caratteristiche ambientali, permettono di identificare alcune proprietà di base che differenziano questi due tipi di comunità biologiche e le loro attività.

Tutto questo ha portato ad attribuire un significato più restrittivo al termine idrobiologia, che oggi si intende limitato allo studio della biologia degli organismi viventi in acque interne. La biologia marina, l'oceanografia biologica, d'altro canto, da tempo rivolgono il loro interesse scientifico alla vita che si svolge nelle grandi masse d'acqua dei mari e degli oceani (v. oceanografia biologica).

Analizzando con criteri realistici e moderni i motivi per i quali non soltanto è opportuno, ma necessario, attribuire un significato diverso alla biologia delle acque interne e a quella dei mari e degli oceani, risulta chiaramente che essi sono da ricondurre essenzialmente a una caratteristica di base. Ogni corpo d'acqua limnico, per quanto grande e profondo esso sia, è pur sempre di dimensioni limitate, è inserito in un'area continentale ed è sottoposto all'impatto che l'ambiente terrestre che lo circonda esercita su di esso, mentre le grandi masse di acqua oceaniche, se si prescinde dalla piattaforma continentale, sono da considerare esenti da un incisiva azione diretta da parte della terraferma, soprattutto perché la capacità di diluizione delle masse d'acqua marine è di gran lunga maggiore di quelle lacustri.

Accettato come valido tale assunto, ne deriva che l'idrobiologia è parte essenziale della limnologia, vale a dire di quella scienza che studia le raccolte di acque interne, sia ferme o dotate di moti quasi inapprezzabili (ambienti lentici: stagni, pozze, paludi, laghi), sia dotate di un più o meno vivace movimento (acque correnti o ambienti lotici: ruscelli, torrenti, fiumi).

Se si riflette sull'evoluzione concettuale che questa definizione ha comportato, si può ricostruire quello che è stato lo sviluppo, veramente imponente, della biologia delle acque continentali negli ultimi settant'anni e prospettare quelle che oggi appaiono le linee più promettenti e importanti lungo le quali questa scienza si muoverà nei prossimi decenni. L'evoluzione delle conoscenze di base nella limnologia, e perciò nell'idrobiologia, è riconoscibile anche attraverso le informazioni contenute in alcuni trattati classici, quali quello di P. S. Welch (v., 19522), di F. Ruttner (v., 19633), di G. E. Hutchinson (v., 1957 e 1967), di B. Dussart (v., 1966), di H. L. Golterman (v., 1975) e di R.G. Wetzel (v., 1975).

Non appena furono scoperti, prima in mare e poi in alcuni ambienti lacustri, organismi viventi sospesi nell'acqua o a contatto con i sedimenti, un ansioso desiderio di controllare se questa scoperta potesse essere generalizzata a tutte le acque caratterizzò le indagini della fine dell'Ottocento e degli inizi di questo secolo. Si può dire che un'ondata di interessi sistematici e biogeografici invase tutti coloro che avevano focalizzato la loro curiosità scientifica sull'ambiente acquatico.

Questa fase pionieristica, d'altro canto indispensabile per acquisire conoscenze tassonomiche sui componenti le varie comunità, portò a risultati estremamente validi come la compilazione di trattati, alcuni dei quali vengono ampiamente utilizzati per il riconoscimento sistematico degli organismi acquatici. G. Huber-Pestalozzi, F. Hustedt, F. E. Fritsch e molti altri specialisti diedero un contributo determinante alla conoscenza delle Alghe; W. Lilljeborg, R. Gurney, M. Voigt, ecc. a quella degli organismi animali.

Il corpo di conoscenze tassonomiche - relative sia alle forme vegetali che a quelle animali - si è andato comunque arricchendo e raffinando nel tempo, determinando un grande interesse nei riguardi della distribuzione geografica di singole entità specifiche.

Di qui ebbe origine una linea di ricerca che si rivelò di grande importanza e che cercò di stabilire, anche con tentativi di interpretazione delle cause, la distribuzione geografica dei reperti vegetali e animali che man mano si andavano identificando nelle acque interne. Mentre per il popolamento algale, più cosmopolita, si ponevano problemi di distribuzione legati soprattutto alle caratteristiche chimiche, fisiche e chimico-fisiche dell'ambiente idrico ospitante, per gli organismi animali, che risentono molto più profondamente dell'insularità dei corpi idrici continentali, la distribuzione geografica delle singole entità specifiche appariva essere più definita. Dopo diversi tentativi di tracciare gli ambiti di distribuzione di singole specie o di una pluralità di specie appartenenti allo stesso genere compiuti in diverse parti del mondo, si è giunti alla pubblicazione, relativamente recente, della Limnofauna europaea (v. Illies, 1967), imponente sforzo di molti specialisti inteso a dare una formulazione sintetica e tabulata della distribuzione nel nostro continente delle specie animali lacustri sino ad allora reperite. Questo tentativo, anche se molto meritorio, può essere oggetto di qualche critica: in realtà, gli ambienti acquatici seriamente indagati sono sinora troppo poco numerosi per permettere una sintesi delle nostre conoscenze biogeografiche, e ancor meno numerosi sono quelli nei quali è stata studiata la successione temporale delle specie.

Ogni considerazione basata sulla distribuzione di entità sistematiche fu inoltre complicata dal frammentamento speciografico che, almeno per certi gruppi tassonomici studiati con maggiore cura dal sistematico, si manifestò all'incirca dopo il 1925. Lo smembramento di generi e di specie compiuto per la valentia dei sistematici è un pezzo di bravura che non fa scomparire la sostanziale povertà dei tipi morfologici viventi nelle acque interne su vastissime aree di distribuzione.

Ciononostante, il modo con il quale gli organismi planctonici, che vivono sospesi nella massa d'acqua, e bentonici, insediati a livello dei sedimenti, si compongono a costituire la fisionomia di un singolo limnobio, è altamente caratteristico, anche indipendentemente dalle variazioni stagionali di facies: con poche categorie di tessere colorate si puo ottenere un'infinità di diversi mosaici ornamentali.

Su questa base concettuale si svilupparono molte ricerche attraverso le quali si tentava di dare una fisionomia ben definita a singoli limnobi lacustri: si trattava prevalentemente di un orientamento intuitivo, dal quale nacque il concetto del lago-individuo, che risultava dal confluire di notazioni molteplici, come la quantità assoluta di organismi ai diversi livelli, i rapporti numerici tra i componenti, la ripartizione spaziale e temporale degli elementi singoli e delle comunità. Finalmente, oltre a questo panorama statico, si cercò di definire il ritmo con il quale esso andava ciclicamente mutando lungo l'arco dell'anno, ritmo che è altamente caratteristico per ogni bacino lacustre.

Una delle convinzioni più radicate fino a circa trent'anni or sono fu che le caratteristiche fisionomiche di un lago, pure nella complessità del suo condizionamento, presentano una costanza statistica che costituisce la sigla più caratteristica dell'individualità biologica di ogni singolo ambiente lacustre: si riteneva infatti che il sistema biologico di un lago offrisse sempre una notevole inerzia alle modificazioni fisionomiche, non solamente nella staticità dei suoi equilibri, ma anche nella forma della legge che ne riproduce le oscillazioni ritmiche. Ecco, quindi, emergere il concetto che l'unità-lago tende a costituire un sistema stazionario e reagisce come un qualsiasi altro sistema equilibrato, tendendo ad annullare gli effetti delle perturbazioni esogene. E questo è il primo punto singolare di questa apparente antinomia fra il cosmopolitismo dei limnobionti e l'insularità fisionomica delle singole comunità lacustri.

Il secondo punto di apparente antinomia, dal quale fu attratta l'attenzione degli idrobiologi, sta nella ‛personalità morfologica' che i planctonti assumono nei singoli ambienti lacustri: questa conservatività dei limnobi non si esprime solamente nella permanenza caratteristica delle comunità insediate, ma tocca lo stesso assetto morfologico delle forme ospitate nei singoli bacini.

Quando si diede inizio a una più accurata analisi sistematica degli abitatori dei laghi, cominciò a emergere la convinzione che non era opportuno frammentare eccessivamente i generi e le specie, poiché ciò stava riducendo la sistematica di alcuni gruppi a una sorta di inestricabile caos, ma che era piuttosto opportuno analizzare con la massima cura quali fossero le caratteristiche morfologiche, e talora fisiologiche, che distinguevano forme riconducibili alla stessa specie, insediate in laghi diversi. Ci si rese così conto che, attorno a un'entità sistematica dalle caratteristiche fisionomiche ben definibili, si poteva identificare una costellazione di forme, morfologicamente e morfometricamente riconoscibili, che rappresentavano quello che fu definito un Rassenkreis, vale a dire una costellazione di unità sistematiche con caratteristici areali di distribuzione, notevolmente più ristretti di quelli della specie collettiva. Risale al 1904 l'acuta osservazione di V. Brehm che il crostaceo Diaptomus (= Eudiaptomus) vulgaris dell'Europa centro-settentrionale è ‟zersplittert in zahllosen Elementararten". L'ondata di ricerche sui frequenti endemismi ai quali alcuni abitatori delle acque lacustri danno origine, e che non si può ancora dire estinta, deve essere fatta risalire a questo concetto, che è stato per lo più dimenticato dagli studiosi successivi. Oggi si può in realtà affermare che ogni bacino lacustre racchiude un suo fenotipo caratteristico della specie collettiva, soprattutto se ci si riferisce agli organismi planctonici quali i Crostacei Cladoceri e Copepodi.

Queste forme di endemismo, che potremmo quasi definire di microendemismo, costituiscono in realtà la regola generale; è ovvio che il loro apprezzamento fosse sfuggito, agli inizi della storia dell'idrobiologia, ai sistematici, i cui compiti erano e sono sostanzialmente diversi, nonché ai biogeografi, le cui preoccupazioni teoretiche spesso superano le possibilità materiali dell'informazione. Che, però, tali endemismi possano assumere un'imponenza quasi inimmaginabile è stato dimostrato da numerose pubblicazioni scientifiche su fenomeni di endemismi conclamati in alcuni tra i più antichi (risalenti al Terziario), profondi e ampi laghi della Terra, quali, ad esempio, il Bajkal, con una profondità massima di 1.620 m e una superficie di 31.500 km2, e il Tanganica, profondo 1.435 m e con un'area aggirantesi sui 32.000 km2. Si tratta qui di grandi isole d'acqua inserite nella terraferma, nelle quali il confinamento delle popolazioni insediate è stato assai rigoroso presumibilmente per centinaia di migliaia o alcuni milioni di anni: in tal modo, le comunità biologiche già adeguatesi all'ambiente hanno facilmente respinto l'assalto immigratorio di nuovi coloni, che avrebbero portato certamente uno scompiglio genetico nelle popolazioni da lungo tempo segregate nei due laghi. Gli endemismi veri e propri, vale a dire la presenza di generi o di specie non rinvenibili in nessun altro ambiente lacustre del mondo, sono qui molto numerosi: l'83% degli animali nel Bajkal, il 73% nel Tanganica sono endemici (v. Brooks, 1950; v. Kozhov, 1963).

Questo concetto di insularità dei laghi dal punto di vista biologico è valido soltanto quando si verifichino alcune premesse, di carattere soprattutto genetico, geografico, morfometrico e idrologico, che garantiscano una notevole segregazione da massicce intrusioni di nuovi coloni dall'esterno. E chiaro, però, che la concomitanza di questi requisiti fondamentali è difficile da raggiungere e che una stabilità nel tempo del popolamento lacustre, quale quella esistente nei grandi laghi sopra ricordati, è del tutto eccezionale. E molto più frequente il caso di trasferimento attivo (attraverso il reticolo idrografico) e passivo (vento, fango trasportato dalle zampe di uccelli migratori) di specie, sia vegetali che animali, da un bacino lacustre a un altro che sia idoneo ad accoglierle: questo avviene prevalentemente a carico di forme di resistenza di Protozoi, Rotiferi, Microcrostacei o di spore e semi di vegetali, che si trovino nei sedimenti litorali dei corpi d'acqua.

Ecco, quindi, che il concetto di stabilità dei limnobi lacustri, dal quale eravamo partiti, a questo punto vacilla: e vacilla in modo tale da invalidare ogni considerazione sulla distribuzione geografica delle specie insediate nelle acque interne, che era basata sul vecchio criterio di una fisionomia statica del limnobio. Oggi, e con ragione, si è riveduta alla base tutta la problematica di questa branca della scienza, che coinvolge aspetti dinamici ed ecofisiologici, relativi cioè alle migrazioni invasive di specie e alle loro possibilità di adattamento e di sopravvivenza nell'ambiente nuovo che le ospita.

A questo punto, il discorso si fa più complesso, in quanto si cominciano a mettere le basi della idrobiologia ecologica. Si è sottolineato precedentemente che un corpo d'acqua continentale differisce da un mare o da un oceano, perché è incluso in un areale di terraferma con il quale si trova in contatto strettissimo. Ne consegue che tutto l'areale emerso, del quale un lago è l'impluvio, vale a dire il bacino imbrifero, imprime al corpo d'acqua caratteristiche chimiche, fisiche e chimico-fisiche tali da rappresentare una sorta di filtro per gli organismi che hanno tentato o che tentano di colonizzare il lago.

Quando, a un certo momento, ci si domandi quali siano i motivi che favoriscono l'insediamento di entità specifiche vegetali e animali in un lago piuttosto che in un altro, si deve necessariamente risalire alla caratterizzazione del corpo d'acqua nelle sue variabili fondamentali che determinano i fenomeni biologici che vi si svolgono.

Riandando a una cinquantina di anni fa, troviamo la prima formulazione in limnologia dei termini ‛mesotrofia' ed ‛eutrofia', basati sul grado di produttività biologica dei laghi, e quindi sulla quantità di sali nutritizi disponibili per il metabolismo della frazione vegetale del popolamento lacustre. E. Naumann, nel 1921, dopo una lunga serie di ricerche su numerosi laghi svedesi, fu il primo a rendersi conto dell'importanza del bacino imbrifero come fonte di sostanze nutritizie per i bacini lacustri. La sua ‟limnologia regionale" era soprattutto basata sul rapporto tra fertilità dei laghi e fertilità dei terreni nei quali sono inseriti. Ne derivò una complessa classificazione, basata su questo concetto, alla quale contribuì, oltre al Naumann, anche il limnologo tedesco A. Thienemann. Si può oggi discutere sulla reale utilità di queste formulazioni e giungere persino a negarla, ma si deve tuttavia riconoscere che esse stimolarono la critica e pertanto il progresso delle conoscenze limnologiche. Gli americani E. A. Birge e C. Juday, nel 1927, ammisero come estremamente importante una distinzione tra laghi allotrofi e laghi autotrofi, vale a dire tra laghi che subiscono, o meno, pesanti conseguenze da una penetrazione di materiale disciolto e particellato proveniente dall'areale emerso circostante.

Questo concetto di ‛rifornimento' rappresentò un progresso estremamente importante per giungere a una visualizzazione di un processo dinamico e funzionale in limnologia. Il legame tra il lago e il suo bacino imbrifero rappresenta veramente l'inizio di una nuova era nella limnologia o, meglio, nell'ecologia limnologica. Sorge, a questo punto, una notevole complicazione a livello conoscitivo: non esiste un lago eguale all'altro. Infatti basta pensare a tutte le variabili ambientali esterne ai laghi e alle caratteristiche genetiche e morfometriche di questi, per rendersi conto che è praticamente impossibile proporre valutazioni di carattere generale sulle risposte biologiche che i laghi esprimono. Questa ‛personalità' di ciascun bacino lacustre esige che si delinei una vera e propria carta di identità per ogni lago, tenendo conto della qualità e dell'importanza dei parametri che collaborano nell'imprimergli le caratteristiche che esso presenta dal punto di vista fisico, chimico e conseguentemente biologico.

Una cospicua messe di informazioni si va raccogliendo anche attraverso lo studio di ‛carote' di sedimenti lacustri, che accumulano la testimonianza delle modificazioni che, attraverso migliaia di anni, i bacini lacustri hanno subito a causa di trasformazioni intervenute nel loro bacino imbrifero. Il più brillante e recente esempio di analisi paleolimnologica è dato dallo studio del lago di Monterosi (v. Hutchinson, 1970) che apre prospettive affascinanti per la ricostruzione della storia di un ambiente lacustre in rapporto alle sue condizioni ecologiche attuali.

Ogni lago si è originato in seguito a eventi che hanno permesso che in un certo areale si accumulasse acqua: eventi che possono essere accidentali o che devono essere fatti risalire a fenomeni geomorfologici o geofisici regionali, quali il glacialismo, movimenti tettonici, manifestazioni vulcaniche, ecc. Tali fenomeni si sono verificati, in tempi più o meno lontani, a latitudini e altitudini molto diverse. Ne deriva un'enorme variabilità nella topografia, nella geologia, nel clima, che incide profondamente sui bacini lacustri che si trovano nelle diverse regioni. È inimmaginabile che i laghi tettonici dell'Africa equatoriale abbiano caratteristiche comuni con quelli, pure tettonici, dell'Asia centrale, o che i grandi laghi marginali delle Alpi italiane e svizzere, di origine glaciale, presentino forti somiglianze con quelli, pure di regioni glacializzate, della Patagonia, o che i laghi vulcanici dell'Italia centrale abbiano una fisionomia analoga a quelli di origine vulcanica del Giappone. Tanto più profonde poi sono le differenze se si analizzano le caratteristiche di laghi la cui origine sia da ascrivere a cause differenti.

Questo significa, in ultima analisi, che la caratterizzazione di un lago si delinea in funzione dell'areale che lo circonda e delle variabili climatiche, oltre che, naturalmente, della sua morfologia e morfometria.

Ogni lago ha una sua propria articolazione morfometrica, vale a dire una sua area, una sua profondità media e massima, una sua curva ipsografica, che imprime al bacino sommerso alcune caratteristiche fondamentali, che si manifestano in modo e con intensità diversi in rapporto alle caratteristiche climatiche e meteorologiche dell'areale nel quale giace e all'impatto determinato dal suo bacino imbrifero.

Queste considerazioni rappresentano la premessa indispensabile per passare da una fase di ricerca puramente descrittiva e statica di una comunità biologica lacustre ad una fase dinamica, che sta oggi sviluppandosi molto rapidamente e con grande successo.

2. La produzione biologica delle acque interne

La struttura petrografica e geomorfologica dei bacini imbriferi è alla base delle caratteristiche chimiche delle acque che raggiungono un lago, sia attraverso i corsi d'acqua tributari che attraverso il dilavamento di tutta l'area di drenaggio. La concentrazione media di sali e lo spettro ionico dell'acqua di ogni ambiente lacustre devono sempre essere interpretati in rapporto alle variabili climatiche, idrologiche, litologiche e geologiche dell'areale del quale i laghi rappresentano l'impluvio. La meteorologia regionale ha un'importanza determinante in relazione al reticolo idrografico derivante dal bacino imbrifero: è da questo, infatti, che proviene ciò che è stato definito il ‛rifornimento' dall'esterno. Precipitazioni, portate dei tributari di un lago, morfologia e struttura litologica del bacino imbrifero concorrono nel determinare fenomeni di erosione, di solubilizzazione di composti inorganici, trasporto di materiale sospeso sia inorganico che organico e, in definitiva, nel trasferire ai laghi alcune caratteristiche dei loro bacini imbriferi.

In linea generale, afferma R. A. Vollenweider (v., 1965), le condizioni medie di solubilizzazione delle rocce e del suolo di un determinato bacino possono essere definite, introducendo un coefficiente ϕ, dall'equazione:

Formula

dove ϕ, chiamato ‛coefficiente di solubilizzazione areale', ha dimensioni che possono venir espresse in grammi o meq/m2/s. Se si valuta la superficie di contatto (bacino imbrifero) in m2, il tempo in secondi e il volume d'acqua in m3, la concentrazione risulta allora espressa in g/m3 o in meq/m3.

Ma non basta: la temperatura atmosferica, con la collaborazione del vento, e la radiazione solare sono alla base di due fondamentali variabili fisiche delle masse d'acqua lacustri, quali la struttura termica e le caratteristiche della radiazione luminosa subacquea. Queste variabili, insieme con quelle chimiche, costituiscono il punto di partenza della produzione biologica dei laghi: essendo però esse, come si è visto, estremamente differenziate, ne deriva che la produzione biologica è diversa, sia qualitativamente che quantitativamente, in ogni singolo lago.

Con l'espressione ‛produzione biologica' si entra in un capitolo tra i più complessi e interessanti dell'idrobiologia, e che soprattutto oggi sta avendo uno sviluppo imprevedibile sino a qualche anno fa, anche se alcuni elementi della funzione produttiva sono ancora da chiarire nei loro aspetti dinamici. La potenzialità di produzione dell'ambiente acquatico è condizionata da parametri che sono legati alle sue proprie caratteristiche fisiografiche.

Se si prende in considerazione un corso d'acqua, risulta chiaro che esso è tanto più produttivo quanto più tende ad assumere una fisionomia analoga a quella di un corpo d'acqua lacustre. La velocità di corrente, e quindi il rapido ricambio d'acqua in un torrente o in un fiume, con la instabilità delle variabili fisiche e chimiche, con l'elevata quantità di portata solida, rappresentano un'incisiva limitazione a uno stabile insediamento di popolazioni, sia vegetali che animali, e quindi alla strutturazione di un ciclo produttivo ben definibile nel tempo.

Nei corsi d'acqua si possono riconoscere poche altre variabili che siano determinanti per la loro produzione, oltre a quelle testé ricordate. Nella maggior parte dei sistemi di acqua corrente, la componente alimentare, che sostiene le comunità animali, è di origine alloctona: il detrito, che deriva dalla vegetazione terrestre e in misura molto minore da comunità lacustri, nel caso di emissari di laghi, assume una importanza fondamentale, il che è dimostrato dal fatto che quasi tutti gli animali viventi in acque correnti sono consumatori di detrito. Questa è la ragione per la quale in tutti i corsi d'acqua naturali la comunità faunistica che non manca mai è quella bentonica, in quanto è composta in enorme prevalenza da organismi detritofagi.

Questa situazione si modifica gradatamente nel caso che un fiume trasporti un'enorme massa d'acqua con bassa velocità di corrente (il Congo, il Volga, il Rio delle Amazzoni) o quando esso scorra lentamente in una zona pianeggiante, sino all'estrema situazione della formazione di delta. In questi casi, avendo la velocità di corrente valori molto bassi, il ricambio d'acqua è meno rapido, e permette un avvicinamento alle condizioni fisiografiche di un corpo d'acqua lacustre. È infatti ben noto che un vero e proprio popolamento planctonico (di organismi, cioè, che vivono sospesi e liberamente ‛vaganti' nella massa d'acqua) manca nei fiumi, ad eccezione di quelli con grandi portate e con modeste velocità di corrente, vale a dire esattamente nei due casi che sono stati testé messi in evidenza. È chiaro che l'esistenza di un popolamento planctonico significa la contemporanea presenza di organismi vegetali, microscopici (Alghe) e non (piante acquatiche), e di organismi animali (zooplancton), il che permette di assumere che in questi ambienti acquatici esista una comunità che può considerarsi un ecosistema compiuto, del quale fanno parte i produttori (vegetali), i consumatori (organismi animali: planctonici e bentonici, pesci), i decompositori (microflora batterica).

La velocità di corrente e la rapidità del ricambio d'acqua determinano fondamentalmente la tipologia e la produzione di un corso d'acqua.

Se questo è vero per i fiumi che sfociano in mare, non si può dire altrettanto per corsi d'acqua che siano tributari di laghi: in questo caso, la fenomenologia è diversa. Il fiume non raggiunge che in casi eccezionali lo stadio di fiume-pozza e sfocia nei laghi per lo più ancora con notevole energia, vale a dire con una velocità di corrente non trascurabile, anche se variabile a seconda della morfologia della regione, portando con sé un patrimonio di materiale soluto e sospeso.

Ritorna qui a farsi luce il concetto di rifornimento di un bacino lacustre da parte del suo bacino imbrifero, che rappresenta una delle fonti di energia che coinvolgono il livello di produzione di un ecosistema acquatico.

Vediamo ora che cosa si intende per ‛produzione' di un lago. La frazione vegetale del popolamento, primo anello della catena alimentare, ha bisogno per vivere, crescere e moltiplicarsi, oltre che di acqua e di luce, di anidride carbonica e di sali minerali in soluzione. Lo studio della produzione vegetale (‛primaria') negli ambienti acquatici coinvolge la valutazione della capacità di un ecosistema di costruire, a spese di energia luminosa e chimica, composti organici di alta potenzialità chimica che saranno trasformati e trasferiti a livelli più alti del sistema. Quindi, per calcolare la misura della produzione vegetale occorre valutare quantitativamente i componenti della comunità vegetale che sono responsabili del passaggio di materiale e di energia attraverso le successive unità produttive del sistema, sommare questi flussi sia in determinati tempuscoli che su un periodo di tempo anche lungo e, infine, misurare le energie che sono coinvolte nella biosintesi al livello di produzione primaria, fondamentale per la produzione di tutto l'ecosistema lacustre (v. Vollenweider, 1969).

È necessario ricordare che l'equazione che definisce l'attività fotosintetica degli autotrofi (6 CO2+6 H2O+energia luminosa⇄C6H12O6+6 O2) è un'enorme semplificazione di una lunga e complessa serie di passaggi attraverso i quali si sviluppa il processo. La biofisica completa della fotosintesi coinvolge un centinaio di passaggi chimici, alcuni dei quali ancora non completamente chiari, nella sequenza che porta alla produzione di uno zucchero partendo da diossido di carbonio e acqua con la concorrente azione di energia luminosa e nutrienti (v. fotosintesi). Ciascuno di questi passaggi coinvolge scambi di energia sotto il controllo di molecole enzimatiche specifiche. È oggi ben noto, soprattutto dalle ricerche del Provasoli e dei suoi colleghi, che la presenza di oligoelementi o elementi in traccia, quali boro, molibdeno, cobalto, ferro, manganese, ecc., è indispensabile per il metabolismo del popolamento algale, come lo sono ovviamente i sali nutritizi considerati fondamentali, cioè quelli di azoto e fosforo.

Queste esigenze nutrizionali variano a seconda dei gruppi, e spesso anche delle singole specie algali che sono numerosissime e che appartengono alle Myxophyceae, alle Chiorophyta, alle Euglenophyta, alle Cryptomonadineae, alle Xanthophyceae, alle Chrysophyceae, alle Bacillariophyceae e alle Dinophyceae.

È ben noto che il popolamento vegetale delle acque dolci non è costituito soltanto da Alghe, ma che la componente rappresentata dalle piante vascolari costiere, radicate e flottanti, rappresenta una notevole percentuale degli autotrofi. Il fatto è, però, che la disponibilità di queste due frazioni vegetali per l'anello successivo della catena alimentare passa attraverso stadi differenti. Le alghe microscopiche del fitoplancton, le cui dimensioni sono comprese in un intervallo che va da poche unità a qualche centinaio di micron, sono per lo più a immediata disposizione dei consumatori primari, cioè degli organismi del plancton animale, rappresentati in grande prevalenza da Rotiferi e Crostacei Copepodi e Cladoceri. A sua volta, lo zooplancton è utilizzato come alimento da pochi organismi zooplanctonici carnivori e da Pesci, oltre che da poche larve di insetti, consumatori primari, i quali tutti, infine, sono predati da pesci carnivori, consumatori secondari. Il secondo gruppo di produttori primari, vale a dire le piante radicate, è utilizzato come nutrimento diretto da parte di erbivori, cioè da alcune larve di insetti, da alcuni crostacei e molluschi, che, a loro volta, sono predati da pesci di piccole dimensioni, che costituiscono i consumatori secondari. Tutto ciò, infine, che dal pelago del lago va a sedimentare sul fondo dei laghi, e che deriva da spoglie di organismi morti, da materiale catabolico, ecc. rappresenta un apporto fondamentale per il metabolismo della comunità di consumatori che vive sulla superficie o entro i primi centimetri di sedimento: il bentos. Protozoi, Rotiferi, Vermi, larve di insetti, ecc. sono i componenti fondamentali di questa comunità.

Questi cenni, che sono stati esposti in forma estremamente succinta, rappresentano in realtà il frutto di osservazioni accurate da parte di molti idrobiologi che sono stati i pionieri di una nuova forma di approccio ai problemi della produzione lacustre: studio complicato da una serie di modificazioni legate alle vicende stagionali dell'ambiente limnico e ai rapporti di interdipendenza tra i vari componenti la comunità biotica dei laghi. La premessa fondamentale che ha portato a visualizzare quantitativamente i problemi della produzione, è stata quella dell'enumerazione degli organismi presenti in ciascuna delle componenti biotiche, suddivise sia dal punto di vista della loro autotrofia ed eterotrofia, sia da quello della loro appartenenza al pelago, al litorale, al fondo lacustre. Questa valutazione quantitativa ragionata portò a un certo momento alla convinzione che fosse opportuno procedere a un'elaborazione concettualmente più valida della massa di dati che si era intanto andata accumulando. Ch. Elton, nel suo libro Animal ecology, pubblicato in prima edizione nel 1927, si rese conto che i numeri corrispondenti ai successivi livelli trofici potevano essere sovrapposti in senso verticale, in modo da formare una piramide. La base della piramide rappresenta il numero dei produttori primari - la frazione vegetale, quindi, della intera biocenosi - sulla quale sono disposti altrettanti strati, di dimensioni ovviamente proporzionali a quello basale, che corrispondono al numero dei fitofagi, dei consumatori primari, secondari e talora anche terziari. Questa ‛piramide eltoniana' è in realtà il primo tentativo di costruire quantitativamente una catena alimentare e di comprendere così la struttura biologica di una comunità. L'espressione ‛livello trofico' ha veramente il significato di un livello orizzontale nella piramide dei numeri, che assume quindi un significato essenzialmente funzionale nell'analisi della comunità.

Trasferendo questo discorso in termini di biomassa, in ogni ecosistema equilibrato il peso di tutti i consumatori secondari per anno deve sempre essere di molto inferiore rispetto a quello dei consumatori primari e questo, a sua volta, deve essere minore di quello degli erbivori, che, nella comunità, è sempre molto più piccolo del peso dei produttori primari. Come osservò lo stesso Elton, tutto ciò ha implicazioni che coinvolgono la dimensione e le densità degli organismi ai diversi livelli. È verosimile che i consumatori siano di dimensioni sempre maggiori rispetto alla preda e quasi certamente meno frequenti per unità di area o di volume d'acqua. Per fare un esempio, gli organismi zooplanctonici, che si nutrono direttamente di Alghe verdi nel pelago dei laghi, devono necessariamente essere microfagi: in realtà, essi sono per lo più filtratori, sono animali molto piccoli, con biomasse individuali valutabili nell'ordine di milligrammi.

Ecco quindi che, accanto alla piramide dei numeri (numero degli individui per unità di area o di volume), si può costruire una piramide delle biomasse, cioè del peso totale degli individui di una popolazione o di una comunità, per unità di volume o di superficie del corpo d'acqua, che possono essere espresse in unità di peso umido o secco, in carbonio o azoto organici.

Questi numeri o biomasse devono essere valutati lungo un arco di tempo possibilmente lungo, con campionamenti intervallati tra loro in base a un disegno sperimentale statisticamente ragionato, il che permette di valutare i rapporti quantitativi tra gli organismi in successione temporale, tenendo sempre presente l'errore insito nell'imperfezione dei mezzi di raccolta del materiale biologico, alla quale non è stato ancora possibile ovviare in modo certo e definitivo (v. Edmondson e Winberg, 1971).

Se questo può considerarsi il primo approccio alla stima della produzione di un corpo d'acqua, è possibile però anche impostare il ragionamento sulla valutazione di trasferimenti di quantità di materiale e di energia da un livello trofico al successivo. Di conseguenza, è estremamente importante, come dice Winberg (v., 1971), avere a disposizione tutte quelle informazioni scientifiche che servono a caratterizzare l'interazione tra organismi appartenenti a livelli trofici prossimi l'uno all'altro, quali, ad esempio, le loro esigenze alimentari. Nello studio del processo produttivo, la biomassa, la velocità e i ritmi di riproduzione, le funzioni metaboliche degli organismi appartenenti ai diversi livelli trofici, la loro composizione chimica, devono essere espressi in unità confrontabili, quali unità di massa e di energia.

Per esprimere il peso degli organismi in termini di unità di energia, si deve conoscere il loro valore calorico: questo è il contenuto energetico della massa unitaria del materiale studiato. È molto importante fare un'accurata distinzione tra il valore energetico del peso totale di un animale (in termini di calorie per individuo), il valore energetico della biomassa (in termini di calorie per metro cubo, per metro quadrato o calorie per l'intero lago, ecc.) e il valore calorico, vale a dire il valore energetico di un organismo rapportato all'unità del suo peso (in termini di calorie per grammo di sostanza umida o secca).

Lindeman (v., 1942) diede inizio, in questo campo, a una nuova era dell'ecologia lacustre. Egli, infatti, propose un metodo molto brillante per rappresentare i rapporti troficodinamici in termini appunto di energia. I singoli e successivi livelli della piramide eltoniana furono espressi, anziché sotto forma di numeri di individui o di biomasse, come contenuto di energia, calcolando anche quanta energia per unità di tempo passa da un livello trofico al successivo: vale a dire l'efficienza, essendo questa definibile come il rapporto tra l'equivalente calorico del materiale disponibile a ciascun livello e quello utilizzato.

Negli ultimi vent'anni, una sempre maggiore attenzione è stata rivolta a ricerche di indirizzo energetico ed ecologico, sia da un punto di vista teorico che sperimentale. Sistemi basati su allevamenti di preda-predatore sono stati studiati in Daphnia (cladocero fitofago filtratore) da L. B. Slobodkin, il quale offri una definizione molto più rigorosa della misura di ‛efficienza ecologica' in termini di trasferimento di energia attraverso i livelli trofici. Mentre l'efficienza massima nella catena alimentare Alghe-Daphnia, misurata sperimentalmente, si aggirava intorno all'8,5%, l'efficienza lorda in natura variava tra un minimo di 5,5 e un massimo di 13,5%. Negli ultimi dieci anni, con l'intensificarsi di questo tipo di ricerche, sia in campo sperimentale che in ambienti naturali, si è giunti alla conclusione che l'intervallo di tali efficienze cade tra il 6 e il 15%.

È da notare che queste indagini erano condotte su popolazioni sperimentali, e quindi nelle migliori condizioni di equilibrio, oppure in ambienti naturali nei quali l'equilibrio non era perturbato da fattori esterni, sicché i valori di efficienza erano facilmente generalizzabili a catene alimentari ben definibili e classicamente riconoscibili.

3. Struttura e dinamica di un ecosistema lacustre

Se concettualmente questo modo di procedere è tuttora assolutamente valido e ha un'applicazione sempre più vasta nell'ecologia delle acque interne, non si può ignorare che in quasi tutti i laghi, grandi o piccoli, naturali o artificiali, si sono verificate da alcuni anni una serie di modificazioni che derivano dal mondo esterno e che non permettono più, a eccezione di casi rarissimi, di riconoscere in un ambiente lacustre una fisionomia stabile, anche entro intervalli di tempo relativamente brevi.

Le cause di ciò sono state chiarite in precedenza. Se si pensa, infatti, che ogni lago è parte del bacino imbrifero con il quale forma veramente un'unità funzionale, è chiaro che il suo metabolismo dipende non soltanto dall'ingresso di energia luminosa e calorica, ma soprattutto dalla quantità di materiale che giunge dal bacino imbrifero attraverso gli immissari, nonché dalle caratteristiche morfometriche e idrodinamiche proprie dei singoli laghi.

Per comprendere il meccanismo attraverso il quale i tributari dei laghi svolgono questo ruolo, bisogna delineare, anche solo per sommi capi, la fisionomia di alcuni parametri fondamentali, propri di una raccolta d'acqua, che riescono a provocare la cattura da parte del lago di tutto ciò che deriva dal suo bacino imbrifero.

La situazione è completamente diversa nei corpi d'acqua piccoli e piatti e nei laghi profondi: nei primi il ricambio di acqua e di sostanze chimiche o già metabolizzate è rapido, nei secondi no. Se, come sta accadendo in forma sempre più pesante, l'erosione del suolo aumenta e grandi quantità di materiale organico e inorganico entrano in un lago dal bacino di drenaggio, si verifica un accumulo di materiale o di prodotti derivati da una trasformazione biologica, che modifica profondamente l'equilibrio dell'ecosistema lacustre.

Si è detto poc'anzi che anche alcune caratteristiche morfometriche (soprattutto la profondità e l'articolazione del bacino sommerso) e idrodinamiche dei laghi hanno una grande importanza nel determinare l'instabilità e la tendenza della modificazione strutturale dell'ecosistema lacustre.

Relativamente da pochi anni (v. Piontelli e Tonolli, 1964) si è posto nella dovuta evidenza un fatto estremamente importante: che cosa significhi nella dinamica produttiva di un lago il tempo di permanenza nella cuvetta lacustre dell'acqua proveniente dal suo bacino di raccolta. Esso non può essere valutato semplicemente sulla base del rapporto tra il volume d'acqua del lago e quello delle acque immissarie o emissarie, in un ciclo annuale (tempo ‛teorico' di ricambio), poiché, così operando, si considererebbe il lago semplicemente alla stregua di un tratto fluviale che a un certo punto del suo corso si amplia. Questo modo di concepire le cose non è corretto, perché non tiene conto dei vari tipi di stratificazione che caratterizzano un corpo d'acqua lacustre.

La causa di gran lunga più frequente di una stratificazione in un lago è senz'altro da ascriversi alla temperatura, che determina una sovrapposizione di strati d'acqua più caldi, e quindi meno densi, ad altri più freddi e più densi. Questo, come è noto, è da ricondursi al fatto che la radiazione solare si estingue in acqua secondo la funzione esponenziale Iz/I0=e-kz, dove I0 e Iz sono rispettivamente l'intensità della radiazione alla superficie e alla profondità z, e è la base dei logaritmi naturali e k è il coefficiente di estinzione. Ad eccezione dei laghi tanto poco profondi da permettere a una notevole percentuale della luce incidente di essere trasmessa sino al fondo, creando così le premesse di una minore stabilità del lago, con una stratificazione termica conseguentemente modesta e persistente per tempi brevi, l'acqua lacustre è stratificata per la maggior parte dell'anno e l'isotermia si raggiunge, soprattutto in laghi profondi di regioni temperate, in alcuni periodi stagionali in concomitanza con fenomeni meteorologici ben definiti. È importante ricordare che gli scambi di calore avvengono attraverso la superficie, che il fattore di gran lunga più importante ed efficace per l'apporto di calore a un lago è, come si è detto, la radiazione solare e che infine l'energia ricevuta nelle lunghezze d'onda dell'infrarosso, che rappresenta l'apporto diretto di calore, è assorbita, in ogni caso, nella misura del 98% nel primo metro d'acqua superficiale. Premesso che l'acqua è un cattivo conduttore di calore e che ogni modificazione di temperatura nell'acqua è accompagnata da modificazioni di densità, è indispensabile l'intervento di un lavoro esterno per distribuire il calore in profondità: questo lavoro è fornito dal vento. Quanto maggiore sarà la forza del vento e quanto minore sarà la stabilità del lago, vale a dire quanto minore sarà la sua stratificazione termica, e quindi la densità, tanto più incisivo sarà il risultato del lavoro del vento, che riuscirà a provocare una circolazione dell'acqua a profondità sempre maggiori e spesso completamente. Queste condizioni raggiungono l'optimum durante l'inverno, quando la perdita notturna di calore da parte degli strati superficiali del lago supera l'acquisto di calore che avviene durante il giorno. A poco a poco, l'acqua superficiale, che si raffredda e diventa più densa, scende sino a raggiungere il livello che ha la sua stessa densità, continuando così a incrementare lo spessore della massa d'acqua isoterma. Questo implica la scomparsa progressiva di quello strato di discontinuità termica che si forma nelle stagioni durante le quali si verifica un progressivo riscaldamento delle acque superficiali e che si manifesta con una diminuzione cospicua della temperatura entro un modesto spessore d'acqua (da uno fino a cinque gradi per metro). Molte e complesse sono le ragioni per le quali, con l'aumentare del riscaldamento delle acque superficiali, il termoclino, o strato di discontinuità termica, persiste e diviene sempre più cospicuo: basti pensare al fatto che il gradiente termico è anche gradiente di densità e che qualsiasi moto circolatorio prodotto dal vento nelle acque al disopra del termoclino non riesce a produrre mescolamento tra le acque epilimniche, sopra lo strato a forte gradiente termico, e quelle ipolimniche più profonde, al disotto di questo. Nullo, o estremamente modesto, è lo scambio di acqua e di soluti attraverso un termoclino ben stabilizzato. E questo è un fatto molto importante nella dinamica produttiva dei laghi.

Ecco, quindi, che in tutti i laghi nei quali sia possibile, per ragioni climatiche, morfometriche, geografiche, l'instaurarsi di una stratificazione termica, le acque profonde sono nettamente separate da quelle superficiali, e quindi dal contatto con l'atmosfera, per periodi più o meno lunghi dell'anno. Quando, poi, il lago sia molto profondo e non si verifichino durante il periodo invernale quelle condizioni meteorologiche - temperature atmosferiche molto basse e lavoro del vento intenso - che riescono a innescare una piena circolazione, non si raggiungerà neppure per tempi brevissimi la superficializzazione delle acque profonde, che possono quindi rimanere precluse dal resto della massa di acqua lacustre e dal contatto con l'atmosfera per uno e anche per più anni successivi.

L'emunzione di acqua dal lago da parte dell'emissario attinge soltanto dagli strati più superficiali, fino a profondità, cioè, che si spingono poco al disotto della soglia lacustre. Se il lago è termicamente stratificato, cioè nella stragrande maggioranza dei casi, è soltanto l'acqua superficiale che viene rinnovata, e anche più volte in un anno, mentre l'acqua profonda verrà parzialmente emunta soltanto in quei laghi e in quei periodi stagionali, nei quali si verifica la piena circolazione.

Il presupposto fondamentale che impone di analizzare un ecosistema lacustre in una prospettiva dinamica, anche in tempi ravvicinati, è il seguente: la presenza sempre più pesante dell'uomo e delle sue attività nel bacino imbrifero di quasi tutti i laghi del mondo determina un ingresso di energia chimica nel lago, sotto forma di sostanze direttamente utilizzabili dalla microflora algale (nutrienti fondamentali e alcuni oligoelementi) oppure più o meno facilmente demolibili e mineralizzabili dalla microflora batterica lacustre, sino a renderle metabolizzabili dagli organismi viventi nella massa d'acqua del lago, sia a livello del pelago che dei sedimenti.

Pochi sono i laghi nel mondo per i quali si conosca il tempo ‛reale' di rinnovo dell'acqua lacustre. Prendiamo come esempio quanto accade nel lago Maggiore, per il quale si sono accumulate preziose informazioni raccolte per decenni. Una piena circolazione di tutta la massa d'acqua del lago, profondo 370 metri, si verifica in media ogni cinque-sette anni (v. Vollenweider, 1965), forse più probabilmente ogni sette anni: partendo da un anno zero, cioè con il 100% di acqua originaria, tenendo conto delle alternanze di circolazione totale e parziale sulla base delle situazioni termiche che si verificano nei diversi anni (persistenza o scomparsa della stratificazione), è risultato che la permanenza media dell'acqua nel lago è di circa 14 anni e mezzo.

Questo concetto viene ad assumere un'enorme importanza, quando si pensi che al lago pervengono, attraverso i suoi 22 tributari principali, gli scarichi di effluenti domestici e le acque di dilavamento superficiale - sostanze estranee alla sua naturale struttura chimica - da un bacino imbrifero di circa 6.600 km2. Sulla base di queste considerazioni si è stimata quindi la potenzialità di accumulo di un soluto ideale, e utopistico, chimicamente inattivo, non assorbibile: se questo fosse introdotto ogni anno nel lago nella quantità 1 e si miscelasse perfettamente in tutta la massa di acqua lacustre, si ritroverebbe nel lago, dopo dieci anni, nella quantità 7,3. Questo valore dà soltanto un ordine di grandezza, perché, nella realtà delle cose, l'accumulo sarà largamente influenzato dallo strato e dal periodo stagionale nei quali avviene l'immissione.

Drammatiche sono le conclusioni cui giunge R. H. Rainey (1967) per il sistema dei Grandi Laghi del Bacino del San Lorenzo: Superiore, Michigan, Erie e Ontario (Stati Uniti-Canada). Tenuto conto delle caratteristiche morfometriche, idrologiche e termiche dei quattro laghi, egli ha valutato, attraverso un calcolo matematico semplice, che il tempo medio di permanenza dell'acqua nel lago Superiore (profondità massima: 397 metri) è di 189 anni, nel Michigan (281 metri) di circa 31 anni, nell'Erie (60 metri) di 2,6 anni e nell'Ontario (244 metri) di 7,8 anni. Egli conclude che per i due laghi a monte, il Superiore e il Michigan, ammettendo che l'immissione di sostanze estranee al lago cessasse di colpo, a causa del lungo periodo di permanenza dell'acqua nel bacino lacustre, per rimuoverne il 90% sarebbero necessari 500 anni per il lago Superiore e oltre 100 anni per il Michigan, mentre per gli altri due laghi, Erie e Ontario, a ricambio d'acqua più rapido, basterebbero rispettivamente 6 e 20 anni. Il che comunque non è davvero confortante.

Questo è il problema di oggi: ai laghi giunge tutto ciò che deriva dal bacino imbrifero, che ormai agisce per lo più da supporto a un popolamento umano sempre più denso e che cede all'ambiente tutti i prodotti di rifiuto suoi e delle sue multiformi attività. Questo fenomeno, relativamente nuovo, non coinvolge l'ingresso nei laghi soltanto di sostanze tossiche, ma anche di materiale che influisce profondamente sul loro grado di trofia, vale a dire di nutrienti che influenzano in modo determinante la produzione primaria, nonché di sostanze organiche di varia natura che vengono ad arricchire i bacini lacustri, che possono essere considerati come mezzo colturale, variabile a seconda della dinamica idrologica e biologica del recipiente. Sono le Alghe e le piante acquatiche che ne risentono direttamente e che a loro volta condizionano la produzione dei livelli trofici a esse immediatamente o mediatamente legati. Questo è alla base del fenomeno dell'eutrofizzazione dei bacini lacustri, vale a dire di una sorta di sovranutrizione: come sempre accade, la sovranutrizione porta a scompensi metabolici e a condizione di malattia.

La produzione del popolamento vegetale lacustre, spazialmente limitata agli strati d'acqua illuminati, aumenta continuamente e molto spesso con tale intensità che il consumo da parte degli erbivori non è sufficiente a contenerne la biomassa. Ne consegue che grandi quantità di Alghe non passano direttamente nel ciclo produttivo dello strato trofogeno come fonte di energia per i consumatori primari (planctonti fitofagi), ma tendono a calare verso strati più profondi, dove per lo più vengono sottoposte a progressiva demolizione da parte della microflora batterica eterotrofa, che può giungere a mineralizzare la sostanza organica sedimentante. I prodotti di questo processo possono essere riciclati negli strati d'acqua produttivi, incrementando ulteriormente la produzione. Gli organismi morti, le loro spoglie, la sostanza organica non completamente mineralizzata nello strato trofogeno raggiungono i sedimenti, con conseguente arricchimento del substrato sul quale è insediato il popolamento bentonico. In questo processo di sedimentazione, sia per fenomeni di ossidazione chimica, sia per il metabolismo di un ricco popolamento di batteri eterotrofi, sia per processi respiratori, a livello planctonico e bentonico, che si verificano nella massa d'acqua ipolimnica, si ha un consumo progressivo di ossigeno che può portare a valori di concentrazione bassissimi o quasi nulli, quando persista preclusione delle acque profonde durante i periodi di stratificazione: queste acque, infatti, non riescono a raggiungere la superficie e non possono quindi ricaricarsi di ossigeno né attraverso il contatto con l'atmosfera né con le acque epilimniche dove, grazie ai processi fotosintetici, le concentrazioni di ossigeno sono sempre elevatissime.

In questo strato d'acqua profondo si possono quindi instaurare gravi situazioni di anossia, innescanti una serie di processi anaerobici che possono provocare nei laghi degenerazioni gravissime.

Il contributo dell'attività microbica nei processi dinamici dell'ecosistema lacustre è stato più volte sottolineato: bisogna però dire che soltanto da poco più di un decennio ci si sta rendendo conto della sua importanza nell'ecologia lacustre. Accadeva spesso, e in qualche caso ancora oggi accade, che là dove rimaneva un vuoto inspiegabile in un discorso che si voleva rendere consequenziale veniva chiamata in causa un'attività microbica. In altre parole, le amplissime capacità metaboliche di questi microrganismi erano spesso invocate anche quando, come si dimostrò in seguito, esse erano nulle, come nel caso di alcuni pesticidi, erbicidi, detergenti che poi, in realtà, M. Alexander (1965) defini ‛recalcitranti' all'attacco microbico. Da pochi anni soltanto ci si è resi conto che l'ecologia microbica è di importanza fondamentale e che deve essere studiata con criteri e metodologie moderne: non basta tentar di contare o di riconoscere forme microbiche, ma occorre adottare un approccio cinetico verso il loro metabolismo, fare uno studio dei loro flussi energetici. Non ci si deve nascondere che questo è un campo di ricerca particolarmente difficile, soprattutto perché l'attività microbica si svolge in un ambiente, quello lacustre, nel quale il livello dei nutrienti è molto diverso da bacino a bacino; e poi perché nello stesso lago, sottoposto, come oggi avviene, a un continuo incremento nella concentrazione di sostanza organica e di composti tossici (metalli pesanti, biocidi), l'attività microbica deve affrontare situazioni che non possono davvero definirsi di equilibrio stabile. Spesso non si posseggono ancora metodologie adeguate allo studio dell'ecologia microbica negli ambienti lacustri, con substrati quindi a concentrazioni modeste o molto basse, A. H. Wiebe, nel suo contributo al recente trattato di Odum (v., 19713), denuncia tali deficienze metodologiche, poiché non si può pensare di applicare le convenzionali tecniche colturali di laboratorio a ricerche condotte in ambienti naturali, quali i laghi; egli sottolinea fortemente l'importanza dell'ecologia microbica, che definisce il nucleo dell'ecologia, per una corretta interpretazione del ciclo degli elementi chimici, per l'approccio bioenergetico agli ecosistemi e per il controllo degli inquinamenti prodotti dall'uomo.

4. Conclusioni

Si è così tentato di delineare quel filo conduttore che, attraverso un'evoluzione concettuale, ha portato oggi a considerare un lago con il suo bacino di drenaggio un sistema ecologico, nel quale lo studio dei flussi energetici è di fondamentale importanza per una corretta impostazione della sua analisi sulla base di modelli matematici.

Il meraviglioso lavoro pionieristico di R. L. Lindeman (v., 1942) è stato recentemente rielaborato da R. B. Williams (v., 1971), il quale ha perfezionato le osservazioni e i dati di Lindeman relativi al flusso e all'accumulo di energia nell'ecosistema di Cedar Bog Lake inquadrandoli in un modello matematico.

Questo tipo di approccio presenta certamente grandi prospettive per l'avvenire, soprattutto se si pensa che le conoscenze sui contenuti calorici ai diversi livelli degli ecosistemi lacustri e sulle quantità di energia in gioco tra i diversi livelli trofici stanno avanzando rapidamente.

I modelli matematici possono essere di grandissima utilità, quando siano applicati a ecosistemi acquatici che si modifichino nel tempo verso gradi di trofia maggiore (eutrofizzazione), a causa, ad esempio, di aggiunte di nutrienti fondamentali. Tentativi in questo senso sono già stati compiuti, e con successo (v. Smith, 1969).

Sia, però, da un punto di vista analitico che da quello globale, questo approccio moderno allo studio degli ecosistemi lacustri richiede che si disponga di dati sicuri, frutto di ricerche fondamentali inconfutabili. Il modello matematico può oggi costituire un mezzo di studio utilissimo di sistemi relativamente poco complessi o di sistemi complessi ma semplificati. L'analisi dei sistemi apre certamente nuovi orizzonti nel campo dell'idrobiologia e dell'ecologia acquatica, poiché rappresenta una visualizzazione in prospettiva di problemi che coinvolgono il futuro delle nostre risorse idriche. La simulazione in modelli matematici di eventi che modifichino una certa situazione in un sistema lacustre offre la possibilità di prevedere situazioni a venire, che si deve tentare di evitare o di favorire.

Il modello oggi considerato più valido, in quanto basato su misure di variabili ecologiche, è quello realizzato da venticinque scienziati, appartenenti a sette scuole diverse ed operanti in stretta collaborazione, noto col nome di CLEAN (Comprehensive Lake Ecosystem ANalyzer). Esso consiste di ventotto equazioni differenziali, che rappresentano approssimativamente sedici compartimenti, nei quali sono comprese le componenti fondamentali del sistema biotico lacustre. Tali equazioni possono essere legate in ogni combinazione ragionevole per simulare la situazione di un determinato punto in un lago, avendo inoltre a disposizione un modello separato per la circolazione della massa d'acqua, al fine di poter rappresentare le variazioni spaziali e di collegare le simulazioni di diverse zone di uno stesso ambiente lacustre.

Questo modello, il cui coordinatore è R. A. Park (v., 1975), è stato sinora applicato al lago George (New York), e al lago Wingra (Wisconsin, Stati Uniti). I valori numerici relativi a variabili fisiche, chimiche, biologiche, nutrizionali, successionali, ecc. di altri laghi studiati in dettaglio in Europa e altrove, sono attualmente usati per formularne modelli, allo scopo di offrire una base operativa razionale a quanti sono preposti alla gestione del patrimonio idrico lacustre.

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