Il 43-45

Storia di Venezia (2002)

Il 43-45

Raffaele Liucci

Il ’43-’45

De Pisis, «malgré les tempêtes»

Nel settembre del ’43, il pittore marchese Luigi Filippo Tibertelli, più noto con il nome d’arte di De Pisis, in fuga dai bombardamenti di Milano, si recò a vivere in pianta stabile a Venezia. In attesa di entrare nella casa di sua proprietà, a S. Sebastiano 1709, un palazzetto della seconda metà del Quattrocento da lui soprannominato «il palazzotto di Don Rodrigo» e ancora occupato dai vecchi inquilini (che se ne andranno solo poco prima della fine della guerra), fissò la sua dimora in una pensione al numero 3435 di piscina S. Samuele, una cameretta di cui andava particolarmente orgoglioso per essere accanto alla casa un tempo abitata da Paolo Veronese. Il suo studio si trovava a S. Barnaba 3074, un ambiente suggestivo e misterioso, una sola grande stanza che si affacciava su un piccolo giardino con l’approdo per le barche e a cui si accedeva attraverso una scaletta di legno; dalle sue finestre si vedevano, da un lato, le absidi dei Carmini e il campanile di S. Sebastiano, dall’altro, il campanile di S. Barnaba e, al di là del Canal Grande, quello di S. Samuele. Venezia era seducente come sempre e De Pisis dimenticò presto gli affanni dei bombardamenti a Milano; ora, aveva un solo pensiero: continuare a dipingere le sue vedute veneziane, le nature morte, i mazzi di fiori. Per molto tempo restò nella memoria della città il mito di De Pisis eccentrico a Venezia, luogo in cui, dopo tanto vagare, sembrava aver finalmente trovato una sua dimensione: «Venezia, reggia di sogni, terra felice che si solleva verso il cielo», ove «l’architettura regna sulle vicende umane, ed è di dolce conforto», scriveva. Egli girava per i canali con la sua lussuosa gondola parada, una delle più belle in città, su cui spesso sistemava il cavalletto, e andava a dipingere col fido cameriere che lo assisteva e il pappagallo Cocò sulla spalla. D’inverno usava ripararsi sull’imbarcazione con il «felze» (una copertura che si adattava su semicerchi piegati ad arco sui bordi del naviglio), d’estate una tenda bianca foderata di verde e sulla spalliera del sedile uno stemma della nobile casata cui apparteneva. Egli preferiva spostarsi in gondola perché, sosteneva, per godere pienamente della città dogale occorreva «contemplarla soprattutto dall’acqua»: «Le prospettive esatte di Venezia sono a fuoco solamente sui rii. Le calli hanno ancora troppo legame, troppa materia di consuetudine».

Della situazione politica De Pisis non sapeva quasi nulla, anche se era eccitato dai biondi soldati tedeschi che incontrava in una birreria di Rialto e al Lido, dove amava godersi i bagni, e che talvolta riusciva a far salire sulla sua gondola; dopo la Liberazione, invece, sarà non poco attratto dai soldati inglesi «dalle belle gambe dorate qualcuno villosino». La tranquillità di questa vita serena e spensierata fu una volta interrotta da uno dei pochi eventi bellici che abbiano interessato Venezia: un’esplosione in seguito ad un’incursione aerea alleata alla periferia della città, nel marzo del ’45, provocò un fortissimo spostamento d’aria, che causò la rottura dei vetri del suo studio, da dove organizzava, come era suo costume in tutti i posti dove si recava a vivere, la propria intensissima vita sociale e amorosa, con modelli e ospiti illustri. Al bel mondo parigino, ove De Pisis aveva trascorso molti degli anni tra le due guerre, si era sostituito quello veneziano, con i Morosini, i Donà dalle Rose, i Valmarana che gli aprivano i palazzi sul Canal Grande. Gli affari andavano molto bene: in quei mesi, a Venezia risiedeva, per i più svariati motivi, gente molto ricca, ben disposta ad investire i propri denari in beni non soggetti all’inflazione galoppante, e De Pisis riuscì a vendere i quadri che dipingeva con una frequenza mai vista prima.

Venne la fine di aprile; De Pisis rimase chiuso nel proprio alloggio mentre le fucilate degli ultimi scontri riecheggiavano per le calli, fino a quando seppe che i primi liberatori erano giunti a piazzale Roma. Il 19 maggio, per «solennizzare la liberazione», De Pisis decise di organizzare una festa nello studio, detta il «Ballo della collanina», ripetizione dei «Bals des Beautés», che si davano a Parigi. Ricorda Giovanni Comisso: «I partecipanti sarebbero stati tutti nudi, solo coperti da gusci di granceole attorno ai fianchi. [...] De Pisis si proponeva di dipingere sul corpo degli invitati [tutti modelli maschi bellissimi] i suoi migliori acquerelli». Diffusasi rapidamente la notizia in città, i partigiani si opposero a quella che, in realtà, era un’orgia con tutti i crismi, giudicata immorale ed offensiva della memoria dei caduti: verso l’imbrunire, una squadra di partigiani armati fece irruzione nel giardino dello studio, arrestando tutti i presenti. Molti riuscirono a scappare, ma molti altri, De Pisis in testa, no: «vestiti sommariamente, dipinti sul corpo e truccati al volto vennero avviati a piedi attraverso quasi tutta la città fino alla questura, scortati dai partigiani». Davanti all’intransigente questore, «De Pisis gli oppose la sua fama artistica, l’altro non ne volle sapere: sarebbe stato trattenuto in attesa di informazioni. De Pisis lo ammonì di stare attento a quello che faceva, egli lo avrebbe fatto saltare dal suo posto, perché era amico di Bottai, senza ricordare che questo ministro fascista era ormai moneta fuori corso. Il questore si irrigidì ancora di più e ordinò venissero tutti messi nel camerotto assieme ad altri detenuti». Il grande pittore ferrarese, che probabilmente non aveva mai riflettuto in vita sua sul rapporto tra arte e politica, ignorava persino l’approssimativa composizione degli schieramenti della guerra civile, nonostante l’opera didascalica ed informativa che il suo amico Comisso, del resto anch’egli tutt’altro che idoneo a partecipare attivamente per le grandi cause, aveva svolto presso di lui negli anni della seconda guerra mondiale. L’artista, ad ogni notizia su qualche sciagura bellica, qualche rara volta ne rimaneva sconvolto, ma subito dopo «ripre[ndeva] a dipingere come per rientrare in un altro mondo, nel suo mondo» (ancora Comisso). Egli si accorgerà della guerra soltanto nei momenti in cui era posta in prossimo pericolo la sua persona fisica. Ricorderà Neri Pozza: «La guerra per lui pareva combattuta su un altro pianeta»(1). Lo stesso Comisso, altro grande epicureo novecentesco fuori dalla storia e dal tempo, era sconvolto, quasi stupefatto dalla guerra che, con il suo pesante carico di lutti e di violenze, dilaniava il suo «Veneto felice»(2): «I dolci paesi del Veneto tra i colli, sui pendii dei monti e lungo i fiumi non si riconoscevano più; erano resi desolati dal terrore»(3), ricorderà in un suo romanzo autobiografico, che racconta una bellissima eppure tristissima, perché mortalmente annientata dalla guerra, storia d’amore, ambientata, negli anni della guerra civile, tra l’altipiano di Asiago, Treviso e, appunto, Venezia.

Una città attendista

Certo, i bizzarri e singolari comportamenti di De Pisis potrebbero essere liquidati con sufficienza, degradandoli a mere manifestazioni di una personalità estrosa, senza alcuna rappresentatività sociale. Questo, però, ci sembra vero solo in parte, giacché il pittore ferrarese ben esemplifica un comune sentire, che nella Venezia del ’43-’45 pervadeva non poco il suo spirito pubblico, facendole assumere, ancora una volta, in coerenza con una illustre tradizione, la configurazione di luogo della memoria e cimitero della storia, sottratta, quindi, allo spazio e al tempo della storia contemporanea(4). E questo discorso riguarda diversi aspetti di Venezia durante i venti mesi di guerra civile.

Pensiamo, per esempio, al rapporto tra la forma urbis di Venezia e una possibile guerra di guerriglia da condursi al suo interno. Osservando una mappa di Venezia, e nutriti di mitologie sudamericane, si sarebbe portati a pensare che la città lagunare, con il suo intrico di calli e canali, favorirebbe naturaliter le azioni di guerriglia. La realtà, invece, è ben diversa: la sua ridotta dimensione, la limitata superficie (poco più di 75 ettari) su cui si estende la città storica, il suo isolamento dalla terraferma, la facile localizzazione di uomini e trasporti, in un contesto in cui tutti si muovono a piedi e dove le merci viaggiano per acqua, ridussero enormemente le capacità logistiche della Resistenza, incapace di operare come organizzazione clandestina in grado di connettere uomini e azioni in modo efficace, di accumulare mezzi e armi, di scardinare gli apparati nemici attraverso la guerriglia urbana. In forza di questo, ci si limiterà, come vedremo, soprattutto ad azioni spettacolari, ad alta risonanza propagandistica, sganciate da qualsiasi strategia continuativa(5). Di contro, Venezia costituisce un magnifico luogo per celarsi, sparire dalla circolazione per periodi più o meno lunghi, senza lasciare tracce di sé; e forse non è soltanto una mera coincidenza che alcune opere letterarie originate dagli anni della guerra civile abbiano come protagonisti degli «imboscati». Nel romanzo La grande Olga di Ugo Facco De Lagarda, per esempio, sostanzialmente non esiste traccia di alcuna Resistenza, e quasi sembra, detto componimento narrativo, un elogio dell’attendismo. Alle prime avvisaglie di guerra civile, un professore ebreo, un operaio rivoluzionario, un ufficiale dell’esercito e un ufficiale disertore delle Brigate Nere, campionario rappresentativo della varia umanità di quegli anni, si rifugiano in uno stanzino di 9 metri quadrati, nell’alloggio in prossimità del ponte di Rialto di cui è tenutaria Olga, una generosa prostituta. Il libro altro non è che la minuta cronaca, da questo microcosmo, dei mesi che separano Venezia dalla Liberazione, quando i protagonisti fuggiaschi possono finalmente uscire dal loro rifugio e ritornare a vivere. Altro, in sostanza, non succede: un sommesso elogio del «secreto lembo di zona neutra» in cui questi imboscati si trovano a vivere, insomma. Qui l’imperativo è la fuga dalla guerra: «occorre farsi piccoli, scomparire, e lasciare che il nembo passi sopra le teste»(6). Anche il protagonista di Le notti della paura di Antonio Barolini è un fuggiasco, braccato dai tedeschi e dal suo timore di prendere le armi e combattere, che vive in un appartamento in cima a una specie di torrione, nel cuore della città; costretto a non affacciarsi neppure alla finestra, non ha quasi più contatti con il mondo, e si trova condannato alla vista soltanto di squarci di case e di cielo: «Venezia era un sacco, se si vuole; ma vecchio, sporco, pieno di buchi, di polvere, di rattoppi, di pieghe. Lì adattandosi a una vita da anguilla, [ci si poteva sentire] relativamente sicur[i]»(7). Al di là di ogni finzione narrativa, il critico Aldo Camerino, per sfuggire alla persecuzione razziale, fu costretto a 516 giorni di «reclusione» in una stanza segreta di una casa di amici: porte, finestre, persiane serrate e un tavolo colmo di libri, per vincere la solitudine. Un’esperienza non totalmente negativa, però, se è vero che ne uscì con animo più sereno verso il mondo: «Lessi molto; m’ubriacai di letture d’ogni sorta. Curioso: tutte quelle che feci in quel tempo, m’hanno lasciato un ricordo fra di sognato e di perso. […] quando squillò il telefono e seppi, da una voce rude e amichevole, che potevo uscirmene senza pericolo, non ebbi fretta, quel giorno. Rimandai alla mattina seguente. Forse è da quando fui recluso che acquistai […] tolleranza, bontà, pazienza»(8). Al di là di questi autocompiacimenti anacoretici, in cui potevano indugiare soprattutto gli intellettuali, si trattava, in genere, per i più, di una vita monotona e logorante, ove la coscienza di essere quasi dei murati vivi, a cui era inibita persino la possibilità di affacciarsi alle finestre, pena l’evenienza di essere scorti dai vicini di casa, non poteva non influire sul sistema nervoso e sulla salute dei fuggiaschi(9).

Anche dal punto di vista dei bombardamenti aerei, Venezia — al contrario di quanto accadde, con maggiore o minore frequenza, a quasi tutte le altre città venete — ne rimase sostanzialmente indenne(10), quasi consacrata città franca in nome della storia e dell’arte, in contrasto con quanto si era verificato durante la Grande guerra, quando Venezia era stata oggetto di decine di incursioni aeree e bersaglio di circa un migliaio di bombe, in gran parte lasciate cadere su obiettivi non militari, ciò che le aveva fatto assumere il volto di «città combattente»(11). Nel ’43-’45 fu la terraferma, invece, a subire i bombardamenti più pesanti: la zona industriale di Marghera era entrata presto nel mirino dei bombardieri alleati, e nella primavera-estate del ’44 subì uno stillicidio continuo di attacchi aerei, così come successe con Mestre, il cui bombardamento più disastroso fu quello del 28 marzo del ’44, con centinaia di morti e feriti e ingenti distruzioni(12). Venezia, al contrario, divenne una «città rifugio», «una vera e propria oasi di pace e anche di lusso, a fianco di una regione devastata dai bombardamenti, percorsa dalla guerra partigiana e percossa dalle rappresaglie nazifasciste»(13). Quasi un’anticipazione, nel suo extraterritoriale abbandono dei legami con le molteplici realtà esterne, del «ritorno all’isola» che, dopo la tragica alluvione del 4 novembre ’66, si riproporrà come un drammatico e ineludibile ordine del giorno nel dibattito sul futuro della città(14).

Che Venezia fosse città senza spiccato spirito bellico, tendente a seguire gli eventi, piuttosto che esserne protagonista, e che ciò riguardasse sia gli uomini della Repubblica Sociale che i partigiani, ben se ne accorse Giorgio Amendola durante una sua visita nel settembre del ’44. In un rapporto steso appena tornato a Milano, il dirigente comunista parlò infatti di una città dominata da un «attesismo tanto sfacciato ed ingenuo», ciò che, del resto, era comune a molte zone del Veneto, ove prevaleva una mancanza di collegamento tra la guerra partigiana sui monti e il movimento nelle città; a Venezia, in ogni modo, la «mentalità attesista» sembrava ancora più profondamente radicata(15). E a poche settimane dalla visita di Amendola, sull’altro versante pure Giorgio Pini, appena nominato sottosegretario agli Interni della Repubblica Sociale Italiana, in una relazione stesa dopo un suo viaggio di ispezione a Venezia, scrisse che «nell’ambiente sociale più elevato della città, salvo rare eccezioni, si nota il solito attendismo»(16). D’altra parte, anche l’Università di Ca’ Foscari in quegli anni cruciali era stata assente come istituzione, e se pure aveva prodotto degli insigni antifascisti (Gino Luzzatto(17) su tutti), il ruolo che ebbe nella Resistenza non fu certo paragonabile al Bo di Padova, la Padova di Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti e Eugenio Curiel, glorioso centro di pensiero e di lotta antifascista(18). E lo stesso dicasi per le altre istituzioni culturali veneziane, che non beneficiarono di effetti riformatori nel passaggio dal fascismo alla democrazia, e il cui contributo all’antifascismo, prima, e alla Resistenza, dopo, era semmai da misurarsi non in quanto istituzioni, bensì considerando alcuni dei loro uomini più rappresentativi che concorsero alla Liberazione(19). E pure, per quanto concerne Porto Marghera, il movimento resistenziale, sebbene presente, risulta meno intenso rispetto ad altre zone di concentrazione di fabbriche del triangolo industriale: nel marzo del ’43, per esempio, pur in un clima di montante tensione, non possiamo affermare che si verificarono veri e propri scioperi, sulla scia di quelli che bloccarono le fabbriche di Torino e Milano; gli scioperi del dicembre dello stesso anno, invece, segnano un indubbio passo in avanti, che culminerà nel ’44 negli scioperi del marzo e in quelli attorno al 1° maggio, forse il punto più alto della Resistenza a livello di massa, prima dello sciopero insurrezionale del 28 aprile ’45. Ciononostante, l’attività della Resistenza a Marghera, nelle parole del suo più accreditato storiografo, «fu decisamente inferiore a quanto comunemente si crede»(20).

E forse non fu un caso se proprio a Venezia, nel novembre ’43 e tra il novembre ’44 e il gennaio ’45, si svolsero alcuni dei più concreti tentativi di conciliazione nazionale tra fascisti e antifascisti, su iniziativa soprattutto di Eugenio Montesi, primo federale — per poco più di un mese — del Partito Fascista Repubblicano, fascista moderato che vagheggiava una «Unione sacra», al di sopra di ogni ideologia politica, tra le parti in lotta, al fine di «salvare il salvabile», porre argini al dispiegarsi di una guerra «fratricida» tra italiani e trovare un modus vivendi con le forze occupanti tedesche che potesse evitare alla popolazione civile ulteriori tragedie. Queste iniziative fallirono, soprattutto perché stroncate dall’alto, dall’intransigentismo di Farinacci; eppure, esse vanno ricordate, non soltanto perché l’invito alla riconciliazione non lasciò insensibili liberali come Ernesto Pietriboni, o cattolici come Francesco Cisco, e, pur con i dovuti distinguo, comunisti come Giovanni Battista Gianquinto, bensì anche perché questo proselitismo presso tutti quei settori della società italiana che non si riconoscevano in nessuno degli schieramenti in campo testimonia non soltanto di episodi marginali, nel loro velleitarismo, del collaborazionismo italiano all’interno della Repubblica Sociale, ma anche dell’emersione di una parte consistente della società italiana divenuta gradualmente estranea alle «ragioni» della guerra sbandierate da entrambi i fronti(21).

«A Venezia si giuoca e si balla»

Paradossalmente fu la stessa storia di Venezia nei 600 giorni della Repubblica Sociale, ad accentuare non poco la sua configurazione di «isola rifugio» dalla temperie della guerra e dello scontro ideologico in atto. Fin dalla sua costituzione, al Veneto toccarono diverse sedi di importanti tronconi dell’amministrazione dello Stato italiano. Una realtà, questa, non troppo conosciuta, se è vero che nella memoria collettiva la Repubblica Sociale è identificata quasi esclusivamente con Salò, quando invece questa cittadina lacustre ebbe un ruolo marginale e secondario nella geografia amministrativa del fascismo repubblicano, giacché essa ospitò solamente il Ministero degli Esteri (ma non tutto) e parte del Ministero della Cultura popolare. Gli altri Ministeri risultavano dislocati in diverse località del Veneto e della Lombardia, in modo tale da far assumere alla Repubblica Sociale Italiana la configurazione di uno Stato localizzato in «una miriade di centri». A Venezia, in particolare, trovarono sistemazione i tronconi dell’amministrazione centrale (Ministero dei Lavori pubblici e alcune direzioni generali del Ministero degli Affari esteri) e numerosi enti statali e parastatali, alcuni legati alla direzione generale del Ministero della Cultura popolare, tra cui l’Istituto Nazionale Luce e molte agenzie ed enti interessati al cinema, e pure, per brevissimo tempo, l’Agenzia Stefani, in seguito trasferita a Salò; sempre a Venezia, inoltre, per un lungo periodo, furono ospitate le rappresentanze diplomatiche estere accreditate presso il governo di Mussolini(22).

La conseguenza più eclatante e visibile di questa trasformazione di Venezia in città di governo, «città ministeriale», fu la rapida crescita della sua popolazione, ciò che andò a costituire un caso pressoché unico tra le grandi città dell’Italia centrale e meridionale. A Venezia, infatti, si trasferirono non soltanto gli sfollati della terraferma e i profughi dell’Italia meridionale, in fuga dai bombardamenti, bensì anche gli impiegati e i dirigenti dei nuovi uffici e apparati amministrativi traslocati nella città lagunare, oltre che i responsabili degli apparati logistico-militari e sanitari di parte tedesca: una forzata conversione al «terziario di guerra», quindi(23). I frutti perversi di tale anomala immigrazione(24) non tardarono a manifestarsi: appena giunti — sostiene una relazione riservatissima di polizia — questi funzionari, grazie alla doppia indennità di missione e al trattamento gratuito loro concesso nei migliori alberghi per la durata di 45 giorni, e trovando condizioni di vita economica migliori di quelle di Roma (i generi alimentari, oltre a quelli del vestiario, fino a quel momento non difettavano, e il loro costo era ancora relativamente accessibile), si abbandonarono spesso a spese superflue e inopportune, provocando il risentimento della popolazione locale, costretta a lottare, con il solo stipendio, contro i disagi provocati dalla guerra(25). Questa incomoda situazione fu aggravata dalla requisizione tedesca del porto, che provocò la sospensione dei traffici commerciali(26). Per di più, a causa delle distruzioni aeree e della mancanza di commesse e materie prime, il numero delle fabbriche in efficienza a Marghera diminuì progressivamente, con tutto il seguito di instabilità occupazionale, privazioni e incertezza collettiva che da ciò derivava(27).

Quasi subito, quindi, si formò un «ceto» di privilegiati:

Trattasi [recita un’altra preoccupata relazione di polizia] di diplomatici italiani e stranieri, di funzionari del Ministero degli Esteri, […] di qualche funzionario del Ministero della Cultura popolare, persone tutte per le quali è abituale tale norma di vita; di faccendieri, trafficanti, speculatori, spie delle SS, informatori, procaccianti e simili che improvvisi lauti guadagni portano alla ostentazione di insolite disponibilità finanziarie e di sperperi che spesso meravigliano e irritano il pubblico. Indispongono anche perché troppo grande è il divario tra la vita di tali ambienti che tutto possono procurarsi ed avere con mezzi in prevalenza illeciti e la vita del popolo nel ceto medio e di quello impiegatizio locale […](28).

A costoro presto si aggiunse la nutrita carovana di attori che, tra la fine dell’ottobre e l’inizio del novembre ’43, decise di lasciare Roma, per seguire i nuovi impianti cinematografici, trasferiti a Venezia per preservarli maggiormente da possibili danneggiamenti bellici (la Scalera trovò sede alla Giudecca e Cinecittà, soprannominata con amara ironia «Cinevillaggio», tra i padiglioni della Biennale nei giardini di S. Elena). Si trattava, in genere, di ‘attorucoli’ di seconda serie, in cerca di facili ed effimere glorie, mentre i quadri artistici e professionali rimasero quasi tutti nella capitale. Date queste premesse, ne uscirà una cinematografia allineata ai livelli medio-bassi della commedia di intrattenimento e del dramma sentimentale. Le condizioni di provvisorietà e insicurezza in cui si trovava a operare quello che rimase un nuovo cinema «nazionale e fascista» solo nelle irrealistiche speranze dei suoi promotori(29), non impedirono, tuttavia, il fiorire di una «dolce vita» dei cineasti, che sembrò integrarsi con piacevolezza nel clima da villeggiatura imperante a Venezia per la fascia privilegiata dei suoi abitanti(30). Un promemoria per il comandante generale della guardia nazionale repubblicana del 25 agosto ’44 recitava: «Fra gli elementi che più si fanno notare e criticare sono quelli del teatro e del cinematografo, i quali hanno preso dimora, con le loro famiglie e con le loro amanti, nei suntuosi palazzi del Canal Grande […]. È anche risaputo che in alcune di queste case si giuoca e si balla. Il popolo vede, sghignazza, si lamenta e soffre»(31). L’albergo Luna, battezzato Shangai, in calle Vallaresso, dalle parti dell’Harry’s Bar, divenne presto uno dei più acclamati luoghi di rifugio e di incontro per questo nuovo strato della società veneziana. Stanis Ruinas, fascista eretico(32), presente a Venezia nella qualità di funzionario di banca, autore di una delle più pregnanti opere della memorialistica di Salò, ne ha offerto un ritratto memorabile, che, sebbene possa apparire esagerato nei toni, è tuttavia confermato da diverse fonti di polizia:

Il Luna era un passaggio obbligato per tutti quelli, ed erano tanti, che scorrazzavano da nord a sud. Vi s’incontravano a tutte le ore gerarchi e giornalisti, divi e divetti del cinematografo, abborracciatori d’affari, gente d’ogni risma e colore. Tutti gli appuntamenti si fissavano al Luna: ‘Ci vediamo al Luna, ci troviamo al Luna, pranziamo al Luna’.

Il Luna era una delle anticamere della repubblica di Salò, un’anticamera elegante dove si mangiava e si beveva, dove s’imbastivano affari e s’intrigava. […] La sera, dopo le nove, si trasformava in club, sala di gioco e bordello. La sala rossa, quella del bar, raccoglieva l’elemento più strano ed eterogeneo di Venezia. Quanti tipi di avventurieri e di trafficanti, di spie e di biscazzieri piovuti dai quattro punti cardinali della penisola! Quante donne scollacciate e ingioiellate! Accanto alla dama veneziana, posata ed elegantissima, la cocotte d’alto bordo; accanto alla madre di famiglia, preoccupata di trovar marito alla figlia, l’‘artista’ di varietà, un po’ delatrice e un po’ donnina di piacere. Né mancavano i letterati, i vitaioli, i politici e politicanti, gli scriba e gli spioni. Quelli che però davano più nell’occhio erano gli elementi del cinematografo. […]

Al bar del Luna ebbi i primi contatti con gli ‘esiliati del sud’. ‘Qui si sta benone, dissero alcuni, la guerra non si sente, si mangia e si beve di voglia’. Stringi stringi, il problema dei problemi si riassumeva in una parola: mangiare. Si faceva a gara a chi s’intrippava di più. Si lavorava poco, si guadagnava molto e i viveri abbondavano. Una vera cuccagna. Marcisse pure l’Italia come un frutto guasto; si scannassero pure gl’Italiani fra loro, e la miseria morale e materiale salisse al cielo: tutto ciò non poteva avere importanza alcuna per della gente che giocava a chi s’ingrassava meglio e a chi spendeva di più(33).

L’innesto di questo corpo estraneo (di sfollati, «avventurieri», funzionari e dirigenti con doppie indennità e tessere di favore, cascami del mondo dello spettacolo) nella città ne sconvolse la vita economica: il sistema degli approvvigionamenti, infatti, fu travolto dall’ondata di liquidità monetaria portata dai nuovi venuti, che accentuò anche nel Veneziano una tendenza che nell’autunno del ’43 era divenuta maggioritaria in gran parte della penisola sottoposta all’occupazione tedesca: la crescita smisurata di un mercato nero che riuscì a soppiantare quello ufficiale(34), in quasi tutti i settori, dall’alimentare al vestiario, per giungere ai tabacchi(35), ai fiammiferi(36), agli spiccioli, la cui rarefazione costrinse al surrogato di antigienici francobolli(37), ai gettoni per i traghetti (coniati in ventimila esemplari nel settembre ’44, per sostituire gli introvabili spiccioli, diventarono, a loro volta, subito introvabili(38)) e addirittura alle caramelle, distribuite da una fabbrica clandestina(39). I prezzi di alberghi(40), ristoranti, trattorie e caffè(41) schizzarono alle stelle; anche il pesce scarseggiava, a causa della prelazione delle truppe tedesche, il cui comando ne prelevava d’ufficio il 40% delle scorte(42); e tutti si lamentavano della qualità del pane, «insipido, umido, filaccioso, subito alterabile solo che rest[asse] qualche ora in paniere»(43), di pessima cottura, «pesante, troppo molle, gommoso»(44). Nei periodi in cui l’acquedotto non funzionava, vennero rimesse in funzione alcune vere da pozzo, con la carrucola per i secchi(45); persino le tariffe chieste dai gondolieri divennero proibitive(46), così come il costo di un biglietto per il cinematografo(47). L’allacciamento del gas funzionava a singhiozzo, anche a causa dei bombardamenti(48), e pure i surrogati scarseggiavano: il carbone era ormai quasi totalmente sostituito dalla legna, sacrificando le piante d’alto fusto che ornavano i giardini, gli orti, i viali del Lido, ciò che contribuì a un ulteriore intristimento del paesaggio(49); e persino le bricole non vennero risparmiate: tagliate a livello dell’acqua, durante l’alta marea esse potevano causare gravissimi incidenti alle barche di passaggio(50).

L’instancabile opera repressiva e regolatrice delle autorità dovette probabilmente scontrarsi anche con coriacee sacche di resistenza interna all’apparato amministrativo, volte a preservare i privilegi di funzionari e di speculatori e interessate a che Venezia conservasse questa atmosfera limbale, separata dalla guerra che infuriava altrove; e non sembrò sortire effetto alcuno: un commissario di polizia scrive malinconicamente in una relazione del 15 gennaio ’44: «I prezzi aumentano, i generi diventano sempre più rari, i banchi dei mercati vanno scomparendo di giorno in giorno. Nessuna legge, nessuna disposizione è riuscita fino adesso a porre freno al disordine e all’arbitrio che regna fra i produttori ed i rivenditori dei generi alimentari»(51). Nel gennaio ’45 verranno requisite le aziende grossiste di generi alimentari e, addirittura, chiusi d’autorità ristoranti e trattorie, trasformati in «mense collettive di guerra», con prezzi rigorosamente controllati. Eppure, a nemmeno ventiquattr’ore da questi provvedimenti, i generi alimentari che fino a poco tempo prima erano presenti in buona quantità (pur a prezzi incredibili) in questi locali pubblici, sembrarono essersi, quasi d’incanto, liquefatti, polverizzati: «ha avuto inizio [attacca duramente «Il Gazzettino»] una nuova, indegna corsa all’imboscamento. Si imbosca, sì, si imbosca tutto in attesa… di tempi migliori; in attesa, cioè, che i provvedimenti che sono entrati in vigore ieri si ‘esauriscano’ e la speculazione possa trionfalmente rifare la sua apparizione»(52). E un notiziario della guardia nazionale repubblicana parlava, per l’appunto, di «una febbre di speculazione che ha preso coloro, nessuno escluso, che nel commercio esplicano la loro attività»(53). Occorre però aggiungere che, d’altra parte, le stesse autorità, realisticamente, consideravano in quella tragica congiuntura il mercato nero un male necessario, che evitava che la popolazione morisse di fame; per questo, esse, entro certi limiti, tolleravano la borsa nera tra i ceti più poveri: alla stazione di Venezia, ad esempio, le mogli di operai che portavano con sé pesanti e voluminosi sacchi di mais, per preparare la polenta, non erano sottoposte ai consueti controlli presso i posti di blocco(54).

Particolarmente colpito fu anche il mercato degli alloggi, punto cruciale degli equilibri economici e sociali della città: molti veneziani si videro sequestrare coattivamente stanze e appartamenti per accogliere i nuovi arrivati, provocando non poche lamentele nei confronti degli sfollati e delle autorità governative. La stampa si preoccupava di stigmatizzare gli eccessi, invitando i veneziani ad offrire i propri alloggi soltanto ai realmente bisognosi: «Venezia non deve essere […] considerata una mecca, un rifugio sicuro, un paese di assoluta tranquillità o meglio di Bengodi», declamava «Il Gazzettino»(55). Non pochi proprietari, comunque, si rifiuteranno, nonostante l’obbligo decretato, di denunziare gli alloggi sfitti(56). Per correre ai ripari, nel dicembre ’43 un decreto del capo della Provincia vieterà di fatto ogni immigrazione in Venezia e concederà un periodo di permanenza di soli cinque giorni unicamente nei casi di «comprovata necessità»(57); ed il mese prima, un altro decreto aveva statuito che i locali sfitti potessero essere requisiti(58). Tutti questi provvedimenti, così come altri simili che ne seguiranno(59), ben poco poterono contro speculatori e profittatori, che sfruttavano l’alta richiesta di alloggi per imporre prezzi da «strozzini»(60).

Quest’aura da Casablanca che Venezia sembrò essersi conquistata — fatta di un pullulare di funzionari ministeriali, di donne vestite elegantemente, attratte dai loro lauti stipendi, di trafficanti senza scrupoli, di prostitute che si moltiplicavano a vista d’occhio, degli squadristi di Pavolini più compromessi, macchiatisi di troppi reati e ricercati dalla giustizia, di spie e informatori — non passò inosservata all’esterno, se è vero che il 12 febbraio ’44 il settimanale milanese «Rinnovamento», sotto il titolo A Venezia si giuoca e si balla, pubblicò in grande evidenza una lettera di un lettore che, dopo una visita a Venezia, era rimasto scandalizzato dall’atmosfera lussuriosa che si respirava in laguna: «a Venezia di questi tempi superaffollata, si gozzoviglia da mane a sera, si mangia a quattro ganasce senza ombra di restrizioni alimentari, si fuma a 100 lire al pacchetto senza limitazioni ed infine si vive beatamente la più smodata delle vite»; ciò che provocò la stizzita reazione del «Gazzettino»(61), pure se, come si è visto, anche i documenti di polizia confermavano questo stato di cose. L’irritazione del «Gazzettino» ben evidenziava l’ambiguità e la contraddizione intrinseca della stampa locale salotina: da un lato, essa svolgeva un’azione «pedagogica» nei confronti della popolazione, stigmatizzando i comportamenti giudicati negativi e invitando alla lotta e alla denunzia contro gli speculatori e i profittatori, stimolandone al tempo stesso il senso campanilistico, attraverso continui richiami retorici; dall’altro, difendeva la città dagli attacchi «esterni»(62).

Eppure, la serena tranquillità della vita veneziana, anche soltanto rispetto alla situazione ben più grave della provincia, non fu tentante soltanto per la gente più compromessa ed equivoca, bensì anche per quasi tutti gli altri: «Nei mesi più oscuri e sconvolti della guerra, tra l’ottobre del ’43 e il gennaio del ’45, in una Milano atterrita e devastata, nell’alternarsi del fragore dei bombardamenti e dei disperati silenzi, il viaggio a Venezia era quasi un rito propiziatorio, l’unica occasione, forse, di uscire per qualche giorno, o anche per un giorno solo, dall’incubo»(63): pur tra gli inevitabili disagi di guerra, la vita, nelle aule dell’Accademia, negli studi dei pittori e degli scultori, nelle gallerie, nei caffè, nelle conversazioni per calli, campi e campielli, pareva scorrere come se nulla fosse. I veneziani non sembravano curarsi troppo dei pericoli della guerra: le direttive di oscuramento vennero osservate poco e male, tanto che le autorità minacciarono di togliere la luce alla città dopo il segnale di allarme(64); gli stessi allarmi aerei furono spesso incredibilmente ignorati: di regola, dopo un improvviso allarme aereo «la grande maggioranza della popolazione [lamenta «Il Gazzettino»] continua[va] tranquilla ad andarsene per i fatti propri come niente fosse non scemando affatto il consueto via-vai per le strade, per le calli, per i campi, per le piazze»(65). Corse addirittura voce, tra le calli, dei «coprifuoco», pranzi e festini luculliani che si davano, appunto, nelle ore del coprifuoco, cui partecipavano, nelle «regge» sul Canal Grande, ricchi borghesi, famiglie aristocratiche e fascisti privilegiati(66). Ciò che stupisce, in definitiva, è «l’assoluta sovrapponibilità delle fonti e delle testimonianze più diverse»(67), che forniscono questa immagine così poco guerresca e combattente di Venezia.

Tra farsa e tragedia

A Venezia, quindi, durante la Repubblica Sociale Italiana, per alcuni, si cantava, si ballava e si festeggiava; in un certo senso, però, non si trattava di una vita gioiosa e serena, come poteva essere quella degli anni Trenta, quando ancora, nonostante la decadenza, si vedeva (o ci si illudeva di poter vedere) rifiorire una «grande Venezia», cosmopolita e nell’arte e nella mondanità culturale internazionale, tra balli, feste, concerti, conversazioni al Caffè Florian, visite di inaugurazione alla Biennale e alla Mostra del cinema, e così via; anni immortalati — nel loro vissuto aristocratico, di una società civile altolocata, dimorata da eleganti e raffinati signori, capaci di godere delle bellezze e degli otia della vita, senza involgarirsi e appiattirsi sui gusti delle masse vociferanti — in un libro di memorie di Maria Damerini, allora moglie dell’influente direttore della «Gazzetta di Venezia» Gino Damerini(68). Nella Venezia salotina, invece, l’atmosfera era festosa e cupa a un tempo, illuminata dalla sua decadenza; sembrava (come, in effetti, era) un mondo sull’orlo del baratro, mentre sullo sfondo aleggiava sinistro lo spettro di una tragedia incombente, che impediva — agli attendisti di tutti i colori politici e apolitici — di godere appieno dell’artificioso sollievo che promanava da questa oasi quasi tagliata fuori dalla guerra. Sotto i fuochi fatui della ribalta mondana covavano sporcizia, cattiva manutenzione delle vie, un senso di desolante abbandono: «Il dogale mantello della nostra storica metropoli sta insudiciando il suo bordo di ermellino su delle strade maltenute e peggio pulite»(69). I germi della decadenza e del crollo repentino, dunque, sono insiti nella fantasmagoria di luci e immagini che costellano la Venezia sotto Salò: sembra quasi — e trattasi, in effetti, di un aspetto caratterizzante in generale la parabola repubblicana di Mussolini, ma a Venezia forse più avvertibile che altrove — che tutti gli attori del dramma, proprio perché consapevoli che il loro tempo fosse prossimo alla scadenza, accelerassero verso la fine il moto vitale, cercando di annegare e obliare nel vino e nei baccanali la loro tremula angoscia.

Del resto, la Repubblica Sociale, anche a prescindere da quanto sostenevano i suoi detrattori, aveva coltivato in sé, nel suo tragico velleitarismo, una certa aura di pateticità, tanto da far apparire grottesche, prima che pericolose, alcune sue manifestazioni; e questo aspetto risultò evidente soprattutto nella propaganda, di cui Venezia fu uno dei centri principali. Si è sopra accennato a Cinecittà che diventa «Cinevillaggio», e già questo nomignolo sarcastico, che in verità fu accettato anche dagli stessi fascisti, riassume tutto un mondo fatto di ambiziosi proponimenti ingloriosamente naufragati nella loro impraticabilità. Ma si pensi, pure, a quel sottobosco pubblicistico costituito dalla libellistica di Salò: centinaia di opuscoletti e libriccini tascabili, che riportavano spesso articoli di quotidiani o riviste periodiche, saggi già editi durante il regime, conversazioni radiofoniche e conferenze, scritti inediti. Gran parte di essi erano pubblicati dalle edizioni Erre e dalle edizioni Popolari, con sede, appunto, a Venezia. La città che, in tempi più gloriosi, fu sede della più prestigiosa editoria europea, ospitò durante la Repubblica Sociale, quasi per un contrappasso alla rovescia, tipografie che si ridussero a pubblicare smilzi libretti in sedicesimo, di assai dubbia fattura, utili soprattutto per capire l’autorappresentazione dell’ultimo fascismo, non certo le sue inconcludenti ambizioni intellettuali, e che, più che fornire una base culturale alla Repubblica di Mussolini, ne certificarono la sua improponibilità anche da questo versante(70). E pensiamo, infine, a suprema testimonianza di questo clima di sontuoso sfacelo, di insensata sfarzosità, al caso di Filippo Tommaso Marinetti, che a Venezia passò alcuni degli ultimi mesi della sua vita. L’anziano scrittore, ormai prossimo alla fine, aveva aderito all’ultimo fascismo, esprimendo all’amico Mussolini, il 18 ottobre ’43, il suo «lacerante dolore di vedere assassinare l’Italia, te e il fascismo»(71). Scriverà pure L’aeropoema di Cozzarini: primo eroe dell’esercito repubblicano, in memoria del veneziano Rino Cozzarini, un tenente che aveva rifiutato la resa dell’8 settembre e quindi costituito un battaglione di volontari, morto sul fronte del Sangro, in Abruzzo, due mesi più tardi. Stanco e malato, e sostanzialmente isolato e poco considerato nel nuovo Stato mussoliniano, Marinetti si dedicò a velleitari tentativi di dare vita a un «Congresso futurista di guerra»; ebbe dimora in un vecchio palazzo sul Canal Grande, tra il rio dei SS. Apostoli e il rio di S. Giovanni Grisostomo, quindi di fronte alle Pescherie, tra le stesse case ove, si dice, visse Pietro Aretino(72). E sembra quasi un segno beffardo del destino che colui il quale, in anni migliori, dileggiava il chiaro di luna veneziano, ergendosi a implacabile e sprezzante denigratore dei sentimentalismi lagunari, del passatismo che aleggiava tra le acque muschiose e putrescenti della laguna, passasse i suoi giorni tra le rade visite e lettere di saluti di vecchi compari, ormai solo struggente ricordo di anni più turbolenti e dinamici, sul balconcino del suo appartamento di Cannaregio 5662, a contemplare, nel triste e umido inverno veneziano, il passaggio di gondole, gabbiani e delle peate che lentamente scivolavano sul Canale, dirette al mercato, per scaricare sulle sue banchine frutta e verdura: un’abdicazione totale allo spirito decadente e crepuscolare di Venezia, in cui, per una vendetta quasi postuma, si era trovato inghiottito(73). Del resto, nell’ultimo scritto, redatto prima di morire (a Bellagio, il 2 dicembre ’44), il padre del futurismo italiano aveva confessato, un po’ pateticamente, la sua condizione ormai disarmata e postuma: «Io non ho nulla da insegnarvi mondo come sono d’ogni quotidianismo e faro di una aeropoesia fuori tempo spazio»(74).

Ma la farsa, purtroppo, si tramutò anche in tragedia. E ciò avvenne dopo il 30 novembre ’43, quando un decreto del governo di Salò dispose l’immissione degli ebrei italiani in campi di concentramento e il sequestro dei loro beni. La comunità ebraica di Venezia(75) contava al 31 dicembre ’42 1.209 iscritti. Già il 16 settembre, un evento drammatico e luttuoso aveva provocato al suo interno dolore e smarrimento: il suicidio del suo presidente, Giuseppe Jona, probabilmente anche per evitare di consegnare alle autorità l’elenco degli iscritti, che provvide a nascondere. E Venezia fu sede di uno dei primi rastrellamenti condotti da autorità italiane, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre, in cui vennero brutalmente arrestati circa 160 ebrei di ogni età, inclusi i vecchi della Casa di riposo israelitica. In seguito, i più anziani verranno liberati, mentre un centinaio di persone (tra cui diversi bambini e un neonato) furono avviati al campo di Fossoli, da dove sarebbero stati deportati in Germania nel marzo del ’44. I vecchi rimasti saranno però arrestati nuovamente dai tedeschi nel luglio ’44 e avviati direttamente ai campi di sterminio in Polonia (tra costoro, ci sarà pure il rabbino capo della comunità, Adolfo Ottolenghi). Non si sottolineerà mai abbastanza la fattiva collaborazione delle autorità italiane (questura, prefettura, carabinieri, guardia nazionale repubblicana), pure nei casi in cui le operazioni di rastrellamento erano state condotte da tedeschi, così come il comportamento del «Gazzettino», che, in coerenza con la linea editoriale inaugurata all’indomani della promulgazione delle leggi razziali nel ’38, assunse toni apertamente antisemiti. In totale, subirono la deportazione quasi 250 persone, e quindi circa 1.000 riuscirono fortunatamente a trovare la via di salvezza, chi fuggendo in Svizzera, chi, soprattutto, trovando modo di nascondersi in Italia, grazie all’indubbia generosità di molti italiani che, a rischio della propria vita, si adoperarono in mille modi nell’aiutare gli ebrei fuggiaschi. Tra costoro, ci furono anche diversi membri del clero veneziano, che si prodigarono pure nel fornire assistenza ai soldati sbandati dopo l’8 settembre e un primo aiuto ai militari italiani prigionieri dei tedeschi, ammassati nelle stive di alcune navi in attesa di essere trasferiti in Germania via treno, e che si trovavano in condizioni pietose, bisognosi almeno di cibo e di acqua.

Il ruolo della Chiesa veneziana nel ’43-’45(76) non fu sostanzialmente dissimile da quello delle altre istituzioni ecclesiastiche locali operanti nel territorio italiano sottoposto a occupazione tedesca(77). Un ruolo, primariamente, di assistenza materiale e conforto spirituale alle popolazioni martoriate dalla guerra, che poteva sfociare anche in tentativi di salvare prigionieri antifascisti, evitare rappresaglie e promuovere scambi di prigionieri; inoltre, alcuni dei suoi esponenti più coraggiosi, apertamente antifascisti, potevano spingersi ad aiutare in vari modi i partigiani, procurando loro nascondigli e rifugi, nascondendo armi e facendosi esecutori o intermediari di decisioni e provvedimenti, giungendo, in questo modo, a una partecipazione più diretta alla Resistenza. Pure non bisogna dimenticare, d’altra parte, il controverso caso del patriarca di Venezia, Adeodato Piazza, il quale non aveva mai nascosto, almeno fino al ’42, il suo aperto filofascismo, che talvolta era scaduto in alcune proclamazioni a favore del razzismo tedesco. Se durante il periodo di Salò egli sembrò abbracciare un più prudente afascismo, questo non gli impedì, tuttavia, di intervenire spesso, direttamente o indirettamente, a favore dei colpiti, tra cui anche i partigiani, per esempio deplorando presso la questura e il sottosegretario Alfredo Cucco l’eccidio di Ca’ Giustinian dell’estate del ’44 e protestando, in un promemoria indirizzato a Mussolini, contro gli arresti sommari e le torture. Tutto questo, è doveroso aggiungere, non sfociò mai in una seppur minima identificazione con la Resistenza, giacché Piazza, nelle interpretazioni più benevole, mantenne sempre una equidistanza d’atteggiamento nei confronti di partigiani e fascisti; al contrario di ciò che avvenne per alcuni dei suoi più stretti collaboratori, come Giulio Mapelli e Giovanni Urbani, i quali, oltre che agire per salvare ebrei, perseguitati politici e condannati a morte, fecero da tramite tra alcuni ufficiali tedeschi cattolici e gli uomini del Comitato di Liberazione Nazionale.

Fascisti e partigiani

Franco Calamandrei, figlio di Piero, trasferito da poco a Venezia come funzionario all’Archivio di Stato, pochi minuti dopo le sei della mattina del 26 luglio viene destato nel suo letto da una grida che giù nella calle annunziava nel silenzio dell’alba la caduta di Mussolini e la nomina di Badoglio a capo del governo:

Salto dal letto, spalanco i battenti […]. Il banditore ripete il suo grido, aggiungendo che alle 9 tutti si sia in piazza per dimostrare. […] si sente il banditore che continua il suo giro per le calli vicine, e finestre che si spalancano, voci che rispondono, si muovono a sorpresa, ma come intirizzite ed incredule […]. Esco. I passanti si guardano l’un l’altro in volto, e sorridono, come ragazzi di una burla che ancora non si sa se andrà impunita(78).

Ma già la sera prima, la notizia della defenestrazione del duce «[era] stata appresa dalla trasmissione radio con indicibile gioia», scrive «Il Gazzettino» — alla cui direzione siede ora il poeta e scrittore Diego Valeri, che durante i 45 giorni di Badoglio conferirà al giornale una linea moderata filogovernativa, però con aperture a tutte le forze politiche antifasciste(79) —, sottolineando pure come anche in piazza S. Marco e nelle principali vie cittadine si fossero svolte spontaneamente manifestazioni patriottiche, al canto dell’inno di Mameli(80). La manifestazione della mattina successiva è veramente imponente, come da tempo non si avvertiva in città, con bandiere tricolori ovunque, gente che si abbraccia, si bacia e piange di gioia, oratori che si improvvisano in diversi punti della Piazza; tra questi, prendono la parola esponenti dei principali partiti che si andavano riorganizzando: i comunisti Enrico Longobardi e Giovanni Battista Gianquinto, i socialisti Giovanni Giavi e Eugenio Florian, l’azionista Luigi Martignoni, il cattolico Francesco Cisco(81). Non si contano le invettive contro Mussolini e il passato regime, si chiede alle autorità di liberare i detenuti politici, si inneggia a Matteotti e alla riconquistata libertà; in altri punti, le frange più moderate inscenano manifestazioni di plauso al re e alla monarchia.

Sebbene le autorità badogliane ristabilissero rapidamente l’ordine pubblico e riprendessero il controllo della situazione, che del resto a Venezia non aveva mai dato adito a gravi incidenti(82), e sebbene il governo badogliano assumesse fin dall’inizio, com’era ovvio, un’impronta conservatrice e autoritaria, l’annunzio dell’armistizio costituì una doccia fredda per chi riteneva che, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, il paese si sarebbe avviato verso un indolore passaggio dalla guerra alla pace. In quelle poche settimane, infatti, anche a Venezia i partiti politici erano tornati a operare alla luce del sole. Per la verità, già nell’autunno del ’42 le principali forze politiche avevano dato vita nella città lagunare a un comitato antifascista, che prefigurava i futuri Comitati di Liberazione italiani(83). I comunisti, certamente i più impegnati nella lotta contro il fascismo durante il Ventennio, si erano ricostituiti come federazione nel ’41, con Gordiano Pacquola come segretario, il quale era riuscito a consolidare alcuni punti di forza nel centro storico, aggregandoli a cellule costituite in terraferma e a Porto Marghera. I socialisti, nonostante il travaso di militanti a favore del Partito Comunista Italiano, a Venezia potevano vantare una tradizione che non era stata completamente annientata dal fascismo. Tra il ’41 e il ’42, si ricostituì quindi, ad opera di Arduino Cerutti e Giovanni Giavi, il Partito Socialista Italiano, cui si aggiunsero filoni di un nuovo movimento socialista rigidamente classista, il M.U.P. (Movimento di Unità Proletaria, di cui fu artefice, tra gli altri, Lelio Basso), che era riuscito a penetrare in alcune fabbriche a Marghera. Dopo l’armistizio, ritornerà in azione al termine di un lungo silenzio anche Giovanni Tonetti, una delle figure storiche del socialismo veneziano(84). A sinistra, il fatto nuovo era però costituito dall’apparire, nell’autunno del ’42, del Partito d’Azione: a un primo gruppo, più liberal-socialista che azionista, costituitosi intorno ad Agostino Zanon Dal Bo (con Diego Valeri, tra gli altri), si erano aggiunti i vecchi aderenti a Giustizia e Libertà, da Gino Luzzatto ad Armando Gavagnin. I liberali erano rappresentati soprattutto da Angiolo Tursi(85), storico e bibliofilo, eroico combattente contro i nazifascisti. Per quanto riguarda il mondo cattolico, infine, l’uomo chiave della rinascita di un movimento politico a Venezia in grado di traghettare i cattolici dal fascismo al postfascismo senza troppe conseguenze per la loro compromissione con il regime mussoliniano fu senz’altro Pietro Mentasti, in buoni rapporti con il gruppo di Giuseppe Volpi e Vittorio Cini (i quali avevano assunto un atteggiamento di fronda verso il fascismo nell’inverno ’42-’43), e che nella Democrazia Cristiana veneziana capeggerà la corrente di destra, accanto al centro di Celeste Bastianetto(86) e Giovanni Ponti(87) e alla sinistra di Eugenio Gatto(88), uomini che negli ultimi anni di crisi del regime avevano lavorato per conquistare proseliti in città e provincia e che saranno attivi protagonisti durante la Resistenza.

Appena venne annunziato l’armistizio, alcuni rappresentanti dei gruppi antifascisti, mentre era diffuso un manifesto in cui si incitava la cittadinanza all’insurrezione contro gli invasori, si recarono dal prefetto e dal comandante del dipartimento marittimo nel tentativo di organizzare insieme la resistenza in armi contro i tedeschi: questo sforzo valoroso ma ingenuo, nel quale riecheggiavano reminiscenze quarantottesche, si concluse, però, con un nulla di fatto; ricorderà amaramente Eugenio Gatto: «credevamo che l’occupazione tedesca non potesse durare a lungo, che il nostro Esercito si opponesse, che il popolo in armi segnasse a tutti la strada: sognavamo»(89). Dunque, l’11 settembre, senza incontrare resistenza, le forze militari tedesche iniziarono ad occupare i punti strategici del comune di Venezia, tra cui Mestre, Porto Marghera, la zona marittima e l’aeroporto di S. Nicolò del Lido. Nel rapporto del questore di Venezia non vengono segnalati incidenti di alcun tipo(90). E assieme ai tedeschi riapparvero i fascisti(91), che dopo il 25 luglio erano sembrati essersi volatilizzati. Già nelle ore che precedettero l’occupazione tedesca, numerosi aerei che sorvolarono Venezia avevano lanciato manifestini incitanti alla collaborazione firmati «Governo Nazionale Fascista»(92). Quella stessa notte, un gruppo di fascisti guidati da Idreno Utimperghe (uno squadrista toscano, triestino d’adozione(93)), giunto da Trieste a bordo di un mas, sbarcò nel bacino di S. Marco e si diresse verso Ca’ Littoria, un palazzo sul Canal Grande all’altezza dei SS. Apostoli, già sede del partito fascista, occupando, strada facendo, anche la sede del «Gazzettino»(94), che, infatti, già dal giorno successivo, insieme alla «Gazzetta di Venezia» (sua edizione serale dal ’41), si allineò completamente alle direttive degli occupanti(95).

Il fascismo veneziano rinacque con velleità di rottura nei confronti dell’esperienza del Ventennio, vagheggiando il ritorno alle origini diciannoviste e non nascondendo, nella sua scelta repubblicana ampiamente spalleggiata da «Italia Nova» — il rinato organo ufficiale di stampa, che, nella grafica, nei caratteri a stampa e nel formato, si rifaceva esplicitamente al modello originario del ’20, poi modificatosi negli anni(96) —, lo spirito di vendetta nei confronti dei traditori del 25 luglio capeggiati dalla monarchia; e tra questi, nello specifico locale, vennero inclusi pure Volpi e Cini, che verranno addirittura arrestati (in seguito, dopo varie e alterne traversie, riusciranno entrambi a riparare in Svizzera); mentre, sullo sfondo, aleggiava il fantasma di Piero Marsich, la cui ‘eresia’ nelle origini del Fascio veneziano(97) poteva adesso essere riattualizzata, nel clima «rivoluzionario» che, da parte fascista, si respirava nella Repubblica Sociale Italiana, in chiave di critica al compromesso con la classe dirigente liberale, cui alla fine propese il fascismo normalizzato da Mussolini. Ma il fascismo veneziano nacque anche, almeno all’inizio, con velleità riconciliatrici, grazie soprattutto all’opera del federale Eugenio Montesi, artefice di quella riunione di fine settembre ’43 nel Municipio di Ca’ Farsetti cui si è già accennato, che però non condusse a nulla di concreto e che provocò non poco malumore tra gli intransigenti del Partito, ciò che causerà la sua sostituzione con federali dalla fama di «duri»(98).

Nonostante il primo comunicato della federazione neofascista, il 16 settembre, invitasse tutti i cittadini alla collaborazione, aprendo le iscrizioni al Partito ma postulando nello stesso tempo la facoltatività — e non obbligatorietà — della tessera, fin dall’inizio i «nuovi» fascisti sentirono attorno a sé soprattutto diffidenza e ostilità. I dati delle iscrizioni indicano un’adesione veramente minima della popolazione al Partito: nel gennaio ’44, solo lo 0,6% della popolazione aveva la tessera, 4.140 iscritti, di contro agli 88.684 precedenti(99). I rapporti di polizia sottolineavano implacabili l’«apatia e freddezza» che accoglievano gli sforzi del governo nel coinvolgere la popolazione nella costruzione del nuovo Stato: «La gente è […] disamorata verso il Fascismo; non crede ad una possibile ripresa e si preoccupa soprattutto delle difficoltà sempre crescenti della vita». Il piccolo mondo dei sestieri popolari, delle trattorie e dei caffè periferici — sempre secondo i rapporti di polizia — aveva quasi smarrito ogni nozione di patria e onore nazionale, mentre l’espressione rintracciabile più frequentemente era «Vinca chi vuole, purché finisca la guerra». Sullo schermo di qualche cinematografo era riapparsa la figura di Mussolini, suscitando alcuni battimani, ma era solo una goccia in un mare di assenteismo: «Questo uomo dall’aspetto sofferente e travagliato dallo sforzo di sostenere una terribile lotta contro nemici esterni ed interni riscuote ancora in molti italiani ammirazione e simpatia. Invisi sono al contrario tutti gli altri uomini politici che lo contornano. Della maggior parte di essi il popolo ne ignora il nome»(100). Un notiziario della guardia nazionale repubblicana del 23 gennaio ’44 così riassunse i discorsi e i commenti popolari alla sentenza del processo di Verona contro i «traditori» del 25 luglio: «Poveretti, hanno fucilato quelli che volevano la pace, mentre qualcuno, il vero colpevole, si gode la vita. Arriveranno gli inglesi, ed allora si metteranno le cose a posto»(101). In più, l’atteggiamento indisciplinato e incomposto nei confronti della città da parte di ufficiali e guardie repubblicane creò non poco malumore tra i cittadini, contribuendo ad alimentare lo scetticismo generale nei confronti della ricostruzione del nuovo partito fascista(102).

Ma Venezia fu anche città dove operò la Resistenza(103), sebbene tra mille difficoltà: la collocazione geografica, come si è già accennato, certo non facilitava la guerriglia, pure se, su di un altro versante, grazie agli innumerevoli punti di fuga offerti dalle coste adriatiche, il vicino entroterra veneziano divenne sede privilegiata per lo sbarco di missioni militari alleate(104), che avrebbero rifornito i reparti partigiani di armi, viveri ed equipaggiamenti; per di più, il particolare ruolo di sede amministrativa che la città lagunare ricoprì nel contesto geopolitico della Repubblica Sociale, con il conseguente afflusso di reparti armati, complicava non poco le capacità logistiche delle forze partigiane. Inoltre, alcuni esponenti del Comitato di Liberazione provinciale (Arduino Cerutti, Renato Maestro e Renzo Sullam) avevano scelto di attraversare la linea di fuoco e raggiungere gli alleati, per impegnarsi al Sud nella lotta per la ricostruzione di uno Stato democratico; altri, invece, tra cui Cesare Lombroso e Giovanni Giavi, si erano recati nella zona pedemontana del Trevigiano e del Bellunese per organizzarvi la guerra partigiana. È per questi motivi che — a fronte di una Resistenza che nel Veneto, pur tra le ovvie difficoltà che comportava agire in un ambiente caratterizzato dalla debolezza della classe operaia e dall’arretratezza delle masse agricole, cercava di darsi un tessuto organizzativo stabile, attraverso la costituzione di un Comitato di Liberazione regionale — la Resistenza nella città di Venezia, ove l’azione clandestina era molto rischiosa, ebbe soprattutto i caratteri dell’autonomia e della spontaneità, riducendosi in gran parte a piccole azioni di sabotaggio, diffusione di manifestini e disarmo di militi fascisti. Quando essa volle alzare il tiro, rimase quasi tramortita dalla reazione nemica: questo si verificò durante la cosiddetta «estate calda» del ’44, che vide una sequela di drammatici eccidi. Nella notte fra il 7 e l’8 luglio, cinque antifascisti vennero prelevati dalle loro case e trucidati a Cannaregio, per rappresaglia all’uccisione di un maresciallo (un sesto, nonostante il colpo alla nuca, riuscirà a sopravvivere, soccorso dai vicini). La mattina del 26 luglio, un carico d’esplosivo collocato da alcuni gappisti sulla tromba delle scale vigilata dai tedeschi, fece saltare in aria con una violentissima esplosione Ca’ Giustinian — sede del comando provinciale della guardia nazionale repubblicana e della polizia segreta fascista, luogo di interrogatori e torture degli arrestati — causando decine di morti e feriti. La rappresaglia fu fulminea: all’alba del 28 luglio, un gruppo completo di partigiani di S. Donà di Piave, prelevati nottetempo dal carcere di S. Maria Maggiore, furono fucilati alla schiena sulle macerie del palazzo distrutto. Il 3 agosto, per vendicare la presunta uccisione di una sentinella tedesca (probabilmente perita per cause naturali: annegamento causato da ubriachezza(105)), alle 7 del mattino, in seguito a decisione del comando tedesco, sette ostaggi antifascisti vennero condotti alla fucilazione su quella che poi, in loro onore, avrebbe preso il nome di riva dei Sette Martiri, da riva dell’Impero che era stata; ad assistere all’esecuzione, centinaia di terrorizzati abitanti della zona, trascinati a forza sul luogo dell’eccidio.

Sopravvissuta alla crisi dell’estate e al durissimo inverno del ’44-’45, grazie soprattutto alla cosiddetta «pianurizzazione» — lo sfollamento partigiano delle montagne, che irrobustì notevolmente la presenza partigiana in provincia(106) — e alla riforma del Corpo dei Volontari della Libertà, che, dando vita a un comando piazza nella città, permise un maggiore coordinamento militare, e riorganizzatasi intorno alla brigata «Francesco Biancotto», cui si dovette la maggiore attività, a predominanza comunista, e alla brigata «GL Venezia», di ispirazione azionista, la resistenza cittadina si dedicò soprattutto ad azioni a carattere propagandistico, volte ad incidere contro il nemico a livello psicologico, evidenziando così, nel contempo, agli occhi della cittadinanza, la presenza attiva di una organizzazione resistenziale, nonostante la capillare rete di sorveglianza del nemico. Di qui, il tentato — poi fallito all’ultimo momento — rapimento dell’ambasciatore giapponese, che soggiornava a Venezia, per scambiarlo con alcuni antifascisti catturati(107); e di qui, soprattutto, l’episodio più celebre, la «beffa del Goldoni»: l’irruzione, il 12 marzo ’45, di un gruppo partigiano nel massimo teatro di prosa veneziano, nel pieno corso della recita (la replica di Vestire gli ignudi di Luigi Pirandello), cui assistevano diversi ufficiali e soldati tedeschi e fascisti. Per i particolari e per meglio sottolineare il senso di sbigottimento che creò questa clamorosa azione, che, più di ogni ulteriore discorso, spiega che cosa fu la Resistenza a Venezia, lasciamo spazio ad ampi stralci del telegramma che l’imbarazzatissimo capo della Provincia Gaspare Barbera inviò al Ministero degli Interni:

Ore 21 circa ieri durante primo atto questo teatro Goldoni, gruppo di dieci individui armati pistola et viso mascherato, penetrati attraverso accesso riservato artisti, dopo immobilizzato personale et vigili et chiuso accessi platea, portavansi tre dei predetti sul palcoscenico et uno parlava al pubblico, dichiarandosi inviato Comitato Liberazione per annunziare prossima fine Fascismo et Nazismo et Caduta Duce et Fuerher, esortando presenti ad associarsi opera liberazione. At fine discorso venivano lanciati manifestini ciclostile riportanti invito popolazione ad associarsi movimento liberazione nazionale.

Predetti, protetti minaccia armi et profittando stato emozione presenti, riuscivano ad allontanarsi indisturbati.

Nessun incidente. Disposte attivissime indagini(108).

I tre uomini armati apparsi sul palcoscenico erano Franco Arcalli, Ottone Padoan e Ivone Chinello (futuro storico del movimento operaio e di Porto Marghera, che si chiamerà Cesco in memoria di Francesco Biancotto, uno dei fucilati di Ca’ Giustinian, con cui aveva diviso la cella del carcere). La sapiente regia dell’intera operazione, invece, era dovuta a Giuseppe Turcato. Un’azione che, nella sua riuscita miscela di realtà e finzione, di dramma e parodia, quasi anticipava l’età della spettacolarizzazione della politica.

Ormai, mancava poco alla fine della guerra. Anche i fascisti ne erano consapevoli. Soltanto qualche settimana prima, una relazione del commissario prefettizio alla Consulta (organo municipale consultivo, rappresentativo delle singole categorie produttive(109)) aveva delineato una situazione pesantissima e fallimentare per l’amministrazione di Venezia: «le strade da superare sono ingombre, […] le difficoltà sono severe, […] il traguardo da raggiungere è lontano»; gli organici, bloccati al ’26, non erano in grado di far fronte a tutti i bisogni della guerra; la situazione demografica e l’inflazione non riuscivano ad essere tenute sotto controllo; l’erogazione dei regolari servizi risultava carente; e, soprattutto, il deficit era enorme: dai 35 milioni del ’43, si era giunti ai 144 milioni del ’45(110). In quei mesi, nonostante le condizioni avverse, uno dei segni più evidenti della ricostituzione del fascismo era stata la riproposizione dei vecchi rituali del Ventennio: il ripristino dei segni del Littorio, che durante l’interregno badogliano erano stati violentemente estirpati; il cambiamento di parte della toponomastica, con particolare attenzione verso le denominazioni riguardanti membri di Casa Savoia; la promozione di liturgie vecchie (gli omaggi al sacrario dei fascisti caduti a Ca’ Littoria, sede del Partito e meta di celebrazioni e pellegrinaggi, e al tempio votivo del Lido, dedicato ai caduti della Grande guerra; gli anniversari della Marcia su Roma) e nuove (le commemorazioni di Ettore Muti, il più recente «martire» per la causa fascista; la valorizzazione, in una città che ne è gremita, dei luoghi della memoria risorgimentale, spesso in chiave repubblicana e antimonarchica). Le manifestazioni «patriottiche» pubbliche, in occasione di anniversari o di visite di alte personalità dello Stato mussoliniano, erano seguite da un discreto numero di persone, che sembrò crescere con il passare dei mesi; pure se, probabilmente, si trattava, in ogni caso, di minoranze fedeli e militanti, operanti all’interno di un contesto sociale e politico che sostanzialmente le faceva sentire isolate, ciò di cui non pochi tra gli stessi fascisti erano consapevoli, come si deduce dalle loro stizzite reazioni a saltuarie manifestazioni di ostilità, che, in genere, più che sentimenti antifascisti, tendevano a testimoniare dell’insofferenza verso la disagevole situazione bellica.

L’offensiva alleata sulla linea gotica indicò che il momento della resa dei conti finale era vicino. Intorno al 20 aprile, la Resistenza veneziana entrò in azione concordemente a quella veneta. Il compito dei partigiani della città era particolarmente delicato, giacché essi avrebbero dovuto evitare a tutti i costi che le loro azioni potessero dare adito alla distruzione da parte tedesca del patrimonio storico e artistico, degli impianti industriali di Marghera e del porto, che era stato minato. Fu a causa di queste non lievi difficoltà, che, dopo avere neutralizzato le forze fasciste, l’insurrezione sfociò nella resa condizionata dei tedeschi, attraverso la mediazione del cardinale Piazza: «Qualcosa forse di meno eroico di quanto stava contemporaneamente avvenendo in altre città, ma che consentì, e questo era il bene primario, di salvare Venezia dalla distruzione»(111). Il 28 aprile, comunque, il tricolore sventolò sui pennoni di piazza S. Marco, mentre le truppe alleate entravano in città. A questo risultato aveva contribuito anche lo «sciopero generale insurrezionale» che, nella notte tra il 27 e il 28, era stato proclamato con piena riuscita a Porto Marghera, ed «eseguito totalmente in uno con la difesa e la salvaguardia degli impianti»(112). Nella fase conclusiva della lotta, si erano aggiunti, con un ruolo determinante nel comando piazza, Francesco Semi, democristiano, e l’ufficiale di carriera pluridecorato Giovanni Filipponi.

La seconda guerra mondiale, almeno in Italia, era veramente finita. Giungeva ora il tempo dei festeggiamenti: un ritorno al clima festoso del 25 luglio, tra comizi improvvisati e spontanee manifestazioni di gioia. Il 5 maggio, in piazza S. Marco, c’è la grande sfilata delle formazioni partigiane. Finalmente, potevano sventolare in libertà le bandiere tinte di rosso, che diventò il colore predominante in città. «Per alcuni di quelli che nel 1945 erano ragazzi a Venezia [nei ricordi di Gianni Scarabello], i giorni di fine aprile furono come una rappresentazione: uomini e donne in abiti civili e armati per le calli, i ponti, i campi e poi in Piazza S. Marco; parole come popolo e liberazione; la Marsigliese e l’Internazionale urlate a voci spiegate»(113). Ovunque, per giorni e giorni, è un tripudio di felicità. «Erano giorni quelli [ricorderà Hugo Pratt] in cui non arrivava mai sera senza che ti fosse successo qualcosa. C’era un’energia nell’aria che sembrava far girare la vita più alla svelta». Mai come nei giorni della Liberazione, «Venezia presentò un volto così fresco e giulivo»(114). Giorni che rimarranno scolpiti per sempre nella memoria della città.

Venezia, bella addormentata nelle notti di sei lunghi anni, si è […] risvegliata in una sarabanda di suoni e di luci, di bagliori e di riflessi suscitati nelle acque calme del Bacino e del Canal Grande dal chiarore diffuso dalle lampade, dai bengala, dai fuochi di artificio, dalle fiammelle dei palloncini multicolori apparsi in festa a coronare le barche infestonate(115).

Dalla poesia alla prosa

In verità, nonostante l’euforia per la Liberazione, il dopoguerra alle porte sarebbe stato lungo e difficile. Il nodo e la contraddizione di fondo della Resistenza veneziana era stato l’aiuto finanziario che le forze partigiane avevano ricevuto dai maggiorenti del capitalismo veneziano (Achille Gaggia, Volpi e, soprattutto, Cini), già pesantemente compromessi con il fascismo e opportunisticamente sganciatisi dal regime soltanto quando la guerra fascista aveva palesato insormontabili difficoltà. Questo porrà un’ipoteca conservatrice alla ricostruzione del dopoguerra, se non nelle due amministrazioni comunali — la giunta popolare municipale guidata da Giovanni Ponti (’45-’46) e la prima giunta comunale (di centro-sinistra) guidata dal comunista Giovanni Battista Gianquinto (’46-’51), ancora espressioni dei settori più vivi e dinamici della lotta resistenziale, le quali non disonorarono il proprio mandato, pur senza riuscire ad imporre un progetto di ricostruzione coerente e di lungo periodo(116) — di certo nel generale riassetto economico e sociale della città. Ben presto, infatti, i vecchi gruppi dirigenti, riusciti a trasmigrare quasi indenni dal fascismo al postfascismo, avrebbero individuato nell’ala conservatrice della Democrazia Cristiana guidata da Enrico Mentasti la sponda ideale per garantire la continuità del loro potere ed assicurarsi la neutralizzazione delle istanze sociali e politiche più avanzate promosse dalla Resistenza(117). Sono diversi i segni che certificano il brusco venir meno del «vento del Nord»: dalle sostanziali assoluzioni concesse dalle varie commissioni d’inchiesta istituite dal Comitato di Liberazione Nazionale veneto per giudicare i casi di Cini, Volpi e Gaggia(118), al passaggio emblematico della società editoriale del «Gazzettino» sotto il controllo democristiano(119), per giungere agli esiti dei processi intentati ai fascisti dalla Corte straordinaria d’Assise di Venezia, che, pur condannando i responsabili di reati particolarmente feroci, tuttavia ben si guardò dal procedere contro gli esponenti dell’apparato burocratico-amministrativo(120).

Già pochi mesi dopo la Liberazione, dunque, giungevano a compimento le strategie poste in essere tra la fine del ’42 e l’inizio del ’43 — quando i gruppi di potere economico del fascismo avevano operato una scissione di responsabilità dal fascismo «filo-regime/mussoliniano/tedesco», alla ricerca di un «fascismo filoalleato» — e dispiegatesi compiutamente tra l’estate del ’44 e la primavera del ’45, con «la ricostituzione di una trama ritessuta di alleanze sociali all’insegna della continuità delle istituzioni entro un quadro filodemocratico di collocazione del nuovo gruppo di potere»(121). Anche a Venezia, così come stava accadendo in ambito nazionale, si assisteva alla rapida e progressiva dilapidazione del patrimonio resistenziale: «Gli ideali, i principi, la moralità ispiratori dei politici del dopoguerra […] avrebbero lasciato un segno nel breve tempo, ma non avrebbero inciso profondamente nel lungo periodo»(122). La città, che durante il ’43-’45 era sembrata per molti aspetti quasi straniarsi dalla realtà italiana circostante, si allineava, nel bene e nel male, al corso della politica nazionale.

1. Su De Pisis a Venezia, cf. Giovanni Comisso, Mio sodalizio con De Pisis (1954), a cura di Nico Naldini, Vicenza 1993, pp. 95-128; Neri Pozza, Personaggi e interpreti, Venezia 1985, pp. 61-81; Nico Naldini, De Pisis. Vita solitaria di un poeta pittore, Torino 1991, pp. 228-261; Sandro Zanotto, Filippo De Pisis ogni giorno, Vicenza 1996, pp. 417-493; Filippo De Pisis, Cattività veneziana, a cura di Bona De Pisis-Sandro Zanotto, Milano 1966; Id., Ore veneziane, a cura di Bona De Pisis-Sandro Zanotto, Milano 1974; Id., Divino Giovanni Lettere a Comisso 1919-1951, Venezia 1988, pp. 199-228; Id., Confessioni, a cura di Bona De Pisis-Sandro Zanotto, Firenze 1996, pp. 137-138, 140-145, 147-148; Lettere di De Pisis 1924-1952, a cura di Demetrio Bonuglia, Milano 1966, pp. 70-102; Guido Perocco, L’artista a Venezia, in De Pisis a Venezia. Dipinti provenienti da collezioni veneziane, Venezia 1968-1969, pp. [9-16]; Martina de Luca, Gli ultimi anni tra Milano e Venezia, 1939-1956, in De Pisis dalle avanguardie al ‘diario’, Milano 1993, pp. 143-146; Maria Cristina Bandera, Filippo De Pisis. Un ponte tra Parigi e Venezia, «Quaderni della Donazione Eugenio Da Venezia», 1996, nr. 2, pp. 11-22; Filippo De Pisis, Didascalie per un pittore, a cura di Luigi Cavallo, Milano 1983, pp. 53-57; Daniela de Angelis, De Pisis a Venezia negli anni del ‘Cinevillaggio’, «Quaderni della Donazione Eugenio Da Venezia», 1999, nr. 5, pp. 19-29.

2. Cf. Giovanni Comisso, Veneto felice. Itinerari e racconti, a cura di Nico Naldini, Milano 1984.

3. Id., Gioventù che muore, Roma 1965 [1949], pp. 135-136.

4. Per questi aspetti, cf. Mario Isnenghi, Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 405-410 (pp. 405-436). Cf. anche Id., La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 381-482; Giandomenico Romanelli, Venezia nell’Ottocento: ritorno alla vita e nascita del mito della morte, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 749-766.

5. Maurizio Reberschak, 1944: Venezia in guerra, in Mestre 1944. Parole e bombe. Immagini e voci di un anno tra propaganda fascista, bombardamenti alleati, occupazione tedesca e resistenza, a cura di Sergio Barizza-Daniele Resini, Venezia 1994, pp. 58-59 (pp. 58-61).

6. Ugo Facco De Lagarda, La grande Olga, Milano 1966 [1958], pp. 32 e 10.

7. Antonio Barolini, Le notti della paura, Milano 1967, p. 12.

8. Aldo Camerino, Ricordi di un recluso, «Il Gazzettino», 15 settembre 1950. Cf. anche Id., Recluso, in Id., Poesie, a cura di Carlo Della Corte-Ugo Fasolo, Vicenza 1977, p. 71; Guido Lopez, Ricordo di Cam, in Id., I Verdi, i Viola e gli Arancioni, Milano 1972, pp. 193-201; Giuseppe Turcato, Il silenzio di Aldo Camerino, in Kim e i suoi compagni. Testimonianze della Resistenza veneziana, a cura di Id., Venezia s.a. [ma 1980], pp. 33-35.

9. Cf., in questo senso, la testimonianza di Mario Ancona, Un libro, un cane e una bottiglia. Un frammento di storia veneziana nel cinquantesimo anniversario della liberazione, Venezia 1995, p. 32.

10. Ricordiamo le più tragiche eccezioni: il mattino del 14 agosto ’44, una nave ospedale tedesca, ancorata alla punta della Dogana, è fatta oggetto di un attacco aereo, che colpisce anche due vaporetti delle linee lagunari, causando più di 30 morti e diverse decine di feriti; il 13 ottobre ’44, la motonave «Giudecca» della linea Chioggia-Venezia viene colpita e affondata a un centinaio di metri da Pellestrina: oltre 100 passeggeri annegheranno.

11. Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, I-III, Venezia 1996-1997: III, Dalla monarchia alla Repubblica, p. 59.

12. Mestre 1944. Parole e bombe. Immagini e voci di un anno tra propaganda fascista, bombardamenti alleati, occupazione tedesca e resistenza, a cura di Sergio Barizza-Daniele Resini, Venezia 1994, pp. 42 e 36.

13. Carlo Fumian, Venezia ‘città ministeriale’ (1943-1945), in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, p. 382 (pp. 365-394).

14. Cf. G. Distefano-G. Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, III, pp. 175-214; Giulio Obici, Venezia fino a quando?, Venezia 1996 [1967], Gianfranco Bettin, Dove volano i leoni. Fine secolo a Venezia, Milano 1991; Giannandrea Mencini, Venezia acqua e fuoco. La politica della ‘salvaguardia’ dall’alluvione del 1966 al rogo della Fenice, Venezia 1996.

15. Giorgio Amendola, Lettera a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Roma 1973, cap. XVI, Viaggio nel Veneto, pp. 420-461.

16. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, b. 46, fasc. 489.

17. Cf. almeno Giannantonio Paladini, Gino Luzzatto (1878-1964), s.n.t. [ma Venezia 1987]; Marino Berengo, Profilo di Gino Luzzatto, «Rivista Storica Italiana», 76, 1964, nr. 4, pp. 879-925; il numero speciale della «Nuova Rivista Storica» in memoria di Gino Luzzatto, 49, 1965, nrr. 1-2.

18. Cf. Mario Isnenghi, L’Università di Padova: da Anti a Marchesi e Meneghetti, e Angelo Ventura, Padova nella Resistenza, in Padova nel 1943. Dalla crisi del regime fascista alla Resistenza, a cura di Giuliano Lenci-Giorgio Segato, Padova 1996, rispettivamente alle pp. 217-245 e 305-322; Luciano Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile (1985), Palermo 1992; Angelo Ventura, Padova, Roma-Bari 1989, pp. 350-365; Anna Rossi, Un anno di amministrazione militare tedesca: Padova, 25 settembre 1943-14 settembre 1944, in Tra Liberazione e ricostruzione. Padova, 8 settembre 1943-2 giugno 1946, a cura di Lino Scalco, Padova 1996, pp. 19-40.

19. Cf. Giannantonio Paladini, Le istituzioni culturali veneziane negli anni del cambiamento (1938-1946), in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Id.-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 333-364.

20. Cesco Chinello, La Resistenza a Marghera: rottura e ricomposizione nella lotta operaia. Una nuova soggettività sociale e politica, ibid., p. 235 (pp. 235-293). Più che conclusione di una fase, momento di decisa rottura storica, la Resistenza a Marghera fu «innesco di massificazione del ciclo di lotte rivendicative/politiche che subito dopo il 25 aprile si avvia in quella zona industriale, ciclo destinato a restare per lungo tempo — sino al ’68-’69 — la più grossa, se non unica, vera contraddizione sociale e politica nel ‘Veneto bianco’» (ibid.). Cf. anche Id., Storia di uno sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia 1951-1973, Roma 1975; Id., Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi. 1945-55, Milano 1984; Id., Sindacato e industria a Marghera, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, pp. 73-123. Né va dimenticato, d’altra parte, che, a differenza degli altri centri industriali del Nord, Marghera era una costruzione industriale recente, ove, fin dalle origini, notevole rilievo aveva assunto la figura dell’operaio contadino, con una coscienza di classe meno sviluppata e una minore predisposizione all’assimilazione di istanze politiche avanzate: cf. Id., Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del ‘problema di Venezia, Venezia 1979. Ringrazio Chinello per aver discusso con me alcuni punti di questo mio scritto.

21. Sulle iniziative conciliatoriste a Venezia, cf. La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, pp. 167-201; Giorgio Bocca, La repubblica di Mussolini, Milano 1994, pp. 75-77; Ernesto Brunetta, Correnti politiche e classi sociali alle origini della Resistenza nel Veneto, Vicenza 1974, pp. 75-79. Più in generale, cf. Maurizio Magri, Contro la guerra civile. La strategia del ‘ponte’ nel crepuscolo della RSI, in Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, a cura di Massimo Legnani-Ferruccio Vendramini, Milano 1990, pp. 299-321; Guglielmo Salotti, Movimenti di critica e di ‘opposizione’ all’interno della RSI, «Storia Contemporanea», 18, 1987, nr. 6, pp. 1453-1490; Luigi Ganapini, La Repubblica delle camicie nere, Milano 1999, pp. 447-456.

22. Cf. Marco Borghi, Una miriade di centri. La localizzazione delle sedi ministeriali della Repubblica di Salò nel Veneto (1943-1945), «Venetica», n. ser., 10, 1993, nr. 2, pp. 319-350.

23. C. Fumian, Venezia ‘città ministeriale’, p. 382.

24. Una statistica sull’andamento demografico compilata dal competente ufficio comunale indica per Venezia città alla fine del ’44, a fronte di una popolazione stabile di 175.934 unità, una popolazione di «sfollati e provvisori» che ammonta a 29.989 unità; parimenti, rivela un drastico «svuotamento» di Mestre, abbandonata in favore di rifugi più sicuri, la cui popolazione passa dalle 60.844 unità rilevate al 31 dicembre ’43 alle 35.423 rilevate a un anno di distanza: cf. Sergio Barizza, Mestre, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, p. 195 (pp. 183-207).

25. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Repubblica Sociale Italiana, 1944-1945, b. 18, Cat. C2A/3.

26. Maria Dri, Porto e industrie del centro storico veneziano tra economia di guerra e ricostruzione, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 134-135 (pp. 115-161).

27. Cf. Bruna Bianchi, L’economia di guerra a Porto Marghera: produzione, occupazione, lavoro. 1935-1945, ibid., pp. 163-233.

28. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Repubblica Sociale Italiana, 1944-1945, b. 18, Cat. C2A/3.

29. Oltre al ministro Ferdinando Mezzasoma, i veri artefici furono Giorgio Venturini, reggente della Direzione generale dello spettacolo, e Luigi Freddi, presidente di Cinecittà, della Cines e commissario dell’Ente nazionale industrie cinematografiche.

30. Sul cinema di Salò, cf. Fiorello Zangrando, Quando il cinema si chiamava Venezia (1906-1945), «Ateneo Veneto», n. ser., 19, 1981, nrr. 1-2, pp. 89-101; Giuseppe Ghigi, Il sogno di ‘Cinevillaggio’. Le attività produttive dal 1942 al 1956, in L’immagine e il mito di Venezia nel cinema, Venezia 1983, pp. 203-229; Ernesto G. Laura, L’immagine bugiarda: mass-media e spettacolo nella Repubblica di Salò (1943-1945), Roma 1986, pp. 303-370; Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, II, Il cinema del regime. 1929-1945, Roma 1993, pp. 346-360. Più in generale, cf. almeno Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari 1975, pp. 323-350.

31. Brescia, Archivio della Fondazione Luigi Micheletti, Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana.

32. Cf. Paolo Buchignani, Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1945, Milano 1998, pp. 19-31 e passim.

33. Stanis Ruinas, Pioggia sulla repubblica, Roma 1946, pp. 22-24.

34. Cf. Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino 1993, pp. 178-194.

35. Al cui fallimentare, e un poco patetico, sistema di tesseramento «Il Gazzettino» dedicò letteralmente decine di articoli, quasi che la scarsità di sigarette costituisse il maggiore problema per la popolazione veneziana in guerra.

36. «Il Gazzettino», 28 gennaio 1944.

37. Ibid., 26 gennaio e 9 maggio 1944.

38. Ibid., 2 settembre 1944.

39. Ibid., 26 marzo 1944.

40. Ibid., 30 gennaio 1944.

41. Ibid., 25 febbraio 1944.

42. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali delle sedute della Giunta popolare comunale, seduta del 17 maggio 1945.

43. «Il Gazzettino», 3 novembre 1944.

44. Ibid., 5 maggio 1944.

45. Ibid., 29 aprile 1944.

46. Ibid., 20 febbraio 1945.

47. Ibid., 29 gennaio 1944.

48. Rapporti mensili della Militaerkommandantur 1004 (4 ottobre 1943-14 settembre 1944), trad. di Anna Rossi, Venezia 1994-1995, pp. 98, 110, 122.

49. «Il Gazzettino», 20 novembre e 15 dicembre 1943, 16 febbraio 1944.

50. Ibid., 6 marzo 1945.

51. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1943-1945, b. 65, fasc. «Venezia».

52. «Il Gazzettino», 9 gennaio 1945.

53. Notiziario del 15 giugno 1944 per la provincia di Venezia, in Riservato a Mussolini. Notiziari giornalieri della Guardia nazionale repubblicana novembre 1943-giugno 1944. Documenti dell’Archivio Luigi Micheletti, a cura di Luigi Bonomini et al., Milano 1974, pp. 383-384.

54. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca, p. 182.

55. «Il Gazzettino», 16 dicembre 1943.

56. Ibid., 25 novembre 1943.

57. Ibid., 22 dicembre 1943.

58. Ibid., 25 novembre 1945.

59. Tra cui la promozione, con il beneplacito del sottosegretario alla Cultura popolare Alfredo Cucco, nel luglio ’44, di una «Settimana del profugo», ad opera di un sedicente «Ente per l’assistenza dei profughi e per la tutela degli interessi delle provincie invase», che spera in questo modo di raccogliere fondi e aiuti («Il Gazzettino», nella settimana 2-9 settembre 1944).

60. Ibid., 9 gennaio 1944.

61. Ibid., 24 febbraio 1944.

62. C. Fumian, Venezia ‘città ministeriale’, p. 386.

63. Renzo Bertoni, Durante la guerra a Venezia, «La Vernice», 23, 1984, nrr. 1-2, p. 39 (pp. 39-40).

64. «Il Gazzettino», 15 gennaio 1944.

65. Ibid., 14 ottobre 1943; cf. anche 3 dicembre 1943.

66. S. Ruinas, Pioggia sulla repubblica, pp. 69-72.

67. C. Fumian, Venezia ‘città ministeriale’, p. 382.

68. Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988. Cf. anche M. Isnenghi, Fine della Storia?, pp. 425-431.

69. «Il Gazzettino», 24 settembre 1944.

70. Cf. Mario Isnenghi, Parole e immagini dell’ultimo fascismo, in 1943-1945. L’immagine della RSI nella propaganda, a cura della Fondazione Micheletti, Milano 1985, pp. 32-38 (pp. 11-41); Id., Autorappresentazione dell’ultimo fascismo nella riflessione e nella propaganda, in La Repubblica sociale italiana 1943-1945. Atti del convegno, a cura di Pier Paolo Poggio, Brescia 1986, pp. 99-111; Luigi Ambrosoli, Gli opuscoli di propaganda fascista nel periodo della Repubblica Sociale Italiana, «Belfagor», 6, 1951, nr. 5, pp. 587-589.

71. Citato in Emilio Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari 1982, p. 164.

72. Cf. Juergen Schulz, The Houses of Titian, Aretino and Sansovino, in Titian. His World and his Legacy, a cura di David Rosand, New York 1982, pp. 82-89 (pp. 73-118); Christopher Cairns, Ancora sulla casa dell’Aretino sul Canal Grande, «Studi Veneziani», 14, 1972, pp. 211-217.

73. Su Marinetti a Venezia, cf. Gino Agnese, Marinetti. Una vita esplosiva, Milano 1990, pp. 303-319; Claudia Salaris, Marinetti. Arte e vita futurista, Roma 1997, pp. 328-332; Luce Marinetti, Ricordo di Marinetti mio padre, in Claudia Salaris, Filippo Tommaso Marinetti, Firenze 1988, p. 36 (pp. 34-37); Carlo Fabrizio Carli, Filippo Tommaso Marinetti. Destini italiani: artisti in RSI, in Uomini e scelte della RSI. I protagonisti della Repubblica di Mussolini, a cura di Fabio Andriola, Foggia 2000, pp. 226-227 (pp. 225-233).

74. Filippo Tommaso Marinetti, Quarto d’ora di poesia della X mas, in Id., Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano De Maria, Milano 1983 [1968], p. 1201.

75. Cf. Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, a cura di Renata Segre, Venezia 1995; Paolo Sereni, Gli anni della persecuzione razziale a Venezia. Appunti per una storia, in Venezia ebraica. Atti delle prime giornate di studio sull’ebraismo veneziano, a cura di Umberto Fortis, Roma 1982, pp. 129-151; Id., Della comunità ebraica a Venezia durante il fascismo, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 503-540. Più in generale, cf. almeno Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1983, pp. 441-486; Michele Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, in Storia d’Italia, Annali, 11, Gli ebrei in Italia, II, Dall’emancipazione a oggi, a cura di Corrado Vivanti, Torino 1997, pp. 1733-1764 (pp. 1623-1764); Id., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000, pp. 231-283.

76. Cf. soprattutto Silvio Tramontin, La chiesa veneziana dal 1938 al 1948, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 451-501; La Resistenza e i cattolici veneziani, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1996. Più in generale, cf. almeno Silvio Tramontin, La lotta partigiana nel Veneto e il contributo dei cattolici, Venezia 1950; I cattolici e la Resistenza nelle Venezie, a cura di Gabriele De Rosa, Bologna 1997.

77. Cf. almeno Gianfranco Bianchi, I cattolici, in Leo Valiani-Gianfranco Bianchi-Ernesto Ragionieri, Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Milano 1971, pp. 149-300; Francesco Malgeri, La Chiesa Italiana e la guerra (1940-1945), Roma 1980; Id., La Chiesa di fronte alla RSI, e Silvio Tramontin, Il clero e la RSI, entrambi in La Repubblica sociale italiana 1943-1945. Atti del convegno, a cura di Pier Paolo Poggio, Brescia 1986, rispettivamente alle pp. 313-333 e 335-354; Francesco Traniello, Il mondo cattolico nella seconda guerra mondiale, in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e stato nella storia d’Italia, Bologna 1990, pp. 169-228; Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino 1991, pp. 280-303; Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, a cura di Bartolo Gariglio, Bologna 1997; L. Ganapini, La Repubblica, pp. 201-225.

78. Franco Calamandrei, La vita indivisibile. Diario 1941-1947, a cura di Romano Bilenchi-Ottavio Cecchi, Roma 1984, p. 103.

79. Maurizio De Marco, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia 1976, p. 119. Cf. anche Maurizio Reberschak, Stampa periodica e opinione pubblica a Venezia durante i quarantacinque giorni (25 luglio-8 settembre 1943), «Archivio Veneto», ser. V, 94, 1971, pp. 95-134. Più in generale, cf. Giovanni De Luna, I ‘Quarantacinque giorni’ e la Repubblica di Salò, in Id.-Nanda Torcellan-Paolo Murialdi, La stampa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, Roma-Bari 1980, pp. 5-20 (pp. 3-89).

80. «Il Gazzettino», 26 luglio 1943.

81. «Gazzetta di Venezia», 26-27 luglio 1943. Cf. anche Armando Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Torino 1957, pp. 420-425.

82. Cf. L’Italia dei quarantacinque giorni. 1943. 25 luglio-8 settembre, Milano 1969, p. 393.

83. Sulla riorganizzazione dell’antifascismo veneziano, cf. Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 182-190 (pp. 152-225); Id., Dalla grande guerra alla Repubblica, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 981-990 (pp. 911-1035); Agostino Zanon Dal Bo, Il Partito d’Azione a Venezia dalle origini all’inizio della resistenza armata, in Il Partito d’Azione dalle origini all’inizio della Resistenza armata. Atti del convegno, Roma 1985, pp. 733-748; nonché le varie testimonianze incluse in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976.

84. Cf. Cesco Chinello, Giovanni Tonetti, il ‘conte rosso’. Contrasti di una vita e di una militanza (1888-1970), Venezia 1997.

85. Cf. i ricordi in sua memoria, a firma di vari autori, premessi a Viaggiatori stranieri a Venezia. Atti del convegno, a cura di Emanuele Kanceff-Gaudenzio Boccazzi, Genève 1981.

86. Cf. Silvio Tramontin, Celeste Bastianetto (1899-1953). Un partigiano per l’Europa, Venezia 1986.

87. Cf. Id., Giovanni Ponti (1896-1961). Una vita per la democrazia e per Venezia, Venezia 1983.

88. Cf. Id., Eugenio Gatto (1911-1981). Un partigiano padre delle regioni, Venezia 1985.

89. Eugenio Gatto, Ricordi della Resistenza a Venezia, «Storia Contemporanea», 9, 1978, nr. 4, p. 739 (pp. 737-766).

90. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, b. 432, Cat. A5G, fasc. «Venezia».

91. Cf. Simon Levis Sullam, La rinascita del Partito Fascista a Venezia (1943). Cronaca e spunti interpretativi, «Venetica», n. ser., 13, 1996, nr. 5, pp. 101-160 (che ringrazio per aver discusso con me alcuni punti di questo mio scritto); Marco Borghi, I fascisti repubblicani: uomini e motivazioni della Repubblica Sociale Italiana, in La società veneta dalla Resistenza alla Repubblica. Atti del convegno, a cura di Angelo Ventura, Padova 1997, pp. 89-128. Più in generale, cf. Dianella Gagliani, Il partito nel fascismo repubblicano delle origini: una prima messa a punto, «Rivista di Storia Contemporanea», 23-24, 1994-1995, nrr. 1-2, pp. 130-170; Ead., Brigate nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Torino 1999.

92. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, b. 432, Cat. A5G, fasc. «Venezia».

93. Sulla cui figura, cf. Piero Sebastiani, La mia guerra sbagliata, in Memorie della Repubblica, a cura di Leonardo Paggi, Firenze 1999, pp. 407-424.

94. L’episodio è raccontato da Silvio Bertoldi, Salò. Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana (1976), Milano 1994, p. 220, e ritenuto credibile da S. Levis Sullam, La rinascita del Partito Fascista, p. 102. Le relazioni di prefetto e questore, però, non ne fanno cenno.

95. A Valeri subentrerà Nino Scorzon, «redattore responsabile» con funzioni direttoriali per circa un mese, a cui succederà in veste di direttore stabile Guido Baroni: cf. M. De Marco, Il Gazzettino, pp. 120-122; I quotidiani della Repubblica Sociale Italiana (9 settembre 1943-25 aprile 1945), a cura di Vittorio Paolucci, Urbino 1989, pp. 120-128. Più in generale, cf. Mario Isnenghi, Stampa del fascismo estremo in area veneta. Tracce e reperti, in Tedeschi, partigiani e popolazioni nell’Alpenvorland (1943-1945). Atti del convegno, Venezia 1984, pp. 117-136; Ugoberto Alfassio Grimaldi, La stampa di Salò, Milano 1979; G. De Luna, I ‘Quarantacinque giorni’ e la Repubblica di Salò, pp. 21-89; Vittorio Paolucci, La stampa periodica della Repubblica sociale, Urbino 1982; la sezione «Stampa e propaganda» in La Repubblica sociale italiana 1943-1945. Atti del convegno, a cura di Pier Paolo Poggio, Brescia 1986, pp. 99-174.

96. Matteo Giacomello, «Italia Nuova» 1920-1945: l’organo ufficiale del fascismo veneziano, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1992-1993, p. 177. Nel ’20, il periodico nacque, appunto, come «Italia Nova», poi modificatosi, nel ’32, in «Italia Nuova».

97. Cf. Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi. 1895-1922, «Italia Contemporanea», 38, 1987, nr. 169, pp. 63-84.

98. Quali, dapprima, Pier Luigi Pansera (fine ottobre ’43) e, in seguito, Pio Leoni (metà dicembre ’43), a sua volta sostituito, nell’ottobre ’44, da Enrico Itoyz.

99. Rapporti mensili, p. 32.

100. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1943-1945, b. 65, fasc. «Venezia», annotazioni datate 30 gennaio ’44.

101. Padova, Archivio dell’Istituto veneto per la storia della Resistenza, b. 65.

102. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1943-1945, b. 65, fasc. «Venezia».

103. Cf. almeno Ernesto Brunetta, La lotta armata: spontaneità e organizzazione, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 395-450; Id., Figure e momenti del Novecento politico, pp. 190-197; Marco Borghi, La Resistenza nelle province. Venezia, in Il Veneto nella Resistenza. Contributi per la storia della lotta di liberazione nel 50° anniversario della Costituzione, a cura della Associazione degli ex consiglieri della regione Veneto, Vittorio Veneto 1997, pp. 243-249. Più in generale, cf. almeno E. Brunetta, Correnti politiche e classi sociali; Id., Il Veneto, in Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano 1974, pp. 389-430; Angelo Ventura, La società rurale dal fascismo alla Resistenza, in Società rurale e Resistenza nelle Venezie. Atti del convegno, Milano 1978, pp. 11-66; Atlante storico della Resistenza italiana, a cura di Luca Baldissara, Milano 2000, pp. 106-109; Jean-Pierre Jouvet-Renato Sandri, Veneto, in Dizionario della Resistenza, a cura di Enzo Collotti-Renato Sandri-Frediano Sessi, I, Storia e geografia della Liberazione, Torino 2000, pp. 546-555. Per una rassegna bibliografica sulla storiografia della Resistenza veneta, cf. Giannantonio Paladini, Per una storia della Resistenza veneta. Stato degli studi, «Atti e Memorie del Museo del Risorgimento di Mantova», 8, 1969, pp. 43-75; Id., La Resistenza nelle Venezie. Tra storia e storiografia, «Venetica», n. ser., 12, 1995, nr. 4, pp. 283-319.

104. Cf. Le missioni militari alleate e la Resistenza nel Veneto. La rete di Pietro Ferraro dell’OSS, a cura di Chiara Saonara, Venezia 1990.

105. Su questo punto, cf. anche Raffaele Calzini, L’ubbriaco [sic], «Nuova Antologia», 81, 1946, vol. 436, pp. 64-73.

106. Cf. Ernesto Brunetta, Dalla città alla campagna, dalla pianura alla montagna, in Geografia della Resistenza: territori a confronto, Vittorio Veneto 1998, pp. 115-125.

107. Cf. Giovanni Tonetti, Un patrizio rivoluzionario, Venezia 1970, pp. 30-32; Giuseppe Turcato, L’ambasciatore Hidaka, in Kim e i suoi compagni. Testimonianze della Resistenza veneziana, a cura di Id., Venezia s.a. [ma 1980], pp. 68-70.

108. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Repubblica Sociale Italiana, 1944-1945, b. 18, Cat. C2Aag, fasc. «Venezia». Cf. anche Giuseppe Turcato, La ‘Beffa del Teatro Goldoni’ (12 marzo 1945), Venezia 1995.

109. Cf. Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, pp. 15 e 27.

110. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbali della Consulta 1941-1945, seduta del 17 febbraio 1945.

111. E. Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, p. 193. Cf. anche L’insurrezione di Venezia. 26-29 aprile 1945. L’opera del Comando Piazza del Corpo Volontari della Libertà. Relazioni e documenti, Venezia s.a.

112. C. Chinello, La Resistenza a Marghera, p. 271.

113. Gianni Scarabello, Viaggio nella vita, in Kim e i suoi compagni. Testimonianze della Resistenza veneziana, a cura di Giuseppe Turcato, Venezia 1980, p. 170 (pp. 170-175).

114. Ugo Facco De Lagarda, Ricordo di Camillo Matter e di altri ‘resistenti’, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Giuseppe Turcato-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, p. 400 (pp. 399-401).

115. «Corriere Veneto», 10 maggio 1945.

116. Cf. Giorgio Santarello, La giunta popolare Ponti, e Paola Sartori, La prima amministrazione comunale e la giunta Gianquinto, entrambi in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, rispettivamente alle pp. 125-155 e 157-181; Maurizio Reberschak, Dichiarazioni d’intenti: sindaci e programmi nel dopoguerra a Venezia (1945-1951), in Chiesa, Società e Stato a Venezia. Miscellanea di studi in onore di Silvio Tramontin nel suo 75° anno di età, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1994, pp. 239-288.

117. Cf. Maurizio Reberschak, I cattolici veneti tra fascismo e antifascismo, in Movimento cattolico e sviluppo capitalistico. Atti del convegno, Venezia-Padova 1974, pp. 171-175 (pp. 145-183). Più in generale, cf. La Democrazia Cristiana dal fascismo al 18 aprile. Movimento cattolico e Democrazia Cristiana nel Veneto. 1945-1948, a cura di Mario Isnenghi-Silvio Lanaro, Venezia 1978.

118. Cf. Maurizio Reberschak, Giustizia straordinaria? I verbali della commissione d’inchiesta del Comitato di liberazione nazionale regionale veneto sul caso Cini, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 461-474; Id., Il Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto e il caso Volpi, in Non uno itinere. Studi storici offerti dagli allievi a Federico Seneca, Venezia 1993, pp. 319-361.

119. Cf. M. De Marco, Il Gazzettino, pp. 124-132; Maurizio Reberschak, Tra il vecchio e il nuovo. Gruppi dirigenti e forme di potere: due casi, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 295-306 (pp. 295-331).

120. Cf. Alessandro Reberschegg, La Corte straordinaria d’Assise di Venezia, «Venetica», ser. III, 12, 1998, nr. 1, pp. 133-160; Marco Borghi-Alessandro Reberschegg, Fascisti alla sbarra. L’attività della Corte d’Assise straordinaria di Venezia (1945-1947), Venezia 1999. Per un inquadramento nazionale, cf. almeno Maurizio Reberschak, Epurazioni. Giustizia straordinaria, giustizia ordinaria, giustizia politica, ibid., pp. 47-68; Hans Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Bologna 1997; Romano Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Milano 1999.

121. M. Reberschak, Tra il vecchio e il nuovo, p. 320.

122. Id., Venezia, dopoguerra: tra storia e contemporaneità, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Id., Padova 1993, p. 23 (pp. 11-23).

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