Il cambiamento climatico come sfida globale

ATLANTE GEOPOLITICO (2012)

Furio Cerutti

Il titolo di questo box potrebbe suonare generico o giornalistico, ma in realtà è il contrario dell’una e dell’altra cosa. Anzitutto, parlo di cambiamento climatico (cc) al singolare per indicare che i vari fenomeni climatici cui ci stiamo riferendo debbono essere concettualmente raccolti sotto un unico titolo, indicante il fenomeno complessivo scoperto definitivamente negli anni Settanta del ventesimo secolo e riconducibile con alta probabilità ai sub-effetti della trasformazione umana della natura in età industriale (cambiamento antropogenico).

A ‘sfida globale’ attribuisco poi il significato preciso di una minaccia che riguarda l’intero genere umano in modo letale per la sopravvivenza della civiltà umana (civiltà materiale, quella che ci permette di sopravvivere come specie priva di artigli o becchi); una minaccia quindi che può essere seriamente affrontata, senza peraltro garanzia di essere vinta, solo dall’agire cooperativo della quasi totalità degli individui e delle loro entità politiche.

In questa definizione rientrano oggi soltanto due fenomeni sufficientemente conosciuti: la minaccia di una guerra nucleare di scala medio-larga e il cambiamento climatico che dovesse, nei secoli futuri, produrre effetti ancor più devastanti (sommersione di terre, aumento della siccità e del numero come della forza degli uragani, giganteschi movimenti di popolazione e conseguenti conflitti, anche se non tradizionalmente bellici) di quelli che già vediamo e vedremo sino alla fine del secolo, data oltre la quale diminuisce il grado di probabilità attribuibile alle previsioni odierne, ma aumenta la possibilità di sconvolgimenti disastrosi.

Oltre che rivelarne il rilievo filosofico, intendere il cc come sfida globale aiuta a capire perché è così impervio affrontarlo, visti i modesti risultati del Protocollo di Kyoto (1997) e l’incapacità (fino ai vertici di Copenaghen 2009 e di Cancún 2010) di rinegoziarlo includendo questa volta tutti i paesi. Si ricordi che, a dispetto di Kyoto, fino al 2009 le emissioni di CO2 sono solo aumentate, salvo diminuire modestamente nel 2009 a seguito della crisi economica mondiale. Tutto ciò non avviene per caso: la politica mondiale e nazionale, così come la conosciamo, è strutturalmente inadatta a risolvere le due sfide globali. Vediamone i motivi nel caso del cc.

Premettiamo che vi sono due vie ben diverse, ma non in conflitto, per affrontarlo: le misure d’adattamento al cc, che dovrebbero rendere meno pesanti i suoi effetti sugli umani (banalmente, dotare tutti di condizionatori d’aria, oppure ricostruire su terreni più alti gl’insediamenti umani a rischio di sommersione); e quelle volte a mitigare invece le cause del riscaldamento, riducendo drasticamente le emissioni, soprattutto quelle provenienti dall’uso di combustibili fossili, o anche ‘sequestrandole’ in depositi sotterranei o subacquei. L’adattamento è in qualche misura gestibile, rientrando nell’interesse delle generazioni oggi presenti sulla terra; la ‘mitigazione’ invece è costosa (ma invero anche lasciare crescere il riscaldamento lo è) e soprattutto richiede una ristrutturazione del nostro sistema produttivo e di trasporto e delle nostre abitudini di vita. Potremmo decidere di scegliere questa seconda via (ciò che peraltro non esclude la necessità urgente di misure d’adattamento) solo se volessimo prenderci cura delle condizioni di vita di generazioni molto lontane da noi. Qui affiorano gli ostacoli.

Primo, la politica, essendo oggi più che mai (soprattutto nei paesi democratici) tutta rivolta all’interesse particolaristico dell’elettorato che voterà nelle prossime elezioni, è affetta da un egoismo temporale che rende improponibile chiedere rinunce e mutamenti incisivi in nome delle generazioni future. Questo non vale solo per i cittadini dei paesi affluenti, ma altresì per i due miliardi di esseri umani che hanno un interesse a uscire dalla povertà grazie a una crescita economica che finora non ha saputo essere altro che ad alto consumo di carbonio (si pensi all’infernale inquinamento delle città cinesi ove chi può si compra un auto). Mentre lo slogan della decrescita non può che rimanere vacuo, non sembra che la crisi iniziata nel 2008 venga usata per un rilancio ‘verde’ dell’economia, che pur sarebbe possibile con maggior audacia politica e imprenditoriale. Si osservi che in questo caso non funziona il meccanismo democratico di correzione delle politiche sbagliate, perché coloro che ne sono affetti - i posteri - per definizione non votano e non possono mandare a casa i governanti miopi.

Secondo, fra il problema e chi lo dovrebbe risolvere c’è uno squilibrio dimensionale: la stabilità dell’ambiente e soprattutto della sua temperatura è un bene pubblico globale (uno dei global commons), a gestirlo sono però gli stati sovrani il cui grado di cooperazione è insufficiente, come si vede dagli esiti, e instabile (si pensi al caso degli Usa, che prima firmano e poi denunciano il Protocollo di Kyoto). Non che una global policy come quella sul clima richieda un irrealistico e indesiderabile governo mondiale. Ma il grado di governance finora espresso dalla ‘diplomazia del clima’ è assolutamente inadeguato al problema e quest’ultima sembra arenarsi nella diatriba fra ‘noi tagliamo le emissioni solo se le tagliano tutti’ e ‘chi ha più riscaldato l’atmosfera tagli di più e paghi più compensazioni per i tagli dei paesi in via di sviluppo’.

Infine, la fiducia che la capacità di governare la situazione che manca oggi possa esistere domani, come spesso è avvenuto nella cooperazione internazionale dopo la Seconda guerra mondiale, è minata da una circostanza propria delle sfide globali, che sono figlie dell’incontrollata trasformazione umana della natura: i tempi della fisica (del clima) non sono i tempi della politica, e mentre i governi rinviano a sempre nuove conferenze internazionali un nuovo ed efficace accordo, che nemmeno si sa se poi verrà, il clima continua a riscaldarsi e si avvicina il momento (entro questo decennio e non oltre, secondo le conclusioni del Climate Change Congress interdisciplinare tenutosi all’Università di Copenaghen nel marzo 2009) intervenire dopo il quale non riuscirebbe più a contenere l’aumento termico medio entro due gradi centigradi alla fine del secolo, o richiederebbe tagli alle emissioni così grandiosi che la loro effettuazione appare ancor più improbabile.

Non v’è dunque una vera possibilità di risposta effettiva alla minaccia creata dal cc? Non occorre cadere nel catastrofismo scettico di molto pensiero contemporaneo, ma è giusto riconoscere che siamo a una svolta della civiltà e che un esito catastrofico non è fatale, ma resta iscritto nelle possibilità; per cercare di sventarlo occorre riconoscere che, ripensando il nostro rapporto con la natura e la ricchezza di oggi in rapporto a quelle future, possiamo ridare senso a una civiltà – quella moderna, scientifica e del libero mercato – che nel Novecento, accanto alle meraviglie, ha prodotto mostri non solo nei rapporti politici, ma anche nell’evoluzione di scienza e tecnica. Oltre alla politica per il presente, che ha dominato la modernità e resterà un momento essenziale della vita associata, sembra necessaria una politica per il futuro, di non facile riconciliazione con la prima, e di cui finora non s’era sentito il bisogno, perché gli uomini non avevano tanta capacità di predeterminare il futuro come ora con il cc e l’eventuale guerra nucleare (e lasciando da parte i possibili usi politici della biotecnologia, tema prematuro ma incombente).

Al fine di rendere la nostra civiltà meno povera di senso e meno gravida di contraddizioni fra le sue proclamazioni e i suoi esiti, servirebbe dare valore non solo alla sopravvivenza in condizioni decenti del genere umano, ma alla giustizia che verrebbe una volta di più lesa se, dopo i guai causati ad africani e asiatici dal colonialismo e dallo sviluppo ineguale, aggravassimo ancora i danni loro già arrecati dagli sconvolgimenti climatici. In altri termini, alle questioni di giustizia fra le generazioni si accompagnano quelle di giustizia fra i popoli.

Che un cambiamento in questi orientamenti culturali di fondo che guidano la politica (soprattutto quella democratica, la quale a dispetto della sua odierna miopia resta la miglior arena per affrontare il cc) non sia impensabile è però una possibilità affidata, più che a più idealistici convincimenti, al carattere in qualche misura cogente delle sfide globali. La loro gravità, scientificamente documentata, può rafforzare quella paura ragionevole di cui gli uomini hanno sempre avuto bisogno per proteggersi dalla natura e da se stessi.

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