Il caso marò: una politica estera marginale

Il Libro dell'Anno 2013

Edoardo Greppi

Il caso marò: una politica estera marginale

Leggerezze, omissioni, incomprensioni hanno trasformato l’incidente avvenuto in India il 15 febbraio 2012 in un caso politico e diplomatico. La cui soluzione sembra essere legata ai buoni uffici del tradizionale negoziato.

Latorre e Girone

Un grave incidente avvenuto al largo delle coste del Kerala, India, il 15 febbraio 2012, che ha provocato la morte di due pescatori indiani per mano di due militari italiani, ha portato a una crisi nei rapporti tra l’Italia e l’India. La vicenda presenta connotati politici e diplomatici, ma anche rilevanti profili di diritto internazionale. Posto che i due pescatori siano stati effettivamente uccisi dai fucilieri del reggimento San Marco, Massimiliano Latorre, 46 anni, e Salvatore Girone, 35 anni, imbarcati sulla petroliera Enrica Lexie con compiti di protezione della nave, del carico e dell’equipaggio in acque infestate da pirati (le indagini di polizia non hanno condotto a risultati certi), il problema più rilevante è subito apparso quello della giurisdizione. Secondo il governo italiano, essa apparterrebbe all’Italia perché il fatto – come ha anche riconosciuto la Corte suprema indiana nella sentenza del 18 gennaio 2013 – è avvenuto al di fuori delle acque territoriali indiane (e la giurisdizione spetta allo Stato di bandiera della nave) e i due marò sono organi dello Stato (e godono dell’immunità funzionale dalla giurisdizione di uno Stato straniero). Secondo l’India, la giurisdizione dello Stato costiero si spingerebbe al di là del mare territoriale, estendendosi alla zona economica esclusiva.

I profili teorici che attengono alle confliggenti pretese giurisdizionali hanno dovuto fare i conti con la realtà di fatto. I marò sono stati, con l’inganno, attirati sul territorio indiano e trattenuti in stato di detenzione. Dopo due brevi soggiorni in Italia, sono rientrati in India, e un procedimento penale contro di loro è stato iniziato. Si può osservare che il rientro in India è stato caratterizzato da alcuni elementi che mettono in luce aspetti problematici. All’ambasciatore italiano in India, Daniele Mancini, al quale è stato chiesto di sottoscrivere un affidavit sul rientro dei marò dopo un breve soggiorno in patria, è stato vietato di lasciare il paese, in grave violazione della Convenzione di Vienna.

In un primo momento, il governo ha dichiarato che i due sottufficiali non sarebbero tornati in India (suscitando proteste a Nuova Delhi), ma qualche giorno dopo i marò sono rientrati sulla base di una semplice ‘nota verbale’ dell’incaricato d’affari indiano a Roma, in base alla quale il governo di Nuova Delhi dichiarava solo che una consolidata giurisprudenza portava a ritenere che gli imputati non avrebbero corso il rischio della pena di morte. La dichiarazione del governo e la sua successiva contraddizione hanno provocato sconcerto nel mondo politico e nell’opinione pubblica, fino alle dimissioni del ministro Giulio Terzi, il 26 marzo 2012. Due aspetti lasciano perplessi. In primo luogo, una generica nota del governo (che non può impegnare l’autorità giudiziaria) non costituisce garanzia sufficiente per la consegna di cittadini italiani a uno Stato straniero (come si è pronunciata la Corte costituzionale nella sentenza 223 del 1996, ritenendo ‘non costituzionalmente ammissibili’ le ‘sufficienti assicurazioni’ dello Stato estero, essendo invece necessaria una ‘garanzia assoluta’). In secondo luogo, l’Italia non dovrebbe consentire che suoi cittadini siano giudicati da un tribunale speciale costituito ex post facto proprio per celebrare un processo cui sono stati conferiti forti connotati politici e che avrebbe luogo in una cornice di pressioni mediatiche che suscitano timori in termini di imparzialità e serenità di giudizio. Non solo, ma nuove indagini di polizia sono state affidate a un organo speciale antiterrorismo, i cui connotati suscitano perplessità per la scarsa pertinenza in un caso come quello dell’ipotetica uccisione accidentale di due pescatori.

Pur ribadendo le sue posizioni in materia di giurisdizione, l’Italia ha di fatto accettato che l’India esercitasse la sua. I marò sono stati rimandati a Nuova Delhi e un processo vi sarà celebrato. Non solo, sulla questione della giurisdizione vi è un precedente che non gioca a favore della pretesa italiana: nel caso Abu Omar, la Corte di Cassazione (19 settembre 2012) ha affermato che per il diritto consuetudinario non sussiste immunità funzionale di diritto penale per atti compiuti da organi diversi dagli agenti diplomatici e/o consolari e dalle alte cariche dello Stato.

Forse la vicenda avrebbe preso una piega differente se l’Italia avesse puntato i piedi sulla questione della giurisdizione, e avesse approfittato dei due permessi concessi dalle autorità indiane (per Natale e per le elezioni) per avviare effettivamente un procedimento giudiziario a Roma. Un’altra via da percorrere sarebbe stata quella dell’esercizio di una forte pressione politica e diplomatica volta a pretendere che fosse riconosciuta alla vicenda la natura di controversia internazionale, con la conseguente richiesta di addivenire a una soluzione di tipo arbitrale o giurisdizionale. La Convenzione sul diritto del mare prevede il ricorso unilaterale e la richiesta di misure provvisorie (quale la consegna dei sottufficiali a uno Stato terzo o la sospensione del procedimento avviato in India). Chiedere all’India di portare il caso alla Corte internazionale di giustizia farebbe constatare la violazione della Convenzione di Vienna.

L’unica alternativa è la ripresa di iniziative per la ricerca di una soluzione diplomatica, affidata ai tradizionali strumenti del negoziato, dei buoni uffici o della mediazione, ricordando all’India che la comunità internazionale si aspetta da uno Stato che si candida a un seggio permanente in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU comportamenti responsabili per dare soluzione pacifica alle controversie internazionali.

La Convenzione di Vienna

L'art. 29 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche stabilisce che «la persona dell’agente diplomatico è inviolabile. Egli non può essere sottoposto ad alcuna forma di arresto o di detenzione»; l’art. 31 garantisce che «l’agente diplomatico gode dell’immunità dalla giurisdizione penale dello Stato accreditatario». L’India avrebbe violato l’art. 44: «lo Stato accreditatario deve, anche in caso di conflitto armato, accordare agevolezze per permettere alle persone fruenti dei privilegi e immunità [...] di lasciare il suo territorio quanto più presto». Nuova Delhi sostiene che l’ambasciatore Mancini, che ha firmato l’impegno al rientro dei marò, non può invocare l’immunità perché ai sensi dell’art. 32 «una persona fruente dell’immunità giurisdizionale [...] che promuova una procedura, non può invocare questa immunità per alcuna domanda riconvenzionale connessa con la domanda principale».

Ministro Giulio Terzi

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