Il dibattito sui musei

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Alessandra Acconci
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Già alla fine del Settecento l’istituzione museale acquista il suo moderno ruolo di pubblica istituzione con finalità educative e conservative, ma è nel corso dell’Ottocento che si sviluppa in una pluralità di espressioni ricche di valenze culturali sociali e politiche.

Premessa

Nel Settecento si assiste al fenomeno del collezionismo illuminato di alcuni sovrani che riordinano e aprono al pubblico le loro private raccolte artistiche. Tuttavia, nessuno di questi sovrani mette in discussione il diritto di proprietà sulle opere d’arte collezionate, ed è solo nella Francia rivoluzionaria che il principio della privata proprietà del patrimonio artistico viene a infrangersi, cedendo il posto a una nuova concezione dell’opera d’arte come bene culturale disponibile per l’intera collettività.

L’alba del museo ottocentesco

In seguito alla decisione presa nel 1792 dal governo rivoluzionario francese di nazionalizzare le collezioni reali e di aprire al pubblico le sale del Louvre dove queste sono custodite, nel 1793 viene inaugurato il primo nucleo del Musée Central des Arts.

Negli anni successivi il Musée si amplia sempre più, investito della funzione conservativa dei beni provenienti dalle istituzioni religiose soppresse, e si arricchisce delle numerose opere che, ai tavoli dei trattati di pace, Napoleone e i suoi ufficiali pretendono come risarcimento dei danni di guerra dai Paesi sconfitti.

Da strumento di celebrazione nazionale, il Musée Central des Arts diviene gradualmente simbolo del prestigio personale e militare di Bonaparte, fino a mutare il proprio nome in Musée Napoléon (1802).

I musei di età rivoluzionaria e napoleonica presentano già i principali connotati che caratterizzano la complessa e dibattuta vicenda dei musei nel corso dell’Ottocento. Il nuovo principio della pubblica fruizione delle opere d’arte si afferma infatti definitivamente, tanto che al Congresso di Vienna viene sancita la restituzione alle sedi d’origine dei capolavori trasferiti al Louvre dai funzionari napoleonici, solo a condizione che siano destinati alla pubblica esposizione.

Inoltre, durante tutto il XIX sec. risultano più che mai attuali le tre principali funzioni svolte dai musei napoleonici: la funzione educativa e didattica, la funzione celebrativa e la funzione di ricovero e tutela dei beni culturali, passati alla proprietà statale in seguito alle soppressioni ecclesiastiche.

È infatti da esigenze educative e didattiche che nella seconda metà dell’Ottocento nascono e si diffondono i musei d’arte e industria e i musei industriali. I musei civici, poi, svolgono funzioni di raccolta e tutela dei beni artistici provenienti dalle istituzioni religiose soppresse dal nuovo Stato italiano, negli anni immediatamente seguenti l’unità d’Italia. È da questi nuclei di opere di provenienza ecclesiastica che si sviluppano, lungo il corso del secolo, gran parte degli attuali musei e pinacoteche.

Attorno alla conservazione e alla pubblica fruizione di queste opere passate alla proprietà statale si sviluppa un acceso dibattito presso le istituzioni culturali italiane (soprattutto le accademie di belle arti, in questi anni deputate anche a un ruolo di controllo e di tutela del patrimonio culturale, oltre a quello più tradizionale concernente l’attività didattica), allorché il governo francese promuove massicce deportazioni d’arte.

Molti capolavori vengono “sradicati” dal loro contesto originario (sia esso una piccola città di provincia o un fiorente centro culturale) e trasferiti a Parigi e a Milano, divenuta capitale della Repubblica cisalpina prima, del Regno d’Italia poi. Subito dopo la proclamazione della Repubblica cisalpina (1797) si progetta la creazione di un prestigioso museo a Milano: la Pinacoteca nazionale di Brera, dove raccogliere i capolavori di provenienza ecclesiastica della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e delle Marche che non sono stati trasportati a Parigi.

I funzionari francesi affidano l’incarico di selezionare le opere da esportare nelle due capitali a personalità di grande rilievo e prestigio favorevoli all’ideologia rivoluzionaria e all’avvento napoleonico in Italia. È l’archeologo e studioso d’antichità Ennio Quirino Visconti a organizzare l’espoliazione del Museo Pio-Clementino in Vaticano a favore delle gallerie del Louvre, di cui poco dopo diviene conservatore. Contemporaneamente a Milano i pittori Andrea Appiani e Giuseppe Bossi allestiscono la Pinacoteca di Brera. La notorietà di questi personaggi, indiscutibili per dottrina e competenza, contribuisce ad animare il dibattito attorno all’accentramento d’arte nelle capitali napoleoniche.

Caso emblematico delle polemiche che seguono questa politica artistica è quello di Bologna che, pur vantando una consolidata tradizione nel campo dell’arte e una fiorente istituzione culturale come la settecentesca Accademia Clementina, negli anni napoleonici si vede depauperata di molti capolavori locali.

Gli accademici bolognesi assumono immediatamente una posizione forte e decisa, volta a contrastare questa massiccia deportazione e a difendere sia il patrimonio artistico sia il prestigio cittadino, ed è a loro che va ascritto il merito di aver fondato, con le opere a cui evitano l’esportazione, il primo nucleo dell’attuale Pinacoteca nazionale di Bologna. Il generale malcontento e le discussioni relativi alle esportazioni delle opere dei grandi maestri bolognesi dei secoli precedenti infervorano gli accademici bolognesi e suscitano in loro sentimenti ambivalenti: se da un lato sono pervasi dall’amarezza di vedere Bologna relegata a un ruolo provinciale e spogliata del proprio patrimonio artistico, dall’altro l’ufficiale riconoscimento e l’importanza attribuita alla scuola bolognese – massicciamente presente nei due grandi musei di rappresentanza, quello parigino e quello milanese – suscitano in loro una sorta di orgoglio campanilistico.

L’attenzione riservata ai criteri espositivi associati a una serie di incentivi alla pubblica frequentazione costituisce un altro importante aspetto della vicenda museale di età giacobina che contribuisce a identificare la portata innovativa di questi musei rispetto ai loro antecedenti settecenteschi e al contempo rappresenta la prima concezione museale moderna. Sull’esempio del riordino delle collezioni medicee degli Uffizi, eseguito dal letterato e storico dell’arte Luigi Lanzi nel 1775, nei musei napoleonici viene adottato il criterio espositivo filologico “per scuole”, criterio che conosce grande seguito lungo tutto l’Ottocento e viene abbandonato solo verso metà secolo, a favore di quello “per generi”, durante gli allestimenti dei musei d’arte e industria e dei musei scientifici.

I musei di età napoleonica rivelano inoltre una precisa attenzione alle diverse esigenze politico-rappresentative di ogni istituzione museale: i musei locali, come afferma Buzzoni, sono “concepiti come veri e propri ‘pantheon’ delle glorie cittadine”, mentre nei grandi musei di Parigi e Milano ogni scuola artistica dell’Impero viene degnamente rappresentata. Per ciò che riguarda gli incentivi alla frequentazione dei musei va ricordato, ad esempio, che al Musée Central des Arts – fin dalla sua fondazione nel 1793 – vengono organizzate visite guidate settimanali e, oltre a poter acquistare un catalogo a modico prezzo, i dipinti esposti hanno targhette esplicative.

I musei nell’età della Restaurazione

La svolta innovativa dei musei rivoluzionari e napoleonici, come di molti altri aspetti relativi al mondo culturale, è tale da impedire ogni integrale ritorno al passato.

Il principio della pubblica proprietà del patrimonio artistico e l’idea di museo celebrativo del prestigio nazionale o civico si consolidano irreversibilmente, tanto che durante la Restaurazione i sovrani europei cedono le loro collezioni dinastiche alla nazione e in tutte le capitali, in una gara di affermazione politica e di superiorità culturale, vengono inaugurati grandi musei nazionali sul modello del Louvre napoleonico. A ospitare queste ricche collezioni vengono costruiti grandiosi complessi, pensati come templi laici della cultura e del decoro nazionale che architettonicamente si rifanno appunto ai templi classici. Fino a Ottocento inoltrato l’architettura museale manifesta una netta predilezione per lo stile neoclassico; così nelle grandi città europee la fondazione di nuovi musei acquista forti implicazioni anche dal punto di vista architettonico e urbanistico.

In Italia, invece, la maggior parte delle collezioni museali viene allestita in preesistenti edifici di valore storico che tutt’al più vengono riadattati, come nel caso dei Musei Vaticani che tra il 1817 e il 1822 vengono rinnovati e ampliati ad opera di Raffaello Stern e sotto la supervisione di Antonio Canova.

Al tavolo del Congresso di Vienna, nel corso dei tentativi tesi a restaurare l’antico regime, grande attenzione viene dedicata al problema sociale e culturale determinato dalle requisizioni d’arte che erano andate ad arricchire il museo del Louvre.

Viene quindi stabilito il ritorno delle opere alle loro sedi di provenienza, mentre la restaurata monarchia francese – intendendo conservare il prestigio derivato alla cultura nazionale dalla ricchezza del grandioso museo del Louvre – cerca di compensare i vuoti prodotti dalle restituzioni con un’accorta politica, tesa a incentivare le donazioni private e a promuovere campagne di scavi archeologici.

Quello dei lasciti d’arte a musei pubblici è un fenomeno che caratterizza l’intero XIX secolo e non riguarda unicamente le famiglie regnanti: ovunque una moltitudine di collezionisti decide di donare le proprie raccolte ai musei locali già esistenti e spesso grazie alle donazioni se ne istituiscono di nuovi (da una privata donazione del 1824 viene fondata la National Gallery di Londra, primo museo al mondo non nato da una donazione reale).

Alla base di queste donazioni stanno sia valori illuministi di filantropia culturale, sia desideri di autocelebrazione da parte del collezionista. In Italia inoltre, fin dai tempi della creazione delle prime unità museali locali seguite alle soppressioni ecclesiastiche napoleoniche, si è diffusa una sorta di orgoglio municipalistico che il dibattuto problema delle requisizioni e dei trasferimenti di tante opere d’arte contribuisce ad accrescere. Un orgoglio che, associato all’auspicio di legare indissolubilmente il proprio nome a un’azione di alto valore civico e intellettuale, costituisce l’incentivo primario alle donazioni di grandi e piccole raccolte d’arte alle città d’origine.

Musei d’arte e industria e musei industriali

L’Ottocento è stato definito “il secolo dei musei” (Haskell, 1987) e di fatto la presa di coscienza storicista, il culto per il bello e il buon gusto, l’amore positivista per la scienza e per la tecnica e lo slancio industriale creano le condizioni favorevoli alla fioritura della vasta gamma di iniziative museali che si articolano nei vari rami del sapere. Non solo musei d’arte dunque, ma anche musei d’arte e industria, musei industriali, scientifici, etnografici e storici.

Una funzione di rilievo esercitano i musei d’arte e industria, per la diffusione e la loro influenza in ambito sociale e culturale; nati in Inghilterra a metà secolo, conoscono infatti un ampio successo in tutta Europa. Alla base della loro istituzione c’è una precisa esigenza educativa e didattica, volta a recuperare le caratteristiche del museo illuminista: i musei d’arte e industria sono in stretto rapporto con le scuole di arti applicate e si propongono di migliorare il livello qualitativo della produzione industriale degli oggetti d’uso.

Una forte spinta alle creazione di questi musei si ha fin dagli anni Trenta del XIX secolo, quando sorge una fervente polemica contro la crescente espansione industriale che, oltre a sconvolgere il paesaggio urbano con i suoi giganteschi impianti, invade l’ambiente domestico con prodotti volgari. Il dibattito, a cui la stampa dà ampio spazio, coinvolge gli intenditori inglesi, in particolare il giovane architetto Henry Cole e il suo protettore, il principe consorte Alberto, e da più parti si chiede un appropriato insegnamento delle arti applicate e l’istituzione di un museo che fornisca eccellenti modelli alle industrie inglesi. Una forte e decisiva spinta alla creazione di un tale museo viene nel 1851, quando l’Esposizione universale di Londra fornisce l’occasione per constatare la scarsa qualità degli oggetti d’uso prodotti dalle industrie inglesi, specie se confrontati con quelli continentali e orientali. L’anno seguente, su richiesta di Cole – sempre sostenuto dal principe Alberto – viene fondato a Londra il South Kensington Museum (nucleo iniziale del Victoria and Albert Museum) che oltre a un ruolo prevalentemente didattico – in funzione delle scuole di industrial design – assume il compito di affinare il gusto del pubblico attraverso la visione dei migliori esempi di arti applicate del passato e della coeva produzione industriale.

Grazie alle esposizioni universali che si tengono nelle grandi capitali mondiali (nel 1853 è New Yorka organizzarla), l’attenzione alla produzione industriale rimane viva: si diffondono pubblicazioni relative alle arti applicate e, sull’esempio londinese, negli anni Sessanta e Settanta vengono fondati musei d’arte e industria in molte città europee. Numerosi musei di arti applicate, ad esempio, vengono aperti in Italia, tra questi il Regio Museo artistico industriale, fondato a Roma nel 1873 – poi soppresso negli anni Cinquanta del XX secolo – e il Museo nazionale del Bargello di Firenze, nato nel 1865 dal trasferimento dalle opere di scultura e d’arte minore conservate agli Uffizi e da numerose donazioni di oggetti d’arte applicata, pervenute alla città di Firenze in occasione della mostra celebrativa del centenario di Dante.

Spesso i musei d’arte e industria vengono erroneamente definiti musei industriali e viceversa, dimenticando che si tratta di due tipologie museali assai diverse tra loro. Con due formule che ancora oggi risultano efficaci, nel 1873 Codazza parla di “arte applicata all’industria”, riferendosi ai musei d’arte e industria, e di “scienza applicata all’industria”, per i musei industriali. I musei d’arte e industria, infatti, raccolgono ed espongono oggetti artistici di produzione sia artigianale che industriale, mentre i musei industriali espongono prevalentemente strumenti tecnico-scientifici e macchine. Queste due tipologie museali sembrano accomunate solo da finalità didattiche, ma anche in questo caso si rapportano a due diversi rami del sapere: i musei d’arte e industria sorgono in funzione delle scuole di industrial design, mentre i musei industriali sono in stretto rapporto con le scuole professionali e tecniche.

Il prototipo dei musei industriali è il Conservatoire des Arts et Métiers, fondato a Parigi nel 1794, in anni in cui la Francia è particolarmente interessata a promuovere lo sviluppo dell’industria moderna attraverso i metodi educativi suggeriti dall’imperante cultura illuminista.

Nel corso del secolo il Conservatoire si arricchisce continuamente, grazie soprattutto agli inventori e alle industrie che donano i loro prodotti. Tutti gli sviluppi della scienza e della tecnica vi sono rappresentati: dalla ferrovia all’automobile e all’aereo, e dalla fotografia alla cinematografia, per ricordarne solo alcuni.

Tra i musei industriali fondati in Italia, nel 1862 a Torino viene inaugurato il Museo industriale italiano, finalizzato soprattutto a valorizzare l’indirizzo didattico degli istituti tecnici, in quegli anni oggetto di una riforma che li caratterizza maggiormente rispetto alle scuole di indirizzo umanistico.

I musei italiani in età postunitaria

La funzione didattica, che in Italia ha accompagnato l’istituzione museale fin dalla sua nascita, nel secondo Ottocento è presente soprattutto nei musei tecnico-scientifici, mentre il museo d’arte da luogo di rappresentanza e di studio – quale viene concepito nel XVIII e nella prima metà del XIX secolo – diviene prevalentemente una luogo di romantica contemplazione e di turismo raffinato.

In Italia, così come nel resto d’Europa, i musei aumentano numericamente e allargano il loro campo d’azione. Oltre ai musei industriali e i musei di arte e industria, infatti, in numerose città italiane nascono i musei storici (soprattutto del Risorgimento), i musei di storia naturale, che comprendono prevalentemente collezioni di mineralogia, geologia, botanica, zoologia e paleontologia (il maggior esempio italiano è costituito dal Museo civico di storia naturale di Milano), ma anche i musei archeologici, pedagogici, etnografici, psichiatrici e di antropologia criminale.

Nell’Italia postunitaria, accanto alla straordinaria fioritura di istituzioni derivate e collegate ai più differenti ambiti del sapere, anche i tradizionali musei d’arte acquisiscono un ruolo di primario rilievo e si pongono all’interno di una più vasta polemica politico-amministrativa. Fin dai primi anni Sessanta si apre infatti un dibattito tra i sostenitori di un decentramento amministrativo che distribuisca compiti e ruoli a province e comuni e coloro che, al contrario, intendono promuovere un sempre maggiore coordinamento centrale, finalizzato alla creazione di uno Stato forte e competitivo a livello europeo.

Anche le istituzioni culturali, e in specie i musei, sono direttamente coinvolte e le loro vicende riflettono queste posizioni antitetiche. La maggior parte della rete museale italiana è formata da musei civici strettamente collegati al territorio che li ospita e dotati di una sostanziale autonomia, ma già nel 1862 a Torino sul modello dei musei europei viene fondato il Museo industriale italiano, il primo grande museo nazionale che rivela le aspirazioni italiane a creare uno stato industrializzato e prestigioso.

Nella seconda metà dell’Ottocento, la storica funzione educativa dei musei civici – strettamente legata alle accademie di belle arti – si esaurisce definitivamente, per assumere un ruolo meramente conservativo. Le accademie peraltro vivono una fase declinante, in cui gli insegnamenti di arte pura vengono disertati e l’interesse dei giovani si concentra sugli insegnamenti delle arti applicate all’industria.

Alla fioritura dei musei locali concorrono le donazioni, più che mai numerose, che vanno a incrementare le strutture museali già esistenti e sovente a crearne di nuove. Tipica di questi anni e del loro clima culturale è infatti la casa-museo, e cioè la donazione inalterata di casa, opere d’arte, arredo e suppellettili, che finisce col diventare un monumento al gusto e alle scelte artistiche del donatore. Fra i numerosi esempi di case-museo del XIX secolo in Italia, il Museo Revoltella di Trieste (1869) e il Museo Poldi Pezzoli di Milano (1881), ma anche – a conferma del radicato gusto di marca ottocentesca in Italia – le importanti case-museo di inoltrato XX secolo, come il Museo Pepoli di Trapani del 1908 e il Museo napoleonico, fondato a Roma nel 1927 dal conte Giuseppe Primoli, discendente dei Bonaparte.

Non sono solo i lasciti, comunque, a incrementare il patrimonio dei musei locali in questi anni; il museo si pone infatti come una sorta di raccoglitore per il patrimonio che, a diversi livelli storici, caratterizza il territorio. Vi trovano ricovero i più svariati materiali: portali, capitelli, lapidi, ceramiche e marmi, sopravvissuti alle demolizioni attuate dai primi piani regolatori delle città, così come i reperti archeologici frutto delle numerose campagne di scavo che vengono finanziate da privati amatori o da istituzioni pubbliche (nel 1863, ad esempio, lo stesso Museo civico di Modena promuove una campagna di scavi).

La funzione conservativa dei musei civici italiani raggiunge il suo momento più significativo, e insieme più inquietante, negli anni seguenti l’approvazione della legge del 1866 che decreta la soppressione di molte congregazioni religiose e la devoluzione dei relativi beni a musei e biblioteche locali. Questa legge, ricalcata sulla precedente di età napoleonica, conosce in realtà una diversa e più triste applicazione: molte opere prelevate dalle loro originarie sedi non vengono mai trasferite nei musei a cui sono state destinate, ma vengono immesse illegalmente nel mercato antiquario dalle stesse amministrazioni comunali “per raggranellare, in tempi di lesina, qualche lira”, come scrive nel 1906 il ministro Orlando, facendo il punto della situazione.

Attorno al 1870 sulla scena politica italiana, assillata dal problema del bilancio, prevale definitivamente l’orientamento centralizzante che progressivamente sottrae autonomia alle istituzioni locali. I musei civici vengono lasciati in stato di sostanziale abbandono e in alcuni casi vengono spogliati delle loro opere per creare prestigiosi musei romani, finalizzati a promuovere internazionalmente un’immagine di rinnovato prestigio culturale italiano. Così il ministro alla pubblica istruzione Ruggero Bonghi, a dispetto della generale disapprovazione espressa ampiamente anche dalla stampa, impone a molti musei civici la parziale cessione dei materiali appartenenti alle loro collezioni da destinare alla fondazione del Museo etnografico Pigorini di Roma.

L’indirizzo culturale assunto dal giovane Stato italiano in merito al ricco patrimonio museale culmina – in un’ondata di polemiche che vede protagonisti i maggiori rappresentanti della cultura storico-artistica – con l’istituzione, nel 1875, del biglietto d’ingresso ai musei. Il fine è quello di rendere autonoma la gestione delle istituzioni museali, ma in realtà ciò contribuisce ad associare il museo italiano, già in gran parte destituito delle sue primarie funzioni educativa e conservativa, a un’immagine di sterile cultura a pagamento.

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