Il discorso etnologico e le "tradizioni" africane

Il Mondo dell'Archeologia (2005)

Il discorso etnologico e le "tradizioni" africane

Gaetano Ciarcia

Tradizione e tradizionalismo

Attraverso l'esperienza della dominazione coloniale e in seguito ai processi detti "di decolonizzazione", le società e i contesti non industrializzati sono divenuti luoghi simbolici e concreti di una risemantizzazione di alcune delle loro forme mitico-rituali, nonché oggetti ritenuti in grado di poter evocare e mettere in scena il proprio passato. Rispetto a questo movimento planetario di istituzionalizzazione patrimoniale e di teatralizzazione museale della cultura tradizionale, il continente africano costituisce un'entità emblematica dei discorsi su un passato perduto o di una sua paradossale perpetua estinzione all'opera nella costruzione dell'alterità e dell'altrove esotici come figure dell'immaginario attraverso le quali la modernità occidentale ha potuto definirsi.

Secondo il filosofo É. Weil il tradimento operato nei confronti della tradizione è l'espressione stessa della sua manifestazione antropologica. Dal momento in cui si decide di seguire la tradizione, le si è infedeli, poiché si scelgono determinati elementi isolabili che la rappresentano e la spettacolarizzano, mentre altri sono tralasciati, assorbiti dal divenire delle cose. La selettività, come principio organizzatore della tradizione, che si trasforma in discorso, nega, tradisce quello che rivendica. In questo spazio critico fa la sua apparizione il tradizionalismo, che, secondo Weil, è una teoria dell'azione, come coscienza di una forza autentica originaria. Il tradizionalismo implicherebbe una sorta di auto-etnologia comparativa, dove la relazione con l'alterità è il perno intorno al quale ruota la scelta di mantenere in vita, quindi di valorizzare, la memoria di un passato idealizzato. La tradizione consisterebbe nell'obbedienza acritica verso le regole sottese alla propria "forma di vita", mentre il tradizionalismo, per Weil, è un'elaborazione volontaria, nella quale si verifica il passaggio cruciale in cui si afferma un'appartenenza originale e (ci) si informa a proposito della propria specificità culturale, quindi della propria identità rispetto alle rappresentazioni socialmente condivise dello straniero e dell'estraneità. Il tradizionalista sarebbe costretto, in ogni caso, ad ammettere la degradazione dell'autenticità originaria: se non si fosse verificato un allontanamento dai costumi atavici, la sua presenza e la sua azione non avrebbero ragione di essere. La dimensione del tradizionalismo si misura, quindi, anche con la sua efficacia politica. La sua capacità di intervenire sui mutamenti in corso, imponendo una disciplina regressiva agli eventi, si manifesta mediante la selezione e la metamorfosi di alcuni aspetti valorizzati del passato, i quali sono chiamati a esprimere, allo stesso tempo, la forza imprescindibile delle trasformazioni in atto e la fede in alcune prerogative ancestrali. L'autorità di legittimazione di questi valori può divenire l'oggetto dello scontro fra gli attori sociali che si contendono la possibilità di occupare i luoghi da dove è possibile enunciare una verità sulla pretesa essenza o concretezza di tradizione.

La riflessione di Weil ha avuto nell'ambito del dibattito antropologico una notevole risonanza, parallelamente a quella del filosofo-antropologo africanista J. Pouillon. Interrogandosi sui processi di trasmissione e di ricostruzione della tradizione, Pouillon propone un'analisi del percorso che conduce dal presente al passato, al cui termine ogni possibile definizione della tradizione va accettata sotto beneficio d'inventario. Il mito, la religione, nonché la tradizione, intesi come sistemi simbolici veicolanti il senso del mondo, si situerebbero in una dimensione dove credenze e conoscenze si intrecciano e rispetto alla quale possono scindersi solo attraverso l'artificio culturale. Questa modalità "fraudolenta" avrebbe un carattere immanente alle forme che i detentori di un'autorità discorsiva immaginano e costruiscono per la realtà di un patrimonio culturale. Siamo al centro di quella dinamica della "invenzione della tradizione", come essa è stata pensata nei lavori, ormai classici, di E. Hobsbawm e T. Ranger. Nella ricostruzione dei diversi casi storico-antropologici svolta da Hobsbawm e Ranger a essere smontata come "illusione" culturale è l'invenzione ufficiale di tradizioni autentiche. I due autori, osservando le messe in scena di alcuni contesti rituali, oggetto delle loro ricerche, riflettono sulle relazioni fra un preteso principio di invariabilità e le sue formalizzazioni moderne. La tradizione, quando si presenta come tale, sarebbe sempre l'attualizzazione di determinati aspetti e di contenuti che gli attori sociali scelgono di fare interagire. Ma quest'ipotesi argomentativa non appare scevra di ambiguità: lo stesso Ranger ha "rivisitato", in seguito, il senso del lavoro svolto con Hobsbawm, apportandovi modifiche e critiche decisive. Rinvenendo il pericolo di un dualismo essenzialista nella scissione fra custom e tradition, Ranger sfuma l'enfasi sulla nozione di invenzione. Secondo la sua nuova prospettiva, le relazioni dinamiche che si sviluppano intorno all'affermazione di tradizioni moderne vanno comprese anche attraverso l'analisi dei processi in grado di determinare nuove forme di assorbimento culturale dei mutamenti in atto. La fluidità dei costumi ("pre-coloniali") non sarebbe stata bloccata dall'invenzione del folklore moderno, ma parteciperebbe alla costruzione dello stesso.

Nella sua analisi delle società "post-tradizionali" centrata sui processi di ricostruzione della tradizione, S.N. Eisenstadt ha rilevato come, all'interno della differenziazione fra modernità e tradizione, esista una continuità di significati, la quale indica il rilievo sociopolitico della distinzione. Dove la modernità indebolirebbe le logiche del passato, nonché la loro sacralità, si verificherebbe una creazione costante, che finisce, in definitiva, per legittimare un ordine. La perifericità della tradizione, rispetto alla centralità propulsiva e innovatrice della modernità, risorgerebbe quindi continuamente come riferimento imprenscindibile all'interno del contesto egemonico che apparentemente la nega, ma, in effetti, la riorganizza. Ovviamente, questa dinamica è orientata in maniera decisiva dalla capacità dei gruppi "tradizionali" di resistere adeguandosi al potere dei centri intorno ai quali si struttura la modernità dell'eredità culturale. Lo sviluppo di un "ordine moderno post-tradizionale" parteciperebbe all'articolazione, nonché allo stratificarsi, di modelli e codici attraverso i quali la modernizzazione è vissuta dagli attori sociali come un processo che implica strategie e obiettivi. Riprendendo la distinzione fra tradizione e tradizionalismo, Eisenstadt rimarca in quest'ultimo la presenza di un'attitudine ideologica che dissimula la pretesa di porre le basi per la formalizzazione simbolica della tradizione. La sua analisi è centrata sullo spazio politico che il tradizionalismo segnala come ambito di una lotta per la gestione delle risorse economiche e simboliche alle quali la tradizione fornisce l'aura di una legittimità istituzionale e pervasiva.

Le riflessioni di Weil, Pouillon, Eisenstadt, Hobsbawm e Ranger sembrano indicare un'ambivalenza, la quale, in effetti, costituisce uno dei nodi problematici maggiori della questione: l'intreccio fra due dimensioni della tradizione ‒ una "inventata" e l'altra che dovrebbe esprimere un'eredità ancestrale ‒ e il loro reciproco divenire. All'interno di questo dibattito teorico, la letteratura etnologica africanista è spesso evocata come un riferimento scientifico cruciale. In effetti, per quanto concerne alcune situazioni etnologiche del continente africano, la ricerca scientifica, nonché le pratiche militari, turistiche e patrimoniali a essa precedenti, contemporanee e successive, indicano le trasformazioni di un ordine post-tradizionale e possono essere l'oggetto di contese discorsive. Le critiche, come le adesioni, alla tradizione erudita impregnano un campo politico dove le memorie individuali e collettive interpretano il divenire degli eventi, degli equilibri e delle posizioni occupate dai diversi interlocutori. In questo senso, come vedremo successivamente, l'etnologia sembra avere fornito alcune garanzie erudite per l'elaborazione, in situ, di pratiche tradizionalizzatrici e di patrimoni culturali.

L’oggetto esotico, oggetto feticcio

Al di là delle ricostruzioni cronologiche miranti a stabilire le origini e le modalità della loro diffusione nei paesi coloniali e industrializzati, appare difficile isolare la ricezione estetica e il trattamento scientifico degli oggetti africani da quel fenomeno complesso costituito dalla relazione fra il primitivismo e l'arte moderna. La presenza e la ricerca di una dimensione simultaneamente fondatrice e rigeneratrice sono state in effetti cruciali per il divenire delle diverse sensibilità creatrici che si definivano e si esprimevano attraverso l'ibridazione fra forme plastiche "lontane" e la loro trasformazione risolutamente contemporanea. L'esotismo africano si inserisce quindi all'interno di una tradizione alla quale appartengono anche figure e correnti artistiche distanti dall'evocazione geografica del continente in questione.

Volendo limitare la nostra analisi al XX secolo, possiamo affermare che dalla morte di P. Gauguin, nel 1903, ai giorni nostri, la suggestione emanante dal primitivismo sugli artisti contemporanei ha inglobato e alterato gli elementi dell'ispirazione artistica occidentale e ha mescolato contributi e riferimenti provenienti da contesti antropologici e storici alquanto diversi. Inoltre, si tratta di uno spazio discorsivo dove assistiamo all'intrecciarsi e al confondersi di registri e di campi del sapere in principio distinti, quali quelli costituiti dalle avanguardie, dai musei e dalle tribune accademiche, ma anche dal pubblico delle esposizioni coloniali e più recentemente dall'organizzazione di circuiti di turismo culturale. In questo capitolo ci limiteremo a prendere in esame alcuni movimenti artistici e intellettuali che hanno introdotto in Europa una ripresa di motivi e di suggestioni "africane".

Seguendo la ricostruzione storica proposta dal saggio di A.M. Iacono, Le fétichisme. Histoire d'un concept (1992), possiamo indicare nell'invenzione del termine di "feticcio", nozione forgiata dagli esploratori portoghesi della costa guineana nel corso del XV secolo, un momento decisivo per comprendere le origini che hanno connotato la percezione e l'immaginario europeocentrici di un'alterità "tradizionale" africana. L'etichetta, fittizia per definizione, di feitiço, è servita a identificare sistemi di credenze dove la qualità "vivente" degli oggetti adibiti a pratiche mitico-rituali esprimeva una metafisica primitiva governata da una partecipazione immanente degli individui agli avvenimenti della realtà e ai fenomeni naturali. L'oggetto africano, in quanto feticcio, è stato pensato ab origine, quindi, come un oggetto selvaggio, testimone di un ritardo razionale sulla scala evoluzionistica del progresso poiché esso esprimerebbe presso i suoi possessori indigeni un culto religioso primordiale (de Brosses) o una "sopravvivenza" (Tylor). Per quanto riguarda la storia del pensiero etnologico, queste concettualizzazioni sono state definitivamente smentite da M. Mauss, che in un testo apparso ne L'année sociologique nel 1907 scorgeva nel termine "feticcio" il risultato di un "immenso malinteso" fra due civilizzazioni, l'europea e l'africana, nonché un "errore, forse necessario" per la costituzione di una scienza delle religioni e delle religioni africane, in particolare.

Contemporaneamente alla decostruzione etnologica dell'oggetto feticcio africano, dai primi anni del XX secolo le avanguardie artistiche europee sono caratterizzate dall'avvento di quella che è stata denominata la crise nègre. Come ha ben mostrato M. Leiris, con questa formula, in voga nel campo delle arti plastiche, si è voluto sintetizzare quel vasto e variegato movimento pittorico e sculturale attraverso il quale la rappresentazione naturalista delle immagini è stata messa in discussione da nuove forme di espressione, che unitamente alle ricerche inaugurate dal dadaismo e dal cubismo hanno permesso l'emergere dell'espressionismo tedesco, del futurismo italiano, del surrealismo francese. Queste nuove correnti aspiravano alla realizzazione di atteggiamenti intellettuali libertari e/o innovatori, sovente in opposizione fra loro, i quali dovevano produrre un'emancipazione dai criteri ordinari della rappresentazione e tendevano a un'arte dove l'articolarsi delle forme, dei colori e delle tematiche invitava lo sguardo a inoltrarsi in significazioni antropologiche altre o insolite. L'allargamento delle prospettive estetiche può essere analizzato storicamente anche come l'effetto di una nuova fruizione intellettuale dell'objet nègre, il quale diviene un oggetto significativo di una krisis, cioè di una rottura che l'artista/collezionista/amatore occidentale esprime in contrasto non solo con le tradizioni figurative classiche ma anche con i canoni esistenziali, ritenuti conformistici, diffusi nella propria società. Questa crisi produce una nuova lettura dell'oggetto africano, quale modello formale e fonte emotiva di riferimento, e accompagna la sua promozione come opera di un'arte primordiale.

Il merito di avere rivelato quest'arte spetterebbe a M. de Vlaminck, che, secondo la sua stessa testimonianza, nel 1905, in un bistrot ad Argenteuil, alla periferia di Parigi, avrebbe scorto due statuette provenienti dal Dahomey e una dalla Costa d'Avorio, che innescano la sua passione per queste produzioni, passione alla quale furono ben presto accomunati altri esponenti dell'avanguardia artistica parigina dell'epoca, fra i quali possiamo ricordare P. Picasso, nonché A. Derain e H. Matisse, conosciuti anche come esponenti del gruppo de Les Fauves. Alla stessa epoca, ritroviamo, sebbene con differenze di rilievo, queste tendenze emotive e intellettuali ‒ relative a un'evocazione dell'arte africana come modello astratto di orientamento ‒ dispiegarsi in movimenti artistici, generalmente definiti come espressionisti, sviluppatisi in Germania, quali Die Brücke (Il Ponte), animato fra gli altri da E. Nolde, M. Pechstein, E.L. Kirchner, a Dresda, e Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro) a Monaco di Baviera, i cui teorici furono W. Kandinsky e F. Marc, autori di un manifesto, Der Blaue Reiter, pubblicato nel 1912, nel quale enunciavano il loro programma. Secondo l'analisi proposta dallo storico dell'arte americano R. Goldwater, nel suo fondamentale testo Primitivism in Modern Painting (1966), la credenza in un animismo simbolico strutturante la coscienza dei "popoli primitivi" avrebbe fondato il processo di interiorizzazione e di espansione affettiva degli elementi primitivisti avviata dai pittori de Der Blaue Reiter. Provvisti di conoscenze più approfondite delle arti esotiche e lontane rispetto a quelle condivise all'interno de Die Brücke, il gruppo di Monaco tentava di associare la ricerca dei fondamentali umani con una ricerca degli aspetti di un'arte che fosse caratterizzata dalla ricerca di corrispondenze universali. Si sarebbe trattato quindi di un approfondimento intellettuale, rispetto alla "violenza primitivista" presente anche nel fauvisme. Per quanto riguarda i membri de Die Brücke, sarebbe stata la visita di Kirchner al Museo Etnografico di Dresda nel 1904 ad aver inaugurato la loro scoperta dell'arte originaria dall'Africa e dall'Oceania. L'arte africana era sentita come espressione di forze invisibili che sembravano dover guidare anche la comprensione intuitiva degli obiettivi che essi attribuivano, o piuttosto ricercavano nella loro arte.

Qualche anno più tardi, nel 1907, Kandinsky fu impressionato dagli oggetti africani ammirati al Museo Etnografico di Berlino, mentre nel 1911 fu Marc a subire una sorta di rivelazione nel corso di un suo studio delle sculture africane e del Perù precolombiano. Se in precedenza, dopo un viaggio nella provincia russa di Vologda, Kandinsky aveva sostenuto che "l'etnografia era un'arte come una scienza", Marc in una lettera indirizzata ad A. Macke si dichiarava convinto della necessità per gli artisti europei di nutrire le loro idee e i loro ideali "di cavallette e di miele selvaggio, non di storia […]". Tali affermazioni perentorie sembrano ben illustrare la fascinazione procurata dal contatto, che si voleva al contempo affettivo ed erudito, stabilito da questi artisti con le regioni esotiche dei loro viaggi reali o fantastici. In questo senso, sarebbe possibile disegnare una sorta di cartografia dei continenti che, nel corso dei primi decenni del secolo scorso, a epoche diverse, hanno svolto un ruolo di catalizzatori dell'immaginario in seno ai diversi movimenti intellettuali. Se ad esempio i surrealisti, nella loro ricerca "pre-razionalista" dell'arte primitiva, furono più attirati dagli oggetti provenienti dalla Melanesia e dalla costa nord-occidentale dell'America, sappiamo che la scultura africana aveva esercitato un'influenza durevole sugli stili e le tecniche che da Matisse in poi, passando per il cubismo e le opere più estetizzanti di C. Brancusi e di A. Modigliani, riconobbero nelle creazioni africane alcune importanti analogie. La carta geografica pubblicata nel 1929, nella rivista belga Variétés, "Le Monde au temps des surréalistes", è un esempio significativo di quest'annessione simbolica del mondo praticata dalle avanguardie. Il surrealista Man Ray aveva fornito un'immagine elegante e (auto)ironica di una tale appropriazione con la fotografia Noire et Blanche (1926), dove il ritratto di una donna bianca era associato a una maschera "nera".

Sviluppando le tesi di Goldwater, possiamo scorgere nel primitivismo pittorico e sculturale una tendenza metaforica che utilizza come riferimento l'arte "primitiva" di popoli appartenenti a società non industrializzate. Se gli artisti e/o gli artigiani che Goldwater definisce come "aborigeni" instaurano una relazione di identificazione fra l'efficacia rituale dell'oggetto che essi creano e il contesto delle credenze all'interno del quale essi operano, l'artista primitivista moderno vede nelle forme che egli elabora a partire da suggestioni esotiche un riferimento simbolico la cui portata e la cui ricezione dovrebbero trascendere l'ambito della sua ispirazione. D'altronde, la stessa accezione di "primitivismo" si presta a una confusione interpretativa; nella storia dell'arte, come ha sottolineato C. Rhodes, il termine "primitivo" viene generalmente attribuito a personalità in rottura con una tradizione passata, le quali hanno posto le basi per un nuovo stile artistico. Appare evidente che questo significato non è in grado di spiegare né lo statuto di "primitivo" che si attribuisce all'artista/artigiano operante in società considerate come primitive, né l'appropriazione "primitivista" attraverso la quale gli artisti occidentali hanno lavorato sulle supposte qualità ancestrali che essi scorgevano negli oggetti "tribali". Provenienti da contesti considerati come luoghi di una relazione ‒ remota, selvaggia, istintiva o arcaica ‒ con la dimensione sacrale dell'esistente, tali artefatti erano percepiti dagli artisti europei come dotati di un carattere moderno e quindi di una sorta di affinità elettiva fra ambiti culturali separati da una distanza spaziale. Questa attrazione aveva un contrappunto decisivo nella loro sostanziale ignoranza del contesto storico e sociale, nonché del senso e della funzione degli artefatti "autoctoni" adottati come riferimento.

Un tale scarto conoscitivo poteva essere considerato fecondo poiché veicolante una metacomunicazione fra l'hic et nunc dell'ispirazione creativa e l'altrove esotico, mitico o mitizzato. In realtà, quest'appropriazione formale avveniva secondo processi di ibridazione molto più complessi, all'interno dei quali entravano in gioco fonti e materiali di riferimento alquanto eterocliti. In un'opera cruciale come Demoiselles d'Avignon di Picasso è possibile definire un'eterogeneità di matrici stilistiche emblematica degli apporti variegati che hanno prodotto le affinità, le analogie, ma anche le idiosincrasie, attive nella relazione fra l'arte contemporanea, il primitivismo e il primitivismo africano in particolare. C. Ginzburg, nel suo saggio Oltre l'esotismo: Picasso e Warburg, ha fornito interessanti ipotesi relative alla comprensione della genesi di un quadro come Demoiselles d'Avignon (1907). Seguendo la cospicua bibliografia sull'argomento, lo storico italiano analizza le origini iconografiche del dipinto, fra le quali le figure Tipi di donne africane presenti nella fotografia coloniale di E. Fortier riprodotte nelle cartoline postali che lo stesso Picasso possedeva in gran numero, le quali sono state descritte e interpretate da A. Baldassari, direttrice del Musée Picasso di Parigi, nel catalogo Le miroir noir. Picasso, Sources photographiques 1900-1928 (1997). A questo proposito, Ginzburg si interroga: "Ma che cosa vuol dire esattamente, in questo contesto, 'fonte africana'? e se questa è una 'fonte', fino a che punto è lecito definirla 'africana'?". Un regime di continuità formali fra altre opere di Picasso e le suggestioni emananti da "fonti" quali la Prigione morente di Michelangelo, Il bagno turco di Ingres, La fucina dei fratelli Le Nain, la fotografia La famiglia Soler, il fregio del Partenone raffigurante alcuni portatori d'acqua, il Pescatore africano (già noto come Ritratto di Seneca morente), una fotografia dell'amico e vicino di casa di Picasso, lo scrittore A. Salmon, una maschera Pende proveniente dallo Zaire, è evidente. Ma, la questione dell'influenza "africana" sul dipinto in questione non può essere letta che alla luce di un'alterazione radicale dei modelli originari, fra i quali ci sono anche i modelli esotici. In questo senso, Ginzburg fa riferimento ai "rapporti di forza" relativi agli equilibri coloniali che impregnavano l'epoca e che sono manifesti nelle fotografie di Fortier, considerate da Baldassari come elementi dai quali il pittore spagnolo avrebbe tratto spunto.

Nel campo di gravitazione definito dalle avanguardie intellettuali europee fra le due guerre mondiali, la traiettoria dello scrittore ed etnologo francese M. Leiris è significativa degli scambi inerenti alle relazioni fra etnologia e africanismo, dei quali la rivista francese Documents fu un contesto cruciale. Alla vigilia della sua partenza con la missione etnografica e linguistica Dakar-Gibuti (1931-33) diretta da M. Griaule, nel testo L'oeil de l'ethnographe, nel 1931 in Documents, Leiris afferma di essere giunto all'etnologia attraverso l'arte negra. La storia di questa pubblicazione, intrapresa nell'aprile del 1929 in un clima di dissidenza e distanza critica rispetto al surrealismo, fu scandita, nell'arco di due anni, da numerose difficoltà di ordine finanziario e organizzativo. Dalla storia del surrealismo si evince come esso sia stato più incisivo come spazio di idee e di impulsi che come movimento organizzato. Nella sua seconda forma è stato attraversato da un numero indefinito di fratture e separazioni, che hanno rivelato la fragilità della sua base ideologica, ma, allo stesso tempo, hanno messo in luce l'eclettismo dei suoi contenuti. Da questa condizione trae origine il paradosso relativo al continuo disperdersi delle sue numerose anime e correnti, che si è tramutato nella tendenza, particolarmente fluida, di penetrare nelle coscienze più diverse. Dalla presa di distanza, nel 1922, dal suo centro generatore, rappresentato dal dadaismo di T. Tzara all'ingresso nel movimento di S. Dalì e L. Buñuel, si assiste a una serie di crisi, segnata, però, da una variegata continuità, che ha interessato tutta l'avanguardia culturale di quel periodo. Insieme ad alcuni transfughi del surrealismo, collaborarono in Documents eminenti eruditi. L'incontro di personalità così differenti corrispondeva a quella ricerca dell'incongruo, dell'esotico, dell'impossibile, che G. Bataille, il segretario generale della pubblicazione, intendeva promuovere. Da quest'attitudine procede lo sguardo composito sulla modernità che Documents proponeva. Percorrendo disordinatamente il presente, avvalendosi di contributi tra i più vari, la rivista intendeva "documentare" l'esplorazione del reale e dei suoi oggetti-feticcio. La sua matrice antropologica non era legata al ruolo specifico della disciplina: l'intrecciarsi del registro erudito con l'entusiasmo per l'art nègre, l'esoterismo, le musiche extraeuropee, oltre a un'utilizzazione parossistica delle immagini fotografiche, contribuivano a conferirle i caratteri di un viaggio, sospeso tra scienza, estro e follia, nella percezione delle alterità endogene ed esotiche.

Dall'analisi degli articoli che in Documents costituiscono la parte più propriamente specialistica dedicata all'etnologia, emergono alcuni elementi che segnano due passaggi cruciali dell'etnologia francese tra le due guerre: un rinnovato progetto museografico e la progressiva importanza acquisita dalla nozione del terreno etnografico, non più delegato a eruditi amatori (missionari, militari, funzionari coloniali) ma affidato a professionisti formati in Francia. Per quanto riguarda la questione relativa alla museologia e ai suoi riflessi nella rivista, i contributi di P. Rivet e G.-H. Rivière, rispettivamente direttore e vice-direttore del Museo di Etnografia del Trocadero, insistevano sull'intenzione di distinguere la museologia da una prospettiva estetizzante, a favore di una tendenza più rigorosa nella raccolta e nell'esposizione di oggetti di rilievo etnografico e archeologico. Il museo era inteso come un laboratorio di ricerca, cioè come un trampolino per la conoscenza antropologica. Secondo gli insegnamenti di Mauss, essi "totalizzavano" il manufatto con il fine intrinseco di "far parlare" l'oggetto esotico, in quanto espressione materiale di una civiltà, e di sottrarlo quindi a canoni estetici imponderabili. Trasformati in testimoni di una cultura; questo processo implicava, come ha sottolineato lo stesso Jamin, che gli oggetti fossero tra loro equipollenti, ovvero dotati di un grado pressoché identico di rappresentatività e soprattutto di significazione. Era il valore d'uso, in quest'attitudine etno-museografica, ad acquistare una preminenza decisiva. Il riconoscimento del "valore d'uso" dell'oggetto si opponeva quindi all'estetismo primitivista e alla ricerca spasmodica della sauvagerie, ma, come ha sottolineato Jamin, all'interno di una visione più esegetica che analitica dell'Altro. Il progetto di Rivière e Rivet era rivolto secondo Jamin a tecnologizzare la dimensione culturale e a proporre un'immagine meccanicistica, funzionalista delle culture esotiche. Si finiva, quindi, per ignorare l'individualità dell'artista o dell'artigiano, il cui prodotto era esposto come l'espressione di una unanimità culturale della quale l'oggetto era il testimone muto e il creatore l'artigiano anonimo e indistinto. Questa nuova museografia, che i responsabili del Trocadero sollecitavano anche attraverso i loro contributi a Documents, era sostenuta da una condizione metodologica, che era la reale novità dell'etnografia francese degli anni Trenta: l'approfondimento e l'intensificazione dei terreni esotici di ricerca.

J. Clifford ha scorto nella rivista una qualità che egli definisce come "il senso etnografico del relativo". L'antropologo americano ha definito Documents un "museo per ridere" e un "museo perverso", una sorta di mosaico di quelli che erano gli interessi di un'avanguardia culturale alle prese con un gioco di dislocazione del sapere rispetto ai luoghi e ai modi in cui era normalmente trasmesso. Quando gli "oggetti" o i "fatti" erano esposti nella "vetrina" di Documents, si assisteva a un loro cambiamento di statuto. In un tale contesto, il percorso di Leiris è stato emblematico. Prima della sua partenza per l'Africa, il futuro autore de L'Afrique fantôme (1934) non era un etnologo professionista, la sua produzione per Documents rifletteva interessi variegati e un temperamento eclettico, che lo conducevano a spaziare dalla poesia allo studio dell'esoterismo, dall'arte negra alla passione per il jazz e il cinema. In L'oeil de l'ethnographe si confermavano, in effetti, quelle suggestioni esotiche che lo spingevano a partecipare alla Dakar-Gibuti in qualità di segretario-archivista (questa funzione ufficiale lascerà spazio sul terreno alla pratica di etnografo): ricordava il fascino esercitato nella sua infanzia dallo spettacolo teatrale, tratto dall'omonimo romanzo di R. Roussel, Impressions d'Afrique (1911); riproduceva la fiaba di Little Black Sambo, altro ricordo d'infanzia, una sorta di filastrocca che gli sembrava celare il senso profondo di quella ricerca del "meraviglioso" e di quella "ossessione esotica" che lo invitavano al viaggio. Alla visione, tra l'onirico e il letterario, della partenza per l'Africa, vissuta come il compimento di un sogno, Leiris addizionava la ricerca di una catarsi da conquistare nell'altrove, proiezione di una conoscenza totale e ubiqua dell'Altro da sé, ovvero anche di immaginifici altri sé stesso. Procedendo da stimoli (o sintomi) anche di tipo psicologico, che costituivano il sostrato alle sue aspirazioni, Leiris rinveniva nella spedizione etnologica un significato al tempo stesso scientifico e morale.

La museologia, l'etnografia, l'arte primitiva segnavano, come abbiamo visto, alcuni aspetti del collage che Documents produceva, attraverso un effetto di moltiplicazione delle prospettive rispetto alla ordinarietà delle specializzazioni disciplinari. L'interesse per l'esoterismo includeva l'intenzione di documentare l'"impossibilità" che si celava nel quotidiano. L'attrazione per le corrispondenze esistenti tra l'universo e l'individuo, cioè di un macrocosmo riverberantesi in un microcosmo, si articolavano disordinatamente intorno al rapporto di complementarità feticistica attribuito agli oggetti, simulacri artificiosi di una visione primitivista e archetipica del reale. Documents proponeva de facto di sostituire alle astrazioni, con le quali si identificano le cose, una maniera di percepire le medesime "infantile o selvaggia". In questo senso la critica alle banalità delle idées reçues doveva essere illuminata da una spietata ironia e dalla passione per fenomeni artistico-intellettuali come il jazz, l'arte negra, la danza africana, il cinema. Il tentativo di rileggere frammenti del passato e del presente era caratterizzato quindi da un'impostazione trasgressiva, che si rifletteva nell'approccio multidisciplinare, il quale intendeva fornire una varietà di prospettive semantiche rispetto alla medesima espressione. In quest'attitudine il "codice etnologico", individuato da R. Barthes nella rivista, svolgeva un ruolo decisivo: la coscienza di un relativismo interpretativo, nonché dell'esistenza di varianti esotiche, finiva per illustrare sia il tentativo di critica della tradizione eurocentrica, sia una sensibilità mobile rispetto alla realtà, sulla cui osservazione appariva essere determinante una continua rotazione di valori e significati. Il capovolgimento, o meglio il mescolamento di valori, operato dalla rivista, provvedeva a un allargamento etico e intellettuale verso le periferie e i sincretismi della società contemporanea. Se l'autenticità museografica dell'oggetto perdeva la sua trascendenza estetizzante a favore di una prospettiva "tecnologizzante" (Jamin 1985) che si fondava sul suo "valore d'uso" (Hollier 1991), questa inversione di attitudine nei confronti dell'esotico provocava paradossalmente una sua ulteriore spettacolarizzazione ai fini della fruizione per il lettore della rivista. Il gruppo di musicisti e ballerini dei Black Birds, la soubrette J. Baker, il danzatore senegalese Benga Féral, il pugile A. Brown erano tutte figure autentificanti l'immaginario relativo all'incontro tra una espressività corporale che discendeva da un'astratta "anima primitiva" e la modernità.

Alcuni decenni più tardi, riflettendo sull'infatuazione di alcuni membri del gruppo di Documents per questi personaggi del mondo dello spettacolo, Leiris ha ricordato che si trattava di un esotismo proveniente dalla civiltà industriale americana e il jazz vi era percepito erroneamente come l'espressione simultanea di questa civiltà e dell'Africa (Jamin - Price 1988). In effetti, Documents produceva, con un certo anticipo rispetto a quelle che sarebbero state mode future, immagini addomesticate di un'alterità, verso la quale indirizzare il sentimento di una perdita. In questa retorica dell'esotico, l'Altro era inventato come estraneo e maneggiabile: J. Baker, ad esempio, incarnava, una diversità plasmata da un contesto moderno e domestico. Il pugile A. Brown era il suo corrispettivo maschile; combatté un match, organizzato da Rivière per finanziare la Missione Dakar-Gibuti, con quattro custodi del Museo del Trocadero disposti agli angoli del ring; in passato lo stesso Rivière aveva organizzato, nello stesso museo, l'"esposizione" della Baker.

La scomparsa di Documents non sancì solo la fine di un approccio "impossibile" alla rappresentazione del reale, ma anche il distanziamento dell'etnologia francese da una prospettiva originale, a favore di un'attitudine che si voleva definitivamente professionale. Minotaure, che apparve nel 1933 e avrebbe proseguito la sua attività fino al 1939, ne raccolse solo parzialmente l'eredità e caratterizzò l'istituzionalizzazione dell'avanguardia surrealista all'interno di una pubblicazione che aveva decisamente smarrito la vena dissacrante di Documents e dove la partecipazione di A. Breton, P. Eluard, M. Duchamp, P. Mabille, M. Heine avrebbe significativamente coinciso con l'assenza di Bataille. Nell'introduzione al primo numero, Minotaure si presentava come espressione di tendenze artistiche moderne e, nello stile di Documents, proponeva l'interazione fra arti plastiche, letteratura, etnografia, musica e psicoanalisi (quest'ultima materia costituiva, in effetti, una novità rispetto alla rivista di Bataille). Con il secondo numero, interamente dedicato al ritorno trionfale della Missione Dakar-Djibouti, le linee di continuità come quelle di rottura fra Minotaure e Documents si evidenziarono.

I testi scritti da Leiris per Documents su A. Giacometti, J. Mirò, H. Arp, testimoniavano di questo percorso intellettuale, all'interno della rivista dove la museologia, l'etnografia, l'arte "primitiva" rispondevano all'intenzione di produrre un effetto di moltiplicazione delle prospettive rispetto alla ordinarietà delle specializzazioni disciplinari. Ma, in quest'ambito dell'incontro fra alta cultura e arte moderna, colui che interpretava in maniera più netta l'interazione tra storia dell'arte africana ed etnologia era lo storico dell'arte C. Einstein. All'epoca, Einstein, tedesco, stabilitosi a Parigi in seguito al montare del nazismo, era conosciuto per aver scritto nel 1915 Negerplastik, un saggio analitico sull'arte africana, al quale nel 1921 fece seguito Afrikanische Plastik; questo secondo lavoro, tradotto in francese, a differenza del primo, prospettava la possibilità di leggere la storia dell'arte africana, utilizzando le lenti dell'etnologia. Nei numerosi articoli che scrisse per Documents, Einstein scisse però due campi di studio: l'arte africana e l'arte occidentale, antica e moderna, con le sue influenze primitivistiche. I lavori dedicati alla prima appaiono caratterizzati da un'attenzione comparativista per l'evoluzione e la diffusione di forme culturali tra aree prossime e/o distanti nello spazio e nel tempo. Mentre quelli relativi agli artisti occidentali sembrano scaturire da un approccio più libero alla materia, è evidente che, in questo caso, Einstein utilizza un linguaggio e categorie proprie della storia dell'arte, che la prospettiva etnologica limita nel caso degli articoli sull'arte africana.

Il primitivismo di artisti come G. Braque o A. Masson è considerato come la manifestazione di una nuova fase, intrisa di richiami "primordiali", nella quale l'Occidente e l'idea stessa di modernità sono entrati. Einstein scorge nel cubismo l'atto di nascita di una nuova arte dissociata dal razionalismo produttivista e pragmatico. In questo senso il primitivismo segna non uno stadio "pre-logico" (secondo l'accezione che i testi del sociologo e filosofo francese L. Lévy-Bruhl sulle "funzioni mentali" dei "popoli primitivi" avevano contribuito a diffondere) dell'arte, bensì la destinazione finale e rivoluzionaria di un processo catartico. Le avanguardie artistiche avrebbero prodotto, per Einstein, una liberazione tettonica e primordiale dalle forme (pre)costituite, umanizzando l'opera d'arte, che sarebbe espressione di una disgiunzione onirica della realtà. Questo impulso, che egli scorge, ad esempio, nel "cubismo-sintetico" di Picasso, intreccerebbe le forme, mediante l'espressione di una semplicità primitiva. A proposito dell'opera di F. Léger, Einstein parla di un "totemismo industriale", che rifletterebbe l'industrializzazione delle forme e dei pensieri, attraverso la quale gli oggetti forgiano e modellano, a loro volta, il proprio creatore. A questo proposito, Rhodes ha sottolineato che l'approccio critico di Einstein confermava la credenza dell'avant-garde nel carattere moderno dell'arte tribale. In effetti, il tema del totemismo permea non solo l'analisi estetico-antropologica di Einstein, ma è un aspetto rilevante dell'immagine all'opera in Documents. Si evince la tensione a un'osmosi allo stesso tempo materialista e panteista tra uomo e universo, un sentimento del divenire in cui un astratto animismo primitivista si fonde con lo stravolgimento feticista dell'oggetto moderno. Nel sovvertimento della rappresentazione di nature morte compiuto da Braque, Einstein osserva l'emanazione di un'energia allucinatoria, che sventra il reale, per rendergli intatta la poesia delle cose. L'arte primitivistica costituirebbe quindi l'atto fondatore di un Uomo nuovo, nel quale l'eco della preistoria e l'attesa del futuro provocano una nuova antropologia del mondo, che sigla il ritorno a quella che, a proposito di Arp, Einstein definisce "l'enfance néolitique". Il tema di un'età dell'oro trascorsa e che l'arte negra scaraventa nel Moderno percorre il progetto a cui Einstein lega parte della sua produzione per Documents. Come egli afferma nel suo articolo su Mirò apparso in Documents, si tratta di esplorare la "semplicità preistorica" per afferrare nel presente come "la fine si ricongiunge con l'inizio".

Sebbene interessato al lirismo dell'arte moderna, Leiris è attratto dalle medesime fonti primitiviste presenti negli studi di Einstein. L'infanzia mitologica da riscoprire, come l'assimilazione panteistica attribuita all'arte "negra", sono temi ricorrenti negli articoli che egli scrive su Documents. Ma, al contrario di Einstein, il quale aspira a una sintesi dotta tra etnologia e storia dell'arte e quindi si eclissa come soggetto-enunciatore, Leiris svolge una riflessione più letteraria, amplificando il proprio sé come centro di percezione della creatività esotica. La dimensione fantastica, che arricchisce poeticamente le sue osservazioni sull'incontro-fusione con l'alterità primordiale, esprime una crisi esistenziale profonda che si vuole al contempo come lo specchio della crisi della razionalità e della modernità europee e una possibilità di salvezza. J.-M. Monnoyer ha segnalato, a giusto titolo, che la "frattura etnologica" come essa si è prodotta nell'arte occidentale "non rileva di una tassonomia la quale separerebbe l'estetica dell'antropologia". Per quest'autore, la scoperta di alcuni oggetti esotici come opere d'arte ha di primo acchito accompagnato la loro trasformazione in documenti scientifici. I criteri che presiedono alla museificazione delle sculture dette "primitive" avrebbero fin dall'inizio mostrato l'impossibilità di isolare in seno all'estetica primitivista la dimensione antropologica. In effetti, paralleli alla scoperta/reinvenzione dell'arte africana, gli studi dell'etnologo tedesco L. Frobenius (1873-1938) sono i testi pionieri dell'attenzione scientifica per l'attività estetica africana. Si tratta di analisi che insistono sulla presenza di una relazione empatica fra l'artista africano e la natura, e quindi su di una partecipazione energetica dell'individuo alla sua cosmogonia. Frobenius considera l'arte africana come il perno creativo di una progressione ermeneutica che accompagna l'uomo africano dall'emozione al mito. Si tratta, ancora una volta, di una concezione del primitivo come uno stadio evolutivo paradossale nel quale si manifesterebbe la presenza di un atavismo. Il primitivo sarebbe quindi il luogo immaginario dell'incontro non temporale dell'alterità e dell'altrove con una epoca remota indefinita, quindi fuori dalla storia. Se questa visione dell'attività creatrice appare ai nostri giorni come decisamente obsoleta e caratterizzata da un riduzionismo di matrice etnocentrica, alcune delle sue ripercussioni metodologiche possono ancora essere determinanti nel trattamento museografico attuale degli oggetti africani quali espressioni creative significative di un'arte tradizionale connotata da una dimensione primordiale.

L’animismo etnologico

In un'epoca nella quale assistiamo a fenomeni di messa in scena e a distanza, da parte delle stesse società precedentemente colonizzate, di un certo numero di oggetti, di pratiche e di saperi, trasformati in segni per l'identificazione individuale e collettiva, possiamo interrogarci sulle matrici politiche della relazione storica fra la creazione delle opere, le pratiche museografiche e commerciali, la circolazione degli oggetti da un contesto all'altro e la loro valorizzazione quali opere di un'arte e di una cultura africane. In questo senso, l'africanismo scientifico e artistico può essere analizzato come una componente cruciale del divenire contemporaneo di tradizioni etnologiche. Riflettere sulle forme di diffusione, ricezione e restituzione che le scienze umane hanno potuto innescare nei luoghi investiti da un'intensa attività di ricerca implica, dunque, un'attenzione per lo stratificarsi progressivo di mitologie esotiche che esprimono la storia, con la sua dimensione politica, dell'osservazione antropologica quale agente di mutamenti culturali. Ma, allo stesso tempo, appare necessario assumere una distanza critica, e dinamica, da un approccio tendente a stabilire una relazione deterministica tra la genesi discorsiva di un'etnia, concepita nei testi scientifici come un insieme tribale astratto e isolato, e la sua attualità patrimoniale. Seguendo questa prospettiva, il Pays Dogon, regione della Repubblica del Mali situata circa 800 km a est della capitale Bamako, può essere considerato un contesto emblematico: dagli inizi del XX secolo fino a oggi, numerose inchieste scientifiche hanno partecipato alla costruzione moderna di quello che potrebbe essere definito l'animismo della tradizione Dogon (Ciarcia 2003). Il termine "animismo" indicherebbe la trasformazione contemporanea dei resti di un sistema di credenze, anteriori all'ascesa del monoteismo musulmano nella regione e alla conquista coloniale francese, in una religione ancestrale detentrice di un mito cosmologico coerente e unitario, nonché di un carattere autentico e originale rispetto alle vicine società islamizzate presenti nell'area geografica dell'ansa del fiume Niger.

A partire dagli inizi del XX secolo, nel corso dei decenni, la raccolta e l'elaborazione dei dati etnografici, associate alla produzione di un'imponente letteratura scientifica e finzionale, hanno contribuito all'istituzionalizzazione patrimoniale e turistica della società Dogon quale cultura animista, "bene dell'umanità" ormai garantito e protetto dal 1989, dall'UNESCO, con la denominazione di Santuario Naturale e Culturale delle Falesie di Bandiagara. In questo luogo di elezione dell'etnologia e della museografia etnografica, l'oggetto Dogon, quale frammento di una civiltà esotica, ha potuto assurgere a segno di una sorta di rivelazione; il complesso mitico-rituale originario è divenuto esso stesso bene culturale, patrimonio dell'umanità. In un tale contesto politico e discorsivo, l'opera scientifica sui Dogon elaborata dalla scuola etnologica francese di M. Griaule, malgrado i dibattiti e le polemiche che l'hanno accompagnata relativi al suo approccio mitopoietico e sostanzialmente esoterico che pretendeva di rivelare le profondità del "pensiero nero", ha potuto essere letta e interpretata come un'arma contro il pregiudizio razziale.

In effetti, la scoperta etnografica della sagacia mitologica "nera" è stata rivendicata, all'epoca della decolonizzazione, da numerosi intellettuali africani, i quali vedevano, o piuttosto credevano, così riconosciuto il valore delle proprie culture di appartenenza. L'etnologo francese ha potuto, in questo modo, essere giudicato come colui che aveva dato una "espressione scritta" alla ricchezza della "anima nera", come appare, ad esempio, in un testo di L. Kesteloot. I Dogon di Griaule hanno finito per rappresentare un esempio favoloso e pedagogico nella storia delle civilizzazioni. Tradizione in pericolo e mito coloniale dapprima, sono divenuti in seguito patrimonio dell'umanità garantito dagli studi etnologici e protetto dall'UNESCO, modello di una politica illuminata nei confronti di coloro che si sono trasformati nella modernità etnico-turistica in antenati simultaneamente mitici e viventi. In questo senso, la logica estetizzante applicata agli oggetti della tradizione africana non è estranea alla storia dell'etnologia, al contrario essa può essere analizzata come una conseguenza della classificazione etnografica delle società e ha aperto la strada a procedure tassonomiche di patrimonializzazione.

La creazione di forme folkloriche di una tradizione che riprende stereotipi fondati sull'autorità del discorso etnologico, o meglio della sua mitizzazione, quali quelli legati alla scoperta di segreti esoterici di una cultura, rappresenta la riconversione, su una più vasta scala, di un'eredità culturale che, decontestualizzata dai luoghi della sua origine enunciativa, serve a legittimare un'originalità tribale ‒ in effetti è possibile declinare lo studio della tradizione etnologica Dogon ad altre situazioni africane ‒, rivendicata a livello nazionale e internazionale. Questa forma di neotradizionalismo, quale modalità costituente una stabilizzazione folklorica del patrimonio etnologico, si esprime essenzialmente in contesti urbani, come nelle capitali dei paesi africani, o nei centri deputati al rilascio di garanzie di autenticità culturale aventi una validità planetaria, come ad esempio Parigi, sede dell'UNESCO. Attraverso la mediazione delle élites locali, essa investe anche i luoghi che sono sottoposti all'intensificazione di un interesse storico-turistico. Merita quindi di essere interrogata l'inferenza fra alcune pratiche dell'esposizione museale e la costituzione contemporanea di spazi patrimoniali "teatrali" all'interno dei quali prendono forma le relazioni, a volte paradossali, inerenti all'affermazione di presupposte essenze culturali concepite dai responsabili africani e internazionali del patrimonio come ambiti di cristallizzazione degli eventi concernenti la storia del continente africano, ma anche come luoghi-risorse per un eventuale sviluppo economico.

Mitologie africaniste

La questione e la critica del senso che occorre attribuire alla trasmissione del sapere tradizionale africano, attraverso la mediazione dell'etnologia, sono state sviluppate da alcuni intellettuali africani, fra i quali il beniniano P.J. Hountondji. Criticando il tentativo compiuto dall'etnologo francese Griaule e dalla sua scuola di costruire, prendendo spunto dalle loro ricerche nel Pays Dogon, l'idea di una filosofia africana, Hountondji scorge una divisione etnologica del lavoro nei processi conoscitivi, di matrice etnologica, miranti a fondare un contrasto tra una pseudo-filosofia africana e il discorso europeo. La disciplina specifica del contesto "occidentale" si manifesterebbe attribuendo alle culture africane come "visione del mondo collettiva, un sistema di credenze spontaneo, implicito ovvero incosciente". Secondo Hountondji questa prospettiva cela la premessa ideologica consistente nell'affermare l'esistenza di un pensiero africano collettivo al cui interno l'individuo non sarebbe mai un pensatore ma un essere che recita la sua propria cultura. A causa della sua immersione completa nella dimensione comunitaria, l'animismo etnologico mostrerebbe, quindi, l'impossibilità dell'emergere dell'individuo e dell'individualità in società che sono considerate come primitive.

Appare interessante ricordare il parallelo che lo storico della Grecia antica M. Detienne, ne L'invention de la mythologie (1981), interessandosi, appunto, all'invenzione della mitologia nell'ambito della cultura greca e svolgendo riferimenti alle mitologie etnologiche, definisce l'attività di scrittura del mito come "logografica". Quando la storia delle origini diviene una mitologia, si presenta quale eredità di un passato immemoriale, ma in realtà è il prodotto della modernità, ovvero della scrittura della storia. In questo senso la mitologia non è un terreno puro, ma, al contrario, nasce e si sviluppa come contesto politico, attraversato da molteplici strategie; la mitologia e la sua invenzione logografica risultano, allora, essere espressione dei conflitti che agitano il presente. L'esotismo del mito appare provvisto del potere di "persuadere, affascinare, incantare" e la sua politica si identificherebbe con un progetto ideologico fondatore: dove "l'incredibile diviene credibile" si attua "il potere di far credere". Può anche accadere, in un tale processo, che "l'incantatore diventi l'incantato": la persona, l'etnologo ad esempio, che ha partecipato alla creazione e alla trasmissione del mito può diventarne una componente.

La particolarità dei Greci consisterebbe nella frontiera culturale con il mondo non-greco, un mondo dell'indistinta barbarie, che, però, è in parte assimilato attraverso la funzione transculturale del mito. Ma la separazione e la mediazione che i Greci stabiliscono con l'alterità esotica persisterebbe anche nel simbolismo etnologico, che esplora le profondità di miti contemporanei alla modernità "occidentale". Riflettendo sulle opere di Frobenius e di Griaule, Detienne affronta la questione delle mitologie africaniste. La loro pretesa iniziazione alla conoscenza mitologica africana mostrerebbe, in effetti, secondo Detienne, un gioco di sovrapposizioni fra l'interprete e l'esegeta; la parola mitologica, che si enuncia nel contesto della ricerca etnografica, assume una natura e un'origine metafisica. La sua trascendenza scaturisce, in realtà, dalla situazione etnologica coloniale e post-coloniale ed è il risultato della conflittualità storica, che fa di essa, come avveniva per i Greci, una mitologia politica. Il sistema cosmogonico finisce per essere assorbito dal mito etnologico, che la pretesa iniziazione comporta. I diversi gradi di una parola esoterica rappresentano una paradossale ultima ratio, dietro la quale l'attività dell'etnologo accede al successo della scoperta o della rivelazione, pur arrendendosi a una ierofania posticcia. La scrittura ri-fonda mitologicamente una sacralità aggiornata alle esigenze degli antropologi sul terreno. Come Detienne sottolinea, si tratta ancora una volta di "cercare la coerenza dietro la sua negazione". Il simbolo finisce per codificare l'ineffabilità e l'autorità dell'esperienza etnografica.

Il riferimento che Griaule, nel testo fondatore della notorietà del mondo Dogon, Dio d'acqua (1948), stabilisce fra le sue ricerche e l'opera di Esiodo sembra riflettere quella imprescindibilità della mitologia greca nella convalida di ogni pensiero mitico, scritto, in cui la scienza occidentale si avvicina e addomestica l'alterità esotica. La memoria indigena, veicolata dall'etnografia, è allora funzione di questo processo di strutturazione di un pensiero frammentario. L'esotismo del mito diventa allora una procedura costitutiva di una politica dell'incontro fra scrittura etnologica e oralità della mitologia "selvaggia". Detienne parla di uno spazio immaginifico pregno della realizzazione favolistica di una razionalità mitica, come di un "continente fantasma", gioco di specchi, di riflessi e di illusioni fra l'osservatore e l'osservato. A questo proposito, J. Clifford si è interessato alle modalità discorsive che hanno contribuito all'edificazione di alcuni miti etnologici, fra i quali quello relativo al Pays Dogon. L'antropologo statunitense mette in evidenza una delle contraddizioni fondamentali in cui resta impigliata la pratica etnologica rispetto alla questione dell'incontro etnografico dove, come egli stesso afferma, si manifesterebbe il sovrapporsi di una finzione di etnografia (la ricerca sul campo come iniziazione) a una finzione etnografica (il sapere iniziatico Dogon). Gli informatori Dogon avrebbero negoziato il proprio interesse etnologico; allo stesso tempo, secondo Clifford, le dinamiche relative alla partecipazione indigena alla fabbricazione del discorso antropologico sarebbero celate, avvolte dal silenzio sul carattere artificioso di questa letteratura e sul contesto coloniale e post-coloniale che l'accompagna. Se noi seguiamo questa prospettiva critica possiamo affermare che le scritture dell'etnografia sono detentrici della qualità di conservare la fluidità delle memorie, attribuendo ai ricordi condivisi fra i ricercatori e i suoi interlocutori locali un riferimento apparentemente stabile. Si tratta di una prospettiva che rischia sovente di reificare la distinzione fra una tecnica scritturale di trasmissione delle conoscenze e le peripezie della parola e del gesto, come linea di divisione delle società. In realtà, il testo etnologico non cristallizza e non può cristallizzare il contenuto di una tradizione che gli "indigeni" hanno scambiato con l'etnografo. Il documento scientifico costituisce piuttosto una tappa della formalizzazione di un sapere, del quale rappresenta i valori discorsivo e iconico determinanti nel processo di istituzionalizzazione di una narrazione.

L'africanismo etnologico ha partecipato alle trasformazioni dell'oralità ed è stato implicato in quell'alternanza fra memoria e oblio che impregna ogni rivendicazione di un'appartenenza etnica o culturale. Se nel corso dei decenni gli etnologi hanno assistito alla presa di coscienza progressiva da parte dei loro informanti/informatori delle risorse economiche e simboliche presenti nella produzione erudita di un'alterità, che per gli attori locali era la loro propria alterità rispetto a un osservatore e a un pubblico potenziale esteriore, l'auto-esotizzazione, termine che potrebbe essere considerato come un ossimoro, acquisisce la consistenza di una pratica strutturalmente legata all'attività etnografica. Il miraggio esotico di una pratica di ricerca che conquista "scientificamente" l'altrove, e quindi il mito e i miti dell'alterità, non si inventa e non inventa improvvisamente la sua propria alterità ovvero la sua propria visibilità. La tradizione professionale, che l'ha preceduto, ha preparato la metamorfosi e la conversione di questo immaginario metodologico utopico in una pratica di testualizzazione. Per l'Altro, nel suo ruolo di informatore, l'iniziazione all'enunciazione discorsiva della/sulla propria cultura, che la sua partecipazione all'attività etnografica autentifica, sonda allora il residuo fondamentale di un patrimonio che non è stato ancora espropriato di una maniera definitiva. L'attività di inchiesta avrebbe dunque conferito nuovi significati agli elementi della tradizione. In questa prospettiva appare possibile individuare nel divenire patrimoniale dell'africanismo, e dell'etnologia in generale, il persistere di una retorica discorsiva caratterizzata nella credenza in una caducità endemica delle culture "altre" destinata tuttavia a non concludersi in un'estinzione.

Nei luoghi "tradizionali", divenuti oggetti di un interesse folklorico, l'opera svolta dalla pratica e dagli studi etnologici può incantarsi, cristallizzarsi nella sua routinizzazione turistica, che la perpetua e la dissacra. Gli etnologi hanno osservato e partecipato al passaggio dalla trasmissione di un sedicente sapere primordiale all'affermazione di una memoria moderna della tradizione. Sebbene una distinzione e un'autonomia fra le due dimensioni persistano e in un certo senso tendano ad accentuarsi dal punto di vista dell'appropriazione spettacolare dei segni del localismo, tutti gli attori sociali implicati nello spazio etnografico sono confrontati alla messa in scena identitaria di alcuni elementi culturali riconosciuti come emblemi di un patrimonio o di un'eredità. Questa mitologia si sviluppa come un ambito politico attraversato da molteplici strategie e la sua invenzione logografica traduce le negoziazioni conflittuali che agitano il presente. Se l'osservazione scientifica di una singolarità etnica o comunitaria non può confondersi assolutamente con la conoscenza e la narrazione di una cosmogonia originaria, essa esprime le utilizzazioni contemporanee dell'idea di origine culturale e, in fin dei conti, il suo dinamismo patrimoniale come memoria. In questo contesto, le figure dell'esteriorità e della modernità, delle quali lo studioso sul terreno è un'incarnazione, si mostrano dotate di un ruolo che è allo stesso tempo cruciale e occultato. La loro presenza può divenire indispensabile per la definizione di una tradizione etnicamente centrata, ma essa occupa anche uno spazio indefinito e contraddittorio, presa e/o implicata fra integrazione, incompatibilità e dissimulazione. L'etnografo può divenire allora un attore della problematica relativa alla presenza, reale o fittizia, dello straniero e dell'estraneità, riferimento fondatore delle identità e delle identificazioni individuali e collettive messe in prospettiva fra la cultura "autoctona" e le autorità discorsive e istituzionali che rispettivamente le descrivono e le definiscono.

L’etnicità in questione

Il discorso occidentale sembra avere sancito un divario fra alcune società africane e le loro rappresentazioni. Come abbiamo tentato di mostrare, questo scarto è stato in qualche modo colmato dall'intensificarsi di alcuni fenomeni, quali quelli relativi allo sviluppo del turismo e del mercato degli oggetti d'arte. Inoltre, la professionalizzazione della figura dell'informatore segnala gli effetti dell'attività etnografica, che nel corso del secolo ha assunto un valore pedagogico rispetto a pratiche, come quelle delle esibizioni di danze di maschere inaugurate durante il dominio coloniale, attraverso le quali alcuni attori sociali "indigeni" sono stati indotti ad apprendere i modi della valorizzazione della propria società. Lo spettacolo della propria cultura, come messa in scena di una cosmogonia pervasiva ormai in atto di scomparire, è quindi una manifestazione che coinvolge gli individui e i gruppi implicati nel commercio del loro folklore e nella ricerca dei modi economici e simbolici di "acquisire civilizzazione". Con quest'espressione, l'antropologo britannico C. Mitchell illustrava il tentativo di urbanizzarsi compiuto degli Africani immigrati nelle città minerarie del Copperbelt appartenente all'entità politica che all'epoca era definita come la Rhodesia settentrionale. In quel contesto, gli attori coinvolti nelle danze "etniche", come, ad esempio, la kalela, rivendicavano la salvaguardia della propria memoria "tradizionale" tramite la performance moderna, quale risorsa simbolica e materiale.

Il carattere relazionale inerente ai processi di produzione della diversità in un contesto urbano è l'oggetto del caso etnografico illustrato dal testo The Kalela Dance (1956). Questo lavoro era l'espressione di una teoria antropologica del mutamento sociale, elaborata, a partire dagli anni Cinquanta, da quella che è stata conosciuta come la Scuola di Manchester, guidata da M. Gluckman. Lo stesso Gluckman aveva diretto dal 1940 al 1947 il Rhodes-Livingstone Institute di Lusaka, costituito nel 1938 su iniziativa del ministero britannico delle colonie, con l'intento di poter disporre di una valida informazione sulle trasformazioni sociali negli agglomerati urbano-minerari del Copperbelt, un territorio compreso fra gli attuali Stati dello Zambia e dello Zimbabwe. In quest'occasione, gli antropologi furono chiamati a offrire il loro contributo all'organizzazione dell'Istituto e soprattutto alla comprensione di una situazione estremamente fluida, dove fenomeni come l'industrializzazione e l'urbanizzazione, tanto rapide, quanto forzate, stavano stravolgendo precedenti assetti sociali. Il Copperbelt divenne, quindi, una sorta di laboratorio per l'osservazione dei mutamenti che attraversavano le strutture "tribali" tradizionali, rispetto ai processi di modernizzazione.

Con il trasferimento di Gluckman presso l'Università di Manchester si costituì un asse Manchester-Lusaka, che si distinse per il tentativo, operato dagli studiosi che vi facevano riferimento, di combinare una prospettiva teorica salda, che integrasse i significati emergenti dalla ricerca etnografica, con l'interesse per le dimensioni storica e spaziale degli avvenimenti. L'opera collettiva Closed Systems and Open Minds (1964), già a partire dal titolo, offriva una sintesi dell'approccio presente nei lavori prodotti dalla scuola. Gluckman e i suoi colleghi situarono come fulcro delle loro ricerche l'interesse per la "analisi situazionale", ovvero per un ambito di studi in cui erano messe in evidenza, secondo le intenzioni di Gluckman, le relazioni fra gli eventi che organizzavano i "sistemi mentali" nell'ambiente circostante. Un esempio di quest'attitudine teorica è offerto dalla nozione di "tribalismo urbano", sviluppata dallo stesso Mitchell. Nelle città minerarie del Copperbelt il tribalismo sarebbe emerso come un fattore di riequilibrio socio-culturale, rispetto al quale l'azione dei soggetti sociali faceva interagire l'attenzione "politica" per gli accadimenti del presente con una costante reinterpretazione dei propri riferimenti "tradizionali". Il saggio di Mitchell procedeva da una ricerca sul campo condotta negli anni 1950-51. Durante questo periodo lo studioso osservava a Luanshya, una città del Copperbelt, le rappresentazioni della kalela dance, ovvero "danza della fierezza".

Questa performance consisteva nell'esecuzione, da parte di una ventina di individui, di danze ritmate dalle percussioni di tre grandi tamburi, ricavati da bidoni di petrolio e rivestiti con pelli di vacca; un "re", un leader, un "dottore", una "infermiera" partecipavano alla pantomima, eseguendo sketches parodici e canzoni in Bemba, la lingua franca parlata a Luanshya. Rispetto alle danze tradizionali, gli esecutori erano vestiti con abiti occidentali di un'eleganza sfarzosa e, anche grazie alle cure della "infermiera", si preoccupavano di conservare sempre un aspetto impeccabile. Il contenuto delle strofe cantate concerneva temi di attualità relativi alla vita urbana degli Africani immigrati e riproponeva costantemente un quadro delle distinzioni etniche, che prendevano forma nel nuovo contesto. Coloro che intervenivano nella kalela si identificavano come appartenenti all'etnia Bisa, sebbene, come nota Mitchell, nel gruppo dei danzatori potevano essere ammessi, in numero ridotto, anche esponenti di etnie che i Bisa percepivano come culturalmente prossime alla loro. D'altro canto, l'audience era composta indiscriminatamente dagli abitanti dei quartieri dove ogni domenica pomeriggio la kalela aveva luogo, riscuotendo un grande successo, nonostante si trattasse di una danza "etnica", nella quale i Bisa esprimevano l'orgoglio per la loro superiorità rispetto agli altri gruppi di africani.

Mitchell osservava giustamente che attraverso la kalela dance i Bisa rivisitavano il loro passato di popolo guerriero, e lo utilizzavano simbolicamente in un ambiente urbanizzato per legittimare l'aspirazione a una forma di egemonia culturale sugli altri immigrati. In effetti la danza, a partire da una prospettiva Bisa, sembrava fornire una mappa storico-geografica delle relazioni interetniche a Luanshya. I criteri decisivi di queste distinzioni si fondavano essenzialmente sulla condivisione o meno di determinati tratti, quali le regole matrimoniali e di discendenza, la prossimità linguistica, la distanza geografica, nonché il prestigio militare. La non applicabilità di questi indici nel contesto urbano implicava, quindi, un tentativo costante di reinterpretare i valori della "tradizione" e di veicolarli all'interno dei processi di riattualizzazione della stessa. In questo senso il "tribalismo urbano" si rivelava una categoria dell'interazione sociale, che segnalava uno spazio culturale e politico altro, rispetto al sistema di rapporti sociali garantito dalla struttura tribale. Secondo Mitchell la diversità etnica, che nelle zone rurali di origine era un dato scontato, risaltava invece tra la moltitudine delle entità tribali e in questo modo acquisiva un'importanza determinante nella definizione dei rapporti intercomunitari. Il tribalismo, di cui la danza kalela era un'espressione, derivava, quindi, dal modificarsi della pratica cognitiva, rispetto alla produzione di una diversità propria e altrui. Se la realtà rurale si fondava sullo scambio di relazioni claniche, al quale corrispondeva una prassi dell'agire sociale che si strutturava attraverso il sistema delle alleanze, la non riproducibilità di questa pratica in un contesto urbano implicava la trasmutazione dell'impianto clanico di referenze, in un'attitudine alla identificazione tribale, produttrice di una diversità fondata sull'esagerazione o sulla "invenzione" dell'appartenenza etnica.

È stato osservato che Mitchell, come si verificava sovente per gli esponenti della scuola di Manchester, nonostante l'acume delle riflessioni, si limitava a un'analisi del contesto urbano, dove gli Africani immigrati sembravano essere i soli soggetti della scena sociale. La presenza del "bianco" acquistava una connotazione astratta; la dominazione coloniale era assunta più come un punto di riferimento metaforico che come l'espressione di una realtà pregna di conflitto, non solo etnico, ma anche razziale. Effettivamente Mitchell si preoccupava di mettere in luce come l'abbigliamento dei danzatori della kalela risentisse di un'aspirazione all'avanzamento sociale e di un'attitudine millenaristica, come quella, ad esempio, illustrata dai rituali oceaniani contemporanei dei cargo-cults ‒ consistenti nella messa in scena dell'attesa utopica di un'epoca di prosperità per i popoli colonizzati ‒ ma, allo stesso tempo, la sua analisi non approfondiva quest'aspetto decisivo. L'assenza di una contestualizzazione della figura e del ruolo del "bianco", nella produzione di fenomeni quali la kalela, era evidente quando Mitchell affermava di non rinvenire nella danza elementi che potessero essere indicativi di un'opposizione al dominio dei colonizzatori. In realtà, il successo che la kalela otteneva presso gli altri Africani urbanizzati si spiegava, oltre che per la spettacolarità della stessa, anche per la sua capacità di fornire un frame attuale a una situazione nella quale l'antagonismo di tutti gli Africani era sottoposto a una politica coloniale di segregazione e di oppressione. Dando voce all'orgoglio etnico dei Bisa, la kalela forniva, anche ai membri delle altre etnie, un modello di valori a cui fare riferimento nel travaglio che caratterizzava il loro passaggio dalla condizione rurale a quella urbana.

La danza africana nel saggio di Mitchell appariva espressione di una trasformazione simbolica, che ri-ritualizzava sincreticamente alcune pratiche tradizionali in relazione con la produzione di una messa in scena dove la città diventa il luogo in cui il conflitto sociale generava una diversità spettacolare. In effetti, a Luanshya, l'antropologo britannico assisteva a una perdita dell'unità del mondo, del proprio mondo ideale e pressoché estinto al contempo, che colpiva gli immigrati, sradicati dai propri centri culturali. La rappresentazione urbana di una propria superiorità separata etnicamente e razzialmente (a causa del regime dell'apartheid) sembrava dover ricompensare, nel nuovo contesto, il senso e il sentimento di questa sparizione progressiva. Alle guerre e alle alleanze intertribali, norme e pratiche originarie delle relazioni rurali, nel Copperbelt coloniale, si sostituiva l'identificazione dell'individuo con il suo essere un cittadino consumatore, per il quale la merce e l'aspirazione al possesso della stessa diventavano i punti cardinali che ri-orientavano le scelte degli attori sociali. In questo contesto, lo spettacolo era la manifestazione generale al cui interno confluivano le rappresentazioni, che gli individui operavano, del loro essere consumatori urbani "civilizzati". Mitchell ricordava che negli incontri avuti con i cittadini di Luanshya era ricorrente l'espressione "acquisire civilizzazione" per spiegare i vantaggi della vita urbana. Mitchell rilevava, quindi, la simultaneità di due fenomeni apparentemente antitetici: il tribalismo come categoria pervasiva delle relazioni fra immigrati e il processo di formazione di un fronte politico-sindacale che avrebbe dovuto opporre tutti gli Africani contro i padroni bianchi. La pax Britannica avrebbe costituito una spinta decisiva verso la scomparsa delle distinzioni etniche, sia a causa della necessità di negoziare unitariamente nei confronti dell'establishment, sia a causa della volontà delle autorità di sopprimere il tradizionale ricorso alla guerra come regolatore dei contrasti intertribali. In questo senso, secondo Mitchell, i "rapporti di scherzo" (cioè delle relazioni verbali, fra interlocutori appartenenti a diversi gruppi linguistici e culturali, caratterizzate dalla possibilità di canzonare o di indirizzare invettive salaci) in ambiente urbano nascevano proprio per rimodellare quella politica egemonica o di alleanze, che aveva nel conflitto armato (o nella sua eventualità) uno strumento fondamentale. Ma, ciononostante, si osservava che le dinamiche di potere fra Africani all'interno del sindacato, come l'attitudine che regolava i rapporti di scherzo, lungi da fondare una progressiva omogeneizzazione etnica, si organizzavano seguendo connotazioni tribali, che operavano trasversalmente alla divisione classista, introdotta nel Copperbelt dal capitalismo coloniale. Infatti, le stesse élites africane erano espressione dell'interazione fra la stratificazione sociale, determinata dai diversi livelli di istruzione e di censo, e gli equilibri interetnici.

Con il caso emblematico della kalela dance assistiamo all'intrecciarsi di un'urbanizzazione che livellava antietnicamente gli individui, trasformandoli in lavoratori-consumatori; allo stesso tempo, questo processo riattivava un retroterra simbolico, il quale era percepito come una risorsa politica efficace nel disordine provocato dallo scontro culturale, innescato dall'urbanizzazione. L'urbanesimo, in questo contesto, va inteso non solo come un fenomeno che ha prodotto in uno spazio rurale la presenza della città, centro di un dominio militare e tecnologico, ma anche come il movimento storico che ha avuto tra i suoi effetti una diffusa acculturazione dell'immaginario relativo alla tradizione precoloniale. Nel Copperbelt il nuovo cittadino africano colonizzato, che era essenzialmente un lavoratore-consumatore, appare intento, o meglio costretto a reintegrare le immagini del proprio passato "tribale", producendo nuove rappresentazioni degli altri e di se stesso, secondo i modi dello spettacolo, ovvero attraverso una messa in scena del proprio rapporto con un quadro mercificato di riferimenti. Per l'individuo urbanizzato l'etnicità sembra inserirsi all'incrocio tra il suo isolamento di consumatore e il tentativo di sentirsi parte di un'entità collettiva, alla quale poter aderire strategicamente e affettivamente. In questo senso, il lavoro di Mitchell annuncia l'importanza cruciale che, in seguito ai processi di decolonizzazione, la nozione di etnia assumerà nell'analisi socio-etnologica. Allo stesso tempo, esso evoca anche la distanza teorica fra l'approccio antropologico di matrice anglosassone alle questioni relative all'organizzazione sociale delle società africane e quello più orientato all'analisi della dimensione simbolica praticato dagli etnologi francesi, del quale il caso Dogon, con la scuola di Griaule, è una situazione parossistica ma pregna di insegnamenti.

A questo proposito, nel suo articolo If the Dogon… (1967), l'antropologa inglese M. Douglas svolgeva un parallelo tra l'analisi simbolica dei Dogon, compiuta dalla scuola griauliana, indicativa di un'attitudine "francese" all'esegesi letteraria, e i lavori britannici, più interessati al funzionamento delle istituzioni societarie. L'antropologa inglese immaginava che if i Dogon avessero ricevuto una maggiore attenzione da parte degli studiosi anglosassoni, sarebbe stata forse capovolta la loro rappresentazione antropologica di instancabili produttori di simboli, che è stata diffusa dalla letteratura etnologica francese. Quest'opposizione teorica e metodologica all'interno dell'antropologia africanista (emanazione e strumento intellettuali di due diverse concezioni coloniali fondate rispettivamente su di un'ideologia universalista e sull'applicazione politica del principio dell'indirect rule) tenderà a sfumare nel corso dei decenni successivi alla decolonizzazione di una gran parte del continente. Nuovi fattori politici, inerenti all'affermarsi della questione dello sviluppo economico, l'emergere dei nazionalismi, l'intensificarsi dell'immigrazione verso i grandi centri urbani, le nuove configurazioni della sfera religiosa e delle sue rappresentazioni nonché delle relazioni fra oralità e scrittura, condurranno a una progressiva ridefinizione antropologica dei significati dell'etnia e dell'etnicità.

In un testo pubblicato nel 1985, À chacun son Bambara, l'antropologo francese J. Bazin analizzava criticamente il metodo etnologico consistente nel "recingere" teoricamente, secondo il principio delle frontiere etniche, gli spazi sociali. In effetti, la diffusione relativamente recente della nozione di "etnia" nelle scienze sociali e le sue concettualizzazioni nell'ambito degli studi africanisti, sembrano indicare che l'utilizzazione di questo criterio dell'appartenenza (e quindi anche della distinzione culturale) da parte degli antropologi e dei loro interlocutori locali ha origini discorsive alquanto diverse. Volendo limitarsi ai contesti studiati dagli etnologi, la nozione di etnia africana oscilla fra categorizzazioni dai contorni vaghi e una preoccupazione estremamente meticolosa nelle suddivisioni delle appartenenze collettive. Nel corso degli ultimi decenni, quale eredità ed effetto dei processi detti "di decolonizzazione", il concetto di "etnia" sembra essere divenuto uno strumento di classificazione in grado di rendere concrete situazioni in continua trasformazione e spazi sociali complessi. In questo senso, le rivendicazioni e le attribuzioni etniche sono state meno indagate nelle loro forme di ricostruzione moderna dell'appartenenza "tribale" che acquisite acriticamente come un fondamento primordiale delle identità africane. Questo genere di approccio discorsivo sembra riflettere anche l'accettazione dell'utilizzazione di etnonimi che preservano, e qualche volta valorizzano, la politica delle appartenenze locali come esse sono state forgiate nel corso della storia coloniale del continente. L'istituzionalizzazione amministrativa e scientifica dell'etnia, sorta di "nazione, al ribasso" (Amselle 1985) o entità astratta inglobante una pletora di situazioni etnologiche potrebbe essere quindi considerata come una conseguenza tardiva di quella che un altro etnologo africanista, G. Balandier, nel corso degli anni Cinquanta del Novecento definiva la "situazione coloniale" che connotava l'esperienza della soggezione culturale, militare ed economica sui movimenti demografici e religiosi delle società africane attraversate e modellate incessantemente da dinamiche conflittuali.

Il patrimonio africano

Attualmente, il proliferare di "paesaggi culturali" africani patrocinati dall'UNESCO concretizza una fabbricazione dell'autenticità in vista della salvaguardia e della promozione di ciò che diviene tradizione. L'originalità storico-etnologica e/o naturale è un criterio precipuo legittimante l'interesse internazionale per un determinato contesto meritevole di essere patrimonializzato. Questa condizione è, secondo le direttive dell'UNESCO, evolutiva, poiché è concepita come una premessa per l'adeguamento di un ambito socioculturale al suo valore patrimoniale. Tale prospettiva, evidentemente, è destinata a scontrarsi con pratiche locali, le quali possono essere in contrasto con fondamenti teorici astratti, dal momento che essi propongono la ricerca di una sintesi fra una tradizione "autentica" e i suoi usi turistici e monumentali. Un caso emblematico è fornito dalla École du Patrimoine Africain (EPA), istituita dall'UNESCO a Porto-Novo (Benin) nel 1998, in seguito a una convenzione firmata dall'ICCROM (Centro Internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali), agenzia dell'UNESCO, e l'Università Nazionale della Repubblica del Benin. Uno degli obiettivi prioritari dell'EPA, la quale sostituisce il programma di salvataggio del patrimonio PREMA (Prevenzione nei Musei Africani) lanciato nel 1986, consiste nell'allargamento di una rete di professionisti africani in grado di provvedere alla conservazione delle collezioni dei musei africani a sud del Sahara nelle aree linguistiche francofone e lusofone. Attualmente l'EPA si presenta come una scuola superiore e un centro specializzato nella conservazione dei beni culturali che sono allo stesso tempo minacciati dal degrado e aventi buone possibilità di essere rivalorizzati a livello patrimoniale.

La prospettiva privilegiata tende alla creazione di musei aperti per un pubblico numeroso, i quali dovrebbero funzionare come specchio di un passato culturale "quasi" perduto ma anche come luogo pedagogico adibito a un sapere e a una gestione moderna della tradizione. Quest'operazione è sintetizzata dalla formula "ritorno al futuro" in voga nei documenti emanati dagli organismi africani implicati nella protezione patrimoniale. Fra i progetti concepiti e sostenuti dall'EPA vi sono la valorizzazione architettonica di Porto-Novo; la riabilitazione di un edificio nella città di Anecho (Togo), che dovrebbe essere destinato a ospitare un museo del patrimonio "meticcio" del Golfo del Benin, la fortezza storica di Elmina nel Ghana, nella quale un percorso, previsto per i visitatori americani di origine africana, mette in scena il ritorno nella terra degli antenati attraverso la "porta" da dove, come ricordano i pannelli indicativi, gli schiavi non poterono tornare. Il progetto di una "rotta dello schiavo", come quello relativo all'autenticità della moschea centrale di Porto-Novo, espressione e monumento emblematico di una mescolanza culturale afrobrasiliana, rifletterebbe quindi la ripresa e l'invenzione di elementi del passato quali risorse di una modernità tradizionale africana da costruire. D'altronde, fra le attività di ricerca e di organizzazione del territorio condotte dai vari rappresentanti delle istanze internazionali, il programma Inventario e Turismo Culturale sulla Rotta dello Schiavo risalta per l'ampiezza delle sue aspirazioni e per le difficoltà logistiche relative alla sua applicazione. Si tratta di un'azione comune dell'UNESCO e dell'OMT (Organizzazione Mondiale del Turismo) promossa dal 1994 e ancora in corso, la quale include Burkina-Faso, Benin, Camerun, Ciad, Costa d'Avorio, Repubblica Centroafricana, Gabon, Ghana, Guinea Equatoriale, Mali, Liberia, Repubblica Sudafricana, Togo, Uganda. La missione dei responsabili africani consisterebbe nel condurre in questi Paesi e in sostegno degli organismi nazionali una serie di ricerche aventi come obiettivo finale la costituzione di luoghi di memoria legati alla storia della tratta negriera a allo studio delle condizioni della loro valorizzazione contemporanea. In questo modo, la raccolta di dati e l'esposizione di oggetti e dei siti dovrebbero integrare le operazioni di inventario delle situazioni in grado di poter formare un polo di turismo culturale.

Uno dei siti interessati da questo programma di attività è la città di Ouidah, nel Benin, già sede del Museo Storico di Ouidah. Si tratta di un contesto, studiato di recente dall'antropologa italiana R. Cafuri, dove è possibile osservare una relativa autonomizzazione delle procedure di valorizzazione dello spazio, associata al tentativo di conferire una specificità panafricana alla nozione di "museo" nonché alle azioni di conservazione e di esibizione caratterizzate dalle politiche di teatralizzazione turistica. Queste pratiche di metaforizzazione della storia della schiavitù attraverso i suoi "oggetti" contemporanei dovrebbero stabilire una comunicazione e allo stesso tempo capovolgere il ricordo della "diaspora", perdita o caduta definitiva di un'origine, attraverso il ritorno nell'Africa attuale, spazio di illusione e contrappunto mistificato. La rottura apparente non farebbe quindi che indicare la ricerca di un consenso ecumenico ben codificato dalla logica semiotica del patrimonio mondiale. La dimensione globale del progetto Inventario e Turismo Culturale sulla Rotta dello Schiavo implica una ridefinizione dell'identità moderna rispetto all'entità storica della quale la nazione attuale è il prodotto, cioè l'antico regno schiavista del Dahomey. In questo spazio, quindi, la musealizzazione itinerante si identifica con la costituzione di un inventario e di un dispositivo, apparentemente critico ‒ in realtà parziale e soprattutto legato alle poste in gioco relative al mercato turistico ‒ che dovrebbe avere come obiettivo una sorta di purificazione dell'esperienza della soggezione coloniale. Il museo africano diviene il luogo per eccellenza di un paradosso postcoloniale. La missione di autentificazione culturale e nazionale tenta di organizzarsi a partire dall'istituzione che è ab origine l'espressione della giustificazione "civilizzatrice" delle dominazioni memoriali: quella dell'attrazione europeocentrica per l'esotismo di archiviare e quella delle borghesie locali alle quali, all'epoca del colonialismo, il museo doveva ricordare la presenza di culture indigene nel contesto "pacificato" dell'amministrazione e del commercio coloniali. In questo senso, il silenzio sul periodo schiavista del regno del Dahomey sembra aggiornare e dissimulare allo stesso tempo le tensioni contemporanee fra le antiche famiglie schiaviste del Dahomey, che erano implicate nella tratta e nel commercio triangolare, e il resto della popolazione. Questo tentativo di rendere insignificante, o poco significante, una parte del passato all'opera nel progetto patrimoniale della Rotta dello Schiavo mostra le intenzioni ufficiali di ancorare un'epoca trascorsa alla monumentalizzazione dei luoghi allorché un'altra presentazione del passato permetterebbe di rendere più chiare le gerarchie del presente.

Il museo cannibale

In un testo per una ricerca pubblicata nel 1920, con il titolo suggestivo Iront-ils au Louvre? Enquête sur des arts lointains, lo scrittore e collezionista francese F. Fénéon interrogava i suoi contemporanei sul valore estetico e museale che essi attribuivano alle opere d'arte "primitiva". Attualmente, rispetto all'intrecciarsi delle molteplici prospettive artistiche, etnografiche e mercantili che hanno contribuito alla consacrazione estetica moderna del primitivismo artistico, assistiamo a nuove forme di rappresentazione, e quindi di riflessione, di quelle arti che Fénéon definiva "lontane" e che per il visitatore "occidentale" continuano a essere simulacri o ricettacoli di esotismo.

Nelle collezioni di oggetti artistici ed etnologici, come, ad esempio, la galleria inaugurata nel 2000 al Museo del Louvre di Parigi, che hanno aderito al principio della messa in scena estetizzante degli oggetti, una sorta di esasperazione visuale tende a isolare quelle che sono divenute icone di legno, metallo, piume e pietra, attraverso la fabbricazione di nicchie di vetro e di luce che ne dovrebbero proteggere lo splendore. L'esposizione Le musée cannibale, organizzata in Svizzera al Museo di Etnografia di Neuchâtel (2002/2003), può essere considerata come un atto di coscienza relativo alla morte degli oggetti etnografici e ha svelato, in una maniera volontariamente brutale, la violenza del dispositivo museografico. A Neuchâtel, a essere esposta, o se vogliamo messa in scena, è la stessa conversione attraverso la quale si attribuisce all'oggetto, divenuto documento, icona, reliquia, opera d'arte, emblema o feticcio, una significazione necessaria alla sua "insostituibilità" (Heinich 1993) museale, allorché, prima del suo smembramento (separazione, raccolta, classificazione, interpretazione), l'oggetto esisteva nella sua singolarità nel contesto che l'aveva prodotto. Questa tendenza concettuale che investe l'entità etnografica "per farle 'confessare' la propria cultura" (Jamin 1988) illustra la credenza dei ricercatori/collezionisti nella qualità metonimica dell'oggetto africano, simulacro/effigie che contiene e illustra la propria società di origine. La conversione museale trasforma quindi la messa a morte dell'oggetto nella sua morte durevole, in vitro. Se le cose possono quindi essere mummificate, trattate come persone provviste della qualità di morire senza scomparire, il dispositivo museografico estetizzante non è lontano dal trattamento etnografico impartito alle persone trasformate in cose durevoli sotto la forma di esseri etnici, oggetti del discorso erudito.

Queste concezioni implicite non sono assolutamente estranee alla storia dell'africanismo, al contrario esse possono essere considerate come derivazioni contemporanee della pratica dell'esibizione all'opera nelle esposizioni coloniali in voga, nelle principali città europee, a partire della seconda metà del XIX secolo fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Tali logiche rappresentative evocano soprattutto alcuni effetti dell'insularizzazione etnografica delle società africane. La loro tribalizzazione, cioè la loro presentazione scientifica come entità isolate, dal punto di vista storico, politico, sociale, economico e artistico, ha aperto la strada all'invenzione della loro singolarità folklorica moderna e alle contemporanee pratiche di patrimonializzazione veicolate, tra l'altro, dai programmi di salvaguardia di un patrimonio mondiale dell'umanità sviluppati dall'UNESCO.

In effetti, la presenza delle arti primitive nei musei, nelle collezioni, nelle gallerie di esposizione, dovrebbe, secondo l'ottica degli organizzatori di tali luoghi ed eventi, restituire ai popoli africani dignità e prestigio. Il valore attuale e visibile delle arti africane si fonda sulla costruzione di una nuova autenticità e sulla trasformazione della cultura "autentica" delle società delle quali esse sono l'espressione creativa, ma ormai residuale rispetto al tipo ideale originario; la conservazione istituzionale dovrebbe conferire loro una diffusione ecumenica e quindi salvarle dall'oblio. Allo stesso tempo, assistiamo ormai a una stratificazione sociologica dell'estetica africanista: sovente, gli artisti africani si riappropriano del discorso etnologico quale narrazione fondatrice che permetterebbe ai suoi eredi locali la formulazione stilistica di una tradizione "moderna". In questo senso, la ricerca antropologica di singolarità etniche, animiste, orali e la loro sistematizzazione teorica e museale hanno dato luogo all'affermazione di nuove appartenenze dalla parte di coloro che rivendicano la loro condizione di "nativi", eredi di saperi autoctoni creativi e artistici.

Come ha ben indicato S. Littlefield Kafsir (1999) nel suo testo sull'arte contemporanea africana, i modelli di un'identità "primitiva" sono percepiti da numerosi artisti e responsabili culturali di Paesi colonizzati nel passato come registri interpretativi della tradizione, cioè delle loro strategie e capacità inventive in relazione e in contrasto con la modernità. A questo proposito, A. Mbembe (2002) ha sollevato la questione del "potere del falso", attraverso la quale egli interroga criticamente la scoperta/invenzione coloniale di un mondo africano, "statico e immutabile, popolato di maschere e di feticci, di una moltitudine di oggetti profani e di un materiale umano grezzo", universo fittizio che si rivela dotato del potere di produrre una forma paradossale di meticciato culturale: la collusione fra il "primitivo" e le sue sofisticazioni moderne sembrano declinare l'utopia patrimoniale dell'animismo africano, fonte primordiale delle elaborazioni artistiche contemporanee. Non a caso, come ha sottolineato lo stesso Kafsir, attualmente molti artisti africani delle nuove generazioni prendono le distanze da etichette emananti dal discorso occidentale sulla modernità estetica che rivisita in permanenza l'etnicità come forma di primitivismo.

Bibliografia

F. Fénéon, Iront-ils au Louvre? Enquête sur les arts lointains, in Le Bulletin de la Vie Artistique, 1, 25 (1920), pp. 693-703; L. Frobenius, Kulturgeschichte Afrikas: Prolegomena zu einer historischen Gestaltlehre, Zurich 1933; Minotaure (collection complète 1933-1939), Genève 1939; M. Griaule, Dieu d'eau (entretiens avec Ogotemmêli), Paris 1948 (trad. it. Torino 2002); G. Balandier, Sociologie actuelle de l'Afrique noire, Paris 1955; C. Mitchell, The Kalela Dance. Aspects of Social Relationship among Urban Africans in Northern Rhodesia, Manchester 1956; L. Kesteloot, Les écrivains noirs de langue française: naissance d'une littérature, Bruxelles 1963; M. Gluckman (ed.), Closed Systems and Open Minds. The Limits of Naivety in Social Anthropology, London - Edimburgh 1964; M. Leiris, Afrique noire: la création plastique, Paris 1965; M. Douglas, If the Dogon..., in Cahiers d'Études Africaines, 7, 28 (1967), pp. 659-72; M. Mauss, Compte-rendu de R.E. Dennet. At the Back of the Black Man's Mind (1897) [1907], in M. Mauss, Oeuvres, II, Paris 1969, pp. 244-45; J. Goody, The Impact of Islam Writing on the Oral Cultures of West Africa, in Cahiers d'Études Africaines, 43 (1971), pp. 455-66; R. Barthes, Les sorties du texte in Bataille, in Actes du Colloque de Cerisy-la-Salle, Paris 1972, pp. 271-83; E. Weil, Essais et conférences, Paris 1971; S.N. Eisenstadt, Post-Traditional Societies and the Continuity and Reconstruction of Tradition, in Daedalus, 102 (1973), pp. 1-28; J. Pouillon, Fétiches sans fétichisme, Paris 1975; P.J. Hountondji, Sur la "philosophie africaine", Paris 1976; J. Goody, The Domestication of the Savage Mind, Cambridge 1977 (trad. it. Milano 1990); J. Clifford, On Ethnographic Surrealism, in Comparative Studies in Society and History, 23 (1981), pp. 539-64; M. Detienne, L'invention de la mythologie, Paris 1981 (trad. it. Torino 1983); J. Clifford, Power and Dialogue in Ethnography (Marcel Griaule's Initiation), in G.W. Stocking (ed.), Observers Observed (Essays on Ethnographic Fieldwork), Madison 1983, pp. 121-56; E. Hobsbawm - T. Ranger (edd.), The Invention of Tradition, Cambridge 1983 (trad. it. Torino 1987); J.-L. Amselle, Ethnies et espaces: pour une anthropologie topologique, in J.-L. Amselle - E.M. Bokolo (edd.), Au coeur de l'ethnie. Ethnies, tribalisme et état en Afrique, Paris 1985, pp. 11-48; J. Bazin, À chacun son Bambara, ibid., pp. 87-127; J. Jamin, Les objets ethnographiques sont-ils des choses perdues?, in J. Hainard - R. Kaehr (edd.), Temps perdu, temps retrouvé. Voir autrement les choses du passé au présent, Neuchâtel 1985, pp. 51-74; R. Goldwater, Primitivism in Modern Painting, Cambridge (Mass.) 1986; J. Jamin, Tout était fétiche, tout devint totem, préface au Bulletin du Musée d'ethnographie du Trocadéro, 1988 Paris, pp. IX-XXII; J. Jamin - S. Price, Entretien avec Michel Leiris, in Gradhiva, 4 (1988), pp. 28-56; Documents (collection complète 1929-1930), Paris 1991; D. Hollier, La valeur d'usage de l'impossible, in Documents (collection complète), Paris 1991, pp. VII-XXXIII; A.M. Iacono, Le fétichisme. Histoire d'un concept, Paris 1992; N. Heinich, Les objets-personnes: fétiches, reliques et oeuvres d'arts, in Sociologie de l'Art, 6 (1993), pp. 25-65; J. Pouillon, Le cru et le su, Paris 1993; T. Ranger, The Invention of the Tradition Revisited: the Case of Colonial Africa, in T. Ranger - O. Vaughan (edd.), Legitimacy and State in Twentieth-Century Africa, London 1993, pp. 62-111; C. Rhodes, Primitivism and Modern Art, London 1994; S. Littlefield Kafsir, Contemporary African Art, London 1999; J.-M. Monnoyer, Walter Benjamin, Carl Einstein et les arts primitifs, Pau 1999; C. Ginzburg, Oltre l'esotismo: Picasso e Warburg, in C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano 2000, pp. 127-47; A. Baldassari, Corpus ethnicum: Picasso et la photographie coloniale, in N. Bancel et al. (edd.), Zoos humains. De la vénus hottentote aux reality shows, Paris 2002, pp. 340-48; M.-O. Gonseth - J. Hainard - R. Kaehr (edd.), Le musée cannibale (Catalogo della mostra), Neuchâtel 2002; A. Mbembe, Notes sur le pouvoir du faux, in Le Débat, 118 (2002), pp. 49-58; R. Cafuri, In scena la memoria. Antropologia dei musei e dei siti storici del Bénin, Torino 2003; G. Ciarcia, De la mémoire ethnographique. L'exotisme du pays dogon, Paris 2003.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE