Il dramma moderno

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Elisabetta Bartoli
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Le trasformazioni socio-antropologiche che segnano l’Ottocento rendono i paradigmi drammaturgici aristotelici inadatti a trasporre teatralmente la vita moderna. Le soluzioni che le diverse correnti letterarie propongono alla crisi della drammaturgia tradizionale creano altrettante tipologie di testi teatrali, tutti ugualmente privi di un autentico riscontro nella realtà del teatro coevo che continua a essere dominato da opere convenzionali e commerciali.

Hegel-Lukács: fondamenti di una "teoria" del dramma ottocentesco

Le riflessioni di Diderot a proposito del genre sérieux e le esperienze teatrali dello Sturm und Drang, sulle quali si era chiuso il XVIII secolo, aprono un nuovo corso nella storia della drammaturgia occidentale. Analizzando il "genere intermedio" tra tragedia e commedia – sia esso il "dramma" francese o quello romantico – Hegel percepisce, sin dai primi decenni dell’Ottocento, una netta frattura tra la "poesia drammatica antica" e quella "moderna". Nelle Lezioni sull’Estetica – pubblicate tra il 1836 e il 1838, ma risalenti ad appunti dei corsi di estetica tenuti a Heidelberg nel 1817-1818 e a Berlino tra il 1820 e il 1829 – Hegel coglie nell’“esplorazione dei lati interiori del carattere” il tratto saliente della nuova drammaturgia, non di rado tesa a far emergere l’intima "incertezza" dei personaggi pressoché sconosciuta agli antichi. Complementare a questo studio della soggettività è l’attenzione accordata alle “condizioni di costume e di epoca”.

Unica forma alternativa al nuovo modello di scrittura teatrale è il dramma costruito sul puro “interesse suscitato dagli intrecci”.

Per Hegel, inoltre, un ulteriore elemento di rottura nel quadro dell’evoluzione dialettica dell’arte drammatica è la nascita del dramma destinato alla semplice lettura.

Nei primi anni del Novecento Lukács riprenderà la teoria hegeliana, alla luce degli effettivi sviluppi della produzione teatrale ottocentesca, portandola alle sue estreme conseguenze.

Nel saggio di Lukács Il dramma moderno (1911) la scena del XIX secolo appare soprattutto caratterizzata dal distacco tra dramma e teatro, reso evidente proprio dal fiorire di quelle opere destinate alla sola lettura verso le quali già Hegel manifesta il proprio dissenso. Nemmeno i teatri da camera, nati nella seconda metà del secolo come palcoscenico ideale per i drammi letterari, riescono a ricucire lo strappo. Alla radice di un simile scollamento sta, per Lukács, l’ambiguo rapporto del drammaturgo con la religiosità. Il dramma moderno è infatti la prima forma di scrittura teatrale a non essere scaturita da una coscienza mistica: solo a posteriori il nuovo dramma cercherà di riavvicinarsi alla sfera religiosa. L’eclissi della religiosità ha provocato la crisi della componente rituale dell’esperienza teatrale e nelle moderne metropoli, secondo Lukács, tale crisi è stata accelerata dalla circolazione del denaro che, rendendo ogni cosa “sempre più a portata di mano”, ha finito col distruggere la "periodicità" su cui è fondato il rito.

Facendo propri i risultati dell’analisi sociologica di Simmel, Lukács svilupperà la propria analisi denunciando la natura problematica del dramma moderno. Secondo Lukács la razionalizzazione e l’oggettivazione dell’esistenza che si producono nella vita metropolitana impediscono all’uomo di manifestare la propria personalità attraverso le azioni. Ed è quindi a seguito della non coincidenza tra interiorità ed esteriorità che il dramma è chiamato a dipingere conflitti interiori che non trovano spazio nella struttura tradizionale. Prive del centro organizzatore rappresentato dalla personalità dell’individuo, le azioni tendono infatti a scomporsi in una serie di atti frammentari e il personaggio, non riconoscendosi in ciò che fa, cessa di essere "agente" per diventare "paziente" e l’azione si converte in sopportazione.

All’uomo moderno, prigioniero della propria intimità non esteriorizzabile, è negata la possibilità di comunicare: la solitudine che ne consegue, emblematizzata dalla scomparsa dal dramma della classica figura del "confidente", conduce alla progressiva disarticolazione della forma dialogica. La spinta alla razionalizzazione, tipica della cultura borghese, tende a trasformare i conflitti intersoggettivi in dispute: la moltiplicazione dei punti di vista impedisce ogni distinzione di genere canonica, e tragedia e commedia finiscono col confondersi.

Quanto più il personaggio sprofonda nella propria interiorità tanto più assume rilievo ciò che lo circonda: il rapporto tra la figura e l’ambiente si dialettizza e il dramma moderno diventa intrinsecamente dramma "storico" e "borghese". L’intera produzione drammaturgica ottocentesca, quando non si riduce a semplice teatro di intreccio o di puro virtuosismo tecnico, può essere intesa secondo Lukács come un tentativo di dare risposta a questi problemi e di vincere la concorrenza del romanzo, la forma letteraria più adatta a raccontare la vita moderna.

È di scena la famiglia!

L’individualismo borghese, tendente ad affermare la personalità del singolo a scapito dell’autonomia interiore di quanti lo circondano, si scontra con l’assetto dei rapporti interpersonali codificato, fino alle soglie della Rivoluzione francese, dall’organizzazione tradizionale dell’istituzione-famiglia. Parallelamente l’accelerazione impressa al corso storico dagli eventi traumatici successivi alla presa della Bastiglia precipita nei conflitti generazionali che oppongono con particolare violenza padri e figli.

Le tensioni che sin dal primo quarto del secolo minano la stabilità della struttura familiare dell’ancien régime – determinando una ridefinizione dei ruoli e dei rapporti di parentela, della tipologia dei contatti tra il nucleo familiare e l’esterno, e della qualità delle relazioni intersoggettive tra i coniugi e tra genitori e figli – si caricano di un particolare significato "drammatico".

La preminenza della tematica familiare nella drammaturgia ottocentesca – dai mélodrames di inizio secolo alla Danza macabra di Strindberg (1901) – non obbedisce dunque alla precettistica aristotelica secondo la quale l’efficacia della tragedia è maggiore se lo scontro che essa porta in scena oppone tra loro due o più consanguinei, ma risponde alla mutata realtà sociale del mondo moderno. A prescindere da motivazioni "oggettive", a cavallo tra Sette e Ottocento è la semplice appartenenza a una stessa famiglia a determinare l’insorgere del conflitto drammatico: vincoli familiari e libera affermazione della volontà individuale sono infatti incompatibili.

August Strindberg

Alice e il Capitano

La danza della morte

Interno di un torrione tondo di una fortezza in pietra grigia. Nel fondo: due grandi porte a vetri attraverso cui si scorge una spiaggia con batterie e il mare. A ciascun lato delle porte, una finestra con vasi di fiori e gabbie d’uccelli. Sulla destra di esse un piccolo pianoforte; più avanti della scena un tavolinetto da lavoro con due poltrone. A sinistra, al centro della scena, una scrivania con un apparecchio telegrafico; più oltre uno scaffale con fotografie incorniciate. Accanto, una sedia a sdraio. Alla parete: una credenza. Dal soffitto pende un lampadario. Alla parete, presso il piccolo pianoforte: due grandi corone d’alloro, con nastri, ai lati di un ritratto di donna in abito teatrale. Accanto alla porta un attaccapanni con capi di vestiario militare, sciabole e simili. Accanto: uno stipetto. A sinistra della porta: un barometro a mercurio.

È una tiepida serata autunnale. Il finestrone è aperto e si scorge un artigliere di fazione ad una batteria; porta l’elmo e la sua sciabola nuda, nella rossa luce del sole cadente, a volte scintilla. Il mare è fosco e silenzioso.

Il Capitano è sdraiato nella poltrona a sinistra accanto al tavolinetto da lavoro e tiene tra le dita un sigaro spento. Indossa un’uniforme lisa, con stivaloni e speroni. Ha l’aspetto stanco e annoiato. ALICE siede, inoperosa, nella poltrona a destra. Anch’essa appare stanca, con l’atteggiamento di persona in attesa.

IL CAPITANO: Non vuoi suonarmi qualche cosa?

ALICE (svogliatamente, ma senza dispetto): Che cosa vuoi che ti suoni?

IL CAPITANO: Quello che vuoi.

ALICE: Il mio repertorio a te non piace!

IL CAPITANO: E a te non piace il mio!

ALICE (per cambiar discorso): Vuoi che le porte restino aperte?

IL CAPITANO: Come vuoi.

ALICE: E allora lasciamole così. (Pausa) Perché non fumi?

IL CAPITANO: Non tollero più il tabacco forte.

ALICE (in tono quasi amichevole): E allora puoi fumarne di più leggero... É l’unica tua gioia, come dici.

IL CAPITANO: Gioia?... Che cosa è mai la gioia?

ALICE: Non starlo a chiedere a me,... ne so altrettanto poco quanto te... Vuoi il tuo whisky, adesso?

IL CAPITANO: Aspetterò ancora un poco... Che hai per cena?

ALICE: Come vuoi che lo sappia! puoi chiederlo a Kristin.

IL CAPITANO: Presto avremo gli sgombri... siamo in autunno.

ALICE: Già, siamo in autunno.

IL CAPITANO: Autunno fuori e dentro! Ma, a parte il freddo che l’autunno porta tanto fuori che dentro, uno sgombro arrostito, con un po’ di limone e un bicchiere di Borgogna bianco, non sarebbe da disdegnare.

ALICE: Ora diventi loquace!...

IL CAPITANO: Ce n’è ancora del Borgogna in cantina?

ALICE: Non sapevo che avessimo una cantina, da cinque anni a questa parte.

IL CAPITANO: Tu non sai mai nulla delle cose nostre. E intanto dobbiamo rifornirci per le nostre nozze d’argento!

ALICE: Pensi davvero di celebrarle?

IL CAPITANO: Sì, naturalmente.

ALICE: Sarebbe più naturale che cercassimo di nascondere la nostra miseria,... la nostra venticinquennale miseria!...

IL CAPITANO: Sì, è stata una miserabile vita, la nostra; eppure abbiamo avuto anche dei momenti di gioia! E bisogna goderlo quel breve istante di gioia, perché, presto, tutto sarà finito!

ALICE: Tutto finito? Ah se già lo fosse!

IL CAPITANO: Sì, tutto finito! Concime da caricare su una carriola e da scaricare in giardino.

ALICE: Tanta pena per un giardinetto!

IL CAPITANO: Sì, è così,... ma non è colpa mia!

ALICE: Oh, quanta pena! (Pausa) É arrivata la posta?

IL CAPITANO: Sì!

ALICE: C’era anche il conto del macellaio?

IL CAPITANO: Sì.

ALICE: Quanto gli si deve?

IL CAPITANO (cava di tasca un pezzo di carta e si mette gli occhiali, quindi se li leva): Leggi tu! Non ci vedo più, io!

ALICE: Che succede ai tuoi occhi?

IL CAPITANO: Non lo so.

ALICE: Invecchi!

IL CAPITANO: Io?... Che sciocchezze!

ALICE: Io no di certo!

IL CAPITANO: Uhm!...

ALICE (dando un’occhiata al conto): Lo puoi pagare, questo conto?

IL CAPITANO: Si,... ma non adesso!

ALICE: E allora si pagherà più tardi! Fra un anno, fra due, quando sarai collocato a riposo con una miserabile pensioncina, non è vero? E quando sarai ripreso dalla tua infermità...

IL CAPITANO: La mia infermità? ma se non sono stato mai ammalato, io! Tranne quella volta che stetti malissimo! Vivrò ancora vent’anni!

ALICE: Il medico la pensava diversamente...

IL CAPITANO: Il medico!

ALICE: Già: e chi altro può ben giudicare di una malattia?

IL CAPITANO: Io non sono ammalato!... Non lo sono mai stato!... Né mai lo sarò! Morrò improvvisamente, io! Cadrò d’un sol colpo, io!... Come un vecchio soldato!

ALICE: A proposito del medico,... sai che dà un ricevimento, questa sera?

IL CAPITANO (irritato): E con questo? Noi non siamo stati invitati? Non lo siamo stati perché non lo frequentiamo; e non lo frequentiamo perché non vogliamo, perché disprezzo lui e lei! Sono gentaglia!

ALICE: Per te sono tutti così.

IL CAPITANO: Perché sono tutti gentaglia.

ALICE: Tranne te!

IL CAPITANO: Appunto! Perché io, in tutte le circostanze della vita, ho saputo ben comportarmi. Per questo non sono gentaglia, io!

A. Strindberg, Tutto il teatro. 1899-1901, a cura di A. Bisicchia, Milano, Mursia, 1985

Nel corso del XIX secolo la capacità del teatro di prosa di affrontare la problematica familiare nelle sue implicazioni sociali assicura la sopravvivenza di questa forma di spettacolo presso il grosso pubblico, nonostante la spietata concorrenza dell’opera lirica. Come risulta chiaramente dal confronto tra la commedia di Giraud L’ajo nell’imbarazzo (1807) e la sua trascrizione lirica ad opera di Donizetti (1824; libretto di Jacopo Ferretti), il melodramma impone alle vicende in esso narrate una dilatazione "mitica" tale da renderlo sostanzialmente inadatto a teatralizzare la fenomenologia sociale dei conflitti familiari nella loro bruciante attualità. Non a caso Verdi, portando sulla scena lirica la Signora delle camelie di Dumas figlio (1849, ma rappresentato solo nel 1852) con la propria Traviata (1853; libretto di Francesco Maria Piave), è costretto a retrodatarne la vicenda. Questa specificità che distingue il teatro di prosa dal teatro per musica rendendolo interessante agli occhi del pubblico borghese risemantizza, attraverso le interpretazioni dei grandi attori, anche le opere del passato. Valga per tutti l’esempio del Saul alfieriano (1782), portato con successo sulla scena da Gustavo Modena a partire dalla fine degli anni Venti: l’eroe alfieriano è infatti presentato come incarnazione della figura del padre-tiranno.

Nell’ambito delle relazioni familiari un’attenzione tutta particolare è dedicata all’approfondimento della nuova condizione femminile, che interessa tanto la donna-spettatrice, quanto la donna-personaggio e la donna-attrice. Un fascino notevole esercita sul pubblico femminile la figura di Medea: tanto la Medée di Legouvé (1854) quanto la Medea di Niccolini (1825) entrano per esempio nel repertorio di molte compagnie italiane. Nella seconda metà del secolo grande clamore desta in tutta Europa Casa di bambola di Ibsen (1879) la cui protagonista Nora, al termine delle proprie traversie coniugali, decide di "emanciparsi" abbandonando figli e marito. Sul fronte del rapporto tra le interpreti e i propri personaggi è invece da ricordare il legame che Eleonora Duse stabilisce con l’identità femminile.

Henrik Ibsen

Nora si ribella alla sua condizione

Casa di bambola, Atto III

NORA: Vado via subito. Kristin mi accoglierà per questa notte...

HELMER: Tu sei pazza! Non lo farai! Te lo proibisco!

NORA: Ormai i tuoi divieti non servono a nulla. Porto via tutto ciò che è mio. Da te non voglio nulla, né ora né poi.

HELMER: Che follia!

NORA: Domani ritorno a casa mia... voglio dire al mio paese. Là mi sarà più facile che altrove intraprendere qualcosa.

HELMER: Povera creatura illusa e inesperta!

NORA: Cercherò di acquistare esperienza, Torvald.

HELMER: Abbandonare il tuo focolare, tuo marito, i tuoi figli! Pensa, che dirà la gente!

NORA: Questo non mi può trattenere. Io so soltanto che per me è necessario.

HELMER: Oh, è rivoltante! Così tradisci i tuoi più sacri doveri?

NORA: Che cosa intendi per i miei più sacri doveri?

HELMER: E debbo dirtelo? Non son forse i doveri verso tuo marito e i tuoi bimbi?

NORA: Ho altri doveri che sono altrettanto sacri.

HELMER: No, non ne hai. E quali sarebbero?

NORA: I doveri verso me stessa.

HELMER: In primo luogo tu sei sposa e madre.

NORA: Non lo credo più. Credo di essere prima di tutto una creatura umana, come te... o meglio, voglio tentare di divenirlo. So che il mondo darà ragione a te, Torvald, e che anche nei libri sta scritto qualcosa di simile. Ma quel che dice il mondo e quel che è scritto nei libri non può più essermi di norma. Debbo riflettere col mio cervello e rendermi chiaramente conto di tutte le cose.

HELMER: E del tuo posto al focolare domestico non ti rendi conto? Non hai in tali questioni una guida infallibile? Non hai la religione?

NORA: Ah, Torvald, la religione non so neanche precisamente che cosa sia.

HELMER: Ma che dici mai?

NORA: Non so altro che quel che mi disse il pastore Hansen per prepararmi alla cresima. Egli affermava che la religione era questo e quest’altro. Quando sarò libera e sola esaminerò anche questo problema. Vedrò se è vero quel che diceva il pastore, o meglio se è vero per me.

HELMER: Oh, questo è inaudito sulle labbra di una giovane donna! Ma se la religione non ti può guidare, lascia allora ch’io interroghi la tua coscienza. Non possiedi almeno il senso morale? O forse, dimmi... forse ne sei priva?

NORA: Vedi, Torvald, non è facile risponderti. Non saprei assolutamente. Ho le idee molto confuse. Una cosa è certa, che di tutto ciò ho un concetto diverso dal tuo. Adesso vengo per giunta a sapere che le leggi non sono quelle che io credevo; ma non riesco a convincermi che siano giuste. Secondo tali leggi una donna non avrebbe il diritto di risparmiare un dolore al suo vecchio padre morente, e neppure di salvare la vita a suo marito! Son cose che non posso credere.

HELMER: Tu parli come una bambina; non capisci la società a cui appartieni.

NORA: No, non la capisco. Ma ora cercherò di capirla. Voglio scoprire chi ha ragione, io o la società.

HELMER: Nora, tu sei malata; hai la febbre; credo anzi che tu non sia in te.

NORA: Non mi sono mai sentita così lucida di mente e così sicura di me.

HELMER: E con questa lucidità e sicurezza tu abbandoni tuo marito e i tuoi figli?

NORA: Sì.

HELMER: Allora c’è una sola spiegazione possibile.

NORA: Quale?

HELMER: Tu non m’ami più.

NORA: Sì, è proprio questo.

HELMER: Nora!... E lo dici così?

NORA: Mi addolora molto, Torvald, perché tu sei stato sempre tanto buono con me. Ma che posso farci? Non ti amo più.

HELMER: (sforzandosi di dominarsi) Questa è la tua chiara e assoluta convinzione?

NORA: Sì, chiara e assoluta. Ecco perché non voglio più rimaner qui.

HELMER: E puoi anche spiegarmi come ho perduto il tuo amore?

NORA: Certo. E’ avvenuto questa sera, quando ho atteso invano il prodigio. Allora ho capito che tu non eri l’uomo ch’io credevo.

HELMER: Spiegati meglio; non ti capisco.

NORA: Per otto anni ho atteso pazientemente; mio Dio, lo capivo anch’io che il prodigio non può capitare come una cosa di tutti i giorni. Poi la rovina piombò su di me; e allora attesi con fede incrollabile. Mentre la lettera di Krogstad era là nella cassetta... nemmeno un istante ho pensato che tu potessi piegarti alle pretese di quell’uomo. Ero convinta che gli avresti risposto: va’ pure e fallo sapere a tutto il mondo. E quando ciò fosse avvenuto...

HELMER: Ebbene...? Quando avessi esposto mia moglie al disprezzo e alla vergogna?

NORA: Quando ciò fosse accaduto io ero certissima che ti saresti fatto avanti, e prendendo tutto su di te avresti affermato: sono io il colpevole.

HELMER: Nora...!

NORA: Tu vuoi dire che io non avrei mai accettato un simile sacrificio? Certo che no. Ma a che sarebbero valse le mie affermazioni di fronte alle tue? Questo era il prodigio che io aspettavo tra la speranza e l’angoscia. E per impedirlo, mi sarei tolta la vita.

HELMER: Sarei felice di lavorare giorno e notte per te, Nora... di sopportare affanni e dolori per amor tuo. Ma nessuno sacrifica il suo onore a quelli che ama!

NORA: Migliaia di donne l’hanno fatto.

HELMER: Ah, tu pensi e parli come una bimba incosciente.

NORA: Può darsi. Ma tu non pensi né parli come l’uomo a cui io potrei rimanere vicina. Quando il tuo timore è svanito... il timore, non del pericolo che mi minacciava ma di quello che potevi correr tu stesso, quando ogni paura è passata... tu hai fatto come se nulla fosse accaduto. Io ero di nuovo esattamente come prima, la tua lodoletta, la tua bambola che d’ora innanzi avresti maneggiato con cautela ancor più grande perché è così fragile e delicata. (Alzandosi) Torvald... in quel momento ho capito d’aver vissuto qui per otto anni con un estraneo, e di aver avuto tre figli da lui... Oh, non posso pensarci! Vorrei lacerar me stessa in mille pezzi.

HELMER: (tristemente) Capisco; capisco. Infatti un abisso s’è spalancato fra noi due. Ma dimmi, Nora, non lo si può colmare?

NORA: Così come sono ora, non posso esser tua moglie.

HELMER: Io sento in me la forza di diventare un altro.

NORA: Forse... se ti portano via la tua bambola.

HELMER: Separarmi... separarmi da te! No, no, Nora, non posso adattarmi a questa idea.

NORA: (entrando nella stanza a destra) Ragion di più per finirla. (Rientra portando cappello e soprabito e una valigetta che posa sulla sedia accanto al tavolo).

HELMER: Nora, Nora, non questa sera! Aspetta fino a domani.

NORA: (indossando il soprabito) Non posso passar la notte in casa d’un estraneo.

HELMER: Ma non potremmo vivere insieme come fratello e sorella?

NORA: (mettendosi il cappello) Sai benissimo che non durerebbe a lungo... (S’avvolge nello scialle) Addio, Torvald. Non voglio vedere i bambini. So che sono in mani migliori delle mie. Così come sono ora, non potrei essere una madre per loro.

HELMER: Ma un giorno, Nora... un giorno...?

NORA: Come posso dirlo? Non so nemmeno quel che sarà di me.

HELMER: Ma tu sei mia moglie, ora e sempre.

NORA: Ascolta, Torvald... quando una moglie lascia la casa del marito, come io sto per fare, la legge, ho sentito dire, lo scioglie da ogni impegno verso di lei. Io, comunque, ti sciolgo da ogni impegno. Tu sei libero in tutto, e così voglio essere io. Piena libertà per entrambi. Ecco, questo è il tuo anello. Dammi il mio.

HELMER: Anche questo?

NORA: Anche questo.

HELMER: Prendi.

NORA: Così. Ora tutto è finito. Qui ci sono le chiavi. Quanto al governo della casa... le domestiche ne sanno più di me. Domani, dopo la mia partenza, Kristine verrà a ritirare tutti gli oggetti che avevo portato da casa mia. Voglio che mi siano spediti.

HELMER: E’ finito? Tutto finito? Nora, non penserai mai più a me?

NORA: Certo penserò sovente a te e ai bambini, e a questa casa.

HELMER: Posso scriverti, Nora?

NORA: No... mai. Te lo proibisco.

HELMER: Ma mi permetterai di mandarti...

NORA: Nulla. Nulla.

HELMER: ... di aiutarti, se ne hai bisogno.

NORA: No, ti dico. Non accetto nulla da un estraneo.

HELMER: Nora... non sarò mai più altro che un estraneo per te?

NORA: (prendendo la valigetta) Ah, Torvald, dovrebbe accadere il meraviglioso, il prodigio...

HELMER: Dimmi che cos’è.

NORA: Dovremmo trasformarci tutti e due a tal punto che... ah, Torvald, io non credo più ai prodigi.

HELMER: Ma io voglio credere. Dimmi! A tal punto che...?

NORA: ... che la nostra convivenza diventi matrimonio. Addio! (Esce attraverso l’anticamera).

HELMER: (cade su una seggiola vicino alla porta e si nasconde il viso tra le mani) Nora! Nora! (Si guarda intorno e s’alza) Vuoto. Se n’è andata. (Una speranza nasce in lui) Il prodigio...?

Si sente il tonfo della porta che si chiude.

H. Ibsen, I drammi, trad. it. di A. Rho, introduz. di F. Antonicelli, Torino, Einaudi, 1959

Parigi a colloquio con l’Europa: progetti di drammaturgia

Il panorama socio-culturale dell’Ottocento si costruisce attraverso l’intreccio di prospettive nazionali e aperture in senso cosmopolita. Se da un lato sin dai primi decenni del secolo, il movimento romantico punta per esempio al recupero delle tradizioni culturali dei singoli popoli, dall’altro, esso pone pure all’ordine del giorno nel dibattito letterario il problema delle traduzioni e della conoscenza delle letterature straniere. Sul piano politico alle ideologie nazionaliste si contrappongono le utopie dell’Internazionale socialista e per tutto l’Ottocento le manifestazioni di "dissenso" sono causa di un’elevata "mobilità" degli intellettuali, spesso costretti all’esilio. L’evoluzione del sistema dei trasporti, attraverso la creazione delle prime reti ferroviarie e la diffusione della navigazione a vapore, contribuisce inoltre a rendere più rapidi e agevoli gli spostamenti.

In ambito teatrale la conseguenza più immediata dello sviluppo delle comunicazioni è data dall’aumento delle tournée e dall’ampliamento del loro raggio su scala internazionale e intercontinentale. Non soltanto i grandi attori italiani hanno inclinazione al nomadismo – famoso il giro del mondo di Adelaide Ristori che in venti mesi e dodici giorni tra il 1874 e il 1876 diede 312 rappresentazioni toccando America del Sud e del Nord, Australia, Asia e Africa – ma anche attori inglesi come Edmund Kean e Macready varcano l’Atlantico per esibirsi nei teatri degli Stati Uniti. Anche la Russia esce dal proprio secolare isolamento: nei teatri di Mosca si esibiscono la compagnia dei Meiningen e artisti occidentali come Ernesto Rossi e Tommaso Salvini.

L’Europa non si limita a esportare spettacoli; sin dal 1813 l’americano John Howard Payne recita con successo al Drury Lane e alla Comédie Française, nel 1845 è la volta di Charlotte Cushmann che osa presentarsi al pubblico londinese nelle vesti di Romeo, nel 1861 approda al vecchio continente Edwin Booth dopo aver già visitato l’Australia nel 1854.

Anche i teatri orientali cominciano lentamente a farsi conoscere presso il grande pubblico europeo: all’Esposizione universale del 1889 solleva grande scalpore l’esibizione di una compagnia di danza indo-cinese.

La drammaturgia del XIX secolo non può essere studiata se non in questa prospettiva internazionale, tenendo conto delle sfasature geografiche da cui è percorsa: la "tragedia naturalista" Signorina Giulia di Strindberg (1888) è per esempio rappresentata a Copenaghen (1889), Berlino (1892) e Parigi (1893) prima di andare in scena in Svezia (1907, università di Lund) o ancora il poema drammatico Peer Gynt di Henrik Ibsen (1867), nonostante il suo profondo rapporto col folklore norvegese, è in realtà composto in Italia.

Per Walter Benjamin, Parigi, che con le sue esposizioni universali tende a presentarsi quale "capitale del XIX secolo", è sicuramente un osservatorio privilegiato: il suo articolato sistema teatrale fondato sul principio della specializzazione – un decreto napoleonico impone che a ogni teatro della capitale venga attribuito uno specifico genere di rappresentazione – consente infatti di seguire il cammino della drammaturgia ottocentesca lungo tutto il suo corso. Autori quali Scribe, Labiche e Sardou sono inoltre presi a modello da tutti i drammaturghi occidentali.

Mentre il palcoscenico del Théâtre de la Porte Saint-Martin pullula ancora di banditi, fanciulle insidiate, filtri e pozioni, a Parigi si avvia un dibattito sulla nuova drammaturgia romantica che coinvolge in un dialogo serrato interlocutori tedeschi, italiani e inglesi. Nel 1809 Benjamin Constant pubblica una traduzione rielaborata della trilogia schilleriana Wallenstein facendola precedere dall’introduzione Riflessioni sulla tragedia di Wallenstein e sul teatro tedesco. Constant è forte di una conoscenza di prima mano del teatro tedesco maturata durante un viaggio (1803) in compagnia di Madame de Staël, durante il quale ha visitato Weimar, Francoforte, Lipsia e Berlino. In risposta al Confronto tra la Fedra di Racine e quella di Euripide di August Wilhelm Schlegel (1807) e della sua critica al teatro classicista francese, Constant giustifica il proprio intervento sull’opera di Schiller – impiego dei versi alessandrini, eliminazione dei personaggi secondari con parallela limitazione del nucleo drammatico nel tentativo di adattarlo alle unità di tempo e di luogo – facendo presente che ciò che è appropriato allo spirito tedesco può risultare pericoloso in Francia. Il principio della relatività nel giudizio estetico è per altro già stato introdotto anche nella cultura tedesca da Adam Müller, che sostiene il valore artistico del teatro di Racine alla luce delle particolari caratteristiche dell’epoca in cui il drammaturgo aveva operato (Über die dramatische Kunst, 1806 ma edito 1808). Nel 1813 Madame de Staël pubblica a Londra La Germania, aggirando gli ostacoli della censura napoleonica che tre anni prima aveva bloccato l’uscita dell’opera sul continente; pochi mesi dopo esce in Francia il Corso di letteratura drammatica, traduzione delle Lezioni sull’arte drammatica e sulla letteratura di August Wilhelm Schlegel, edite a Heidelberg nel 1809. L’opera di Schlegel sarà pubblicata nel 1815 in traduzione inglese e nel 1817 in versione italiana.

Sul finire del primo decennio del secolo il Corso schlegeliano, trascrizione delle lezioni sulla letteratura drammatica tenute dall’autore a Vienna nel 1808 sintetizza i punti chiave della teoria teatrale romantica e più in generale dell’estetica del nuovo movimento. Secondo Schlegel il cristianesimo ha conferito all’arte una profondità spirituale e un’ansia di trascendenza sconosciute agli antichi: è quindi nel Medioevo che occorre ricercare i modelli per la poesia moderna, e cioè, sul piano teatrale, nella tradizione dei misteri e delle moralità. L’arte romantica è animata da un desiderio irrealizzabile (Sehnsucht) e da una nostalgia per l’assoluto smarrito.

A differenza dell’arte classica tendenzialmente plastica, essa si caratterizza per la sua essenza pittorica. In polemica con i classicisti, rifiutando il rispetto delle unità di tempo e di luogo, del principio della distinzione dei generi e di ogni altra regola "arbitraria", l’arte romantica rinuncia alla forma "meccanica" per ricercarne una "organica". Soltanto l’unità di azione è fatta salva, ma in un senso più ampio di quello consacrato dalla tradizione classica, più vicino semmai all’"unità di interesse" teorizzata da La Motte. Le opere di Shakespeare e di Calderón de la Barca sono additate come perfetta esemplificazione del dramma romantico.

L’articolo di Madame de Staël Sulla maniera e utilità delle traduzioni, pubblicato a Milano nel 1816, accende immediatamente in Italia la polemica tra romantici e classicisti; tra i primi si distingue, sul terreno della teoria teatrale, Ermes Visconti con il proprio Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo (1819). Le argomentazioni di Visconti, tese a confutare la teoria classicista secondo la quale la violazione delle unità di tempo e luogo nuocerebbero all’effetto di verosimiglianza, sono riprese da Stendhal nel proprio saggio su Shakespeare. Tornato nel 1821 a Parigi dopo un lungo soggiorno milanese, Stendhal, di fronte al fiasco cui va incontro nel 1822 una troupe inglese che recita Shakespeare al Théâtre de la Porte Saint-Martin, pubblica l’anno successivo Racine et Shakespeare, poi riveduto e ampliato nel 1825. Sempre nel 1823, una settimana prima della pubblicazione del saggio di Stendhal, esce la traduzione francese, curata da Fauriel, del Conte di Carmagnola (1820) e dell’Adelchi (1822) di Manzoni.

In appendice alle tragedie, Fauriel traduce pure una favorevole recensione di Goethe al Carmagnola e il Dialogo di Visconti; il volume comprende inoltre la Lettera a Monsieur Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia firmata dallo stesso Manzoni e indirizzata al letterato francese Victor Chauvet.

In un articolo comparso sul "Lycée Français" nel 1820, Victor Chauvet, pur apprezzando il Carmagnola di Manzoni, aveva criticato l’impianto drammaturgico della tragedia poiché, non rispettando le unità di tempo e di luogo, rischiava di distruggere la stessa unità d’azione. Manzoni, che nella prefazione al Carmagnola aveva già affrontato il problema delle unità in rapporto alla più ampia questione della moralità del teatro, risponde allo Chauvet, nella lettera pubblicata da Fauriel, sviluppando un parallelo tra lo storico e il poeta.

Sia l’uno che l’altro raccontano la storia selezionando dal flusso degli eventi gli episodi più significativi per la caratterizzazione dei personaggi di cui si occupano, ma mentre lo storico si dedica solo all’oggettività dei fatti, il poeta esplora l’interiorità dei propri eroi. Rifacendosi al paradigma shakespeariano, Manzoni arriva così a impostare chiaramente il problema del rapporto tra storia e teatro che attraversa tutta la drammaturgia romantica fino a Büchner.

Alessandro Manzoni

Rapporto tra storia e poesia

Lettera a Monsieur Chavet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia

Prima di prendere in esame la regola dell’unità di tempo e di luogo nei suoi rapporti con l’unità d’azione, sarebbe bene intendersi sul significato di quest’ultimo termine. Con unità d’azione non si vuol indicare certo la rappresentazione di un fatto semplice e isolato, ma la rappresentazione di un seguito di avvenimenti legati tra loro. Ora, questo legame fra parecchi avvenimenti, legame che fa si che possano considerarsi come un’azione unica, è forse arbitrario? No, certo; giacché se lo fosse l’arte non avrebbe più fondamento nella natura e nella verità. Dunque, questo legame esiste; ed è insito nella natura stessa della nostra intelligenza. Una delle più importanti facoltà della mente umana è infatti quella di cogliere, fra gli avvenimenti, i rapporti di causa e di effetto, di anteriorità e di conseguenza che li legano; di ricondurre a un punto di vista unitario, e come in virtù di un unica intuizione, molti fatti separati dalle condizioni del tempo e dello spazio, scartando gli altri fatti che ad essi sono collegati soltanto per coincidenze accidentali. E in questo consiste il lavoro dello storico. Il quale opera negli avvenimenti, per così dire, la cernita necessaria per arrivare a questa visione unitaria; lascia da parte tutto ciò che non ha alcun rapporto coi fatti più importanti, e, avvalendosi della rapidità del pensiero, accosta il più possibile tali fatti tra loro, per presentarli in quell’ordine che la mente ama trovare in essi e del quale essa mente porta in se stessa il modello ideale.

(...) Che cosa fa dunque il poeta? Trasceglie, nella storia, alcuni avvenimenti interessanti e drammatici, i quali siano così profondamente legati l’uno all’altro, e lo siano così debolmente con ciò che li ha preceduti e seguiti, che la mente, vivamente colpita dal loro reciproco rapporto, si compiaccia a considerarli uno spettacolo unitario, e vivamente si applichi a cogliere tutta l’estensione, tutta la profondità del rapporto che li unisce, a individuare il più nettamente possibile le leggi di causa e di effetto che li governano. Questa unità è ancora più accentuata e più facile a cogliersi quando, fra numerosi fatti legati fra loro, esiste un avvenimento principale intorno al quale vengono a raggrupparsi tutti gli altri come appoggi o come ostacoli; un avvenimento che si presenta a volte come il compimento dei disegni umani, a volte invece come un brusco intervento della Provvidenza che li annienta; come un punto di arrivo individuato o da lontano intravisto, che si voleva evitare, e verso il quale ci si precipita invece per quella stessa strada in cui ci si era buttati per correre alla meta opposta. E’ a questo avvenimento principale che si dà il nome di catastrofe, e che troppo spesso è stato confuso con l’azione; la quale invece è propriamente l’insieme e la successione di tutti i fatti rappresentati.

(...) Ma, si potrà dire, se al poeta si toglie ciò che lo distingue dallo storico, e cioè il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? Che cosa gli resta? la poesia; sì, la poesia. Perché, alla fin fine, che cosa ci dà la storia? Ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, coi quali, in una parola, hanno rivelato la loro personalità: tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia. Sarebbe assurdo temere che, in tale ambito, manchi mai alla poesia occasione di creare nel senso più serio, e forse nel solo serio, della parola. Ogni segreto dell’animo umano si svela, tutto ciò che determina i grandi avvenimenti, che caratterizza i grandi destini si palesa alle immaginazioni dotate di sufficiente carica di simpatia. Tutto quello che la volontà umana ha di forte o di misterioso, che la sventura ha di sacro e di profondo, il poeta può intuirlo; o, per meglio dire, può individuarlo, capirlo, ed esprimerlo. Quando a Cesare fu presentata la testa di Pompeo, egli pianse sul suo illustre nemico; e mostrò grande sdegno contro i vili artefici della sua morte. Questo è quanto sappiamo dalla storia. Orbene, quando Corneille fa pronunciare da Filippo queste parole da lui attribuite a Cesare,

Spoglie di un semidio, di cui a mala pena posso

uguagliare il grande nome, benché io sia il suo vincitore,

di questi traditori, egli dice, vogliate punire i delitti,

Corneille non inventa un fatto, non inventa neppure un sentimento; e tuttavia questi versi sono una creazione, e una bella creazione poetica. Corneille ha trovato un’espressione mediante la quale un uomo come Cesare ha potuto adeguatamente, in quella data circostanza, manifestare il suo carattere. Il poeta ha in qualche modo tradotto, nel suo linguaggio, le lacrime del guerriero vincitore sopra il destino tragico dell’eroe vinto. Questa mescolanza di magnanimità e di ipocrisia, di generosità e di astuzia, questa capacità di dissimulare ogni esultanza in un momento di smisurata fortuna, questo pietoso turbamento che in qualche modo nasce da un ripiegarsi del personaggio su se stesso e dal pensiero della fine miseranda di un uomo poco prima così potente; tutti questi sentimenti, di cui la storia non dà che l’astratta conclusione, Corneille li ha espressi in parole, e in parole che Cesare avrebbe potuto pronunciare.

A. Manzoni, Scritti di teoria letteraria, a cura di A. Sozzi Casanova, introduz. di C. Segre, Milano, Rizzoli, 1981

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