IL FALSO NEL COMMERCIO INTERNAZIONALE

XXI Secolo (2009)

Il falso nel commercio internazionale

Salvatore Casillo

Merci con false identità

Nell’ambito della produzione e del commercio dei beni manifatturieri, la falsificazione può essere definita come un tipo di frode finalizzata a conferire a un manufatto un’identità che esso non possiede e che è, invece, propria di un altro manufatto, allo scopo, da parte di quanti esercitano questa attività, di immettere sul mercato prodotti che, in virtù delle loro ingannevoli sembianze, permettono a essi di trarre dei benefici di carattere economico.

La falsificazione di merci destinate alla vendita è esistita, si potrebbe dire, da ‘sempre’ nelle vicende economiche delle società organizzate, raggiungendo, in tempi molto remoti, dimensioni, talvolta, ragguardevoli. Una folta rassegna di prodotti dalla falsa identità merceologica ci è stata fatta pervenire, per es., da Plinio il Vecchio che, nella Naturalis historia (78 d.C. ca.), ha fornito per ognuno di essi – dalla mirra al mastice, dal vino di qualità alla pelle di riccio allora usata per cardare la lana, dall’incenso alle gemme preziose, dai profumi ai colliri e agli impiastri medicamentosi – dettagliate informazioni sui materiali, sui procedimenti e sugli espedienti più correntemente utilizzati per fabbricarli. In epoca lontana anche l’identità dei produttori era oggetto di falsificazioni. È stato, però, con l’avvento della Rivoluzione industriale che per la falsificazione dei manufatti si sono aperte prospettive di sviluppo su larga scala. Nel 1832 Charles Babbage, esaminando criticamente la qualità delle merci in commercio, denunciò, accanto alle tradizionali falsificazioni del tè e delle sementi, la presenza sul mercato di falsi merceologici del lino irlandese, dei merletti di tulle, delle calze, degli accessori argentati per le carrozze, come pure di falsi concernenti la provenienza aziendale.

Il primo tentativo su scala internazionale di porre un argine a questi comportamenti economici sleali è rappresentato dalla Convention d’union de Paris, sottoscritta dai principali Paesi industriali del mondo nel 1883 per la protezione della proprietà industriale e per regolamentare la concorrenza tra le imprese, affiancata, nel 1891, dall’Arrangement de Madrid e dal suo Regolamento, approntati allo scopo di disciplinare la registrazione internazionale dei marchi di fabbrica e di commercio e di garantire maggiormente la loro tutela. Questi ultimi due atti, a varie riprese aggiornati e integrati – da ultimo con un Protocollo aggiunto nel 1998 ed emendato nel 2006 –, sono stati firmati sino a oggi da 82 Paesi, all’interno dei quali spicca l’assenza degli Stati Uniti. Sino a oltre la metà del 20° sec., tuttavia, la maggior parte delle aggressioni ai marchi più rinomati non si è manifestata nella forma della ‘falsificazione perfetta’, cioè dell’immissione sul mercato di beni all’apparenza del tutto identici a quelli realizzati e fatti affermare dalle imprese detentrici dei marchi, ma in quella della fabbricazione di beni il più possibile simili a quelli autentici, approntati con il corredo di imitazioni, più o meno parziali, delle modalità di scrittura delle loro denominazioni e degli elementi figurativi impressi su di essi o sui loro contenitori. La crisi economica occidentale degli anni Settanta, che ha visto l’enorme crescita dei prezzi delle materie prime e una conseguente e impetuosa inflazione mondiale, ha fornito l’humus nel quale le falsificazioni dei prodotti manifatturieri, incentrate sull’appropriazione dei marchi aziendali, hanno cominciato ad assumere una dimensione sempre più rilevante, dapprima nell’ambito dei mercati interni di molti Paesi e, poi, nel mercato internazionale. La perversa congiunzione tra alti tassi di inflazione e stagnazione economica ha indotto numerose piccole e medie imprese alla chiusura oppure a operare in modo clandestino producendo, a costi minimi, beni di scarsa qualità destinati, per lo più, a mercati marginali e paralleli rispetto a quello ordinario. Da questo enorme laboratorio sommerso fuoriuscivano numerosi tipi di beni di largo e quotidiano consumo che negli acquisti di molte famiglie sostituivano quelli fabbricati regolarmente, i cui prezzi erano stati resi proibitivi dall’inflazione. Questi manufatti ufficialmente risultavano né prodotti né venduti e consentivano a quanti li fabbricavano e li mettevano in commercio l’acquisizione di profitti che sfuggivano alle imposizioni fiscali. Essi, inoltre, quando venivano corredati da qualche produttore anche con falsi marchi di imprese di prestigio e messi in vendita a ‘buon prezzo’, non suscitavano negli acquirenti alcun sospetto circa la loro autenticità, dal momento che per i più il rischio di imbattersi in prodotti falsificati era ancora confinato nell’area di alcuni generi di lusso, come gli orologi di marca o i preziosi, commerciati al di fuori dei normali circuiti di vendita, e non certo in quella dei generi di consumo ordinario, quali i detersivi o gli articoli per l’igiene personale, la biancheria oppure i capi di vestiario per tutti i giorni, le pentole o le prese per la corrente elettrica. La lunga durata della crisi ha reso via via sempre più ampia la gamma dei prodotti immessi sul mercato con false identità aziendali, la cui fabbricazione clandestina, caratterizzata da crescenti gradi di perfezione, allontanandosi progressivamente la fase più acuta della congiuntura negativa, ha finito con il soppiantare quasi completamente quella degli altri manufatti venduti a basso prezzo e muniti di indicazioni che attribuivano la loro realizzazione ad aziende prive di qualsiasi tipo di no-torietà oppure addirittura inesistenti.

Con l’utilizzazione, da parte di tutte le imprese che si erano sottoposte a profonde ristrutturazioni, di materie prime sempre più economiche e di processi produttivi il più possibile semplificati, con la disponibilità di tecnologie manifatturiere acquistabili a costi relativamente bassi (comprese quelle necessarie per consentire a chiunque di riprodurre perfettamente il packaging dei beni particolarmente richiesti dal mercato), con il perdurare di livelli elevati di disoccupazione e di sottoccupazione, i produttori di falsi si sono trovati a disporre della possibilità di replicare le sembianze di quasi tutti i tipi di manufatto. Le loro schiere si sono infoltite e i loro profili si sono fatti più articolati. Rispetto a un iniziale variegato universo di soggetti che producevano falsi di livello molto spesso mediocre, predisposti per essere smerciati quasi esclusivamente attraverso circuiti di vendita secondari (piccole unità commerciali marginali e ambulantato), si sono differenziati gruppi di fabbricanti capaci di realizzare cloni perfetti, collocabili sul mercato in negozi insospettabili; a produttori di falsi destinati a ingannare quanti li comperavano con la convinzione che fossero beni effettivamente provenienti dagli stabilimenti delle imprese di cui essi recavano i marchi, si sono affiancati produttori di alcuni altri falsi (specialmente nei settori dell’abbigliamento e dei suoi accessori, della pelletteria e delle riproduzioni musicali e cinematografiche) approntati per soddisfare la domanda di consumatori interessati ad acquistarli proprio in quanto falsi e disposti a pagarli, evidentemente, al prezzo di prodotti non autentici; accanto a microimprese, di quando in quando dedite alla fabbricazione di falsi, oppure a compagini allestite per approntarne occasionalmente alcune partite, in molti Paesi del mondo sono sorte strutture di produzione stabilmente impegnate nell’attività di falsificazione, un buon numero delle quali non ha tardato a proiettarsi anche oltre i confini nazionali, sia per approvvigionarsi di taluni semilavorati, sicuramente meno costosi rispetto a una loro produzione diretta, da completare rapidamente e immettere nei propri mercati interni con marchi usurpati, sia per esportare, una volta realizzati, i manufatti con mendaci identità aziendali ovunque si presentasse la possibilità di poterli collocare ricavandone buoni profitti.

Le falsificazioni manifatturiere nell’economia globale

Nell’aprile del 1997, il Counterfeiting intelligence bureau (CIB), istituito dalla International chamber of commerce (ICC) nel 1985 affinché potesse rappresentare «un punto di riferimento per le industrie e per gli altri soggetti interessati a livello mondiale a contrastare il crescente problema della contraffazione», ha pubblicato una ‘guida’ per prevenire e combattere il fenomeno, approntata da Hema Vithlani e intitolata Countering counterfeiting. Pochi mesi dopo, nel gennaio del 1998, l’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) ha licenziato un rapporto dal titolo The economic impact of counterfeiting che costituisce una sorta di ‘revisione’ del lavoro della Vithlani, dal quale, infatti, il testo non si discosta molto, sia per l’impostazione generale, sia per i contenuti, sia, ancora, per la gran parte dei dati che riporta e per le loro fonti, nonché per le proposte di possibili iniziative di difesa dalle falsificazioni. La guida e il rapporto costituiscono il primo significativo segnale della preoccupazione che, alle soglie del nuovo secolo, ha suscitato negli ambienti economici il diffondersi della produzione e del commercio di beni falsi sui vari mercati nazionali e su quello mondiale. Si sono fatti portavoce di questa preoccupazione due organizzazioni autorevoli. I dati diffusi dalle due pubblicazioni per descrivere la dimensione e l’incidenza economica della falsificazione manifatturiera sono stati ripresi da molti altri enti e istituzioni sovranazionali e nazionali. Circa l’entità complessiva delle falsificazioni stimata nella guida e nel rapporto è opportuno procedere a un suo breve esame, prendendo in considerazione la versione diffusa dall’OECD, in virtù del fatto che essa fa parte del complesso dei documenti ufficiali pubblicati da un’organizzazione formata da Stati nazionali e non da consociazioni di operatori economici privati, per quanto prestigiose esse siano. Per indicare le attività di falsificazione manifatturiera, il testo utilizza il termine counterfeiting (contrefaçon nella versione in lingua francese) specificando che «in inglese tecnicamente la parola ‘counterfeiting’ non si riferisce che ai casi specifici di attentato ai diritti di marchio. Nella pratica, tuttavia, questo termine sta a indicare ogni fabbricazione di un prodotto che imita l’apparenza del prodotto di un altro allo scopo di far credere al consumatore che egli si trovi di fronte al prodotto dell’altro. Conseguentemente, esso può ricoprire anche la produzione e la distribuzione illegali di un prodotto protetto da altri diritti di proprietà intellettuale, in particolare il diritto d’autore e i diritti affini» (OECD 1998, p. 5). Sulla scorta di questa definizione, il rapporto, dopo aver riportato tutta una serie eterogenea di dati – le cui fonti esplicitamente citate sono generiche «varie associazioni imprenditoriali e stampa» (p. 10) – relativi all’incidenza che la contraffazione avrebbe avuto negli anni Novanta del secolo scorso sul giro d’affari di alcuni settori manifatturieri, attribuisce al fenomeno «un’ampiezza che non cessa di crescere», aggiungendo poi che «non è possibile disporre di statistiche precise per comprovare un tal genere di percezione a causa essenzialmente del carattere clandestino di questa attività». Ciononostante, nel testo viene anche affermato che «attualmente si stima che i costi legati alla contraffazione rappresentino dal 5 al 7 per cento del valore degli scambi mondiali. Non esistono molti dati complessivi in grado di confermare queste alte percentuali ma le cifre sono ormai accettate e utilizzate per illustrare l’ampiezza del fenomeno» (p. 23). Francamente si tratta di un modo alquanto inusuale di offrire a una platea internazionale un’informazione che si ritiene possa aspirare a possedere un qualche tipo di fondamento reale e che, purtroppo, si è altresì tramutata, presso tutti coloro che hanno successivamente ripreso il dato, in una stima scaturita da specifiche indagini ed elaborazioni effettuate dall’OECD.

Non meno anomale, dal punto di vista dell’attendibilità, si presentano le considerazioni connesse a tale stima, espresse senza il conforto di una qualsiasi indicazione circa i metodi seguiti per formularle, né di riscontri atti a comprovarle, come la supposizione che «la contraffazione sarebbe passata dal 3% [degli scambi mondiali] nel 1990 a più del 5% nel 1995 e abbia avuto una progressione media annuale dello 0,5%» (p. 24), raggiungendo un valore di 250 miliardi di dollari; oppure come l’affermazione che, dall’inizio del decennio al 1995, il valore del commercio mondiale, passando da 3400 a 5000 miliardi di dollari statunitensi, avrebbe avuto un incremento del 47%, mentre, nello stesso arco di tempo, quello della contraffazione sarebbe stato del 150%; o, ancora, come le notizie che «le stime effettuate negli Stati Uniti e in Europa fanno ritenere che la contraffazione costi, soltanto a queste due regioni, più di 200.000 posti di lavoro» (p. 25) e che il peso della contraffazione, qualora fosse stato rapportato alle esportazioni di alcuni Paesi, si sarebbe rivelato equivalente al 17% di quelle del Giappone, al 16% di quelle degli Stati Uniti e all’8% di quelle dell’Unione Europea.

I sequestri delle dogane dell’Unione Europea

Pur essendo, quindi, la produzione e il commercio di falsi un problema effettivo e concreto che non poteva essere ignorato, il primo importante tentativo, effettuato da parte di non secondarie organizzazioni economiche internazionali, di delineare la sua consistenza e di studiare le sue implicazioni ha prodotto risultati deludenti. Esiti non migliori hanno contraddistinto i tentativi in cui si sono successivamente cimentati anche altri organismi di non inferiore rispettabilità e prestigio della scena economica e politica mondiale. Tra questi, in particolare, l’Unione Europea che, a seguito di un solenne impegno a contrastare l’importazione di prodotti falsi, assunto sulla base di un documento dal titolo Libro verde. La lotta alla contraffazione ed alla pirateria nel mercato interno (adottato nel 1998), con l’inizio del nuovo secolo ha potenziato e intensificato l’attività di controllo sulle merci provenienti dai Paesi extracomunitari da parte delle dogane dei suoi Stati membri. A tutta prima, i dati raccolti sui sequestri effettuati dalle dogane comunitarie, che la Commissione europea diffonde annualmente attraverso la Direzione generale fiscalità e unione doganale, mostrano una notevole crescita del numero delle merci intercettate ritenute contraffatte. Il totale, infatti, degli articoli sequestrati nel 2000 (anno in cui le attività delle dogane possono essere considerate a regime in tutti gli Stati membri all’epoca aderenti all’Unione Europea) è stato indicato in 67.789.991, mentre nel 2006 e nel 2007, rispettivamente, in 128.631.297 e in 79.076.458. Chi da questi dati, e dal complesso degli elaborati statistici all’interno dei quali sono stati riepilogati i quantitativi delle merci sequestrate nei vari anni, volesse trarre considerazioni utili per comprendere le dinamiche dell’importazione nell’Unione Europea di beni falsi non può, però, andare oltre la formulazione di qualche ipotesi non facile da provare se non, addirittura, di semplici illazioni. Le principali ragioni di questa affermazione sono riassumibili in pochi punti.

a) Senza entrare, per il momento, nel merito di questi totali, va subito fatto notare che il numero delle ‘procedure di intervento’ intraprese dalle dogane e da cui sono scaturiti i sequestri è passato da 6251 nel 2000 a 37.335 nel 2006 e a 43.761 nel 2007, ragion per cui non è possibile stabilire se e quanto l’incremento degli articoli sequestrati sia dovuto a una crescita delle importazioni verso l’Unione Europea di prodotti falsi oppure alla moltiplicazione per sei o per sette del numero dei controlli svolti dal sistema doganale comunitario.

b) Nel 2000 l’Unione Europea contava 15 Stati membri mentre nel 2006 ne accoglieva 25 e 27 nel 2007, sicché ogni confronto tra il totale iniziale dei prodotti sequestrati e quelli più recenti è privo di senso, anche perché, per le modalità con le quali la Commissione ha ritenuto di rendicontare l’attività di contrasto delle dogane all’introduzione nel territorio comunitario di merci contraffatte, se per il 2000 è possibile disporre di informazioni sui sequestri avvenuti in ogni Stato membro, per il 2006 e il 2007 non si conosce in quale misura i prodotti falsi siano stati fermati dalle autorità doganali dei Paesi di più antica appartenenza all’Unione e in quale da quelle dei Paesi che vi hanno aderito in tempi più recenti.

c) Sotto l’aspetto tecnico doganale, la condizione dei due totali di prodotti è quella di beni sottoposti a sequestro sulla base del sospetto di una loro tentata introduzione nel territorio comunitario in violazione delle disposizioni che regolamentano le importazioni (in ordine, per l’esattezza, all’autenticità dei marchi commerciali, ai diritti di proprietà intellettuale, alla dichiarazione dell’origine nazionale delle merci e alla loro conformità ai requisiti di sicurezza, di tutela della salute, dell’igiene e della protezione dell’ambiente vigenti nell’Unione Europea). I prodotti sequestrati si tramutano in ‘confiscati’ solo se viene accertata la fondatezza delle violazioni a essi attribuite, altrimenti devono essere dissequestrati e restituiti all’importatore che li può immettere sul mercato comunitario. Questa eventualità può verificarsi anche nel caso in cui l’irregolarità, benché comprovata, rientri tra le infrazioni che possono essere sanate mediante il pagamento di una sanzione amministrativa e delle eventuali altre imposizioni previste per l’importazione di beni provenienti da Paesi extracomunitari. Le statistiche elaborate dalla Direzione generale fiscalità e unione doganale non sono depurate dai dati concernenti i prodotti che, successivamente al loro sequestro, risultano regolari o vengono regolarizzati.

d) Dal 2002, tra le categorie merceologiche all’interno delle quali vengono suddivisi gli articoli intercettati dalle dogane comunitarie figura anche quella delle ‘sigarette’ – in precedenza collocata nel raggruppamento dei ‘prodotti vari’ – i cui sequestri sono stati misurati, sino al 2005, conteggiando i singoli cilindri di tabacco. In ragione di questa procedura, nel 2002, su 84.951.038 articoli complessivamente sequestrati, le sigarette ammontavano a 31.360.411 (36,9%); nel 2003, su 92.164.005 articoli, a 33.189.812 (36,0%); nel 2004, su 103.544.729 articoli (11.432.751 intercettati nei nuovi dieci Stati membri e 92.111.978 nei quindici di più anziana adesione alla Comunità), a 41.588.030 (con un’incidenza del 40,2% sul totale generale e, rispettivamente, del 40,8% e del 35,1% su quelli relativi ai due raggruppamenti di Paesi); nel 2005, anno nel quale la Commissione europea ha cessato di comunicare i dati ripartiti per tipologie di prodotti e Stati membri, su 75.733.338 articoli sequestrati le sigarette raggiungevano la cifra di 32.733.338 (43,2%). Per quel che riguarda il 2006, poi, la Commissione europea, dopo aver diffuso per vari mesi statistiche nelle quali i prodotti sequestrati in quell’anno ammontavano a ben 253.041.066 (96.338.391 relativi a varie categorie merceologiche e 156.652.675 a quella delle sigarette), ha in seguito rettificato il dato in 128.631.297. La modifica è stata resa necessaria, secondo quanto è stato ratificato dalla Commissione, poiché, anche dopo la decisione «di considerare [dal 2006] il pacchetto di 20 sigarette come unità di calcolo per i sequestri di sigarette», i consuntivi dell’attività doganale comunicati da alcuni Stati membri erano stati compilati conteggiando ancora i singoli cilindri di tabacco. La spiegazione, però, non è molto convincente, dal momento che, suddividendo il nuovo totale complessivo nelle due componenti merceologiche sinora prese in considerazione, che concorrono alla sua formazione, va rilevato, in primo luogo, che nei dati inizialmente comunicati l’ammontare dei prodotti sequestrati diversi dalle sigarette era di 96.338.391, mentre, dopo la revisione dei calcoli operata dalla Commissione (che, per le motivazioni con cui è stata giustificata, non avrebbe dovuto avere alcuna incidenza su tale cifra), il quantitativo è sceso a 54.710.851; in secondo luogo, che il totale di 73.920.446 pacchetti di sigarette sequestrati, scaturito dall’operazione di omogeneizzazione dei dati forniti dalle dogane degli Stati membri, se fosse stato espresso, come nel passato, sommando i cilindri di tabacco sarebbe asceso a 1.478.408.920, un valore numerico a dir poco improbabile poiché, in base a esso, le singole sigarette sequestrate nel 2006 avrebbero fatto registrare sull’anno precedente uno strabiliante incremento del 4529,3% che nessuno, però, sembra essersi preoccupato di far notare, così come nessuno ha ritenuto opportuno segnalare, spiegandone le ragioni, la massiccia contrazione, avvenuta tra il 2007 e il 2006, del numero dei pacchetti di sigarette sequestrati (non in 25, bensì in 27 Stati membri), il cui totale risulta essere passato da 73.920.446 a 27.161.056, pur continuando il comparto in questione a costituire il 34,3% di tutti gli articoli sequestrati.

e) Se la modalità per quantificare le sigarette sequestrate è stata modificata mediante la sostituzione del conteggio dei singoli cilindri di tabacco con quello dei pacchetti da venti pezzi, da alcuni documenti della Commissione si evince che vari altri prodotti bloccati alle frontiere comunitarie perché ritenuti falsi vengono computati addizionando i singoli pezzi, anche quando questa operazione provoca effetti fuorvianti per la definizione del totale delle merci sequestrate, come, per es., nel caso dei frutti, delle pillole medicinali, dei bottoni o delle etichette che riproducono illecitamente taluni marchi.

f) Quella delle sigarette è una categoria di prodotti di cui è difficile stabilire la falsa identità aziendale. Pur non volendo escludere l’esistenza di strutture manifatturiere che si dedicano alla loro fabbricazione corredandole di confezioni con marchi falsi, è anche vero che si muovono quotidianamente nel mondo grandi quantitativi di questo tipo di prodotti commerciati di contrabbando, o che, realizzati da imprese licenziatarie del marchio, vengono immessi sul mercato internazionale eludendo la corresponsione delle royalty per essi dovute. Ai fini dell’identificazione delle sigarette contraffatte da parte delle dogane europee, un particolare rilievo assume l’accordo stipulato, nel luglio del 2004, tra la Commissione europea e la Philip Morris international, la cui sottoscrizione ha chiuso una lunga vertenza che vedeva la multinazionale accusata di aver introdotto in contrabbando i propri prodotti nel territorio comunitario. L’intesa prevede che la società statunitense versi, nell’arco di dodici anni, a dieci Stati membri una cifra che, in funzione di una serie di fattori, potrebbe ammontare complessivamente a 1250 milioni di dollari statunitensi, nonché il suo impegno a effettuare ulteriori pagamenti qualora, in futuro, vengano sequestrati nell’Unione Europea quantitativi di propri prodotti autentici superiori a quelli fissati, indipendentemente da eventuali colpe o infrazioni a essa ascrivibili. Nell’accordo, la Commissione europea e la Philip Morris international hanno anche stabilito di intensificare l’attività di contrasto alla contraffazione di sigarette, avviando una forma di collaborazione organica nell’ambito della quale al personale in forza alla società spetta il compito di accertare l’autenticità o meno delle sigarette sequestrate dalle autorità doganali comunitarie e sospettate di essere false.

Le stime dell’OECD

I più recenti dati sul fenomeno della contraffazione manifatturiera forniti da un’istituzione internazionale provengono da un nuovo rapporto che l’OECD ha reso pubblico alla fine del 2007. In esso l’organizzazione, tornando a segnalare la difficoltà di disporre di informazioni in grado di quantificare in modo attendibile il fenomeno, prende le distanze dalle stime da essa stessa messe in circolazione dieci anni prima, addirittura attribuendone la responsabilità esclusivamente al CIB e alla ICC ed evidenziando che «i metodi di misurazione della stima dell’ICC non sono chiari. Alcuni hanno interpretato la cifra nel senso che i prodotti falsi commerciati a livello internazionale costituivano il 5-7% del totale delle merci scambiate; altri hanno ritenuto che la cifra si riferisse alla produzione totale di contraffazione per il commercio mondiale (includendo sia la produzione per il consumo interno sia quella per l’export). Né è chiaro quali tipi di violazioni dei diritti di proprietà intellettuale siano stati inclusi nella stima. Nella sua accezione più limitata, la contraffazione si dovrebbe riferire strettamente alle violazioni dei marchi. Se viene inclusa la pirateria, essa dovrebbe comprendere i brevetti, i diritti d’autore e altre forme di violazione della proprietà intellettuale. Infine, il rapporto dell’ICC rivela che le stime riflettono pareri che non sono supportati da dati accertati» (OECD 2007, parte prima, p. 55). Il procedimento seguito dall’OECD per pervenire a una nuova stima delle dimensioni assunte nel 2005 dalla contraffazione e dalla pirateria – intese come violazioni dei marchi, del copyright e dei diritti a esso connessi, dei brevetti e dei diritti di design – si è basato sui risultati di tre indagini, che hanno portato all’acquisizione di un certo numero di dati e di informazioni elaborati con un complesso procedimento statistico economico. Le rilevazioni sono state effettuate mediante tre diversi tipi di questionari che sono stati inviati: a) alle autorità governative di 36 Paesi (i 30 componenti dell’OECD più altri 6 Stati) a cui è stato chiesto di delineare, per gli anni compresi dal 1999 al 2005, la presenza al proprio interno di prodotti contraffatti e pirata, le conseguenze di tale presenza nelle loro economie nazionali e le attività di contrasto attivate; b) alle strutture doganali degli allora 169 Paesi membri dell’Organizzazione mondiale delle dogane, a cui sono stati richiesti vari dati sui sequestri di prodotti contraffatti e pirata effettuati tra il 1999 e il 2005, indicati utilizzando le oltre 5200 voci del sistema di codifica delle merci (HS, Harmonized System) sviluppato dalla World customs organization e specificando le quantità intercettate, le stime dei loro valori monetari e delle nazioni individuate come luoghi di fabbricazione e di provenienza dei beni; c) a un imprecisato insieme di imprese e di organizzazioni di categoria, che sono state invitate a fornire elementi atti a descrivere sia le dimensioni e le caratteristiche delle attività di contraffazione e di pirateria subite dai loro prodotti, sia le modalità di prevenzione e di tutela da esse poste in essere contro tali aggressioni. La collaborazione offerta dai soggetti interpellati dall’OECD non è stata pari alla rilevanza del problema. Per quel che riguarda il primo tipo di questionario, infatti, dal rapporto si evince che sono state raccolte 20 risposte. Settanta, invece, sono state le risposte fatte pervenire dalle varie dogane nazionali e 80 quelle rimesse dalle imprese e dalle loro associazioni. Nonostante il numero non elevato di questionari ricevuti e una molteplicità di limiti presenti nei dati acquisiti, che lo stesso rapporto mette in evidenza, le principali conclusioni che è possibile trarre dal lavoro dell’OECD sono sintetizzabili in quattro punti essenziali, tre dei quali esposti nel testo e uno suggerito da una valutazione sulla qualità della collaborazione offerta dai governi e dalle dogane all’organismo internazionale.

a) Negli ultimi anni, il commercio internazionale di merci false o, comunque, prodotte in violazione dei diritti di proprietà intellettuale è cresciuto, in termini sia di volumi sia di assortimento.

b) I prodotti contraffatti e pirata sono presenti in quasi tutte le economie nazionali, molte delle quali – ben 149, equivalenti, sostanzialmente, al 95% del commercio mondiale – nel 2005 risultavano essere, anche, delle source economies: produttrici ed esportatrici di falsi fabbricati in loco oppure strategici ‘punti intermedi’ di transito e di smistamento di beni contraffatti realizzati all’esterno dei loro confini.

c) Nel 2005 le merci contraffatte e usurpative potrebbero aver inciso per oltre 200 miliardi di dollari sul totale degli scambi internazionali; «una stima che, tuttavia, non racconta tutta la storia. La cifra non include i prodotti pirata e contraffatti che vengono fabbricati e consumati a livello nazionale, né comprende il notevole volume di prodotti digitali pirata che vengono distribuiti via Internet. Se questi elementi venissero aggiunti, la grandezza complessiva potrebbe essere superiore di diverse centinaia di miliardi di dollari» (OECD 2007, parte seconda, pp. 76-77). In ogni caso, ricordando che nel 2005 il valore complessivo del commercio mondiale delle merci è stato di 10.393 miliardi di dollari a prezzi correnti, la quota dei prodotti contraffatti e pirata stimata dall’OECD per tale anno sarebbe pari all’1,9% di questa somma, una percentuale molto distante da quella del 5-7% formulata dal CIB e dell’ICC nel 1997 e fatta subito propria dall’OECD che, senza manifestare nessuno dei dubbi espressi nove anni più tardi, l’ha diffusa come la misura del peso delle falsificazioni sul totale degli scambi internazionali dei beni manifatturieri.

d) La produzione e il commercio dei beni con marchi falsi e di quelli realizzati in violazione dei diritti di proprietà intellettuale sono attività illegali, indipendentemente dal fatto che siano circoscritte all’interno di singoli Paesi o proiettate verso il mercato mondiale, che inficiano le dinamiche dell’economia e non sono prive di implicazioni anche sul piano sociale. La possibilità di contrastarle con qualche efficacia è connessa all’adeguatezza delle iniziative di cui viene decisa l’assunzione. Questa adeguatezza, a sua volta, dipende fortemente dal livello delle conoscenze sulla cui base le iniziative vengono messe a punto e dalla capacità dei soggetti che si impegnano ad attuarle di essere all’altezza degli adempimenti che da esse derivano. Il basso tasso di risposte riscosso dai questionari inviati alle autorità governative e alle dogane di vari Paesi, le numerose lacune e le insufficienze che l’organismo ha evidenziato in ordine ai dati e alle informazioni che sono stati forniti se, da un lato, hanno avuto come conseguenza la necessità, da parte degli estensori del rapporto, di far ricorso a complesse e opinabili forme di elaborazione per poter pervenire a formulare qualche ipotesi su alcuni limitati tratti generali del fenomeno della contraffazione e della pirateria, dall’altro lato dimostrano che questi elementi si pongono anche come chiari indicatori di una scarsa capacità di troppi governi e apparati doganali ad affrontare in modo non superficiale il problema del traffico di prodotti falsi e pirata. Tutto ciò non induce a ritenere che essi, al momento, siano in possesso di requisiti in grado di sospingerli oltre la diffusione di quantificazioni dei sequestri (effettuate sulla base di dati raccolti e assemblati senza idonee metodologie), né oltre la pronuncia di generiche e rituali denunce dei danni provocati dalle falsificazioni alle imprese e dei rischi che corrono quanti acquistano beni contraffatti; né, infine, oltre la reiterazione di congetture, fortemente suggestive ma sfornite di prove, messe in circolazione dai soggetti più disparati. Emblematici, a questo proposito, sono i ricorrenti allarmi sull’utilizzazione da parte della mafia della contraffazione per riciclare il denaro sporco ricavato dalle sue attività criminali e le sconvolgenti rivelazioni secondo le quali vari gruppi terroristici – alla fine del secolo scorso l’IRA (Irish Republican Army) e l’ETA (Euskadi Ta Askatasuna) e, più di recente, Ḥezbollāh e al-Qā῾ida – si sarebbero finanziati o si finanzierebbero con proventi derivanti dalla produzione e/o dalla commercializzazione di manufatti falsi. I primi non tengono in alcun conto il fatto che i profitti illeciti per poter essere ‘candeggiati’ devono trovare collocazione in iniziative economiche lecite e il traffico di merci false certamente non rientra tra esse; le seconde non possono contare sul sostegno di un unico episodio che possa accreditarle. Si tratta in realtà di autentici falsi scoop, i quali confermano, ancora una volta, che quando attorno a un problema reale e rilevante si formano ampie zone di indeterminatezza e di ambiguità esse vengono immediatamente occupate da rumores, che colmano il vuoto di informazione, fornendo un’artificiosa risposta alla pressante esigenza di una maggiore conoscenza della situazione, e assurgono alla dignità di fatti mano a mano che aumentano i soggetti che li citano.

Un’industria parallela della fabbricadel mondo

La fabbricazione, in qualsiasi parte del mondo, di merci che si impossessano di identità aziendali altrui è oramai da tempo facilitata da un’ampia disponibilità di accesso a macchine e a tecniche produttive in grado di consentire la loro realizzazione anche nell’area dei manufatti comunemente definiti high-tech. Ancora più elevata è la facilità con cui è possibile porre in essere iniziative finalizzate al profitto, incentrate sia sull’appropriazione di procedimenti e di prodotti coperti da brevetti sia sulla violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Il mare magnum dei giganteschi e molteplici flussi degli scambi internazionali, poi, offre l’opportunità di spostare da un capo all’altro del globo queste merci e di commercializzarle confondendole con quelle prodotte e vendute regolarmente. Tra il 2000 e il 2006, infatti, secondo la WTO (World Trade Organization), il volume delle esportazioni mondiali di manufatti è aumentato a una media annua del 6% – un valore doppio rispetto a quelli che hanno contraddistinto il complesso della produzione manifatturiera e il prodotto interno lordo (PIL) del pianeta – attestandosi, negli ultimi tre anni per i quali sono disponibili elaborazioni statistiche, su percentuali di incremento dell’11% nel 2004, del 7,5% nel 2005 e del 10% nel 2006, contro crescite dell’industria manifatturiera del 5,5%, del 4,0% e del 3,5% e del prodotto interno lordo del 4,0%, del 3,5% e ancora del 3,5% (WTO 2007). L’Asia e, in particolare, la Repubblica popolare cinese sono diventate la ‘fabbrica del mondo’, sia perché molte imprese dei Paesi di più antica industrializzazione hanno oramai rinunciato a loro favore a effettuare talune produzioni, divenute per esse scarsamente remunerative, sia perché molte altre trovano più conveniente commissionare la realizzazione dei propri prodotti ad aziende asiatiche e cinesi, piuttosto che fabbricarli direttamente nelle nazioni in cui esse sono insediate; oppure hanno impiantato in Asia propri stabilimenti, allettate dalla possibilità di ridurre, grazie a tali ubicazioni, una serie di costi, in primo luogo quello del lavoro. A tale proposito va rilevato che, stando ai dati del Bureau of labor statistics, nel 2001 il salario orario di un lavoratore manifatturiero statunitense ammontava a 21,33 dollari e quello di un lavoratore dell’Europa occidentale, mediamente, a 20,18 dollari, mentre il costo di un’ora di lavoro di un operaio asiatico si attestava su importi di 9,16 dollari in Corea del Sud, di 7,27 dollari a Singapore, di 5,41 dollari a Taiwan e di 69 centesimi di dollaro in Cina.

Nonostante tutte le precauzioni che, per le considerazioni svolte in precedenza, occorre tener presenti rispetto alla valutazione delle informazioni e dei dati forniti da molte amministrazioni doganali e nonostante il fatto che, al fine di meglio mimetizzare la loro nazione di origine, molti esportatori e importatori prima di far giungere le merci falsificate e pirata alle destinazioni definitive, spesso, impongono a esse una serie di passaggi da un Paese all’altro, da vari anni i maggiori quantitativi e le più ampie varietà di prodotti che il Customs service statunitense e le dogane dell’Unione Europea arrestano alle proprie frontiere come contraffatti e quelli di identica natura che, sfuggiti ai controlli di confine, circolano su numerosi mercati nazionali, risultano provenire dalla Repubblica popolare cinese. Per questo motivo, la Cina, oltre a essere divenuta la fabbrica del mondo tout-court, può essere considerata anche la principale ‘fabbrica di falsi del mondo’. Un ruolo senza dubbio rilevante per l’acquisizione di questa prerogativa da parte della Cina è stato svolto dall’enorme massa di investimenti esteri diretti che si sono riversati nel Paese dopo le profonde modifiche di politica economica avviate nel 1978. È stato stimato, infatti, che, da questa data al 2004, la Cina abbia attratto oltre 590 miliardi di dollari di investimenti esteri diretti, in gran parte realizzati da 450 delle 500 maggiori imprese multinazionali del mondo (soprattutto statunitensi e detentrici, nel loro complesso, del 52% del PIL mondiale), e che dal 2005 al 2007 a questa cifra si siano aggiunti altri 198 miliardi.

Attraverso questi investimenti, una serie di tecnologie, anche di tipo avanzato, sono andate a formare una risorsa di agevole acquisizione che ha stimolato la costituzione e lo sviluppo di numerose imprese cinesi, molte delle quali ne hanno fatto e ne fanno un uso legittimo, mentre non poche altre hanno trovato in essa l’opportunità per intraprendere attività finalizzate alla produzione di beni falsi e di copie non autorizzate. Questo secondo tipo di aziende è quasi esclusivamente concentrato nelle province della Cina meridionale dove, dal 1979, sono state istituite le cosiddette Special economic zones, che rappresentano dei territori autonomi, rispetto alla pianificazione nazionale, in cui l’amministrazione economica e il potere legislativo vengono esercitati dai governi locali e che: a) offrono incentivi fiscali agli investimenti stranieri; b) godono di una speciale autonomia in ordine alla gestione delle attività connesse al commercio internazionale; c) dispongono di strutture predisposte per attrarre investimenti esteri finalizzati sia all’insediamento di imprese a totale capitale straniero sia alla creazione di joint ventures con società cinesi; d) ospitano iniziative economiche regolate dal sistema del mercato e dedite alla produzione di beni destinati principalmente all’esportazione. Nel giro di poco più di un decennio, nelle Special economic zones, e nelle aree a esse limitrofe che beneficiano indirettamente della loro istituzione, le produzioni illegali di merci con false identità aziendali e di beni realizzati mediante la violazione di diritti di brevetto e di design si sono progressivamente affiancate a quelle legali, dando luogo a una vera e propria ‘industria parallela’ che ha raggiunto una dimensione così consistente che del suo apporto economico le autorità amministrative e politiche locali non hanno ritenuto e non ritengono, al momento, di potersi privare. Allo stesso governo centrale, inoltre, «un ‘giro di vite’» a queste attività «imporrebbe costi significativi poiché avrebbe bisogno di spendere ingenti risorse e forza politica per affrontare gli enormi problemi economici e sociali che come risultato ne deriverebbero» (Chow 2006, p. 6). Un’industria parallela i cui manufatti si traducono, pressoché tutti, in esportazioni, per lo meno per due ragioni. La prima è data dal fatto che, come si è già accennato, dopo che negli anni Ottanta e Novanta in molti Paesi del mondo hanno avuto modo di svilupparsi attività di produzione di beni falsi e una forte capacità del mercato di assorbirli, dalla fine del secolo scorso molti dei soggetti coinvolti in tali attività hanno trovato economicamente più conveniente rinunciare a fabbricare direttamente manufatti falsi per dedicarsi alla loro importazione. La seconda ragione è connessa alle specificità della legislazione in vigore nella Repubblica popolare cinese, il cui codice penale, mentre punisce abbastanza severamente l’immissione di prodotti falsi nel mercato interno (le fattispecie penalmente rilevanti sono state ampliate e le pene per i contraffattori di marchi e brevetti sono state inasprite da una pronunzia della Corte suprema del popolo, efficace dal 22 dicembre 2004, che ha reinterpretato gli articoli che vanno dal 213 al 219 del codice penale), continua a essere lacunoso sulla perseguibilità delle loro esportazioni, dalle quali il Paese introita, comunque, valuta estera. Un ulteriore impulso all’esportazione dalla Cina di prodotti contraffatti e pirata, che merita di essere sottolineato, è venuto, recentemente, da uno degli atti legislativi mediante i quali il Paese asiatico ha cominciato ad assolvere agli impegni assunti con la sua adesione alla WTO. L’entrata in vigore, a partire dal 1° luglio 2004, della Foreign trade law of the people’s Republic of China ha eliminato, per quasi tutti i tipi di prodotti, l’obbligo dell’utilizzazione di agenzie dello Stato per lo svolgimento di attività di importazione e di esportazione, le quali, attualmente, possono essere effettuate da qualsiasi operatore, purché si registri presso le autorità locali competenti, e anche da produttori di falsi, non più gravati ormai della necessità di doversi procurare complicità all’interno delle società di trading statali per poter spedire in giro per il mondo tutte le proprie merci.

Pur in presenza di questo scenario è stato rilevato che le imprese multinazionali che operano in Cina (ma il dato è estensibile a tutte le società occidentali che nel Paese hanno propri stabilimenti o grandi fornitori di prodotti finiti) si sono attestate su una linea di sostanziale ‘non scontro’. «L’approccio delle multinazionali verso il governo degli Stati Uniti è stato nel passato attento a non chiedere al governo di avviare qualsiasi iniziativa formale in base alle leggi federali sul commercio. Molte imprese multinazionali hanno adottato la strategia di lodare pubblicamente gli sforzi che compie il governo della Repubblica Popolare Cinese per migliorare il regime di tutela della proprietà intellettuale ma, al di fuori dell’ufficialità, queste stesse imprese multinazionali lamentano che il problema della pirateria è peggiore che mai». Esse, ciononostante, «non perseguono una strategia di scontro perché temono di fare qualcosa che possa offendere il governo cinese e indurlo a porre in atto ritorsioni contro le loro attività» (Chow 2006, p. 8). All’evidente prudenza delle multinazionali verso la tolleranza mostrata dal governo cinese riguardo l’esportazione di prodotti falsi e pirata realizzati nei suoi territori fa da contrappeso l’intensificazione delle pressioni che gli Stati Uniti esercitano su tutti quei Paesi a cui viene imputata un’insufficiente difesa dei marchi e dei diritti di proprietà intellettuale, le cui autorità governative, in molti casi, hanno accresciuto le normative e le misure finalizzate a contrastare il fenomeno nei propri mercati interni, anche se, spesso, queste vengono assunte più per evidenziare la disponibilità a rispondere all’appello di un partner da non inimicarsi che per cogliere risultati concreti.

In attesa di verificare quali saranno gli esiti dell’iniziativa avviata nell’ottobre del 2007 dal governo statunitense per pervenire con alcuni dei suoi principali partner commerciali (a esclusione della Cina) alla definizione di un ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement) che dovrebbe impegnare i suoi sottoscrittori a migliorare le proprie pratiche di tutela della proprietà intellettuale all’interno di un quadro giuridico comune, ispirato a una maggiore intransigenza verso le violazioni, lo strumento che a oggi gli Stati Uniti adoperano per sollecitare gli altri Paesi a contrastare con più vigore le falsificazioni è costituito dalla periodica pubblicazione, da parte dell’United States trade representative office (USTRO), dello Special 301 report. Da vari anni, infatti, l’ufficio, sulla scorta «sia di una accurata consultazione con i gruppi industriali danneggiati e altri soggetti rappresentativi del settore privato, governi stranieri, leader del Congresso, sia di un coordinamento tra vari dipartimenti del governo degli Stati Uniti», diffonde liste di Paesi nei quali ritiene non vengano sufficientemente rispettati i diritti di proprietà intellettuale. Le varie nazioni che figurano negli elenchi sono collocate, a seconda della maggiore o minore capacità/disponibilità dei loro governi a porre termine alle violazioni, in una Prior-ity watch list, in una Watch list, oppure in una lista di osservazione (denominata Section 306 monitoring), che hanno la finalità di porre l’amministrazione statunitense in condizione di «utilizzare tutte le opzioni disponibili per risolvere i problemi relativi ai diritti di proprietà intellettuale e per garantire che l’accesso al mercato per i prodotti statunitensi sia corretto ed equo» (USTRO 2008), compresa la messa in discussione delle relazioni commerciali esistenti con i Paesi ritenuti inadempienti rispetto agli impegni da essi assunti aderendo alla WTO: in particolare verso quegli obblighi derivanti dall’Agreement on trade-related aspects of intellectual property rights (TRIPs), uno degli atti contenuti nei quattro allegati al documento con cui, il 15 aprile del 1994, al termine di un lungo negoziato avviato nel 1986 e noto come l’Uruguay round, 76 Stati hanno dato vita all’istituzione della WTO. L’organizzazione, alla quale attualmente aderiscono 151 Paesi (le cui economie compongono il 97% dei beni e dei servizi del mondo), è l’organismo a cui è stato demandato il compito di far funzionare gli accordi commerciali internazionali e garantirne il rispetto, ma è divenuto, negli ultimi tempi, anche la sede in cui le nazioni economicamente e politicamente più forti, tra le quali, in primo luogo, gli Stati Uniti, hanno spostato le controversie sulla proprietà intellettuale che coinvolgono le proprie imprese. In tal modo, di fatto, è stata sostituita la World intellectual property or­gani­za­tion (WIPO), benché a essa aderiscano 184 Stati e disponga dello status di ‘agenzia specializzata’ dell’Organizzazione delle Nazioni Unite proprio per le questioni riguardanti l’innovazione e la proprietà intellettuale: una scelta finalizzata a evitare che i Paesi membri meno sviluppati – che hanno diritto a un solo voto, indipendentemente dalla popolazione o dal contributo versato per finanziare l’organizzazione – possano contrastare talune eccessive richieste di tutela, provenienti da imprese e da nazioni economicamente più avanzate, che penalizzano troppo le loro possibilità di crescita industriale.

Le minacce di misure ritorsive formulate dagli Stati Uniti nei confronti di nazioni, a loro parere, non abbastanza impegnate a far rispettare la proprietà di marchi, brevetti e copyright hanno indotto e potranno indurre molti governi a mostrarsi sempre più solerti nel combattere le falsificazioni domestiche e impedire l’eventualità di una loro esportazione, ma esse non hanno avuto alcuna incidenza significativa sull’attuale linea di condotta del governo cinese ed è da ritenere che non possano averla neanche in futuro. La Cina è diventata in questo secolo non solo il maggior fornitore di prodotti manifatturieri degli Stati Uniti, ma anche il suo vendor financing: con i profitti delle sue esportazioni ha accumulato ingenti riserve di dollari e ha investito in grandi quantità di titoli di Stato americani, il cui massiccio acquisto ha consentito agli Stati Uniti di tenere bassi i tassi di interesse e di sostenere la domanda e l’economia del Paese, la cui condizione generale non è tale da sopportare agevolmente le conseguenze che potrebbero scaturire da iniziative di contro-ritorsione da parte cinese. Forse, più consistenti politiche di contrasto alle falsificazioni potranno essere attuate e risultare maggiormente incisive su scala mondiale quando verranno a essere lesi i diritti sui marchi e sulla proprietà intellettuale delle imprese cinesi. Un’eventualità che appartiene a scenari non del tutto improbabili.

Bibliografia

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WTO (World Trade Organization), International trade statistics 2007, Genève 2007.

USTRO (United States Trade Representative Office), 2007 Special 301 report, Washington D.C. 2008.