Il giusnaturalismo seicentesco

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Umberto Eco
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Lo schema fondamentale del giusnaturalismo seicentesco è costituito da una fondazione del potere politico attraverso un patto a partire da uno stato naturale (reale o fittizio). Le differenti configurazioni dello stato naturale in Grozio, Hobbes, Spinoza, Pufendorf e Locke sono la premessa di differenti concezioni dello Stato.

Giusnaturalismo (da ius naturale) è il nome che prese la teoria del diritto naturale durante i secoli XVII e XVIII. Non è facile schematizzarne i caratteri generali, e tuttavia si può forse dire che la differenza principale rispetto alla tradizione del diritto naturale antica e medievale consiste nel fatto che mentre questa fa coincidere la legge naturale con lo stesso ordine razionale del cosmo (nello stoicismo) oppure con un’emanazione della lex divina (Tommaso), nel giusnaturalismo moderno, che prende avvio dalla riflessione del domenicano Francisco Vitoria sui diritti degli indigeni americani rispetto ai colonizzatori europei, il diritto naturale, pensato in termini strettamente individualistici, si fonda sulla ragione umana che proclama la sua autosufficienza rispetto alla teologia se non su un piano ontologico, certo su un piano epistemologico: per questo gran parte degli autori giusnaturalisti è guidata dal progetto di portare nella trattazione del diritto e della politica il rigore delle matematiche. Lo schema fondamentale della teoria giusnaturalistica prevede, a partire da un modello di natura umana proposto sotto forma di descrizione di uno stato di natura, di proporre la teoria di uno Stato che, sorto da un patto o da un contratto, garantisca agli individui alcuni diritti, appunto naturali.

Grozio: appetitus societatis e la recta ratio

Huig de Groot (1583-1645) è l’autore del celebre De jure belli ac pacis (1625) in cui sono gettate le basi del diritto internazionale moderno (il cosiddetto ius gentium, cioè diritto delle genti) stabilendo i vincoli giuridici cui sono sottoposti gli Stati sia in tempo di pace che di guerra e circoscrivendo i casi di una guerra giusta. Grozio fonda il proprio discorso sui dettami del diritto naturale (in particolare quello che impone di rispettare i patti, pacta sunt servanda), che, pur privo su scala internazionale di un’autorità dotata di una forza sufficiente a garantirne l’efficacia coercitiva, costituisce tuttavia un vincolo di natura etica. Nei “Prolegomeni” al De jure belli ac pacis Grozio affronta proprio la questione del diritto naturale che deduce dal concetto di natura umana razionale. Secondo Grozio, l’uomo è un animale di ordine più elevato rispetto a tutti gli altri perché è dotato di un appetitus societatis, cioè del bisogno “di una comunità pacifica e ordinata […], con coloro che sono della sua stessa specie” (H. de Groot, “Prolegomena” a De jure belli ac pacis, 1625). Fonte del diritto propriamente inteso è la conservazione della società, nel cui ambito rientrano “l’astenersi dalle cose altrui, la restituzione di ciò che appartiene ad altri e che noi deteniamo, e del profitto che ne abbiamo tratto; l’obbligo di mantenere i patti; la riparazione del danno arrecato per propria colpa; l’incorrere in una pena meritata per la trasgressione” (Ibidem). Tuttavia non solo l’appetitus societatis distingue l’uomo dagli altri animali, ma anche la ragione. Da ciò si ricava “che è cosa propria della natura umana seguire anche in queste cose un giudizio rettamente conformato nei limiti dell’intelligenza umana, e di non farsi influenzare dal timore o dall’attrattiva di un piacere presente o lasciarsi trascinare da un impeto temerario. Tutto quello che ripugna in modo evidente a tale giudizio rivela che è lontano dal diritto di natura, di quella umana, s’intende” (Ibidem). Grozio afferma che recta ratio ha un’autosufficienza epistemologica, cioè varrebbe “anche se concedessimo – cosa che non può essere concessa senza la più grave empietà – che Dio non esiste e che non si occupa degli affari degli uomini” (Ibidem). Quanto al diritto civile, nasce dalla norma che indica il rispetto dei patti: “Infatti, coloro i quali si erano raccolti in qualche comunità o si erano sottomessi a uno o più uomini, costoro, o avevano promesso espressamente, o dalla natura stessa dell’accordo si deve capire che abbiano promesso tacitamente di seguire ciò che avrebbe stabilito la maggioranza della comunità o coloro ai quali era stato conferito il potere” (Ibidem). Il diritto naturale si fonda dunque per Grozio sull’appetitus societatis dell’uomo e su tutte le regole dettate dalla recta ratio che permettono la conservazione della società e che fondano a loro volta il diritto civile attraverso un patto tacito o esplicito. Questo diritto naturale è immutabile e ha una certezza pari a quella della matematica: “Il diritto naturale è immutabile, al punto che non può essere modificato nemmeno da Dio […] Come neppure Dio può far sì che due e due non faccia quattro, così non può far sì che ciò che per intrinseca essenza è male non sia male”(Ibidem).

Hobbes: diritto naturale, legge naturale, Stato

Thomas Hobbes (1588-1679) propose una teoria del diritto naturale, negli Elementi di legge (1647), nel De cive (1641) e nel Leviatano (1651), diametralmente opposta a quella di Grozio. Lo stato di natura in cui gli uomini si trovano prima dell’instaurazione del potere dello Stato è uno stato di estrema insocievolezza, il celebre bellum omnium contra omnes in cui l’uomo, secondo il detto di Plauto, è lupo per l’altro uomo. Il diritto naturale non ha alcuna valenza normativa, ma coincide con il puro fatto dei rapporti di forza: ogni uomo ha diritto a tutto ciò che è in grado di prendersi con la forza o con l’astuzia. Così descrive questo stato Hobbes nel De cive (1641): “La natura ha dato a ciascuno il diritto a tutte le cose […]. Poiché infatti tutte le cose che uno vuole, proprio in quanto le vuole gli sembrano buone, e possono condurre alla sua conservazione, o almeno sembrare di condurvi […] e si compie e si possiede per diritto di natura ciò che conduce alla difesa della propria vita e delle proprie membra, ne segue che nello stato di natura è lecito a tutti fare e possedere tutte le cose. […]. Da questo inoltre si comprende che nello stato di natura la misura del diritto è l’utilità. Ma non è stato affatto utile agli uomini, l’avere avuto un simile diritto comune su tutte le cose. Infatti l’effetto di questo diritto è quasi lo stesso, che se non esistesse alcun diritto. Sebbene infatti ciascuno potesse dire di ogni cosa, questo è mio, non ne poteva godere a causa del vicino, che con uguale diritto e uguale forza pretendeva che la stessa cosa fosse sua”. Questo stato di guerra e di insicurezza permanente induce la paura di una morte violenta, che porta gli uomini a dare ascolto ai dettami della recta ratio – la legge naturale – ossia le indicazioni riguardo ciò che si deve fare o non fare per conservare, quanto più a lungo possibile la vita e le membra. La legge naturale non è coercitiva, ma è una pura indicazione morale, immutabile ed eterna, i cui dettami fondamentali Hobbes riassume in questi termini: “La prima e fondamentale legge di natura è che si deve cercare la pace, quando la si può avere, e quando non si può si devono cercare aiuti per la guerra. […] Una delle leggi naturali derivate da quella fondamentale è che il diritto a tutto non deve essere conservato, ma che certi diritti devono essere trasferiti o abbandonati. […] La seconda legge naturale derivata è: si deve stare ai patti, o rispettare la parola data. […] La legge di natura prescrive a tutti di trasferirsi reciprocamente alcuni diritti; e che questo si chiama patto, quando tale trasferimento riguarda il futuro. Ma questo serve a conseguire la pace, soltanto se facciamo o tralasciamo quello che abbiamo pattuito di fare o tralasciare. I patti sarebbero inutili se non li si mantenessero” (Ibidem). Proprio la non coercività della lex naturalis conduce gli uomini, attraverso una serie di patti reciproci, a rinunciare al proprio diritto a tutte le cose a favore di un uomo o di un consiglio: nasce lo Stato, il cui potere assoluto ha come unico limite la sicurezza della vita dei sudditi (che è la ragione della nascita dello Stato). L’assolutezza del potere statuale capovolge paradossalmente il giusnaturalismo hobbesiano in un radicale giuspositivismo (da ius positum, cioè il diritto storicamente vigente): il limite tra la giustizia e l’ingiustizia è tracciato dalle leggi dello Stato e la coincidenza di questo limite con il decreto della lex naturalis non può essere discusso dai sudditi ma riguarda solo il rapporto tra la coscienza del sovrano e Dio.

Spinoza e lo jus sive potentia

La teoria politica spinoziana (esposta tanto nel Trattato teologico-politico che nel Trattato politico), pur adottando una terminologia giusnaturalistica, è in realtà una radicale decostruzione della tradizione del diritto naturale. Egli nega tanto il carattere normativo del diritto naturale (o della legge naturale, Spinoza non fa differenza) quanto la sua limitazione all’ambito umano e, ancor di più, all’ambito della ragione. Nel Trattato teologico-politico (1670) scrive: “Per diritto e istituto naturale non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. Così per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi a mangiare i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. […] Il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di persistere per quanto può nel suo stato, e ciò non in ragione di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a ciò pieno diritto […] ad esistere e a operare così come è naturalmente. E qui non riconosco alcuna differenza tra gli uomini e tutti gli altri individui di natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi e i sani”. Questa concezione del diritto naturale fa sì che il patto, che è all’origine della costituzione della società politica non possa “avere alcuna forza se non in ragione dell’utilità, tolta la quale il patto stesso viene contemporaneamente annullato e resta distrutto” (Ibidem). In questo modo Spinoza riduce il patto a nulla più che al fatto di un rapporto di forze: il potere del sovrano è sì assoluto, ma solo fintanto che è sorretto dalla potenza della collettività. In questo senso è facile intendere in che senso Spinoza affermi che l’imperium democraticum è “il più naturale e il più conforme alla libertà che la natura consente a ciascuno” (Ibidem) e che la libertà di pensiero e di parola siano non tanto un diritto inalienabile dell’individuo quanto una potenza della collettività che la somma autorità non può reprimere se non vuole perdere il proprio potere

Pufendorf e il doppio patto

Samuel Pufendorf (1632-1694), autore del De jure naturae et gentium (1672) e del De offiicio hominis et civis iuxta legem naturalem (1673), fu chiamato ad Heidelberg a ricoprire la prima cattedra di diritto naturale e delle genti. Egli tentò di costruire un sistema organico e scientifico del diritto naturale. Nel definire lo stato naturale, Pufendorf prende le distanze dall’idea hobbesiana di una guerra di tutti contro tutti: “lo stato naturale degli uomini, considerati al di fuori di qualsiasi istituzione civile, non è uno stato di guerra, ma di pace, che si fonda più o meno sopra queste leggi: ‘nessuno deve offendere l’altro se non ne è provocato’; ‘a ciascuno deve essere permesso di godere dei propri beni’; ‘ciascuno deve mantenere le promesse fatte, e promuovere con lieto animo il vantaggio altrui nei limiti in cui ciò è reso possibile dagli obblighi più rigorosi che ci incombono’”(S. Pufendorf, Del diritto naturale e delle genti, 1672). Tuttavia, benché lo stato di natura sia caratterizzato dalla pace, gli uomini tendono talvolta a recarsi danno: da qui la necessità di istituire un’autorità in grado di garantire la sicurezza degli individui, poiché in grado di mettere l’eventuale “aggressore faccia a faccia con un male presente e duraturo oppure di togliergli la speranza dell’impunità” (Ibidem). Lo Stato nasce secondo Pufendorf da due patti, l’uno successivo all’altro: il pactum unionis, con il quale gli individui “manifestano la volontà di unirsi in associazione perpetua e di provvedere con deliberazioni e ordini comuni alla propria salvezza e sicurezza” (Ibidem), e il pactum subjectionis, una volta decisa per maggioranza la forma di governo, al fine di “designare quella persona o quelle persone alle quali debba essere affidato il governo dell’associazione”.

Locke e il diritto alla proprietà

La più importante opera politica di John Locke è senza dubbio i Due trattati sul governo (1690). In particolare nel Secondo trattato egli espone la sua teoria della legge naturale, sul rispetto della quale fonda la legittimità del potere politico. Locke ritiene che la legge naturale che vige nello stato di natura si identifichi con la ragione stessa e che lo stato naturale sia “uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri beni e persone […], entro i limiti della legge naturale, senza chiedere l’altrui benestare o obbedire alla volontà d’altri” (J. Locke, Due trattati sul governo, 1690). Si tratta di “uno stato di eguaglianza, in cui potere e autorità sono reciproci poiché nessuno ne ha più degli altri”. Tuttavia libertà non significa licenza. Lo stato naturale è governato “da una legge di natura che è per tutti vincolante; e la ragione, che è poi quella legge stessa, insegna […] che, essendo tutti gli uomini eguali e indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi” (Ibidem). Il rispetto di questa legge nello stato di natura è affidata a tutti gli uomini, ossia “ciascuno ha il diritto di punire chi trasgredisce quella legge, nella misura bastante a scoraggiarne la violazione”. Evidentemente vi è per Locke una profonda differenza tra lo stato di natura e lo stato di guerra e tuttavia la precarietà dello stato di natura conduce gli uomini ad unirsi in Stati e ad assoggettarsi a un governo “per la salvaguardia della loro proprietà” (Ibidem): “A tal fine lo stato di natura è per molti rispetti inefficiente. Vi manca in primo luogo una legge stabile, fissa e notoria, accettata e riconosciuta per comune consenso come criterio del giusto e dell’ingiusto e come comune misura per decidere ogni controversia. […] In secondo luogo, manca nello stato di natura un giudica riconosciuto imparziale, dotato dell’autorità di risolvere ogni contrasto sulla base della legge istituita. […] Infine, nello stato di natura manca spesso il potere atto a sostenere e appoggiare la sentenza giusta e renderla debitamente operante” (Ibidem). Il contratto attraverso cui viene instaurato il potere dello Stato consente dunque agli uomini di godere di quei diritti che gli derivano dalla legge di natura e che tuttavia nello stato di natura sono condannati alla precarietà: “l’unico modo in cui ciascuno si spoglia della sua libertà e proprietà naturale e si addossa i vincoli della società civile è l’accordarsi con altri uomini per congiungersi ed unirsi in una comunità al fine di vivere comodamente, sicuramente e pacificamente l’uno tra gli altri in un godimento sicuro delle loro proprietà e con una maggiore sicurezza nei riguardi di ogni estraneo” (Ibidem).

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