Il monachesimo. Pratiche ascetiche e vita monastica nel Mediterraneo tardoantico (secoli IV-VI)

Enciclopedia Costantiniana (2013)

Il monachesimo

Pratiche ascetiche e vita monastica nel Mediterraneo tardoantico (secoli IV-VI)

Roberto Alciati

Nonostante sia consuetudine cominciare la storia del monachesimo cristiano con i cosiddetti Padri del deserto Antonio († 335 circa) e Pacomio (292 circa-347), la crescente mole di studi su questo fenomeno del cristianesimo nascente ha scomposto il quadro, costringendo gli storici a riconoscerne una genesi policentrica1. Molte sono infatti le aree del Mediterraneo antico nelle quali il monachesimo cristiano muove i suoi primi passi. Alle soglie del V secolo, il monachesimo è presente in tutte le regioni orientali dell’Impero: l’Egitto, la Palestina centrale, la Siria, la zona di Edessa, l’Asia Minore, Costantinopoli e i suoi dintorni sono i luoghi dove si concentrano migliaia di uomini riconducibili a questo movimento. È qui che prendono forma la teoria e la prassi di un ideale di vita spirituale, in più o meno aperta contestazione delle strutture ecclesiastiche nell’Impero. Alla metà di quello stesso secolo, il monachesimo cristiano è una presenza stabile del panorama religioso e ha ormai imboccato la sua strada millenaria. Shenoute muore lasciando migliaia di uomini irreggimentati secondo la regola di Pacomio nel monastero Bianco; Simeone lo Stilita e i monasteri cenobitici concorrono fra loro nella regione antiochena; Costantinopoli conta almeno quattro archimandriti alla guida dei monasteri stabiliti nel suburbium della capitale; Gerusalemme e Betlemme sono animate da colonie ascetiche latine (Girolamo, Melania, Paola).

Se nell’anno del cosiddetto editto di Milano il monachesimo cristiano non trova ancora alcun riscontro nella letteratura né in nessun’altra fonte coeva, non è sorprendente leggere il nome di Costantino in quella che tradizionalmente è considerata la biografia del ‘padre’ del monachesimo: la Vita di Antonio (356 circa) di Atanasio. Se si vuole prestar fede al racconto, Costantino e i suoi due figli, Costante e Costanzo, sono i mittenti di una serie di lettere indirizzate ad Antonio, databili fra il 333 e il 3372. In quegli anni, Antonio aveva già raggiunto un’età ragguardevole e certamente la sua fama non era estranea neppure all’imperatore.

È però con lo strumento giuridico (constitutio) che Costantino, indirettamente, interviene anche sulla vita monastica, quando, ad esempio, dispone che non abbiano accesso al clero decurioni, discendenti di decurioni o, comunque, persone idonee al pubblico servizio3. La ratio legis va ricercata nell’intento di porre rimedio alla fuga nel clero dei curiali, i quali sono conseguentemente sottratti ai munera curialia e ai doveri verso lo Stato. In pieno IV secolo la stessa situazione si ripresenta per molti che optano per la vita monastica. È il caso del curiale Firmino: la sua vocazione monastica non è certo autentica, perché dallo stato monacale passa rapidamente a quello militare, mostrando come forse qualsiasi condizione fosse migliore di quella del curiale4.

Il crescente spazio dedicato al monachesimo nelle leggi imperiali è una traccia utile per stabilire gli snodi fondamentali della storia del movimento. Le pratiche ascetiche già ampiamente diffuse nel Mediterraneo antico, dalle comunità giudaiche radicali alle scuole filosofiche, non paiono attirare l’attenzione del potere politico-amministrativo, ma quando alla città sembra preferirsi in modo crescente il deserto (solitudines ac secreta), ecco che il proliferare di comunità monastiche (cum coetibus monazonton congregantur) diventa un problema: attorno al 370, Valentiniano e Valente chiedono al prefetto del pretorio d’Egitto, Modesto5, di interrompere l’‘esodo’. La disposizione è evidentemente inefficace e allora non resta che il contenimento: nel 390 Teodosio ordina a coloro che hanno abbracciato la vita monastica («sub professione monachi») di dimorare in luoghi solitari e lontani dall’abitato6. Proprio in questi decenni fiorisce la letteratura ascetica e comincia la disputa, teologica e politico-ecclesiastica, sulla definizione della corretta prassi di vita monastica. Nel 434 il monachesimo è accettato e dal contenimento si passa alla regolamentazione giuridica: se un chierico, di qualunque grado – un monaco o una donna –, che ha trascorso la sua vita in solitudine («clericus aut monachus aut mulier») muore senza redigere testamento e privo di parenti, i suoi beni devono essere trasferiti alla chiesa o al monastero («sacrosanctae ecclesiae vel monasterio») cui era destinato7. A metà del V secolo, il monachesimo, sia esso di tipo eremitico o cenobitico, è ormai parte integrante dell’organizzazione ecclesiastica ed è riconosciuto dal potere politico.

Prima del monachesimo

Ascesi, miracolo e profezia

Stili di vita ascetici sono ampiamente diffusi nel Mediterraneo precristiano e costituiscono il sostrato concreto dal quale prende origine il primo monachesimo nelle sue molte forme. L’ascetismo non nasce alla fine del III secolo né è possibile comprenderne la variante cristiana rintracciandone la radice nella sola tradizione vetero e neotestamentaria. Si è soliti fissare la data di nascita del monachesimo come forma di vita cristiana organizzata nel 323, anno attribuito a un documento papiraceo egiziano dove il termine monachos è impiegato come chiaro segno identitario di un gruppo sociale. In realtà, anche questo appellativo, così come il suo corrispondente siriaco ihidaya, precede il monachesimo e indica colui (o colei) che conduce una vita solitaria e celibataria, secondo il modello della parabola evangelica delle vergini (Mt 25,1-13). Assente nella Settanta, esso ricorre in altre traduzioni greche della Bibbia per yehidim di Sal 68,7, così come in testi del II secolo, fra cui il Vangelo di Tommaso e il Dialogo del Salvatore della collezione di Nag Hammadi. Stessa origine premonastica è quella del termine apotaktikos, molto diffuso nelle fonti egiziane, e risalente al monito gesuano di Lc 14,33: «Chiunque di voi non rinuncia (apotasso) a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Ma l’astensione dalle nozze, la pratica della povertà, il rigido regime dietetico, il rifiuto del denaro e del lavoro sono tutti tratti ampiamente riscontrabili nei primi secoli del cristianesimo, quando la tensione etica ed escatologica del messaggio cristiano è ancora quella preponderante. Si prenda l’area siriaca: dal vangelo di Luca, tradizionalmente messo in relazione con l’ambiente antiocheno, al Diatessaron di Taziano, sino alle due lettere pseudo-clementine Sulla verginità (non a caso sopravvissute in lingua siriaca) il distacco dal mondo diventa la cifra dell’encratismo del cristianesimo di quell’area, dove coppie di sposi decidono di vivere la propria vita matrimoniale in completa castità. È difficile rintracciare segni di questi stili di vita al di fuori delle testimonianze letterarie, ma concetti simili si ritrovano in tutte le zone del Mediterraneo dove il monachesimo metterà radici. Componenti essenziali dell’identità di colui che vive in solitudine sono, pertanto, l’apatheia (rifiuto delle passioni), la xeniteia (essere stranieri al mondo), la esychia (tranquillità dell’anima) e la monotropia (essere tutt’uno con Dio)8.

A tutto ciò si aggiunga poi la capacità di compiere miracoli. Nell’atanasiana Vita di Antonio e nella Vita di Martino scritta da Sulpicio Severo si dice espressamente che oggetto delle due biografie è la vita dei protagonisti, perché essi possano diventare modello per l’ascesi9. In questa prospettiva, entrambi gli scritti sono anche un racconto di miracoli, segno distintivo della straordinarietà dei biografati. Il modello è certamente quello apostolico, ma pure la Vita di Apollonio di Tiana scritta da Filostrato, uno dei retori più illustri del III secolo, presenta una struttura simile: cenni biografici, conversione al pitagorismo, attività taumaturgica. Se infatti la seconda parte della Vita di Antonio (dal cap. 48) è tutta dedicata alla lotta contro i demoni e alle guarigioni miracolose, anche Apollonio guarisce, resuscita e caccia i demoni dal corpo degli astanti che ascoltano i suoi discorsi.

Altro tratto distintivo dello stile di vita ascetico è la profezia. Nel prologo della Storia dei monaci in Egitto (9), l’autore inaugura il suo racconto con un richiamo alla venuta di Cristo e ricorda che i monaci devono essere considerati i nuovi profeti che ricevono i carismi elencati da Paolo (1 Cor 12-14). E profeta assimilabile a quelli della tradizione biblica è considerato Antonio da Costantino, il quale proprio per questa ragione cerca di stabilire con lui un rapporto epistolare10. Ancora a metà del VI secolo, nelle Storie monastiche di Cirillo di Scitopoli il monaco è il nuovo profeta per eccellenza: grazie al dono della parrêsia che gli viene direttamente da Dio, egli condiziona il potere11. Il monaco possiede il carisma profetico (dioratikos) ossia la capacità divinatoria e quella di leggere nel cuore degli altri uomini. Dotato di tale carisma è, ad esempio, Giovanni di Licopoli: illustre eremita della Tebaide egiziana, egli presta consiglio all’imperatore Teodosio, il quale, prima di sfidare i due usurpatori Massimo ed Eugenio, si affida ai suoi oracoli e responsi12. Anche Antonio prevede con anticipo le visite13, come i martiri conosce il momento della propria morte14 e prima di tutti si rende conto dell’imminente attacco ariano alle chiese nicene, profetizzando però anche il rientro dei vescovi niceni nelle loro sedi al termine della controversia15. Segno della persistenza di questo modello è Benedetto il quale, vede ciò che il futuro riserva al re Totila e prefigura la rovina della città di Roma16. Ma la profezia politica è propria anche di Apollonio: venendogli chiesto dai compagni quale sarebbe stata la sorte di Roma dopo la fuga di Nerone, egli risponde che l’Impero sarebbe stato ereditato da «molti Tebani», ovvero i militari Vitellio, Galba e Otone, paragonando il 69 d.C. al breve periodo in cui Tebe aveva esercitato la sua egemonia politica e militare sulla Grecia alla metà del IV secolo a.C.17

Giudaismo ascetico

Ulteriore prova della diffusione dell’ascetismo sono le esperienze di alcuni gruppi di religione ebraica che, staccatisi dalla società, si costituiscono in comunità separate: i terapeuti e gli esseni. Sebbene si collochino in regioni lontane fra loro, rispettivamente il deserto egiziano e quello di Giuda, una sorta di relazione fra i due gruppi è possibile: secondo Filone di Alessandria, gli esseni si sono dedicati alla vita pratica (praktikos bios) ovvero alla purificazione del corpo, mentre i terapeuti hanno scelto la contemplazione divina (theoria)18. Luoghi e stili di vita sono gli stessi del successivo monachesimo cristiano.

Per i terapeuti, l’unica fonte coeva che ne dà notizia è appunto Filone nel suo trattato Sulla vita contemplativa. Molto numerosi in Egitto, i terapeuti sono definiti un «popolo di guaritori» (therapeutikon genos) di entrambi i sessi, sorto in seguito alla diaspora ebraica19, che rifiuta la confusione della vita urbana e preferisce ritirarsi nelle lande desertiche che si trovano a ridosso delle città. Una colonia di terapeuti molto consistente pare sia quella che stabilisce la propria dimora nei pressi dell’antico lago di Mareotide, a sud di Alessandria. Costoro si dedicano totalmente alla contemplazione di Dio, avendo lasciato alle proprie spalle fratelli, figli e mogli20; condividono i propri beni21; conducono una vita frugale (euteleia) e vivono in modeste dimore separate le une dalle altre; in ciascuna casa si trova un tempio o monasterion, dove è vietato introdurre cibo e bevande e dove il terapeuta si ritira per sei giorni alla settimana a contemplare la Legge22. Il sabato è invece il giorno dell’incontro con gli altri membri della comunità per il pasto comune23. Filone presenta questa pratica come un esercizio filosofico (askesis) talmente coinvolgente da spingere alcuni a protrarre il digiuno oltre le ore diurne e, a volte, per giorni. Per quanto la storicità di questo gruppo non sia comprovata da altra testimonianza, la minuziosa descrizione filoniana avrà una certa fortuna nella definizione dello stile di vita ascetico cristiano24.

Tre sono invece gli scrittori che hanno lasciato notizia della comunità essena: Filone, Plinio il Vecchio e Giuseppe Flavio. Il movimento, nato probabilmente alla metà del II secolo a.C., condivide il rigorismo ascetico dei terapeuti sia nello stile di vita sia nella scelta di organizzarsi in comunità separata. Chiamato da Plinio gens sola25, il gruppo degli esseni rifiuta l’uso della moneta e la proprietà privata, e pratica l’astinenza sessuale. Giuseppe Flavio sostiene che siano molto numerosi in Palestina e che si dedichino, sostanzialmente, a praticare la santità (semnoteta askein) e al controllo di sé (enkrateia), rifiutando per questa ragione il matrimonio26. Per quanto ancora oggetto di dibattito storiografico, gli esseni sono da taluni messi in relazione con la comunità che avrebbe scritto o conservato i testi di Qumran27.

La filosofia come ascesi

La già citata Vita di Apollonio di Tiana mostra come queste caratteristiche siano ben presenti nelle coeve e concorrenti pratiche ascetiche non cristiane, al punto da diventare un importante marcatore della vita del filosofo tardoantico. Le prime tre biografie delle Vite di filosofi di Eunapio di Sardi (Plotino, Porfirio, Giamblico) si contraddistinguono non tanto per l’esposizione di dottrine filosofiche, bensì per l’insistenza sui poteri sovrannaturali di cui dispongono i protagonisti e sulla connessa superiorità etica, che li fa assurgere a modelli esemplari di virtù e sapienza. Scopo ultimo del filosofo, concepito come uomo divino (theios aner), è l’elevazione dell’anima: egli è un essere che, grazie alla propria condotta ascetica, trascende la condizione umana. Consapevole della diffusione della produzione agiografica cristiana, Eunapio costruisce un modello alternativo di santo pagano, per il quale la paideia tradizionale si fonde con l’ascetismo, la preveggenza e la taumaturgia. La possessione divina (enthousiasmos) è il tratto distintivo del vero filosofo e conduce, attraverso la separazione dell’anima dal corpo (ekstasis), all’abbandono del mondo terreno in favore di quello divino. Concepita in questo modo, la pratica filosofica non si prefigge anzitutto di presentare una teoria sistematica della realtà, ma piuttosto di insegnare ai discepoli un metodo per ben orientarsi tanto nel pensiero quanto nella vita. L’esposizione teorica ha quindi valore di esercizio spirituale, inteso come pratica volontaria e personale, destinata a operare una trasformazione dell’individuo. Questa pratica si esplica primariamente nel dialogo fra il maestro e i discepoli e quindi in una comunità filosofica, organizzata proprio per vivere insieme la filosofia (sumphilosophein). La scuola dei pitagorici a Crotone, ad esempio, non è descritta come un semplice gruppo di studenti che assiste alle lezioni di un maestro, ma come una comunità di ‘cenobiti’ (koinobioi), che condivide una stessa condotta di vita e che, alla morte del maestro, decide in larga parte di dedicarsi a vita solitaria28.

Se si interpreta la filosofia antica anzitutto come pratica di vita, ecco che i comportamenti e gli insegnamenti dei suoi protagonisti diventano fortemente assimilabili a quelli del primo cristianesimo. Quando Gregorio di Nazianzo si lamenta di essere «aggiogato al corpo»29, identificando se stesso con l’anima, torna alla mente l’immagine del Fedro, dove i due cavalli di razza diversa, che rappresentano la parte irascibile e quella concupiscibile dell’anima, sono guidati da un auriga, raffigurante invece la parte razionale. La formula platonica secondo la quale l’anima è legata strettamente al corpo diventa funzionale all’ascesi cristiana e al conseguente primato della prima sul secondo. I tratti essenziali della dottrina ascetica cristiana, ossia la resistenza alle sensazioni e il raccogliersi in sé per poter contemplare la realtà vera, quella di Dio, si leggono chiaramente già nel Fedone30. Ma il salto di qualità è nelle conseguenze di questa contemplazione: al desiderio platonico puramente intellettuale della vera conoscenza, si sostituisce l’ottenimento dello stato di immensa beatitudine che ha la sua unica fonte nella realtà ultraterrena31.

Ex Oriente lux: dall’Egitto e dalla Giudea al resto del Mediterraneo

La geografia monastica

Il monachesimo cristiano nasce in Oriente, più precisamente nel cuore del Medio Oriente, fra Egitto e Palestina. L’Egitto è probabilmente la regione dove le testimonianze di monaci sono più estese e durature: a sud di Alessandria, alle propaggini dell’ampio estuario del Nilo, si trovano i siti di Nitria, delle Celle e di Sceti, animati da Ammonio e Macario; a est, fra il Nilo e il mar Rosso, si innalzano i due monti di Pispir e Kolzim dove Antonio riceve chi va a fargli visita; nell’alto Egitto, fra Tebe e Latopoli, Pacomio fonda la prima koinonia. Da qui prende le mosse la campagna ‘missionaria’ nell’alto corso del Nilo, condotta essenzialmente da monaci, e che si spinge sino alla zona di Assuan32.

Ai decenni centrali del IV secolo risale anche la comparsa di una qualche condotta monastica in Siria, più precisamente nel regno di Osroene, lo stato cuscinetto tra Impero romano, Armenia e Iran partico. Qui sarebbero vissuti il recluso Abramo di Bat Qiduna e Giacomo, vescovo di Nisibi; quest’ultimo, stando alla cronologia atanasiana, sarebbe stato il primo a dedicarsi a vita eremitica verso il 280; più certo pare invece il caso di Giuliano Saba, il quale, dopo un lungo periodo di eremitaggio nel deserto, si reca con alcuni discepoli in pellegrinaggio sul Sinai e qui fa costruire una chiesa33. In seguito alla morte di Antonio e all’inserimento di questo luogo negli itinerari dei pellegrinaggi occidentali, la regione del Sinai acquista importanza nella geografia monastica, diventando, come testimonia il monastero di Santa Caterina, un luogo di ininterrotta vita ascetica sino a oggi34.

Il terzo centro monastico è il luogo santo della cristianità per eccellenza: Gerusalemme. Qui sono diretti i primi pellegrinaggi ad loca sancta di cui resta memoria scritta: è il caso del resoconto di Egeria, la quale menziona monazontes e parthene tra i partecipanti alle celebrazioni liturgiche gerosolimitane35. Sul finire del IV secolo, proprio a Gerusalemme viene fondata una comunità monastica da Rufino e Melania la Vecchia, mentre attorno al 386 a Betlemme sorgono due monasteri, uno maschile e uno femminile: il primo, dove vive Girolamo, si trova in campagna, con vista sulla tomba di Rachele, mentre quello femminile, retto da Paola, è vicino alla basilica della Natività36. E ai luoghi santi guarda anche il monachesimo del Giuda, la cui fondazione si deve a una figura a tratti leggendaria, Caritone. È però solo alla fine del V secolo che, su impulso di Eutimio il Grande, il numero dei monaci aumenta in modo considerevole e cresce il prestigio di Saba e Teodosio, due monaci cappadoci giunti nel deserto di Giuda per l’esperienza del deserto. Terzo polo monastico della Palestina è infine la regione di Gaza, dove Ilarione avrebbe stabilito la sua residenza eremitica prima del 33037.

Area molto ricca di fermenti ascetici è infine l’Anatolia, estesa dall’Armenia Minor a est sino a Costantinopoli a ovest. L’imperatore Giuliano, che trascorre la giovinezza in diverse località cappadoci, menziona certi cristiani chiamati apotattiti (rinuncianti) nel 36238; lo storico ecclesiastico Socrate conosce un certo Eutichiano che nella prima metà del IV secolo fa vita solitaria sulle pendici del monte Olimpo in Bitinia39; Sozomeno invece racconta le gesta di Eustazio vescovo di Sebastia, forse il primo vero propagatore dell’ideale ascetico nell’area. Seguace di Eustazio è certamente Basilio, il grande legislatore monastico di lingua greca40.

La fuga dal mondo: deserto, isole, ville

«Fuggi lontano dal mondo e ti salverai»41; «Colui che vive nel deserto e vive nel raccoglimento è libero da tre battaglie, quella dell’udito, quella della chiacchiera e quella della vista; ne deve fare una sola, quella del cuore»42. Così si legge negli Apoftegmi, e si sente riecheggiare l’ordine divino impartito ad Abramo perché raggiunga la terra promessa (Gen 12,1: «Esci dalla tua terra, dalla famiglia, dalla casa di tuo padre»). Il sentirsi straniero al mondo è tema presente nella prima letteratura cristiana (si pensi all’anonimo A Diogneto), ma è col monachesimo che questo rifiuto del mondo, il contemptus mundi appunto, diventa stile di vita nuovo. L’antichità classica non ama la desolazione del deserto e le divinità pagane prediligono la città e i commerci degli uomini. Al di fuori della città, l’unico spazio non ostile è quello organizzato delle villae, il locus amoenus delle conversazioni aristocratiche e dell’otium. Per la verità, già il messaggio evangelico riserva uno spazio inedito al deserto, a partire dalla vox clamantis in deserto, Giovanni Battista; e sempre nel deserto si rifugia Gesù per il suo digiuno di quaranta giorni, che culmina nella tentazione diabolica. Il deserto resta ancora un mondo ostile, anomico, dove spadroneggiano incontrastate le forze demoniache. Con le biografie di Antonio e Pacomio, la percezione della desolazione del deserto cambia: se da un lato mantiene il suo carattere di luogo ostile, dove appunto il contatto con il demonio è più forte, dall’altro diventa la nuova frontiera della cristianità, un luogo da conquistare e strappare progressivamente all’anomia diabolica. La trasformazione del deserto da parte dei monaci può dirsi compiuta solo quando anche lo spazio selvaggio per eccellenza è definitivamente urbanizzato: ed ecco che il deserto diventa una città, non retta dalla legge umana, ma da quella della politeia monastica.

Ma che cos’è il deserto? In Egitto e in Siria esso è certamente la desolazione delle terre aride disabitate, ma non va dimenticato che, anche in tali contesti, il deserto si trova a ridosso delle città e costituisce il suburbium, dove convivono la terra incolta, le aziende agricole e le grandi residenze aristocratiche. L’egiziano Abramo è ben consapevole di questo e confessa a Cassiano che, pur avendo potuto costruirsi la cella lungo le sponde del Nilo per avere così l’acqua a portata di mano, consapevole di come anche lì esistano luoghi appartati, tuttavia la vicinanza con i frutti dei giardini e degli orti avrebbe pericolosamente insidiato la solitudine e l’asprezza del vero deserto43. Il deserto è quindi un cliché retorico che indica anzitutto quel luogo dove è possibile praticare la xeniteia/peregrinatio. Al deserto fisico orientale, ad esempio, non corrisponde un equivalente in Occidente: la vasta antropizzazione delle coste occidentali del Mediterraneo e la diffusione più capillare di centri urbani costringe, pertanto, i monaci locali a ‘inventarsi’ il deserto44.

«Volgi gli occhi intorno e, uscendo fuori del pelago delle tue cure affannose, guarda alla nostra condizione come a un porto e drizza lì la prora. È questo l’unico porto nel quale possiamo rifugiarci scampando a tutte le agitazioni del secolo procelloso»45. Così scrive Eucherio, monaco a Lérins, nel 430 a un giovane parente, esortandolo a rifugiarsi nell’isola-monastero antistante al capo de la Croisette, tra Cannes e Antibes. Non dissimile è l’immagine evocata da Ambrogio nell’Esamerone quando descrive le isole abitate da monaci come il porto sicuro dove i canti dei salmodianti fanno a gara «con il mormorio delle onde che dolcemente si infrangono sul lido e le isole applaudono con la bonaccia dei flutti al coro dei santi»46. La sicurezza del rifugio monastico, «fondato sulla roccia e destinato a durare con immobile stabilità»47, appare qui in tutta la sua valenza metaforica e come parte integrante di un linguaggio dove abbondano riferimenti alla navigazione e al naufragio.

Molte altre sono le testimonianze monastiche insulari: se ne trovano tracce dalla Sicilia alle coste settentrionali del Mediterraneo. Nel suo viaggio da Roma alla Gallia Narbonese all’inizio del V secolo, il senatore Rutilio Namaziano parla con malinconia di città abbandonate e della proliferazione di comunità di uomini che fuggono la luce (lucifugi viri) e si definiscono, con nome greco, monaci48. Il riferimento è all’isola di Gorgonia, dove la comunità monastica pare ancora esistere nel 59149. Sul finire del V secolo, Rufiniano, un vescovo africano profugo in seguito alla persecuzione ariana del re vandalo Trasamondo, si stabilisce in una piccola isola vicino alla Sicilia, conducendo un’edificante vita monastica50. Ma già un secolo prima, tra il 358 e il 360, Martino sceglie l’isola Gallinara di fronte ad Albenga come prima sede del suo training ascetico51 e Girolamo parla di insediamenti analoghi nelle isole prospicienti la costa dalmata52.

Il monachesimo è però anche, sin da subito, urbano. Con la svolta costantiniana la conformazione delle città cambia rapidamente e fra i molti nuovi insediamenti abitativi trovano spazio anche i monasteri. Nel programma edilizio di Costantinopoli, sul finire del IV secolo sono previsti anche i monasteri, che immediatamente assurgono a un ruolo non indifferente nelle complicate dispute ecclesiastiche. Sembra che attorno alla metà del V secolo il numero dei monasteri dell’area costantinopolitana si assesti attorno alle trenta unità, per giungere nel 536 a 73 nel solo territorio urbano53. Nello stesso periodo, anche la ‘vecchia’ Roma si popola di monasteri. I primi insediamenti documentati di fondazioni monastiche conducono presso basiliche martiriali: è il caso del monasterium Sancti Sebastiani ad catacumbas, fondato da papa Sisto, e di quello dei santi Giovanni e Paolo apud sanctum Petrum, fondato dal suo successore Leone54. Ancora nel VI secolo resta traccia di eremiti urbani: è il caso di Ingenuo, che sceglie una zona abbandonata della città di Autun per costruirsi la sua capanna e ritagliarsi un piccolo orto per la sussistenza55, o dell’anonimo monaco di Chinon, il quale vive in una cellula nell’oratorio prospiciente la chiesa56. Emiliano invece si ritira nella foresta dell’Alvernia e ne disbosca una piccola parte sufficiente a ospitare la propria capanna e un orto57.

Un altro spazio ambito dalle comunità monastiche è infine il suburbium, quell’area periurbana in cui sono maggiormente concentrate le residenze aristocratiche. Per gli anni 370-380 ci sono numerose notizie abbastanza attendibili su monasteri sorti entro questi complessi, attorno a Costantinopoli, su entrambe le rive del Bosforo e nell’Occidente latino. In Italia si distinguono i casi di Paolino di Nola e Melania iuniore, in Gallia quello di Sulpicio Severo, il biografo di Martino di Tours. Caso analogo è poi quello di Macrina, sorella di Basilio e Gregorio di Nissa. Tutti costoro condividono alcuni tratti caratteristici: rimangono nelle proprie condizioni di verginità o stato coniugato, rinunciano alle loro ingenti sostanze, dedicano se stessi e il proprio personale servile alla vita ascetica, trasformano la casa padronale in un monastero58.

I segni del monaco: l’abito e il linguaggio

L’abbandono del mondo secolare in favore della comunità monastica separata prevede un rito di ammissione. Come per il catecumeno, anche per il monaco è necessaria una preliminare catechesi che lo prepari a fare la sua professione monastica; anche lui dismette i vecchi indumenti e si riveste di nuovi; anche lui è invitato a formulare proponimenti di rinuncia (apotaxis/abrenuntiatio), analoghe alle formule battesimali di rinuncia a Satana. Separazione, liminalità (il periodo di preparazione) e rito d’ingresso rappresentano la struttura tripartita dell’iniziazione monastica. Parte importante del rito d’ingresso è proprio l’abbandono dell’abito secolare per l’assunzione di quello monastico. Esso è un segno del contemptus mundi, un distintivo di povertà e un’adesione all’insegnamento paolino59. Ma poiché la vita monastica è difficile e il fallimento sempre in agguato, il neo-monaco è invitato a conservare le vesti secolari, perché, in caso di pentimento, possa ritornare al mondo restituendo quelle ricevute60.

A differenza del clero secolare, che solo nel tardo medioevo adotterà un abito religioso, il monaco si contraddistingue sin dalle origini per un modo di vestire particolare, che gli consente di essere visto e riconosciuto come tale in ogni contesto. L’abito è tanto un tratto essenziale dell’identità monastica, che anche i demoni si camuffano da asceti indossando lo schema monachon61, con l’intento evidente di riuscire più facilmente nella loro opera di tentazione. La regola di Pacomio62 allude a una foggia propria dei monaci composta dalla melote/pellicula, la pelle di capra tenuta stretta al corpo da una cintura di cuoio, indossata da Elia e Giovanni Battista, e da una tunica di lino senza maniche (lebitonarium). Di tutte queste varietà si fa un compendio organizzato nel primo libro delle Istituzioni cenobitiche di Cassiano. I vari capi del vestiario monastico, dalla veste alla cintura, al cappuccio, ai calzari, al bastone vengono qui a costituire una teologia del vestire nella quale si istituisce uno stringente rapporto fra la condotta spirituale (interior cultus) e l’abbigliamento esteriore (exterior ornatus).

Prima di lui però già Sulpicio si era soffermato sulla foggia delle vesti monastiche in Gallia. Riferendo in una lettera della morte di Martino, nel 397, definisce agmina palliata le schiere di monaci che ne seguono il corteo funebre63. Il pallium è il mantello corto dei filosofi, ora assurto a simbolo del vestire monastico. Nella società antica l’abito è importante e non c’è professione, posizione sociale o età che non abbia i propri segni distintivi. La somiglianza fra monaco e filosofo è notevole: entrambi portano il pallium, il bastone e la barba lunga. Questi sono i simboli della vita filosofica che Fausto, monaco a Lérins e poi vescovo di Riez, dismette quando lascia la scuola di filosofia («Athenaei consors») per il monastero64, ma per i monaci d’Oriente mantello e bastone restano gli accessori essenziali. Proprio per questa somiglianza è facile il dileggio reciproco. Quando Eunapio racconta della distruzione del Serapeo di Alessandria (391), indugia sui cosiddetti monaci che, pur avendo l’aspetto di uomini, compiono sconcezze indicibili e portano una veste nera65; ma d’altronde è facile – prosegue – proclamarsi monaci, giacché non si deve far altro che indossare vesti scure che spazzino per terra ed essere buoni a nulla e averne la reputazione66. A Eunapio risponde idealmente Isidoro, monaco e sacerdote a Pelusio: «Non sono il mantello e il bastone a fare il vero filosofo, ma linguaggio aperto e condotta rigorosa (parresia kai politeia67.

Altro segno distintivo della disciplina monastica è il linguaggio. Come ogni gruppo sociale che propone una risemantizzazione delle pratiche di vita, anche il monachesimo elabora una sua lingua ‘speciale’, i cui segni vanno rintracciati nella vasta letteratura ascetico-monastica. Per quanto riguarda l’Occidente, il periodo di più feconda creazione linguistica è quello che va dalle traduzioni latine della Vita di Antonio alla Regola di Benedetto. Nell’Oriente egiziano, palestinese e siriaco, invece, le prime testimonianze scritte monastiche risalgono alle generazioni successive a quella dei ‘fondatori’, quando si mette per iscritto il corpus dottrinale negli Apoftegmi. La grande maggioranza delle parole dei monaci si trova proprio nella letteratura apoftegmatica: si tratta di parole in origine pronunciate e ascoltate – probabilmente in copto – e solo più tardi messe per iscritto e lette. Conoscere il monachesimo antico significa anche conoscere il processo di conservazione, raccolta e trasmissione di questo corpus testuale. Interessanti, da questo punto di vista, sono due raccolte risalenti agli inizi del V secolo, la collezione etiopica, nota come Collectio monastica, e l’Ascetico di Isaia: queste raccolte si collocano esattamente in quel punto cruciale del passaggio dalla tradizione orale a quella scritta. Scrive Isaia: «Quello che ho visto e udito vi riferisco»68. Accanto a questo però non va trascurata la documentazione papiracea di lingua greca, la prima a impiegare una terminologia complessa per indicare le comunità monastiche egiziane. Pur tenendo conto delle diverse lingue di cui si servono gli scrittori monastici, imponente è la massa di neologismi creati per soddisfare le nuove esigenze, pratiche e spirituali, della vita monastica: i nomi delle istituzioni, della gerarchia, delle strutture organizzative, degli oggetti che formano il corredo del monaco. Analogamente non è trascurabile la raffinata risemantizzazione del linguaggio filosofico precedente, col quale si indicano ormai abitualmente gli adempimenti dei monaci e si definisce il vocabolario – e la relativa teologia – della solitudine, della preghiera continua e delle pratiche di purificazione individuale69.

Il fine del monaco: la lotta contro le passioni

Un esempio di questa risemantizzazione è il concetto di imperturbabilità (apatheia). Intesa come fine della vita del saggio, essa può indicare o l’assenza di ogni passione (platonismo), oppure l’assenza di passioni irrazionali, ma con l’ammissione di alcune passioni positive (stoicismo), o ancora l’assoluta insensibilità a qualsiasi emozione (cinismo). La scelta fra apatheia e metriopatheia (moderazione) costituisce il dibattito fondamentale relativo al fine della vita, attorno al quale ruotavano le diverse scuole filosofiche antiche. La stessa oscillazione si ritrova nel primo monachesimo cristiano, dove le passioni diventano i pensieri malvagi della morale origeniana e poi gli otto spiriti di Evagrio, i quali giungono a noi dall’esterno, s’insediano nel nostro cuore e generano i pensieri; ultima fase di questa catena causale sono le azioni. Con Cassiano però, il ‘traghettatore’ della morale monastica egiziana in Occidente, accanto ai pensieri (cogitationes) malvagi si rinvengono quelli buoni, generati dalla stessa mente umana. Mentre questi sopraggiungono grazie all’illuminazione dello Spirito Santo, quelli di origine maligna sono insinuati in noi dal diavolo per allettarci con i vizi o con altre insidie occulte70. Al monaco pertanto non resta che vagliarli a uno a uno, affinché si possa raggiungere quella stabilitas che apre le porte alla tranquillitas cordis71.

Uno solo è lo strumento che consente di giungere a questa condizione: il discernimento (diakrisis/discretio). Sempre oscillante fra carisma divino (tradizione egiziana) e tecnica (Cassiano, Nilo di Ancira), il discernimento degli spiriti diventa il tratto distintivo del vero monaco e, di conseguenza, occupa una parte rilevante nella letteratura ascetica cristiana greca e latina. Il fondamento del discernimento è scritturistico, quindi indiscutibilmente di origine divina, tuttavia sulle modalità del suo raggiungimento l’opinione non è altrettanto univoca: per quanto nessuno si spinga a negarne la trasmissione da Dio all’uomo, sul ruolo che la persona assume in questa relazione e soprattutto sulla sua compartecipazione ad essa le posizioni divergono, e talvolta anche di molto. In termini generali, si può dire che il discernimento è il frutto di una lunga e complessa pratica di purificazione del corpo e dell’anima attraverso la continenza, i digiuni, le veglie e la preghiera. Il raggiungimento di tale perfezione ascetica rende l’uomo prossimo a Dio, dischiudendogli la possibilità della vera gnosi. A seconda del contesto nel quale il monaco vive, il discernimento ha conseguenze diverse: per il solitario Antonio è lo strumento principe dell’ascesi, per Pacomio è quel particolare dono che gli consente di preservare l’armonia nella comunità, per entrambi però è lo scudo frapposto alle insidie che giungono dal mondo e quel particolare carisma che consente al monaco il progresso spirituale72.

Pensatore cristiano di riferimento per la definizione di questo itinerario ad Deum è Origene: questi, saldando tradizione giudaica e tradizione greca, indica l’etica come il primo passo sul cammino della vera vita ovvero della conoscenza. Tre sono le vie che conducono l’anima a Dio, purgativa, illuminativa e unitiva: la prima prevede la repressione delle passioni e il dominio sugli istinti; la seconda, più complessa, consiste nell’acquisizione della consapevolezza della fondamentale vanità delle realtà terrene; la terza invece è la conoscenza delle realtà superiori e spirituali, la contemplazione divina. Da qui prende le mosse Evagrio – il vero primo teologo della vita monastica – fissando le tappe di questo cammino attraverso la successione delle sue tre opere principali: il monaco deve anzitutto conseguire l’impassibilità dell’anima attraverso la lotta contro gli otto pensieri malvagi che lo assalgono quotidianamente (Pratico), quindi, solo vinta questa lunga battaglia, potrà aspirare alla vera gnosi, godendo della contemplazione della natura e di Dio (Gnostico). Pilastro fondamentale della sua teologia resta però la lotta alle passioni (Antirretico), ovvero gli otto spiriti malvagi (gola, lussuria, avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria, orgoglio) legati fra loro da uno stretto rapporto genealogico73.

Il rapporto maestro-discepolo

La radicalità della scelta monastica costringe a rompere i legami sociali precedenti o perlomeno così è rappresentata nelle fonti. L’inevitabile conseguenza è la costruzione di una nuova identità e di un nuovo tipo di personalità. In questo senso, pressoché in ogni area dove il monachesimo prende piede, si assiste al crescente interesse per il rapporto maestro-discepolo, come forma obbligata del processo iniziatico che dà accesso alla vita monastica. Nonostante la grande varietà di situazioni e di stili ascetici, è evidente la centralità di un particolare rapporto di ‘direzione spirituale’, dove un discepolo desideroso di conseguire il progresso continuo nel suo cammino ascetico si rivolge a un maestro istruito ed esperto di quella pratica. Rispetto alla tradizione non cristiana, il monaco che si pone come maestro spirituale non si limita a istruire il discepolo con parole ed esempi, al fine di renderlo più o meno autonomo, bensì richiede fedeltà assoluta. Al discepolo resta la libertà nella scelta, ma dopo che è accettato, l’obbedienza e l’abbandono della propria volontà devono essere totali74. I Padri, dice Poemen, hanno provato tutte queste cose e hanno tramandato la via regia (basilike odos)75 sulla quale tutti i monaci devono camminare76. Al padre spirituale bisogna manifestare i propri pensieri (exagoreusis), anche quelli più vergognosi e intimi, legati, ad esempio, alla sessualità, e chiedere lumi sulla corretta interpretazione delle Scritture77. In ambito cenobitico, in particolare nelle comunità di Pacomio e Shenoute, il dialogo personale lascia il posto a istruzioni generali per l’intera comunità78.

Strumento particolare di direzione spirituale sono poi le lettere. Testimonianza preziosa è quella di Ammonas, monaco eremita nel deserto di Sceti, da dove scrive ai discepoli. In questo corpus testuale si delinea un chiaro percorso ascetico. Il primo passo che spetta al monaco è il raggiungimento dell’esychia, la capacità di praticare la solitudine; raggiunta tale condizione, si è pronti alla lotta contro le passioni attraverso la preghiera e il discernimento79. Alla metà del VI secolo, il meccanismo è talmente consolidato da diventare un vero e proprio strumento di governo con Barsanufio e Giovanni di Gaza, due reclusi che dalle loro celle dispensano consigli a monaci e laici e dirigono le comunità loro sottoposte.

Come già per il carisma del discernimento, anche il rapporto maestro-discepolo, oltre a esplicarsi in modalità diverse, dalla simbiosi fra i due protagonisti alle lettere, viene inteso in maniera quasi opposta nei molti stili di vita monastica. Essenzialmente un carisma riservato a pochi nel monachesimo egiziano, nel De monastica exercitatione di Nilo di Ancira il ruolo del padre spirituale perde ogni coloritura divina per divenire didaskalia, un sapere tecnico acquisito lungo un preciso percorso di formazione, una tradizione sapienziale controllabile e verificabile che scaturisce dal diuturno tirocinio dell’ascesi. «Chi si ingaggia in questo compito deve ungersi come se dovesse affrontare una lotta sfiancante»80. Come il buon medico, il vero padre spirituale risulterà efficace nella misura in cui sarà capace di riconoscere e rimuovere le cause della malattia. Una funzione simile al ‘medico delle passioni’ (spiritalis medicus) è anche quella illustrata da Cassiano, dove l’anziano monaco si presenta al giovane discepolo come una guida che esercita il comando (imperium) e l’autorità (auctoritas) e che, grazie alla sua esperienza, riuscirà a trasmettere al discepolo i segreti del deserto (secreta heremi)81. Il rapporto diventa così una prova per saggiare le reali intenzioni del discepolo, inadatto alla vita monastica se incapace di reggere il giogo (iugum) imposto dall’anziano82.

Molti monachesimi

Famiglie carnali e famiglie spirituali

Topos principale della letteratura ascetica cristiana è certamente l’esortazione al rifiuto di ogni ricchezza materiale e dei legami familiari. Il commento esegetico, spesso congiunto, di pericopi bibliche come Gen 12,1 («Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre») e Mt 19,21 («Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro un cielo; poi vieni e seguimi») indica a tutti coloro che intendono iniziare un cammino monastico un dovere imprescindibile, un netto rifiuto di alcune consuetudini sociali: possesso di beni privati, istituto del matrimonio e preservazione dei legami familiari. Nonostante una ripetuta insistenza su questi argomenti nelle fonti letterarie, una discreta serie di indizi relativi alle diverse forme di aggregazione monastica storicamente documentate lascia intravedere una certa discrepanza fra quanto auspicato e quanto messo in atto. Il modello familiare tradizionale insidia direttamente le comunità monastiche e impone una definizione dei confini del ‘campo’ monastico. Come il cristianesimo ha influito nella ristrutturazione della famiglia antica, anche la diffusione del movimento ascetico ha avuto conseguenze sulle dinamiche familiari in tutti i diversi ceti sociali fra i quali l’ideale di vita si era diffuso, dall’aristocrazia senatoria dell’Urbe ai contadini dell’Egitto copto. I casi di ascetismo domestico di Sulpicio, Melania e Paolino di Nola, ad esempio, influiscono sulla definizione dello spazio fisico dove si conduce vita monastica, ma investono direttamente anche il modello familiare. La reazione è immediata e, forse perché inefficace, reiterata. Dai canoni del concilio di Elvira (306) sino a quelli di Nicea (325), la coabitazione ascetica di uomini e donne è condannata, ma bisogna attendere il canone 17 del concilio di Calcedonia (451) e l’intervento imperiale nella prima metà del VI secolo83 perché l’intensificazione del controllo episcopale sui monasteri dia risultati: da questo momento la vita ascetica non potrà darsi in nessun’altra forma se non in quella del monastero tradizionale.

Alla rinuncia formale della famiglia carnale fa seguito una spiritualizzazione del linguaggio familiare classico (padre, madre, figlio, figlia): i legami spirituali (ma anche quelli regolamentati dalla legislazione) sono definiti in termini di discendenza. Il corpus testuale shenoutiano regola i rapporti all’interno del monastero sulla base del principio di paternità, spirituale e gerarchica, distinguendo tra fratelli (comunità maschile) e sorelle (comunità femminile). Accanto a questo, però, vi sono casi in cui la conservazione dei legami carnali è garantita ai figli e alle figlie di madri che optano per la vita monastica o alle donne che seguono figli e mariti, o più facilmente i fratelli, come nel caso di Pacomio84 e Shenoute. Qualcosa di analogo si verifica in Gallia fra IV e VI secolo, dove abbiamo coppie sposate con prole che optano per la vita monastica (Eucherio di Lione e Salviano di Marsiglia) e il caso dei fratelli, due maschi e una femmina, fondatori della comunità monastica sul massiccio del Giura. E proprio Salviano nel suo Governo di Dio non lesina una dura critica alla famiglia tradizionale, manifestamente in contrasto con quella nuova, che vede in Dio il suo supremo paterfamilias85. Accanto alla tradizionale esortazione a recidere ogni legame con la società mondana, si assiste quindi a un ridimensionamento della radicalità in vista di uno stile di vita certamente casto e ritirato, ma non del tutto separato dal contesto domestico e familiare86.

Stabilità e itineranza

Ogni studio sul monachesimo antico contiene almeno un riferimento all’epistola di Girolamo a Eustochio e alle Conferenze dei Padri di Cassiano, dove si legge che «tria sunt in Aegypto genera monachorum»: anacoreti, cenobiti e un non meglio definito tertium genus87. I primi scelgono di vivere nella solitudine della chora, il territorio extraurbano, i secondi si raccolgono in un medesimo luogo per praticare un comune regime di vita (koinos bios), i terzi invece rifuggono da queste restrizioni e scelgono di vivere l’ascetismo da pellegrini. Il passaggio dal primo al secondo stato di vita è concesso e talvolta regolato; il tertium genus è invece degenere e universalmente condannato88.

L’isolamento dal mondo e dalle sue tentazioni è certamente il fine ultimo di ogni monaco, ma le aree desertiche del bacino mediterraneo sono limitate e progressivamente si popolano di solitari. Il monaco Ammonio lascia la comunità ascetica di Celle per la regione di Nitria, spinto dalla necessità di trovare per sé e i compagni un luogo più appartato per immergersi nell’unione con Dio89. Ma più semplicemente, quando il monaco si accorge di aver ormai acquisito una certa familiarità con le persone e le cose che lo circondano, ecco che abbandona il luogo90. Altri, come Macario Alessandrino, si spostano periodicamente da un luogo a un altro91, altri ancora conducono una vera e propria vita nomadica92. In alcuni rari casi quindi l’itineranza non è biasimata, forse per il prestigio di chi la pratica. Giovanni di Licopoli, ad esempio, monaco veggente, vive da vagabondo, ma in lui alberga il carisma della mobilità93.

Il più noto gruppo monastico itinerante è forse quello dei messaliani o euchiti, vale a dire oranti. L’unica attività che considerano propria della vita ascetica è la preghiera, tutta rivolta ad annullare l’influenza di un demone, responsabile delle passioni, che l’uomo porta con sé dalla nascita, in conseguenza del peccato di Adamo. Questa preghiera ininterrotta impedisce loro di svolgere qualsiasi attività lavorativa e, per sopravvivere, si vedono costretti all’elemosina e all’itineranza ascetica. Presenti nei dintorni di Edessa nella prima metà del IV secolo, i messaliani non costituiscono un vero e proprio movimento unitario e se ne trova traccia anche in altre regioni. È il caso del movimento ascetico di Eustazio, il maestro ascetico di Basilio: organizzato in comunità chiamate fraternità (adelphotes) e sparse in Anatolia, si ha menzione di questo movimento a partire dalla metà del IV secolo. Gli eustaziani rifiutano ovviamente vincoli familiari e con il mondo, e si dedicano prevalentemente all’itineranza, facendosi ospitare nelle case di quanti sono disposti ad ascoltare la loro predicazione94.

L’effetto combinato degli interventi dell’autorità imperiale e di quella ecclesiastica produce una rapida normalizzazione del fenomeno monastico, ma è indubbio che la concettualizzazione messa in atto da Girolamo e Cassiano appiattisca sui modelli considerati accettabili una varietà notevole di pratiche ascetico-monastiche.

Quis monachus salvetur?

La discussione sui genera monachorum lascia vedere in trasparenza una costante della letteratura monastica: la demarcazione fra ortodossia ed eterodossia in ambito ascetico. Più o meno sotterraneamente, questa esigenza accompagna la storia del movimento monastico sin dalle origini. Ne è un primo esempio la storia della comunità monastica urbana guidata da Ieraca vescovo di Leontopoli, pressoché coeva all’esperienza di Antonio, dove si propugna una continenza completa per i suoi membri, al punto da escludere i coniugati dalla partecipazione alla liturgia. L’enkrateia ieracita ha un certo successo, anche fra le donne, alle quali è chiesta non tanto la castità nel matrimonio, ma la verginità. Contro Ieraca si schierano fermamente Atanasio e il suo successore Pietro II. La pretesa di purità integrale all’interno della Christiana societas, perseguita in aggiunta attraverso la convivenza ascetica fra uomini e donne, è una minaccia per l’ordine sociale: Ieraca diventa il lupo che si aggira nella vigna del Signore istillando, nelle menti semplici, pensieri nocivi, e pertanto va avversato. Il modello ascetico è quello di Antonio, mentre la vita nel mondo prevede l’istituto matrimoniale. Non a caso, la Vita di Antonio diventa il testo di riferimento per la vita monastica, mentre le poche notizie che abbiamo su Ieraca sono quelle contenute nel Panarion di Epifanio95, la raccolta eresiologica per eccellenza96.

Ieraca muore nel 340, ma il problema della radicalità ascetica è lungi dall’essere risolto. Nell’ultimo decennio del IV secolo, i più illustri esponenti della cristianità orientale e occidentale si prodigano per promuovere e definire lo status delle vergini e delle vedove. Fra questi, spiccano due vescovi, Ambrogio e Giovanni Crisostomo. La pratica della velatio e la sua regolamentazione diventano così un argomento d’attualità, dopo che la decretale, probabilmente damasiana, Ad Gallos (383-384) ha definito età e modalità di consacrazione delle vergini, senza dimenticare le pene per le ragazze («nondum velata in Christo») che non mantengono la promessa. Si inserisce in questa scia anche Girolamo, deciso ad abbattere un altro antagonista del monachesimo: Gioviniano. A differenza di Ieraca, questi insiste sull’equiparazione fra vergini, vedove e donne sposate: costoro, grazie al battesimo, godono tutte di fronte a Dio degli stessi meriti97. Girolamo percepisce quest’affermazione come estremamente pericolosa perché l’uguaglianza fra le tre condizioni della donna cristiana sovverte l’ordine sociale, che vede nettamente separata la vita secolare da quella religiosa, e in modo particolare monastica. «La cosa che mi ha destato qualche sospetto di competenza», scrive Girolamo, «è che questi [scil. Gioviniano] invita alle nozze con lo scopo di sottrarre seguaci alla verginità»98. Anche in questo caso, le uniche notizie su Gioviniano sono contenute nel trattato che Girolamo scrive contro di lui e nella raccolta eresiologica di Agostino. Entrambi ricordano che Gioviniano si definisce monaco, ma, ovviamente, in maniera indebita99.

Per comprendere quanto, in quegli anni, la questione sia considerata vitale, basta leggere la lettera di Siricio a Imerio vescovo di Tarragona (11 febbraio 385). Una parte molto estesa e significativa del documento riguarda questioni disciplinari e di etica sessuale, legate soprattutto al monachesimo e al variegato mondo dell’ascesi. Oltre a decretare che monaci e monache che siano venuti meno al proposito di santità («propositum sanctitatis»), unendosi in rapporti illeciti e sacrileghi, siano allontanati dai monasteri100, Imerio insiste sulla consacrazione dei monaci, perché possano essere sottoposti al controllo diretto del vescovo101.

Situazioni simili si ritrovano anche in Siria con gli agapeti (letteralmente ‘i diletti’), uomini e donne che decidono di vivere in maniera radicale il loro cristianesimo, imponendosi un regime di vita ascetico. A partire dalla fine del IV secolo, questa condizione di promiscuità è considerata pericolosa per la comunità ecclesiale, e l’opposizione da parte episcopale cresce. Caso analogo è quello della comunità di vergini nota come «Figli e Figlie del Patto»: gruppo sociale trasversale a cui partecipano in egual misura laici e chierici, per tutto il IV secolo si contraddistingue per la spiccata venatura ascetica. Con l’affermarsi del modello ecclesiastico episcopale anche in Siria, il «Patto» verrà progressivamente clericalizzato, diventando, di fatto, una forma di suddiaconato102.

Prendendo poi il 383 come ideale terminus a quo, non si può non evocare un evento che si verifica a ridosso di quella data: la condanna a morte del vescovo di Avila Priscilliano. Le analogie con l’affaire Gioviniano sono molte: entrambi sono accusati di eresia (manicheismo), di frequentazioni femminili ambigue e improprie, di propagare uno stile di vita anti-ascetico. Anche nel caso di Priscilliano si tratta perlopiù di accuse costruite ad arte, interpretando in maniera tendenziosa alcuni passaggi dei testi attribuiti a lui o alla sua cerchia. Anch’egli però si muove su uno sfondo simile a quello di Gioviniano, dove la reazione violenta della maggioranza dei vescovi ispanici è consentita dall’assenza, come a Roma, di un ordo sociale definito103. Come i Padri del concilio di Saragozza, anche Girolamo avrà certamente la meglio, ma le pratiche ascetiche ‘familiari’, a partire dalla predicazione giovinianea, generano degli eredi, che ne consentono il traghettamento nel secolo successivo, dove si assisterà, ad esempio, al monachesimo familiare di Lérins. Si tratta però di stili di vita effimeri e progressivamente normalizzati man mano che i ruoli all’interno della Christiana societas si cristallizzano104.

Verso l’ortodossia monastica

Historiae e miracula

L’atto di nascita del discorso cristiano sul passato è la Storia ecclesiastica di Eusebio: da questo momento in avanti, le vicende politiche fanno da sfondo al succedersi degli eventi che riguardano propriamente la storia della Chiesa. Il racconto eusebiano innesta quest’ultima nella storia plurisecolare dell’Impero romano, con la conseguenza che gli oggetti d’interesse, pur restando i medesimi, sono traslati su un piano totalmente diverso, quello della politeia cristiana. Dopo Eusebio, tutti si inseriscono in questa cornice, ma lo sviluppo imponente e diffuso del monachesimo occupa prontamente la scena ed entra nella storia della Chiesa. Il primo a occuparsene è Rufino nella traduzione e continuazione dell’opera eusebiana, eseguita intorno al 402, poco prima della traduzione, sempre rufininiana, della Storia dei monaci in Egitto (404). Di qualche anno successiva è invece la Storia lausiaca di Palladio (419-420). Tutte condividono la conoscenza diretta dei luoghi dove il monachesimo cristiano si sviluppa. Cronologicamente alla fine di questo gruppo di testi si colloca poi Cassiano: con le sue Istituzioni cenobitiche (419-426), subito seguite dai tre libri delle Conferenze dei Padri (425-428).

Le diverse storie delle origini del monachesimo contenute in questi scritti appaiono compiutamente come strategie discorsive finalizzate alla definizione dell’ortodossia monastica, all’interno della cornice più ampia della storia dei Christiana tempora, vale a dire dell’affermazione del regno di Dio attraverso la lotta contro le eresie. Sono da considerarsi, scrive Rufino, padri dei monaci (patres monachorum), grazie alla loro vita e vetustà, Macario, Isidoro, l’altro Macario, Eraclide e Pambo; costoro sono i discepoli di Antonio che abitano il deserto di Nitria, più vicini agli angeli del cielo che agli uomini105. Antonio è naturalmente collocato al vertice dell’ideale piramide che rappresenta la vita monastica; nella parte mediana si trovano invece i suoi diretti discepoli, i cui nomi sono ormai universalmente noti e il cui insegnamento, attraverso la condotta di vita esemplare, si offre alla massa anonima di monaci, e aspiranti tali, che abitano il vasto deserto egiziano. La successione genealogica Antonio-patres-monaci non contiene allusione alcuna a Pacomio né, più in generale, al monachesimo cenobitico, il cui padre fondatore è, per Rufino, Basilio di Cesarea. I monaci poi sono presentati come gli eredi diretti degli apostoli. Traducendo Pacomio, Girolamo chiama i monaci apostolici viri106; Cassiano invece indica nella pratica di comunione dei beni della chiesa gerosolimitana (At 4,32) il luogo e la data di nascita del monachesimo107. Il passaggio dall’età apostolica alle età successive è segnato dall’intiepidirsi della fede ardente degli inizi: di fronte al venir meno di quel fervore, anche in seguito alla morte degli apostoli, i più zelanti abbandonano la città per preservare dal contagium di questa degenerazione la disciplina di schietta tradizione apostolica. La frattura all’interno della Christiana societas si fa qui evidente, al punto che sembra intravedersi l’incompatibilità non solo con il popolo, ma anche con i pastori che dovrebbero guidarlo e si presentano invece manifestamente incapaci a ridestarlo da questo stato di torpore. La critica dei costumi della Chiesa non risparmia neppure le gerarchie ecclesiastiche, lasciando intendere come anch’esse non siano immuni dal contagium mondano, macchiando così l’ascendenza apostolica della successione episcopale108.

Questo solo esempio è sufficiente a comprendere come le ‘origini’ rappresentino l’ideale terreno di confronto sul quale si fronteggiano i primi storici del movimento monastico, tutti intenti a stabilirne l’‘ordine del discorso’ autentico e la genealogia certa, giacché la potenza dell’interpretazione si dispiega eminentemente nel metodo genealogico, il quale cela sempre una lotta per la supremazia, per l’affermazione di un punto di vista. In questo senso, l’immagine dell’Egitto come culla del monachesimo è frutto di una costruzione culturale, per quanto molto precoce, di cui solo alcuni degli scrittori di cose monastiche si fanno difensori e propagatori. Fra di essi primeggia Girolamo, ma gli scritti di Atanasio, Rufino, Cassiano hanno finalità analoghe109.

Un caso particolare riguarda invece il monachesimo di area siriaca. Se i monaci delle altre zone orientali del Mediterraneo trovano già a partire dall’ultimo quarto del IV secolo i propri storici, qui si deve attendere la metà del V secolo, quando Teodoreto vescovo di Cirro scrive la sua Storia filotea. Composto di trenta notizie su settantacinque personaggi, il testo restituisce una mappa del monachesimo presente nelle regioni intorno ad Antiochia, Cirro, il deserto di Calcide e Apamea. Come precisa nell’altra sua opera, la Storia religiosa, il suo obiettivo non è tanto ricostruire la storia del monachesimo siriaco, quanto piuttosto fornire un affresco dei diversi stili di vita ascetica diffusi110.

Ma la storia del monachesimo antico è scritta anche da coloro che visitano i luoghi dell’ascesi per un breve periodo della propria vita. Il corpus testuale cassianeo non è l’opera di un monaco egiziano, ma di un visitatore di quei luoghi. Sulpicio Severo si affida al racconto dell’amico Postumiano, il parlante dei Dialoghi, non certo monaco, ma vero e proprio ‘turista spirituale’ nel lontano Egitto. La stessa Storia dei monaci in Egitto è attribuita a sette pellegrini anonimi111.

La storia della Chiesa e del popolo di Dio non è però solamente il racconto delle res gestae degli uomini, ma soprattutto il racconto dei mirabilia Dei. Proprio questa espressione (o gesta mirabilia) è impiegata a più riprese da Rufino, il quale considera il miracolo manifestazione della potenza divina e perciò prova della legittima autorità conferita ai vescovi e ai monaci. Il prologo della Storia dei monaci in Egitto può essere letto come un manifesto di buona parte della letteratura ascetica fra IV e V secolo: intento di quanti hanno visitato quei santi uomini è narrare fedelmente i prodigi, dagli interventi sulla natura alle guarigioni, ai miracoli112. Dall’Egitto alla Gallia, i monaci si distinguono per la capacità di compiere miracoli, mettendosi così in concorrenza con i vescovi e ancorando le proprie radici all’età apostolica e dei martiri. La taumaturgia diventa così il segno della condizione di straordinarietà nella quale essi vivono113.

Monaci e chierici

Gli storici del primo monachesimo hanno messo in luce gli aspetti complessi dell’anacoresi, della fuga dalla città nella chora, ma la grande tensione all’interno della Christiana societas è creata dal monachesimo organizzato in comunità e radicato nell’area periurbana o nella città stessa. Cassiano è ben conscio di questa forza dirompente: egli, scrivendo a interlocutori che vivono la loro scelta ascetica nella regione probabilmente più antropizzata dell’Occidente romano, la Provenza, identifica i primi monaci non con i solitari del deserto, ma con i primi cristiani di Alessandria, convertiti dall’evangelista Marco, primo vescovo della città114. È proprio il rapporto fra monaci e vescovi a scandire la storia del movimento sin dai suoi esordi. La tensione fra le due figure è talmente alta che nel 398 riceve le attenzioni degli imperatori Arcadio e Onorio, i quali mettono in guardia chierici e monaci che sottraggono, nascondendoli, i condannati della giustizia civile115. A porre termine a questa prassi perniciosa sono chiamati in causa i vescovi, ai quali è affidata la giurisdizione sul clero, ma anche sui monaci. Questo potere di controllo è definitivamente mutuato nella legislazione ecclesiastica al concilio di Calcedonia del 451116. Nonostante ciò, per tutto il V secolo, nella Gallia si vieta esplicitamente al vescovo di rivendicare alcunché nella gestione della congregatio e ancora la Regola del Maestro (inizio VI secolo) non prevede l’ammissione stabile di preti nella comunità; nel caso poi di soggiorni prolungati, impone che essi lavorino insieme con gli altri117. Sin da subito è testimoniato infatti il tentativo episcopale di assoggettare i monaci, soprattutto per quanto riguarda le ordinazioni forzate. È il caso del monaco Aphu, prelevato a forza dal suo monastero di Ossirinco (vita Aphu 40-42), o di Shenoute, l’archimandrita del Monastero Bianco, che, in un primo momento, si rifiuta di ricevere il vescovo di Shmin perché impegnato nella preghiera. Al secondo richiamo, tuttavia, quando il vescovo minaccia la scomunica per quello che considera un affronto intollerabile, Dio stesso esorta Shenoute ad assecondare il volere del presule perché, in caso di scomunica, non potrà riammetterlo in forza di quanto sancito in Mt 16,19: «ciò che legherai sulla terra rimarrà legato nei cieli e ciò che scioglierai sulla terra rimarrà sciolto nei cieli» (Besa, vita Sinuthii 70-71). Caso opposto è quello di abba Poemen che congeda sbrigativamente un gruppo di monaci giunti a fargli visita dopo che questi avevano cominciato a denigrare il vescovo di Alessandria (Apophth. Patr. De abbate Poemene 45)118.

I casi di Shenoute e Aphu sono un chiaro esempio di quella figura che avrà tanta fortuna proprio a partire dall’Egitto: il monaco-vescovo119. Per quanto il rifiuto dell’ordinazione sia un topos della letteratura ascetica, al punto che moltissimi sono gli stratagemmi messi in atto dai monaci per sottrarsi a quella che è vista come la fonte principale della superbia, la presenza di monaci consacrati nella comunità ovvia al ricorso esterno per le celebrazioni liturgiche, rendendo così la comunità più autonoma (Regula quattuor patrum 4,18-19).

Ma come il vescovo può controllare la vita dei monaci, così i monaci possono diventare i ‘custodi’ degli ecclesiastici indisciplinati. Ne dà testimonianza fra IV e V secolo Bachiario, che racconta di un ecclesiastico macchiatosi di una grave colpa e perciò messo al bando. Questi è invitato alla penitenza, che consiste nella relegazione in un luogo remoto e solitario («secretus et solitarius locus») come può essere la piccola e misera cella di un monastero («cellula monasterii parva vel modica»). La decisione sulla relegazione spetta al vescovo, che determina anche il tempo necessario all’espiazione (Bachiar., repar. laps. 7-11).

La regola

Se i primi esperimenti di vita comunitaria sono quelli dell’Egitto pacomiano, dove i monaci abitano in luoghi separati, passano la giornata lavorando in solitudine e si riuniscono solo per la preghiera, qui vanno individuate anche le tracce dei primi codici di comportamento. Le consuetudini sono certamente gli unici modelli di riferimento per le comunità raccolte attorno a un leader carismatico, ma il vivere iuxta regulam diventa ben presto la cifra della vita monastica comunitaria. «Quelli che disprezzano i precetti dei superiori («praecepta maiorum») e le regole del monastero («regulas monasterii»), che sono stabilite da Dio, e non tengono conto dei consigli degli anziani («seniorum consilia») saranno castigati secondo la regola stabilita» (Pach., reg., praecepta atque iudicia 8). Così traduce Girolamo il corpus legislativo pacomiano, giunto a noi nell’originale copto in pochi frammenti. Nel quadro di istituzionalizzazione della pratica monastica, accanto alla repressione o normalizzazione delle forme di vita ascetica al di fuori del monastero tradizionale, ha un posto rilevante la stesura delle regole, e punto di partenza è proprio la legislazione pacomiana, modello di riferimento per la fiorente produzione successiva. L’assenza di una terminologia univoca e chiara impone cautela nel considerare questi testi come veri e propri strumenti giuridici per razionalizzare e sanzionare i comportamenti nella comunità, tuttavia la loro rapida diffusione segna una chiara e inarrestabile linea di tendenza120.

Un’altra importante coppia di testi monastici, che si è soliti chiamare regola e che, come quelli pacomiani, avrà notevole fortuna nei secoli successivi, è quella costituita dal Grande e Piccolo ascetico. Composti dopo il 365 da Basilio, questi due testi sono strutturati come una raccolta di domande e risposte sulla vita ascetica comunitaria; i 55 quesiti del Piccolo ascetico saranno tradotti da Rufino nel 397 su richiesta di Ursacio, abate del monastero di Pineto, vicino a Roma, che desiderava dotare la sua comunità di una norma di vita omogenea. La prima regola di lingua latina è però l’Ordo monasterii composto nella cerchia agostiniana (forse Alipio) alla fine del IV secolo. La sua origine è una spia interessante della crescente istituzionalizzazione del monachesimo. Di ritorno dall’Italia, Agostino si stabilisce con alcuni amici, fra cui Alipio ed Evodio, nella città natale di Tagaste, adibendo una residenza paterna a monastero. Nel 391 però Agostino si trasferisce a Ippona e la gestione della comunità passa ad Alipio, il quale, desideroso di adeguare lo stile di vita dei suoi membri alle regole orientali, fa visita a Girolamo per prendere visione delle consuetudini ascetiche palestinesi. Di ritorno, prontamente nominato vescovo della città (394), decide di mettere per iscritto quanto appreso. È però in Gallia che assistiamo al fiorire di moltissime regole. Prima testimonianza e capostipite della normativa successiva è la Regola dei Quattro padri comunemente ricondotta all’asceterio di Lérins. Essa si presenta come la trascrizione di quattro discorsi tenuti in quella che sembra una riunione monastica in vista della costituzione di una comunità cenobitica. Dopo un breve preambolo nel quale si dichiara l’intento di redigere una regola di vita («conversatio vel regula vitae») sotto ispirazione dello Spirito Santo, i quattro oratori, a turno, si soffermano su quegli aspetti che, da quel momento, costituiranno il nucleo di ogni successiva regola latina: la supremazia della vita in comune, l’obbedienza incondizionata al superiore, i requisiti e doveri di quest’ultimo, gli adempimenti ai quali sono tenuti gli altri monaci, la scansione del tempo monastico, le forme della preghiera e del lavoro, il rapporto con il clero e i monaci provenienti da altre comunità. I temi non sono affatto nuovi ed evidenti sono le reminiscenze e le allusioni alle traduzioni rufiniane del Piccolo Ascetico e della Storia dei monaci in Egitto, e alle regole di Pacomio tradotte da Girolamo. Non comune è invece la scelta dei protagonisti: Serapione, Macario, Pafnuzio e un altro Macario (il primo potrebbe essere Macario il Vecchio o l’Egiziano, mentre quest’ultimo Macario il Giovane o l’Alessandrino). La predilezione per la terra d’elezione dell’ascetismo è certamente la ragione principale di questa scelta: in questo modo si sancisce l’autorità e l’inviolabilità di norme fatte risalire ai fondatori della vita monastica, sulle quali si fondano quei rapporti gerarchici e quelle consuetudini che contraddistingueranno il monachesimo latino, ma che, ad esempio, poco hanno in comune con i principi comunitari proposti da Basilio e da una certa tradizione monastica orientale.

Scorrendo cronologicamente le molte regole monastiche prebenedettine giunte sino a noi, si nota ad esempio un progressivo affievolimento dell’interesse per i requisiti richiesti agli aspiranti monaci: mentre i primi legislatori prospettano procedure di ammissione e attestano che l’ingresso nella comunità non è libero e dettato dalla sola volontà personale di abbandonare il mondo, le regole successive accordano alla questione scarsa o nessuna attenzione. Ha invece il sopravvento la serie di norme e precetti che regolano la vita interna alla comunità e i rapporti fra i diversi protagonisti. È il monachesimo provenzale a riproporre la questione dell’accesso al monastero e del suo regolamento (Regola dei quattro Padri). Ampio spazio ai requisiti richiesti agli aspiranti monaci si registra invece nelle regole di Pacomio: il postulante deve essere di condizione libera e in grado di rinunciare alla famiglia e al patrimonio; egli deve attendere per qualche giorno davanti alla porta del monastero, quindi, lasciate le vesti mondane, è ammesso alle riunioni e ai pasti in comune (Pach., reg., praecepta 49). Di diverso avviso è Basilio, che prevede una professione pubblica, nella quale si faccia solennemente voto di castità dinanzi alle autorità ecclesiastiche (Bas., reg. fus. 15,4), e un periodo di noviziato nel corso del quale verrà esaminata la vita passata del postulante. Questo periodo sarà breve se il candidato ha un passato immacolato, lungo e costellato di faticosi esercizi ascetici se dovranno essere cancellate gravi colpe passate (Ivi, 10,2)121.

1 Data la natura di questo contributo, la bibliografia fornita in questa prima nota ha una funzione essenzialmente orientativa, riferendosi a testi ‘classici’ e a importanti contributi più recenti. Questo elenco deve essere integrato con i titoli contenuti nelle note seguenti e relativi ad aspetti più puntuali e circoscritti. Poche sono le opere di sintesi sul monachesimo cristiano come fenomeno di lungo periodo. Per una dettagliata ricostruzione del dibattito storiografico sul tema vengono ora in aiuto due preziosi strumenti: il primo, per quanto limitato alla ricerca di ambito protestante, è B. Jaspert, Mönchtum und Protestantismus. Probleme und Wege der Forschung seit 1877, 5 voll., St. Ottilien 2005-2011; il secondo, che parte dalla storiografia degli anni Sessanta del Novecento, è R.M. Parrinello, Monachesimo cristiano, in Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, II, Bologna 2010, pp. 1078-1119 (con amplissima bibliografia alle pp. 1110-1119). Sulle più recenti linee di tendenza si veda anche P. Rousseau, The Historiography of Asceticism: Current Achievements and Future Opportunities, in The Past Before Us. The Challenge of Historiographies of Late Antiquity, ed. by C. Straw, R. Lim, Turnhout 2004, pp. 89-101. Per quanto riguarda il monachesimo antico, l’impulso dato dagli studi di Peter Brown alla storia della tarda antichità, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, è stato decisivo: dell’ingente produzione scientifica scaturita da questa svolta storiografica si darà conto puntualmente nel corso della trattazione. Restano però fondamentali alcuni classici antecedenti: K. Heussi, Der Ursprung des Mönchtums: seine Motive nach den Selbstzeugnissen, Tübingen 1936; U. Ranke-Heinemann, Das frühe Mönchtum, Essen 1964; D.J. Chitty, The Desert a City. An introduction to the Study of Egyptian and Palestinian Monasticism Under the Christian Empire, Oxford 1966; B. Lohse, Askese und Mönchtum in der Antike und in der alten Kirche, München-Wien 1969; G.M. Colombás, El monacato primitivo, 2 voll., Madrid 1974-1975 (trad. it. Il monachesimo delle origini, Milano 1990); A. Guillaumont, Aux origines du monachisme chrétien. Pour une phénoménologie du monachisme, Bégrolles-en-Mauges 1979. Più recenti, ma altrettanto imprescindibili, sono invece: K.S. Frank, Geschichte des christliche Monchtums, Darmstadt 1988; M. Dunn, The Emergence of Monasticism. From the Desert Fathers to the Early Middle Ages, Oxford 2000; G. Penco, Il monachesimo, Milano 2000; Atlante storico del monachesimo orientale e occidentale, a cura di J.M. Laboa, Milano 2002; D. Caner, Wandering, Begging Monks. Spiritual Authority and the Promotion of Monasticism in Late Antiquity, Berkeley 2002; S. Pricoco, Il monachesimo, Roma-Bari 2003; W. Harmless, Desert Christians. An Introduction to the Literature of Early Monasticism, New York 2004; Monachesimo orientale: un’introduzione, a cura di G. Filoramo, Brescia 2010; P. Rousseau, Introduction to the Second Edition, in Id., Ascetics, Authority, and the Church in the Age of Jerome and Cassian, Notre Dame (IN) 20102, pp. ix-xxxvi. Il monachesimo è oggetto di trattazione specifica anche nei molti manuali di storia del cristianesimo e della Chiesa. Meritano particolare attenzione: P. Rousseau, Monasticism, in The Cambridge Ancient History, ed. by Av. Cameron, B. Ward-Perkins, M. Whitby, XIV, Late antiquity. Empire and Successors, A.D. 425-600, Cambridge 2000, pp. 744-780; P. Maraval, Le monachisme oriental, in Histoire du christianisme des origines à nos jours, éd. par J.-M. Mayeur et al., II, Naissance d’une chrétienté (250-430), éd. par Ch. Pietri, L. Pietri, Paris 1995, pp. 719-745 (trad. it. Il monachesimo orientale, in Storia del cristianesimo. Religione-politica-cultura, a cura di A. Di Berardino, II, La nascita di una cristianità (250-430), Roma 2000, pp. 673-697); J. Biarne, Moines et rigoristes en Occident, ivi, pp. 747-768 (trad. it. Monaci e rigoristi in occidente, ivi, pp. 698-718); S. Rubenson, Asceticism and Monasticism, I: Eastern, in The Cambridge History of Christianity, ed. by A. Casiday, F.W. Norris, II, Cambridge 2007, pp. 637-668; M. Dunn, Asceticism and Monasticism, II: Western, ivi, pp. 669-690. Un posto a parte va infine riservato alla monumentale Histoire littéraire du mouvement monastique dans l’antiquité di A. de Vogüé, giunta al dodicesimo volume della prima parte, dedicata al monachesimo latino (12 voll., Paris 1991-2008).

2 Ath., v. Anton. 81,1. La notizia è ripresa da Rufino (hist. X 8) e Sozomeno (h.e. I 13,1; in II 31 lo scambio epistolare è collocato durante il soggiorno di Atanasio a Treviri). Per una dettagliata analisi dell’episodio si vedano K. Heussi, Der Ursprung, cit., pp. 90-93; E. Wipszycka, Moines et communautés monastique en Égypte ( IVe-VIIIe siècles ) , Warszawa 2009, pp. 276-280, nonché il contributo di F. Ruggiero nel II volume di questa opera.

3 Cod. Theod. XVI 2,3, databile fra il 320 e il 329.

4 Bas., Ep. 116,4-25.

5 Cod. Theod. XII 1,63.

6 Cod. Theod. XVI 3,1.

7 Cod. Theod. V 3,1.

8 Per un inquadramento dell’ascetismo come problema storiografico si vedano G.G. Harpham, The Ascetic Imperative in Culture and Criticism, Chicago 1987; Asceticism, ed. by V.L. Wimbush, R. Valantasis, New York 1995. Sull’origine del termine ‘monaco’ cfr. M. Choat, The Development and the Usage of Terms for ‘Monks’ in Late Antique Egypt, in Jahrbuch für Antike und Christentum, 45 (2002), pp. 5-23.

9 Ath., v. Anton., prol. 3: charaktêr pros askêsin; Sulp. Sev., Mart. 1,6: exemplo aliis.

10 Rufin., hist. X 8.

11 Cyr. S., v. Sab. 71-74.

12 Rufin., hist. mon. I 1,2; Cassian., inst. IV 23.

13 Ath., v. Anton. 62,1.

14 Ath., v. Anton. 89,2.

15 Ath., v. Anton. 82.

16 Greg. M., dial. II 15,1-3.

17 Philostr., VA V 11. Sulla profezia monastica si vedano G. Filoramo, Veggenti, profeti, gnostici: identità e conflitti nel cristianesimo antico, Brescia 2005, pp. 255-290; D. Brakke, Shenoute, Weber, and the Monastic Prophet: Ancient and Modern Articulations of Ascetic Authority, in Foundations of Power and Conflicts of Authority in Late-Antique Monasticism, Proceedings of the International Seminar (Turin, December 2-4, 2004), ed. by A. Camplani, G. Filoramo, Leuven 2007, pp. 47-73.

18 Ph., cont. 1.

19 Ph., cont. 11; 21.

20 Ph., cont. 18; 20-22.

21 Ph., cont. 13.

22 Ph., cont. 25; 30.

23 Ph., cont. 34-37; 73; 81-82.

24 Sui terapeuti si vedano A. Guillaumont, Philon et les origines du monachisme, in Philon d’Alexandrie, Colloques Nationaux du Centre national de la recherche scientifique (Lyon 11-15 septembre 1966), éd. par R. Arnaldez, C. Mondésert, J. Pouilloux, Paris 1967, pp. 25-45; G.P. Richardson, Philo and Eusebius on Monasteries and Monasticism: The Therapeutae and Kellia, in Origins and Method. Towards a New Understanding of Judaism and Christianity. Essays in Honour of John C. Hurd, ed. by B.H. McLean, J.C. Hurd, Sheffield 1993, pp. 334-359; R. Cacitti, Οἱ εἰς ἔτι νῦν καὶ εἰς ἡμᾶς κανόνες. I terapeuti di Alessandria nella vita spirituale protocristiana, in Origene maestro di vita spirituale, a cura di L.F. Pizzolato, M. Rizzi, Milano 2001, pp. 47-89.

25 Plin., nat. V 73.

26 I., BI II 119-121; 124; 138; 160.

27 Per lo status quaestionis cfr. S. Paganini, Qumran, le rovine della luna. Il monastero e gli esseni, una certezza o un’ipotesi?, Bologna 2011.

28 Iamb., VP VI 29; 35,253. Sulle pratiche ascetiche filosofiche si vedano G. Fowden, The Pagan Holy Man in Late Antiquity, in Journal of Hellenic Studies, 102 (1982), pp. 33-59; J.A. Francis, Subversive Virtue. Asceticism and Authority in the Second-Century Pagan World, University Park (PA) 1995; R. Goulet, Études sur les vies de philosophes de l’antiquité tardive. Diogène Laërce, Porphyre de Tyr, Eunape de Sardes, Paris 2001; P. Hadot, La philosophie comme manière de vivre. Entretiens avec Jeannie Carlier et Arnold I. Davidson, Paris 2001 (trad. it. La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Leannie Carlier e Arnold I. Davidson, Torino 2005); R. Finn, Asceticism in the Graeco-Roman World, Cambridge 2009, pp. 9-33.

29 Gr. Naz., or. 14,6; 18,3; 21,2.

30 Pl., Phd. 65c-67a.

31 Sul rapporto tra filosofia e cristianesimo si veda C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Brescia 2004. Più in particolare, su filosofia e monachesimo si vedano S. Pricoco, Monaci, filosofi e santi. Saggi di storia della cultura tardoantica, Soveria Mannelli 1992; P. Brown, Il filosofo e il monaco: due scelte tardoantiche, in Storia di Roma, a cura di A. Giardina, A. Schiavone, III/1, Torino 1993, pp. 877-894.

32 Sull’Egitto monastico si vedano M. Giorda, Il regno di Dio in terra. Le fondazioni monastiche egiziane tra V e VII secolo, Roma 2011; F. Vecoli, L’Egitto tra IV e V secolo, in Monachesimo orientale, cit., pp. 19-51; E. Wipszycka, Moines et communautés, cit.

33 Thdt., h. rel. II 13.

34 Sul variegato mondo ascetico-monastico siriaco si veda P. Escolan, Monachisme et Église. Le monachisme syrien du IVe au VIIe siècle, Paris 1999; V. Berti, Il monachesimo siriaco, in Monachesimo orientale, cit., pp. 139-192.

35 peregr. Aeth. 24,1.

36 Hier., epist. 108,20.

37 Cfr. Hier., vita Hilar. 14. Sul monachesimo del deserto di Giuda, si vedano L. Perrone, Introduzione, in Cirillo di Scitopoli, Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, a cura di R. Baldelli, L. Mortari, Praglia 1990, pp. 11-90; J. Patrich, Sabas, Leader of Palestinian Monasticism. A Comparative Study in Eastern Monasticism, Fourth through Seventh Centuries, Washington D.C. 1995. Sul monachesimo di Gaza si vedano R.M. Parrinello, Comunità monastiche a Gaza: da Isaia a Doroteo (secoli IV-VI), Roma 2010; B. Bitton-Ashkelony, A. Kofsky, The Monastic School of Gaza, Leiden 2006.

38 Iul., Or. 7,224a-b.

39 Socr., h.e. I 13,5.

40 Sul monachesimo anatolico, si vedano P. Rousseau, Basil of Caesarea, Berkeley 1994; F. Fatti, Monachesimo anatolico, in Monachesimo orientale, cit., pp. 53-91.

41 Apophth. Patr. De abbate Arsenio 1.

42 Apophth. Patr. De abbate Antonio 11.

43 Cassian., conl. XXIV 2.

44 Sul tema del deserto e le sue molte declinazioni in ambito monastico, si vedano C. Rapp, Desert, City, and Countryside in the Early Christian Imagination, in The Encroaching Desert. Egyptian Hagiography and the Medieval West, ed. by J. Dijkstra, M. Van Dijk, Leiden 2006, pp. 93-112; Le désert, un espace paradoxal, Actes du colloque de l’Université de Metz (Metz, 13-15 septembre 2001), éd. par G. Nauroy, P. Halen, A. Spica, Bern 2003; S. Pricoco, Il cenobio come rifugio e come prigione, in Siculorum Gymnasium, n.s., 49 (1996), pp. 225-237; D. Burton-Christie, The Word in the Desert. Scripture and the Quest for Holiness in Early Christian Monasticism, Oxford 1993 (trad. it. La parola nel deserto. Scrittura e ricerca della santità alle origini del monachesimo cristiano, Bose 1998); J.-C. Guy, La place du ‘contemptus mundi’ dans le monachisme ancien, in Revue d’ascétique et de mystique, 41 (1965), pp. 237-249.

45 Eucher., epist. ad Val. 828-833.

46 Ambr., hex. III 5,23.

47 Eucher., laud. her. 34,355-357.

48 Rut. Nam., I 439.

49 Greg. M., epist. I 50.

50 Vita Fulg. 8.

51 Sulp. Sev., Mart. 6,4,6.

52 Hier., epist. 108,5,6.

53 G. Dagron, Les moines et la ville. Le monachisme à Costantinople jusqu’au concile de Chalcédonie (451), in Travaux et Mémoires, 4 (1970), pp. 229-276.

54 G. Ferrari, Early Roman Monasteries: Notes for the History of the Monasteries and Convents at Rome from the V through the X Century, Città del Vaticano 1957.

55 Greg. Tur., glor. conf. 96.

56 Greg. Tur., glor. conf. 23.

57 Greg. Tur., vit. patr. 12.

58 Su Paolino e Melania si veda R. Alciati, M. Giorda, Possessions and Asceticism: Melania the Younger and Her Slow Way to Jerusalem, in Zeitschrift für antikes Christentum, 14 (2010), pp. 425-444. Su Sulpicio, si veda R. Alciati, And the Villa Became a Monastery: Sulpicius Severus’ Community of Primuliacum, in Western Monasticism Ante Litteram: The Spaces of Monastic Observance in Late Antiquity and the Early Middle Ages, ed. by H. Dey, E. Fentress, Turnhout 2011, pp. 85-98. Su Macrina si veda P. Rousseau, The Pious Household and the Virgin Chorus: Reflections on Gregory of Nyssa’s Life of Macrina, in Journal of Early Christian Studies, 11 (2003), pp. 257-263.

59 Cassian., inst. IV 5; Rufin., Asceticon parvum, 11.

60 Pach., reg., praecepta 49; Cassian., inst. IV 6.

61 Ath., v. Anton. 25,3.

62 Pach., reg., praecepta 2.

63 Sulp. Sev., epist. 3,19.

64 Sidon., epist. 9,9.

65 Eun., VS VI 11,7.

66 Eun., hist. 55.

67 Isid. Pel., ep. 1282. Lo studio più completo sul tema dell’abito resta P. Oppenheim, Symbolik und religiöse Wertung des Mönchskleides im christlichen Altertums, Münster 1932. Si vedano però anche E. Peterson, Theologie des Kleides, in Benediktinische Monatsschrift, 16 (1934), pp. 347-356; P. Von Moos, Das mittelalterliche Kleid als Identitätssymbol und Identifikationsmittel, in Unverwechselbarkeit. Persönliche Identität und Identifikation in der vormodernen Gesellschaft, hrsg. von P. von Moos, Köln 2004, pp. 123-147; M. Giorda, L’abito fa il monaco? La veste nei primi secoli del monachesimo egiziano, in Simbologia del vestire, a cura di A. Saggioro, Roma 2007, pp. 36-52.

68 Abba Isaia, Asketikon, prol.

69 Sul linguaggio monastico si vedano S. Pricoco, Alcune considerazioni sul linguaggio monastico, in Cassiodorus, 5 (1999), pp. 171-199; P. Miquel, Lexique du désert. Etude de quelques mots-clés du vocabulaire monastique grec ancien, Bégrolles-en-Mauges 1986.

70 Cassian., conl. I 19.

71 Cassian., conl. II 9. Sull’apatheia si vedano R. Sorabji, Emotion and Peace of Mind. From Stoic Agitation to Christian Temptation, Oxford 2000; M. Spanneut, Apatheia ancienne, apatheia chrétienne. 1ère partie: l’apatheia ancienne, in ANRW 2 36,71, Berlin-New York 1994, pp. 4641-4717; Id., L’apatheia chrétienne aux quatre premiers siècles, in Proche-Orient chrétien, 52 (2002), pp. 165-302.

72 Sul discernimento monastico si veda la sezione monografica Il discernimento spirituale nel cristianesimo antico, in Rivista di storia del cristianesimo, 1 (2009), pp. 3-120. Per una dettagliata disamina dei carismi nel monachesimo egiziano, ma con ampi riflessi sulla tradizione successiva, si veda anche F. Vecoli, Lo spirito soffia nel deserto. Carismi, discernimento e autorità dell’uomo di Dio nel monachesimo egiziano antico, Brescia 2006.

73 Sull’ascetismo di Origene si veda P. Bettiolo, Ascesi, in Origene. Dizionario: la cultura, il pensiero, le opere, a cura di A. Monaci Castagno, Roma 2000, pp. 36-40. Su Evagrio si vedano J. Driscoll, The ‘Ad monachos’ of Evagrius Ponticus, Its Structure and a Select Commentary, Roma 1991; A.M. Casiday, Evagrius Ponticus. The Early Church Fathers, Oxford 2006; M. Del Cogliano, The Quest for Evagrius of Pontus: a Historiographical Essay, in The American Benedictine Review, 62 (2011), pp. 388-401.

74 Apophth. Patr. De abbate Antonio 37-38.

75 Cfr. Nm 20,17.

76 Apophth. Patr. De abbate Poemene, seu Pastore 31; Cassian., conl. II 2.

77 Apophth. Patr. De abbate Arsenio 42.

78 Pach., reg., praecepta 51.

79 Ammonas, ep. 4.

80 Nil., exerc. 27.

81 Cassian., conl. XVII 16; XIX 2.

82 Cassian., conl. XVIII 8. Sul rapporto maestro-discepolo nell’antichità si vedano I. Hausherr, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955; Storia della direzione spirituale, I, L’età antica, a cura di G. Filoramo, Brescia 2006; Direzione spirituale e agiografia, a cura di M. Catto, I. Gagliardi, R.M. Parrinello, Alessandria 2008.

83 Novell. Iust. 58; 131,8.

84 V. Pachomii Boharica 27.

85 Salv., gub. VII 19.

86 Sul rapporto tra famiglia carnale e famiglia spirituale monastica, si veda R. Alciati, M. Giorda, Famiglia cristiana e pratica monastica (IV-VII secolo), in Annali di storia dell’esegesi, 27 (2010), pp. 267-292. Più in generale sulle trasformazioni della famiglia nell’epoca post-costantiniana si vedano P. Veyne, La famille et l’amour à Rome sous le Haut-Empire romain, in Annales. Économies, Sociétés, Civilisations 33 (1978), pp. 35-63; R. Saller, I rapporti di parentela e l’organizzazione familiare, in Storia di Roma, IV, Torino 1989, pp. 515-555; J.E. Grubbs, Law and Family in Late Antiquity. The Emperor Constantine’s Marriage Legislation, Oxford 1999; K. Cooper, The Fall of the Roman Household, Cambridge 2007.

87 Hier., epist. 22,34; Cassian., conl. XVIII 4.

88 Per lo status quaestionis, si veda M. Choat, Philological and Historical Approaches to the Search for the ‘Third Type’ of Egyptian Monk, in Coptic Studies on the Threshold of a New Millennium, Proceedings of the Seventh International Congress of Coptic Studies (Leiden, 2000), ed. by M. Immerzeel, J. Van der Vliet, II, Leuven 2004, pp. 857-865.

89 Apophth. Patr. De abbate Antonio 34.

90 Apophth. Patr. De abbate Agathone 6; Apophth. Patr. De abbate Sisoe 28.

91 Pall., h. Laus. 18,10.

92 Pall., h. mon. 13,3.

93 Pall., h. mon. 10. Sui monaci itineranti si veda D. Caner, Wandering, Begging Monks, cit.

94 Soz., h.e. III 14,37. Sui messaliani si vedano D. Caner, Wandering, Begging Monks, pp. 83-125; K. Fitschen, Messalianismus und Antimessalianismus. Ein Beispiel ostkirchlicher Ketzergeschichte, Göttingen 1998. Sull’ascetismo eustaziano si veda F. Fatti, Monachesimo anatolico, cit.

95 Epiph., haer. 67.

96 Su Ieraca si vedano D. Brakke, Athanasius and the Politics of Asceticism, Oxford 1995, pp. 17-79; J.E. Gohering, Hieracas of Leontopolis: the Making of Desert Ascetic, in Id. Ascetics, Society and the Desert: Studies in Egyptian Monasticism, Harrisburg (PA) 1999, pp. 110-133.

97 Hier., adv. Iovin. I 3.

98 Hier., adv. Iovin. I 2.

99 Hier., adv. Iovin. I 35: «cum monachus esse se iactitet». Su Gioviniano vedano Y.-M. Duval, L’affaire Jovinien. D’une crise de la société romaine à une crise de la pensée chrétienne à la fin du IVe et au début du Ve siècle, Roma 2003; D.G. Hunter, Marriage, Celibacy, and Heresy in Ancient Christianity. The Jovinianist Controversy, New York 2007; R. Alciati, «Sine aliqua differentia graduum» (Hier., Adv. Iov. 2,19). Ascetismo e matrimonio nella predicazione di Gioviniano, in Rivista di storia del cristianesimo, 8 (2011), pp. 305-328.

100 Siricius, Epistula I ad Himerium Episcopum Tarraconensem 6.

101 Siricius, Epistula I ad Himerium Episcopum Tarraconensem 13.

102 Sui «Figli e Figlie del Patto» cfr. J. Gribomont, Le monachisme au sein de l’Église en Syrie et en Cappadoce, in Studia Monastica, 7 (1965), pp. 7-24.

103 Su Priscilliano si vedano Priscillian of Avila, The Complete Works, ed. by M. Conti, Oxford 2010; S.J.G. Sanchez, Priscillien, un chrétien non conformiste, Paris 2009.

104 Sul monachesimo familiare lerinese si veda R. Alciati, Monaci, vescovi e scuola nella Gallia tardoantica, Roma 2009, pp. 62-121.

105 Rufin., hist. XI 4.

106 Pach., reg., praefatio 9.

107 Cassian., conl. XVIII 5.

108 Sul complesso rapporto fra monachesimo e mondo secolare si vedano G. Miccoli, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, Firenze 1966, pp. 225-299; J. Séguy, Une sociologie des sociétés imagines: monachisme et utopie, in Annales. Economie, Societé, Civilisations, 26 (1971), pp. 328-354; S. Pricoco, Monachorum societas. Modelli utopici e spinte contestative nel primo monachesimo, in Cultura e promozione umana, Atti del Convegno di Studi, a cura di E. Dal Covolo, I. Giannetto, Troina 1996, pp. 107-116.

109 Sulla presenza del monachesimo nella storiografia ecclesiastica antica si veda la sezione monografica Storia della Chiesa e monachesimi (secc. IV-VI), in Adamantius, 17 (2011), pp. 6-153.

110 Thdt., h. rel. XXVII 1. Su questo testo si veda P. Canivet, Le monachisme syrien selon Théodoret de Cyr, Paris 1977; D. Krueger, Writing and Holiness. The Practice of Authorship in the Early Christian East, Philadelphia (PA) 2004, pp. 15-32.

111 Sui resoconti di viaggio in Oriente cfr. G. Frank, The Memory of the Eyes. Pilgrims to Living Saints in Christian Late Antiquity, Berkeley 2000.

112 Rufin., hist. mon., prol. 9.

113 Cfr. A. Monaci Castagno, L’agiografia cristiana antica. Testi, contesti, pubblico, Brescia 2010.

114 Cassian., inst. II 5.

115 Cod. Theod. IX 40,16.

116 C. Chalc., 4: pronoias ton monasterion. Su legge imperiale e concili si vedano I canoni dei concili della chiesa antica II, I concili latini 1, Decretali, concili romani e canoni di Serdica, a cura di A. Di Berardino, T. Sardella, C. Dell’Osso, Roma 2008; Empire chrétien et Église aux IVe et Ve siècles. Intégration ou «concordat»? Témoignage du Code Théodosien, éd. par J.-N. Guinot, R. Richard, Paris 2008. In particolare sulla legislazione de monachis si veda G.L. Falchi, Osservazioni su C.Th. 16,3 ‘De Monachis’, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, IV Convegno Internazionale (Perugia, Spello, Bettona, Todi, 1-4 ottobre 1979), Perugia 1981, pp. 223-247.

117 Regula Magistri 83,10-12.

118 Sul rapporto fra vescovi e monasteri si vedano L. Ueding, Die Kanones von Chalkedon in ihrer Bedeutung für Mönchtum und Klöster, in Das Konzil von Chalkedon, hrsg. von A. Grillemeier, H. Bacht, II, Würzburg 1953, pp. 569-576; M. Forlin Patrucco, Monachesimo e gerarchie ecclesiastiche nel IV-V secolo: rapporti, tensioni, alleanze, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, X Convegno Internazionale (Spello, Perugia, Gubbio, 7-10 ottobre 1991) a cura di G. Crifò, S. Giglio, Napoli 1995, pp. 265-277; M. Giorda, Monachesimo e istituzioni ecclesiastiche in Egitto. Alcuni casi di interazione e integrazione, Bologna 2010.

119 Sui monaci-vescovi si vedano P. Rousseau, The Spiritual Authority of the Monk-Bishop: Eastern Elements in Some Western Hagiography of the Fourth and Fifth Centuries, in Journal of Theological Studies, 22 (1971), pp. 380-419; F. Prévot, Évêques gaulois d’origine monastique ( IVe-VIe siècles ) , in Prosopographie et histoire religieuse, éd. par M.-F. Baslez, F. Prévot, Paris 2005, pp. 379-400.

120 Su questi testi si vedano M.M. Van Molle, Essai de classement chronologique des premières règles de vie comune connues en chrétienté, in Vie spirituelle. Suppl., 84 (1968), pp. 107-127; A. de Vogüé, Les règles monastiques anciennes (400-700), Turnhout 1985.

121 S. Pricoco, L’ammissione al monastero. Una nota sulle regole prebenedettine, in Ad contemplandam sapientiam, Soveria Mannelli 2004, pp. 555-569.

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