Il nuovo procedimento archiviativo

Il libro dell anno del diritto 2019 (2019)

Il nuovo procedimento archiviativo

Alberto Macchia

Le novità introdotte dalla l. 23.6.2017, n. 103 in tema di archiviazione consentono di porre in evidenza, utilizzando una formula di sintesi, come rimangano inalterati i tratti fisiognomici dell’istituto, anche se la tendenza è verso un aspetto più “maturo” di esso, valorizzando in particolare l’incidenza del contraddittorio ed implementando gli elementi idonei a fornire un giudizio più “esteso” sulla richiesta del pubblico ministero.

La ricognizione. Il “nuovo volto” dell’archiviazione

Una ormai lontana ma sempre fondamentale sentenza della Corte costituzionale, nel pronunciarsi sulla conformità ai principi e criteri direttivi sanciti dalla legge di delega sul nuovo codice di procedura penale a proposito della particolare regola di giudizio per l’archiviazione sancita dall’art. 125 delle disposizioni di attuazione dello stesso codice, ha affermato che «il problema dell’archiviazione sta nell’evitare il processo superfluo senza eludere il principio di obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell’inazione. Il che comporta di verificare l’adeguatezza tra i meccanismi di controllo delle valutazioni di oggettiva non superfluità del processo e lo scopo ultimo del controllo, che è quello di far sì che i processi concretamente non instaurati siano solo quelli risultanti effettivamente superflui» (C. cost., 15.2.1991, n. 88). Ci si muove, dunque, all’interno di un crinale delicato, stretto tra l’esigenza costituzionale che postula la doverosità dell’azione, al di fuori di qualsiasi soggettivo apprezzamento di opportunità, e l’esigenza antagonista (ma non per questo priva di referenti costituzionali) di prevenire azioni non satisfattive sul piano della relativa “concretezza”. Il tutto, ovviamente, sotto la garanzia del controllo giurisdizionale, presente nel nostro sistema processuale sin dal d.lgs.lgt. 14.9.1944, il cui art. 6 modificò in tal senso l’art. 74, terzo comma, del codice di procedura penale del 1930. All’interno del relativo procedimento si agitano, pertanto, interessi divergenti: la persona sottoposta alle indagini si presuppone ontologicamente “cointeressata” all’accoglimento della scelta del pubblico ministero di non agire; in senso opposto, si propone, invece, l’interesse della persona offesa dal reato. Tecnicamente, non sono “parti”, non essendovi processo; ma si tratta di un aspetto, tutto sommato, nominalistico, perché il procedimento di archiviazione mira a garantire un contraddittorio effettivo sul tema che la scelta del pubblico ministero coinvolge: una indagine che lo stesso pubblico ministero presuppone completa, ma dalla quale non scaturisce la possibilità di una accusa sostenibile in dibattimento. Una domanda di “inazione” che, ovviamente, si articola in forme e procedure diverse a seconda della “formula” di archiviazione richiesta dal pubblico ministero (ora arricchita – e non poco – anche dalla particolare tenuità del fatto), a norma degli artt. 408 e 411 c.p.p. L’archiviazione è, dunque, l’alternativa ordinamentale alla azione: e ne costituisce, anzi, a ben guardare, l’alternativa che pregiudizialmente deve essere dissolta, dal momento che la scelta del legislatore del codice è stata quella di subordinare l’esercizio della azione alla non ricorrenza dei presupposti per la richiesta di archiviazione (art. 50). Il che ci sembra del tutto in linea con il ribaltamento, rispetto al codice Rocco, del “momento” in cui le scelte sulla azione devono essere adottate: nel codice del 1930, infatti, l’azione era iscritta come esordio della istruzione (art. 74, primo comma); nel codice vigente, rappresenta, invece, l’epilogo delle indagini, le cui finalità sono appunto quelle di consentire al pubblico ministero di assumere le proprie determinazioni (“concrete” e non più “astratte” come nel vecchio codice) sul se (e come) esercitare l’azione penale (art. 326). Si staglia, quindi, sullo sfondo di tali scelte normativamente predefinite – e costituzionalmente conformate – una sorta di inespresso favor per l’archiviazione, quasi a denotare come la domanda di giudizio, con la correlativa enunciazione dell’addebito, rappresenti l’esercizio di un “obbligo” solo se il materiale raccolto nelle indagini autorizzi una prognosi di sostenibilità della accusa. Il sistema, e, a ben guardare, lo stesso nuovo testo dell’art. 111 Cost., non tollerano, infatti, azioni “azzardate” e processi che nascano su basi malferme. Insomma, il monito rivolto al pubblico ministero è: agisci, ma solo se proprio non puoi archiviare, perché la notitia criminis deve trasformarsi in vera e propria regiudicanda. Le novità introdotte dalla l. n. 103/2017 in tema di archiviazione non mutano, dunque, le linee fondamentali dell’istituto, ma ne modificano, anche significativamente, le cadenze procedimentali, secondo scelte, a tratti, non del tutto esenti da prospettive problematiche, ma che, comunque, a nostro avviso, finiscono per incrementare il valore del contraddittorio e, quindi, accrescere la platea degli elementi utili per un giudizio più ponderato sul fondamento della richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero.

La focalizzazione. I nuovi termini dell’opposizione

La prospettiva della opposizione alla richiesta di archiviazione1 rappresenta il nucleo fondante del contraddittorio sulla scelta del pubblico ministero, e l’attenzione del legislatore si è concentrata sul non secondario profilo della congruità dei termini2, al fine di assicurare effettività e congruenza funzionale all’esercizio dei relativi diritti in capo alla persona offesa, che ne resta titolare esclusiva. Solo la persona offesa, infatti, vale a dire il titolare dell’interesse specifico direttamente tutelato dalla norma la cui violazione rappresenta l’in se della notitia criminis, ha diritto alla notifica della richiesta di archiviazione, che non spetta, invece, alla persona danneggiata denunciante, cioè a chi, non titolare dell’interesse protetto, ha comunque subito un danno da reato. D’altra parte, si è pure chiarito, il provvedimento di archiviazione non ha connotati decisori con efficacia espansiva “esterna” e perciò non può contenere statuizioni pregiudizievoli per l’indagato o per i terzi3. Nella ipotesi, infatti, in cui l’avviso di richiesta di archiviazione sia notificato alla persona offesa che abbia formulato richiesta di essere informato della eventuale richiesta di archiviazione, il termine dilatorio4 per la proposizione della eventuale opposizione è raddoppiato, in quanto passa dagli originari dieci giorni a venti giorni. Il prolungamento del termine entro il quale il procedimento di archiviazione si sospende, per consentire la eventuale opposizione, può trovare ragionevole spiegazione nel fatto che i risultati complessivi della indagine – portati per la prima volta a conoscenza dell’offeso dal reato – non necessariamente si limitano ad accertamenti o atti di investigazione di semplice natura e limitato spessore. V’è, anzi, tutta un’ampia gamma di ipotesi ad elevato contenuto tecnico (si pensi alla tematica della colpa professionale, agli infortuni sul lavoro e simili) rispetto alle quali la delibazione sulla non fondatezza della notizia di reato ed alla esaustività delle indagini, comporta, non di rado, tempi di disamina non brevi. Resta invece inalterato, per quel che qui interessa, il testo dell’art. 411 c.p.p. e, quindi, è mantenuto il termine di dieci giorni per presentare opposizione, da parte della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa, avverso la richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto. Non sono chiare le ragioni per le quali, proprio in considerazione della specificità di tale causa di archiviazione – la quale pur sempre presuppone la sussistenza del reato, la sua offensività, e la responsabilità dell’indagato – comporti uno ius ad opponendum, in capo ai protagonisti (attivo e passivo) della vicenda, secondo tempi (ormai) dimidiati rispetto alle facoltà di opposizione della persona offesa nelle ipotesi di archiviazione “ordinaria”. Sorge, dunque, il sospetto di un difetto di coordinamento, che, peraltro, era già presente nel mancato adeguamento dell’art. 126 delle disposizioni di attuazione, il quale, stabilendo che il pubblico ministero trasmette gli atti al giudice per le indagini preliminari «dopo la presentazione dell’opposizione della persona offesa ovvero dopo la scadenza del termine indicato dal comma 3» dell’art. 408 c.p.p., non ha richiamato le innovazioni relative al comma 3-bis dello stesso art. 408 e dal comma 1-bis dell’art. 411. Un discorso a parte va fatto, invece, per le modifiche apportate all’art. 408, co. 3-bis, c.p.p., aggiunto dall’art. 2, co. 1, lett. g), d.l. 14.8.2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla l. 15.10.2013, n. 119. Si tratta della ipotesi derogatoria rispetto al regime ordinario, in forza della quale per i reati commessi con violenza alla persona, il termine per la opposizione era elevato in origine a giorni venti. È noto come a fondamento della iniziativa legislativa nella forma della decretazione di urgenza, fosse ravviabile l’esigenza di porre un freno «al susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne», tanto che si parlò di legge contro il cd. “femminicidio”. Il tutto, ancora, in linea con i principi affermati nella Convenzione di Istanbul5, della quale il d.l. 14.8.2013, n. 93 costituisce attuazione. Sulla nuova disposizione sono intervenute, come è noto, le Sezioni Unite, le quali hanno affermato che la disposizione dell’art. 408, co. 3-bis, c.p.p., la quale stabilisce l’obbligo di dare avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa dei delitti commessi con “violenza alla persona”, è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsti rispettivamente dagli artt. 612 bis e 572 c.p., in quanto l’espressione “violenza alla persona” deve essere intesa alla luce del concetto di “violenza di genere”, risultante dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario6. A tale ambito oggettivo della previsione, il legislatore del 2017 ha (inopinatamente) aggiunto il reato di cui all’art. 624 bis c.p., secondo un criterio di selezione a dir poco discutibile. Al deprecabile, ma ormai fin troppo invalso, uso di rassegne normative casistiche, ci sarà da attendersi possa conseguire una prevedibile “catenella” di nuove figure, rispetto alle quali tentare di rinvenire una qualche coerenza sarà sempre più arduo, con effetti di ricaduta negativi, in quanto si tratterà di estendere obblighi di notificazione di non sempre agevole soddisfacimento (identificazione dei soggetti lesi in rapporto a fattispecie variegate). Il tutto con evidenti e significative diluizioni temporali ai fini delle decisioni sulla archiviazione7. Non è trascurabile, a questo proposito, il fatto che il termine per la proposizione della opposizione sia stato portato da venti a trenta giorni, secondo un quadro che appare essere ormai a dir poco frastagliato e al tempo stesso complesso.

Le spinte acceleratorie sul rito

A fronte del maggior spazio temporale che viene assegnato per la proposizione della opposizione, la riforma del 2017 ha inteso fornire un “segnale” teso a comprimere i tempi di celebrazione del rito camerale da parte del giudice sulla richiesta di archiviazione, nel caso in cui questa non venga accolta. L’art. 409 è stato infatti modificato al comma 2, attraverso la introduzione della previsione secondo la quale, in caso di non accoglimento della richiesta di archiviazione, il giudice è chiamato a fissare l’udienza camerale «entro tre mesi» dal deposito della richiesta. Una volta, poi, celebrata l’udienza, il comma 4 dello stesso articolo prevede, ora, che il giudice, ove non ritenga necessarie ulteriori indagini, debba decidere «entro tre mesi» sulle richieste. La stessa disciplina si estende anche alla ipotesi del rito camerale a seguito di opposizione non inammissibile, in virtù del rinvio che l’art. 410, co. 3, opera all’art. 408, co. 2 e 4. Nulla continua ad essere stabilito, invece, in ordine ai “tempi” a disposizione del giudice in ordine all’accoglimento della richiesta di archiviazione: e ciò, a noi sembra, non senza ragione, dal momento che – in tal caso – la prospettiva della “inazione” del pubblico ministero non rinviene contrasto né da parte della persona offesa, né da parte del giudice, il quale evidentemente reputa congrua l’attività di indagine svolta e non fondata la notizia di reato. È ovvio che, trattandosi di termini ordinatori, i nuovi vincoli temporali imposti al giudice possono “flettersi” in ragione di specifiche contingenze che non si risolvano in carenze strutturali dell’ufficio. Ma il sistema, che presuppone diritti partecipativi e, come si vedrà, in determinati casi anche un potere di reclamo, postulava cadenze temporali meglio delineate, a garanzia di un buon funzionamento del rito. Non ha molto senso, infatti, che il giudice il quale reputi, all’esito della udienza camerale, necessarie ulteriori indagini, abbia il potere di indicarle al p.m. e di fissarne il termine, se poi lo stesso giudice è libero di fissare la camera di consiglio sine die, così da frustrare la proficuità di quelle stesse indagini che reputa indispensabili e per l’espletamento delle quali assegna uno specifico spazio temporale al pubblico ministero. Allo stesso modo, non avrebbe molto senso affidare alla semplice diligenza del giudice di stabilire il momento in cui adottare la decisione, specie ove la determinazione sia quella di imporre la formulazione della imputazione, trattandosi di un epilogo che presenta evidenti riverberi negativi sullo stesso versante della durata ragionevole del processo. Modifiche, quindi, quelle appena accennate, che solo superficialmente potrebbero essere definite di carattere “formale”. Assume, invece, la funzione di mero coordinamento normativo l’abrogazione del comma 6 dell’art. 409, che limitava la ricorribilità in cassazione della ordinanza di archiviazione ai soli casi di nullità previsti dall’art. 127, co. 5, c.p.p.: vale a dire, i casi di violazione del contraddittorio. La disposizione abrogata si presentava, infatti, ormai superata, dal momento che il ricorso per cassazione non è più consentito e la corrispondente disciplina è stata trasferita nel comma 2 del nuovo art. 410 bis, dedicato, appunto, alla descrizione dei vizi che possono affliggere il provvedimento di archiviazione e della parimenti innovativa previsione impugnatoria del reclamo al giudice monocratico.

I profili problematici

Come si appena accennato, attraverso la formulazione del nuovo articolo 410 bis c.p., la l. n. 103/2017 ha tipizzato, nei suoi primi due commi, le ipotesi di nullità del provvedimento di archiviazione, da un lato recependo nella sostanza figure già elaborate da tempo della giurisprudenza in tema di decreto di archiviazione adottato de plano, dall’altro – e come si è rilevato – recuperando il contenuto dell’abrogato comma 6 dell’art. 409, in tema di violazione del contraddittorio nel caso di ordinanza di archiviazione pronunciata a seguito di rito camerale.

La tipizzazione delle nullità del provvedimento

Come è noto, nell’originario impianto codicistico, l’unica ipotesi di nullità espressamente prevista era proprio l’ipotesi della ordinanza di archiviazione pronunciata in violazione del comma 5 dell’art. 127 del codice di rito e, dunque, delle disposizioni dettate dai commi 1, 3 e 4 dello stesso articolo, tutte tese a garantire il contraddittorio nel rito camerale. Unico caso in cui era espressamente previsto quale rimedio il ricorso per cassazione. Logiche chiaramente deflattive del ricorso per cassazione8 hanno orientato il legislatore verso la enucleazione dei casi di nullità del provvedimento di archiviazione e la devoluzione dei relativi vizi ad un nuovo rimedio impugnatorio. Ma resta il fatto che, per comprendere la portata e la ratio essendi di tali “casi” di nullità, occorre appunto prendere le mosse dal passato.

È noto, infatti, che, proprio per la mancata previsione di rimedi nella ipotesi in cui, malgrado la richiesta della persona offesa di essere avvisata della richiesta di archiviazione al fine di esercitare il proprio diritto a proporre opposizione, fosse mancato l’avviso, risultando in tal modo del tutto frustrata la relativa garanzia partecipativa al procedimento di archiviazione, venne coinvolta la stessa Corte costituzionale, che riconobbe il sostanziale fondamento di tale censurabile lacuna, non potendo nella specie, venire in discorso né una nullità di ordine generale né una nullità relativa. La Corte, come è noto (C. cost., 16.7.1991, n. 353), addivenne ad una pronuncia interpretativa di rigetto, facendo leva, appunto, sul regime di ricorribilità per cassazione della ipotesi allora prevista dall’art. 409, co. 6, osservando come l’intento di circoscrivere la impugnabilità al solo provvedimento conclusivo della procedura camerale, evidenziava una ratio da ritenersi a fortiori perfettamente adattabile alla ipotesi del procedimento definito de plano solo perché la parte offesa, non informata della richiesta di archiviazione, era stata privata della facoltà di proporre opposizione. Precludere, dunque, all’offeso dal reato ogni possibilità di contrastare la richiesta di archiviazione, equivaleva – sostenne la Corte – a «colpire all’origine la stessa potenziale instaurazione del contraddittorio proprio dell’udienza in camera di consiglio», generandosi, per questa via, un «vizio da ritenere ancor più grave di quello derivante dall’omesso avviso alla persona offesa che abbia proposto opposizione, della data fissata per la stessa udienza, in ordine alla quale, pure, l’art. 409, sesto comma, la legittima espressamente a ricorrere per cassazione». Attraverso la più volte sperimentata formula della sentenza interpretativa – nella specie, obiettivamente non priva di connotati creativi – la Corte è così pervenuta, nella sostanza, ad enucleare un concetto, per così dire, di nullità “per assorbimento”: vale a dire, la configurabilità di una nullità insita in una previsione tipizzata, in quanto coinvolgente un vizio “presupposto” da quello espressamente disciplinato, ma di gravità maggiore perché idoneo a compromettere ancor più radicalmente le garanzie ed i valori che la previsione della nullità tipizzata mira a salvaguardare. La giurisprudenza, come è noto, si è costantemente adeguata ai dicta della Corte costituzionale9, estendendone la portata anche alla ipotesi in cui il decreto di archiviazione sia stato emesso prima della scadenza del termine previsto per la proposizione della opposizione a norma dell’art. 408, co. 3-bis, c.p.p., ritenendo anche in tal caso violato il principio del contraddittorio10. Attraverso la formulazione del primo comma del nuovo art. 410 bis, le varie figure di nullità del decreto di archiviazione, di genesi, per così dire, pretoria, trovano ora la loro enunciazione sistematicamente armonica. Il decreto, infatti, è nullo nelle varie figure di violazione del contraddittorio. In particolare, nei casi in cui sia stato omesso l’avviso di cui al comma 2 dell’art. 408, vale a dire quello che deve essere notificato alla persona offesa che abbia dichiarato di voler essere informata circa l’eventuale archiviazione; ovvero sia stato omesso l’avviso di cui al comma 3-bis dello stesso articolo, che deve essere notificato ex officio all’offeso da reato nei procedimenti relativi a delitti commessi con violenza alla persona e per il reato di cui all’art. 624 bis c.p.; ovvero, infine, nel caso in cui sia stato omesso l’avviso di cui all’art. 411, co. 1-bis, c.p.p., ossia per l’ipotesi in cui l’archiviazione sia stata richiesta per la particolare tenuità del fatto. In quest’ultima eventualità, va peraltro notato che destinatari dell’avviso sono, non soltanto la persona offesa, ma anche la persona sottoposta alle indagini, dal momento che l’avviso in questione è chiamato ad informare tali soggetti che, nel termine di dieci giorni, «possono prendere visione degli atti e presentare opposizione in cui indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta». Dunque, per quest’ultima peculiare ipotesi di archiviazione, muta non soltanto la platea dei destinatari dell’avviso e della conseguente legittimazione alla opposizione, ma anche il contenuto dell’opposizione è particolare, in quanto coinvolgente la manifestazione di un “dissenso” privo di una griglia contenutisticamente definita, come invece avviene per la opposizione “ordinaria”, a norma dell’art. 410, co. 1. La circostanza, poi, che la precisazione delle ragioni del dissenso sia prescritta a pena di inammissibilità, ci sembra evochi, essenzialmente, un requisito di necessaria specificità dell’atto oppositivo, dal momento che risulta arduo rinvenire altre cause “formali” che precludano l’esame del merito della opposizione. Altra causa di nullità – come si è detto, già praticata dalla giurisprudenza – è rappresentata dalla adozione del provvedimento di archiviazione, prima della scadenza del termine di cui ai commi 3 e 3-bis dell’art. 408 c.p.p. Il che presuppone, evidentemente, la mancata osservanza delle previsioni dettate dall’art. 126 disp. att. c.p.p., a norma del quale il pubblico ministero trasmette gli atti al giudice, solo dopo la presentazione della opposizione o dopo la scadenza del termine «indicato nel comma 3» dell’art. 408 (si è già accennato al difetto di coordinamento derivante dal mancato richiamo, nella norma di attuazione, anche al termine di cui al comma 3-bis dello stesso articolo). Resta tuttavia non spiegabile la ragione per la quale la previsione della nullità, per mancato rispetto del termine dilatorio assegnato per la eventuale presentazione della opposizione, non sia stata estesa pure alla ipotesi del provvedimento di archiviazione adottato prima della scadenza del termine previsto dall’art. 411, co. 1-bis: anche se, va osservato, il richiamo all’art. 410 bis è ora espressamente enunciato nel comma 1 dell’art. 411, fra le disposizioni applicabili anche alla ipotesi della archiviazione per la particolare tenuità del fatto. Non resta dunque che concludere nel senso che la rassegna dei casi di nullità operata dal primo comma dell’art. 410 bis, deve essere “sistematicamente” estesa anche all’ipotesi di cui ora si è fatto cenno. La rassegna delle nullità del decreto di archiviazione tipizzate dall’art. 410 bis, si conclude con l’ipotesi in cui, essendo stata proposta opposizione, il giudice abbia omesso di pronunciarsi sulla sua ammissibilità o abbia dichiarato la opposizione inammissibile, a meno che non sia stata osservata la previsione dettata dall’art. 410, co. 1, che appunto prescrive, a pena di inammissibilità, che la opposizione enunci l’oggetto della investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova11. L’enunciato normativo presenta degli indubbi lati di oscurità, dal momento che sembrerebbe a tutta prima imporre al giudice uno scrutinio positivo in punto di ammissibilità, con correlativa statuizione sul punto, al di là del semplice controllo “negativo” sulla insussistenza delle cause di inammissibilità, che imporrebbero l’adozione del decreto di archiviazione a norma dell’art. 410, co. 2, c.p.p. Ci sembra però plausibile ritenere che l’ipotesi evocata dal legislatore sia quella della pronuncia de plano, che abbia omesso di pronunciarsi sulla inammissibilità della opposizione o abbia dichiarato inammissibile la opposizione per cause diverse da quelle previste dall’art. 410, co. 1, come non di rado accade, allorché il giudice dichiara inammissibile la opposizione facendo leva, non sulla pertinenza e rilevanza delle investigazioni evocate dall’opponente, ma sulla prognosi dei relativi risultati12. A proposito, infine, della ordinanza di archiviazione, il comma 2 dell’art. 410 bis – sostitutivo, come si è accennato, del comma 6 dell’art. 409, correlativamente abrogato – stabilisce che la stessa è nulla “solo” nei casi previsti dall’art. 127, co. 5, vale a dire per quelle ipotesi specifiche in cui risulta violato il principio del contraddittorio. Può porsi il problema della eventuale carenza grafica o strutturale della motivazione della ordinanza di archiviazione, e, dunque, della ricorrenza della nullità prevista, in via generale, dall’art. 125, co. 3, c.p.p. Poiché l’art. 410 bis, co. 2, evoca “solo” la violazione dell’art. 127, co. 5, si potrebbe ritenere che la mancanza di motivazione rappresenti un profilo insuscettibile di risalto agli effetti del rimedio del reclamo al tribunale in composizione monocratica, visto che il comma 3 dello stesso art. 410 bis espressamente consente il rimedio «nei [soli] casi di nullità previsti nei commi 1 e 2». Tuttavia, essendo l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali imposto, come è noto, dall’art. 111 Cost., ed avendo il legislatore previsto, a pena di nullità, l’osservanza di tale obbligo per tutte le sentenze e le ordinanze, non pare irragionevole ritenere esperibile il rimedio del reclamo anche per il vizio di cui stiamo discutendo, dal momento che il legislatore ha espressamente escluso qualsiasi “interferenza” – e dunque competenza funzionale – del giudice di legittimità rispetto al tema della archiviazione.

Il “reclamo” davanti al tribunale monocratico

I commi 3 e 4 dell’art. 410 bis introducono e disciplinano l’inedito rimedio del “reclamo” nei casi di nullità del provvedimento di archiviazione davanti «al tribunale in composizione monocratica»13, il quale provvede con ordinanza non impugnabile. Scompare, quindi, la Corte di cassazione e compare una nuova competenza funzionale in capo al tribunale in composizione monocratica. Nulla essendo precisato sul punto, si applicheranno le ordinarie regole sulla competenza territoriale, con la conseguenza che, in ipotesi di indagini relative a reati di competenza “distrettuale”, sarà “distrettuale” il pubblico ministero che richiede l’archiviazione (art. 51, co. 3-bis, 3-quater, 3-quinquies), “distrettuale” il giudice per le indagini preliminari che ha pronunciato il provvedimento di archiviazione (art. 328, co. 1-bis e 1-quater) ma “locale” il tribunale in composizione monocratica chiamato a delibare l’eventuale reclamo.

Sembra difficilmente discutibile che il “reclamo” debba essere qualificato come rimedio di tipo impugnatorio14, e non sembra dunque azzardato ritenere che ad esso siano applicabili, in quanto compatibili, le regole generali stabilite dall’art. 568. Il rito, poi, è scandito secondo cadenze particolarmente “snelle” e accelerate. È stabilito, infatti, che, entro quindici giorni dalla conoscenza del provvedimento, l’interessato può proporre reclamo nei casi di nullità di cui innanzi si è detto. Nulla viene stabilito in ordine alla natura del termine, sicché, tenuto conto della previsione generale dettata dall’art. 173, co. 1, in base al quale è sancito il principio per il quale i termini sono a pena di decadenza solo nei casi previsti dalla legge, si potrebbe essere portati a ritenere che si tratti di un termine meramente ordinatorio, la cui inosservanza non determina la inammissibilità del reclamo15. Si tratta, tuttavia, a nostro avviso, di una palese aporia di sistema, dal momento che, ove si ammetta che il reclamo è una impugnazione, e poiché è stabilito un termine per l’esercizio del relativo diritto, pensare ad un regime di impugnabilità sostanzialmente sine die, equivarrebbe a determinare una situazione di permanente incertezza giuridica sul provvedimento reclamabile, con conseguente vulnus per la stabilità della relativa decisione giurisdizionale. D’altra parte, poiché il legislatore ha espressamente previsto che il reclamo possa essere dichiarato inammissibile, senza peraltro precisare in quali casi debba essere pronunciata ordinanza di conferma del provvedimento oggetto di reclamo ovvero lo stesso debba essere dichiarato inammissibile, è verosimile ritenere che quest’ultimo epilogo ben possa essere stato ritenuto riferibile proprio ai casi di mancato rispetto del termine16. Ma è ovvio che il dato formale – mancata previsione espressa del termine come decadenziale – ostacola non poco qualsiasi interpretazione, anche se ragionevole, di tipo “additivo”17. Il rito, si accennava, è assai snello: il tribunale, infatti, provvede sul reclamo con ordinanza non impugnabile18, sulla base di un contraddittorio meramente cartolare. Altrettanto scarno, nella descrizione normativa, è l’epilogo decisorio. Se il giudice ritiene il reclamo fondato, annulla il provvedimento e dispone la restituzione degli atti al giudice che lo ha emesso, il quale, a nostro avviso, dovrà rinnovare la sequenza procedimentale, sanando il vizio che ha determinato la nullità. La decisone, dunque, svolgerà in tale ipotesi una funzione soltanto rescindente: il che sta a significare che la richiesta di archiviazione manterrà la sua valenza di atto propulsivo del nuovo procedimento. Le alternative all’annullamento sono duplici e, come si è accennato, “contenutisticamente” inespresse. Se il reclamo, infatti, non è ritenuto fondato, il giudice conferma il provvedimento oggetto di reclamo, o lo dichiara inammissibile: ma in quest’ultimo caso, non se ne indicano le cause, dal momento che lo stesso legislatore ha omesso di indicare quali debbano essere i requisiti del reclamo e, soprattutto, quali di essi siano prescritti a pena di inammissibilità. Si può pensare ad un difetto di legittimazione; alla carenza di interesse, alla proposizione di un reclamo al di fuori delle cause di nullità tassativamente enunciate, o ad altre eventualità che impediscono l’esame del merito19. Eppure, la distinzione tra “rigetto” del reclamo o declaratoria di inammissibilità dello stesso non è priva di conseguenze, dal momento che nel primo caso conseguirà la condanna del “reclamante” al pagamento delle spese delle procedimento, mentre nel secondo caso anche al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, «nei limiti di quanto previsto dall’articolo 616, comma 1»: vale a dire di una somma (adeguabile biennalmente con decreto ministeriale) da euro 258 a euro 2.065 «che può essere aumentata fino al triplo, tenuto conto della causa di inammissibilità del ricorso»20. Il che, ci sembra, presuppone una scansione circa le ragioni di inammissibilità, in funzione della maggiore o minore “colpevolezza” di chi ha proposto il reclamo. Il silenzio della legge sul punto è, dunque, gravido di ricadute negative, affidando al giudice una discrezionalità priva di adeguati parametri normativi. Una distorsione, quella accennata, aggravata dalla sancita inoppugnabilità del provvedimento decisorio, che necessariamente si estende, a nostro avviso, anche al capo di “condanna” relativo alle spese. Sembra peraltro indiscutibile la perdurante valenza, anche agli effetti della irrogabilità della sanzione pecuniaria qui in discorso, della sentenza 13.6.2000, n. 186 della Corte costituzionale, che dichiarò la illegittimità costituzionale proprio dell’art. 616 c.p.p., nella parte in cui non prevede che la Corte di cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, possa non pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende, a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.

Note

1 Sulle innovazioni introdotte v., fra gli altri, Mastromatteo, N., Opposizione alla richiesta di archiviazione e tutela del contraddittorio, in Dir. pen. e processo, 2017, 1101, nonché De Giorgio, M., Le modifiche in materia di archiviazione, in Legisl. pen., 31.1.2018, 1 s.

2 Di natura ordinatoria, dal momento che è costante l’orientamento secondo il quale il rispetto del termine previsto dall’art. 408, co. 3, c.p.p. per proporre opposizione alla richiesta di archiviazione costituisce per la parte offesa un semplice onere, in quanto il suo mancato rispetto, pur non incidendo sull’ammissibilità dell’atto oppositivo, espone la parte offesa al rischio di investire il giudice a procedimento già definito. (ex multis, Cass. pen., 22.10.2003, n. 6475, in CED rv. n. 228263.

3 Ex plurimis, Cass. pen., 8.11.2017, n. 18913; Cass. pen., 13.7.2017, n. 34366, in CED rv. n. 272871.

4 In giurisprudenza si afferma che il pubblico ministero è tenuto ad osservare il termine dilatorio di dieci giorni per la trasmissione degli atti al giudice per le indagini preliminari, previsto dagli artt. 126 disp. att. c.p.p. e 408 c.p.p., solo nel caso in cui la persona offesa abbia chiesto di essere avvisata (Cass. pen., 4.2.2016, n. 28662, in CED rv. n. 267327).

5 Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, aperta alla firma l’11 maggio 2011 e per la quale è stata autorizzata la ratifica con l. 27.6.2013, n. 77.

6 Cass. pen., SU, 29.1.2016, n. 10959, in Cass. pen., 2016, 3715, con nota di M.C. Amoroso, La nozione di delitti commessi con violenza alla persona: il primo passo delle Sezioni Unite verso un lungo viaggio; v., anche Bressanelli, C., La “violenza di genere” fa il suo ingresso nella giurisprudenza di legittimità: le Sezioni Unite chiariscono l’ambito di applicazone dell’art. 408c. 3-bis, c.p.p., in www.penalecontemporaneo.it, 21.6.2016.

7 V. Gialuz, M., Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, a cura di M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, in www.penalecontemporaneo.it, 20.6.2017, 5; Kalb, L., La riforma in materia di archiviazione: nullità del provvedimento e controllo giurisdizionale mediante reclamo, in Dir. pen. e processo, 2017, 1307; De Giorgio, M., Le modifiche in materia di archiviazione, in Legisl. pen., 2018, 4; Migliaccio, C., Modifiche alla disciplina del procedimento di archiviazione e chiusura delle indagini preliminari, in La riforma della giustizia penale, a cura di A. Conz e L. Levita, Roma, 2017, 77; La Regina, K., Il procedimento di archiviazione, in La riforma della giustizia penale, a cura di T. Bene e A. Marandola, Milano, 2017, 116.

8 In chiave critica, v., La Regina, K., Il procedimento di archiviazione, cit., 123. V. anche Belviso, V., Il nuovo procedimento archiviativo, in La riforma Orlando. I nuovi decreti, a cura di G. Spangher, Pisa, 2018, p. 167; Bartoli, R.Marandola, A., La riforma Orlando. Riformulazione dei controlli sull’archiviazione tra aspettative deluse e illusorie panacee, in Giur. it., 2017, p. 2225.

9 Si è infatti affermato che l’omesso avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa, da cui consegue la violazione del contraddittorio e la nullità del decreto di archiviazione, si configura anche nel caso in cui l’omissione sia stata causata dal mancato inserimento nel fascicolo del procedimento della relativa istanza ritualmente formulata, non sussistendo un onere della persona offesa di accertarsi, dopo la proposizione della richiesta, che gli adempimenti amministrativi funzionali a detto inserimento si realizzino. (Fattispecie in cui la denuncia-querela integrativa, che conteneva la richiesta ex art. 408, co. secondo, c.p.p., non era stata inserita nel fascicolo del p.m.). (Cass. pen., 31.1.2017, n. 31675, in CED rv. n. 270592).

10 È stato ritenuto, infatti, che il decreto di archiviazione emesso prima della scadenza del termine assegnato alla persona offesa ex art. 408, co. 3-bis, c.p.p. per prendere visione degli atti e presentare eventuale opposizione alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero – integrando un’ipotesi di nullità per violazione del contradditorio, ai sensi dell’art. 127, co. quinto, c.p.p. – può essere impugnato con ricorso per cassazione come previsto dall’art. 409, co. 6, c.p.p. (Cass. pen., 2.12.2016, n. 510, in CED rv. n. 272871).

11 Anche in questo caso, il legislatore ha omesso di coordinare tale figura di nullità con la ipotesi della inammissibilità della opposizione avverso la richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto, nel caso di mancata indicazione delle ragioni del consenso.

12 Si afferma infatti in giurisprudenza che ai fini della ammissibilità dell’opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, il giudice deve limitarsi a valutare i profili di pertinenza e di specificità degli atti di indagine richiesti; ne consegue che è illegittimo il provvedimento di archiviazione emesso “de plano” sulla base di una valutazione di merito degli atti stessi, anche apoditticamente enunciata (come attraverso la mera locuzione “investigazioni irrilevanti”), con la quale si anticipa una prognosi sulla incidenza probatoria delle investigazioni richieste che non può avere ingresso in sede di verifica del diritto della parte offesa al contraddittorio camerale. (Cass. pen., 19.10.2016, n. 6587, in CED rv. n. 269144).

13 Nel procedimento minorile non è ben chiaro quale organo sia chiamato a svolgere quella funzione.

14 Sul nuovo istituto v., fra gli altri, Triggiani, N., Indagini preliminari, tempi dell’azione penale e procedura di archiviazione, in La riforma della giustizia penale, a cura di A. Scalfati, Torino, 2017, 119 s.

15 È la tesi sostenuta da La Regina, K., op. cit., 125.

16 Dà per pacifica la inammissibilità del reclamo per mancato rispetto del termine Leopizzi, A., Indagini preliminari, Milano, 2017, 717. Sostanzialmente nel medesimo senso, pur riconoscendo la natura non perentoria del termine, Kalb, L., La riforma, cit.

17 Va rammentato, al riguardo, che la “dimenticanza” operata nel codice a proposito della mancata espressa previsione che i termini per proporre le impugnazioni in materia di misure cautelari fossero stabiliti a pena di decadenza, venne appositamente “sanata” attraverso l’inserimento dell’art. 99 delle relative disposizioni di attuazione, nel quale venne affermata la regola secondo la quale la disposizione dell’art. 585, co. 5, del codice (ove è sancito che i termini ivi previsti sono stabiliti a pena di decadenza) si applicasse, appunto, «anche ai termini per le impugnazioni previsti dal libro IV del codice».

18 Può forse adombrarsi, come eccezione, il caso del provvedimento abnorme o adottato da giudice funzionalmente incompetente.

19 In assenza di qualsiasi indicazione normativa, pare azzardato ritenere annoverabile fra le cause di inammissibilità anche la “manifesta infondatezza” del reclamo, sulla falsariga di quanto previsto per il ricorso per cassazione dall’art. 606, co. 3.

20 Per rilievi critici, v. La Regina, K., op. ult. cit., 127.

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