Il Nuovo teatro: 1976-2000

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Umberto Eco
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Il Nuovo teatro si avvicina alla fine del secolo elaborando un’inedita concezione visiva della scena, che individua nell’immagine il proprio concetto guida. Dalla geometricità seriale di Wilson al comportamentismo dei Magazzini Criminali, dall’espressionismo di Kantor alla phoné di un sempre geniale Carmelo Bene, fino agli eccessi visionari della Socìetas Raffaello Sanzio, il Novecento continua a confrontarsi con i valori puri di una teatralità che progressivamente assume il corpo e il suo immaginario come termine ultimo dei propri processi creativi.

Riteatralizzazione del teatro

Le eredità e le trasformazioni del Nuovo teatro, a metà degli anni Settanta, coincidono con un processo di “riteatralizzazione del teatro", dopo la crisi che, alla fine del decennio precedente, aveva investito gran parte dei suoi protagonisti. Una tendenza che mette in evidenza, nel circuito della sperimentazione, la mai sopita dialettica tra tradizione e ricerca, tra innovazione e recupero di una creatività più codificata.

Anche la grande regia europea non manca di agire criticamente su i limiti interni dello spettacolo. Il testo e l’attore vengono assunti dal regista come terreno di un laboratorio analitico, in un’idea che esalta le funzioni della macchina teatrale. Le ossessioni classiciste di Peter Stein, il naturalismo morboso di Patrice Chéreau, l’asettico e gelido rigore dei lavori di Klaus Grüber, pur con le dovute differenze, conducono i valori del dramma nelle profondità di uno spazio scenico in continua metamorfosi. Come pure i percorsi di Luca Ronconi e Ariane Mnouchkine, particolarmente significativi nel saper reinventare le traiettorie drammaturgiche in soluzioni spaziali monumentali, nel segno di una spettacolarità esaltante e barocca.

Il passaggio generazionale degli anni Settanta elabora gradualmente un inedito modello visivo di riferimento, pur nella continuità con le esperienze pionieristiche maturate negli anni Sessanta. Infatti, la dimensione dello spettacolo inizia a cogliere nella contaminazione con le altre discipline artistiche il punto per una propria importante mutazione e l’immagine, intesa come frontiera ultima dell’accadimento teatrale, diviene per molti artisti il concetto guida dei propri processi creativi.

La realtà teatrale schiude un potere di alterità e differenza, grazie alla messa in discussione del linguaggio verbale a favore dell’aspetto iconico, sonoro e performativo della rappresentazione. La parola viene spesso ridotta a frammento sonoro o a scheggia allusiva di un universo letterario, mentre il testo drammatico sostiene un ambiente poetico da tradurre con gli strumenti della visione. Ne segue una narrazione per lo più affidata a singoli momenti epifanici, in cui l’azione congiunta dell’attore-performer e dello spettatore sembra rifondare le possibilità percettive dello spettacolo, spesso legate alle suggestioni ritmiche e sonore del commento musicale, che contribuisce con sempre maggiore pregnanza alla costruzione di un immaginario fortemente evocativo.

Robert Wilson e Meredith Monk

Alfieri di questa tendenza sono gli americani Robert Wilson e Meredith Monk, che già dalla fine degli anni Sessanta si muovono verso uno stile decisamente antinarrativo, impostato su una componente seducente e ipnotica.

Nei suoi lavori, Robert Wilson sviluppa l’azione con ostentata lentezza, all’interno di una macchinazione percettiva astratta e artificiale. Insieme alla trama musicale, le immagini si presentano come apparizioni, dilatate in un tempo di fruizione inverosimile (7 o 12 ore, oppure 24, fino ai sette giorni e alle sette notti di Ka Mountain and Guardenia terrace, del 1972). La sua fama internazionale raggiunge la consacrazione definitiva con Einstein on the beach (1976), spettacolo-icona in cui la geometricità numerica della composizione visiva sposa la serialità ritmica delle musiche di Philip Glass e delle coreografie di Andrew de Groat e Lucinda Childs, dando vita a un quadro di grande lirismo e rarefazione. Un’idea di classicità che avrebbe portato entro breve il regista, anche grazie a episodi quali I was sitting on my patio (1977) o Edison (1979), a essere considerato uno dei maestri indiscussi della scena contemporanea.

Meredith Monk, a differenza di Wilson, rimane distante da una strumentalizzazione onnivora dei mezzi impiegati. L’artista americana, pur attraversando danza, musica e arti visive, rivela una qualità più intimista, ricca di suggestioni autobiografiche. Education of a girlchild (1973), Quarry (1976), o ancora Recent Ruins (1979), indagano i processi tra tempo, spazio e memoria, in una cornice che include il microcosmo femminile, così come i fantasmi della seconda guerra mondiale, fino a un’attualità che si specchia nell’archeologia del passato.

Teatro d’immagine e postavanguardia

La pulsione visiva emersa sulla scena internazionale viene sviluppata in Italia, negli anni Settanta, con grande originalità. Inizialmente Giancarlo Nanni, Giuliano Vasilicò e Memè Perlini condividono una continuità d’intenti, che si connette definitivamente, dal 1973, in una vera e propria scena generazionale, chiamata “teatro immagine". Entrambi puntano sulla tensione allucinatoria, sulle valenze ermetiche del simbolo, su una ellitticità oscura degli oggetti di scena così come dei corpi esposti, a definire uno spazio sospeso nell’onirico, privo di una precisa dimensione storica o temporale.

Di grande radicalità visiva è anche il caso di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi. Attore il primo, architetto il secondo, insieme mettono a punto un’idea di spettacolo che porta alle estreme conseguenze alcune istanze beckettiane. Il più delle volte, l’evento teatrale si traduce nella messa in atto di un’azione alienante, concreta e ripetitiva, come costruire un muro o un congegno meccanico. I due, con la propria presenza silenziosa, definiscono un reciproco rapporto di vittima e carnefice, enfatizzato dall’assenza del dialogo e dalla gratuità dell’azione innescata. Sacco (1973), Rotobolo (1976), Cottimisti (1977) e Pozzo (1978) sono spettacoli in cui lo scontro tra l’individuo e l’assenza si realizza nella consumazione di un tempo circolare, che prende letteralmente forma in scena nella materialità di un dispositivo fisico reale.

Il “teatro immagine", dopo un periodo particolarmente intenso e fortunato, già dal 1976 sembra manifestare i segni di un impoverimento creativo, consumato dal successo e dall’inevitabile normalizzazione causata dall’inserimento nel circuito ufficiale. È il passaggio di testimone a una nuova generazione di artisti raccolti sotto la sigla di “postavanguardia", che oltre ai soliti Wilson e Monk, vede sorgere nel proprio orizzonte di riferimento gli exploit degli americani Richard Foreman e dello Squat Theater, insieme a quelli più “foschi“ del giapponese Shuji Terayama.

La “postavanguardia" fa proprie le istanze più analitiche dell’arte concettuale e certi estremismi dell’ happening, della performance e della body art. Si nutre dunque di una teatralità per la quale diviene centrale l’esibizione del comportamento, del corpo e della sua quotidianità organica. A questo segue una trasformazione degli elementi costitutivi dello “spettacolo": alle sale teatrali si preferiscono le gallerie d’arte o luoghi del paesaggio urbano; alla scenografia si sostituisce un ambiente audiovisivo, disegnato dalla crescente fascinazione per le nuove tecnologie (video, proiezioni, diapositive, nastro magnetico ecc.). L’attore, caricato di una tensione quasi soltanto performativa, mette in gioco i valori concreti del proprio corpo, in uno spazio che assume un’identità astratta. La polarità dell’azione tende così a concentrarsi intorno alla produzione di un universo privato del performer, colto nelle sue introversioni e devianze.

Tra i protagonisti di questa nuova ondata, Simone Carella e La Gaia Scienza di Giorgio Barberio Corsetti assumono un ruolo nodale nella trasformazione della scena sperimentale italiana, attratti dalla contaminazione con le arti visive e la nuova danza americana. È però Il Carrozzone di Federico Tiezzi, Sandro Lombardi e Marion D’Amburgo trattenere, forse più di altri artisti, i segni distintivi dell’epoca. Presagi del Vampiro (1976), o episodi successivi come Vedute di porto Said (1978), mettono a fuoco un teatro “analitico-patologico-esistenziale", nel quale ogni singolo elemento della scrittura scenica viene sottoposto a un azzeramento del significato. Il dato fisico del performer, il suo universo gestuale, si dispiega per accelerazioni e rallentamenti, per reiterazioni di segmenti ritmici, in rapporto a un ambiente teatrale modellato da interventi visivi stilizzati. L’azione non veicola più contenuti, bensì traiettorie comportamentali, a cui fa da contraltare un uso spregiudicato della citazione, figurativa e musicale.

La postmodernità degli anni Ottanta

Questa sorta di progressiva smaterializzazione della scena, questo consapevole abbandono delle componenti emotive della rappresentazione, anticipa alcuni tratti salienti del Nuovo teatro degli anni Ottanta. A cui però si sovrappone, sul piano internazionale, una tensione per certi versi contraria, di riaffermazione dei valori spettacolari dell’individuo e della sua esposizione interiore. Sono infatti gli anni del teatro-danza di Pina Bausch e della definitiva consacrazione di un grande maestro come Tadeusz Kantor.

In Italia la ricerca passa per qualità più ciniche e ironiche, con l’adesione a un immaginario postmoderno che dialoga con la civiltà scintillante dei media, del rock, della televisione, del fumetto. Gli stessi Tiezzi, Lombardi, D’Amburgo – che dal 1980 mutano il nome del proprio gruppo in Magazzini Criminali, poi dal 1985 solo Magazzini – si fanno interpreti di questo clima con lavori entrati di diritto nel pantheon del Nuovo teatro: da Crollo nervoso (1980) a Genet a Tangeri (1984). La metropoli, con le sue orbite iconografiche, assume le proporzioni di un luogo di culto in cui far vibrare le tensioni creative.

Ne è testimonianza emblematica il percorso del gruppo napoletano Falso Movimento, di Mario Martone, affascinato dalla produzione di teoremi installativi in cui la presenza dell’attore viene quasi sostituita dal gioco architettonico delle luci e delle proiezioni. Attraverso l’accumulazione di segnali visivi e grazie all’immissione di ingredienti fantascientifici, la città si trasforma in un ambiente carico di seduzioni elettroniche. Tango glaciale (1982) rappresenta l’esito più compiuto in questa direzione, sintetizzando con forza l’insieme delle esperienze raccolte intorno all’attrazione tecnologica. Una radicalità estetica che ritorna nell’esperienza della compagnia Krypton, diretta da Giancarlo Cauteruccio: lo spazio teatrale può qui diventare completamente virtuale, siderale, disegnato in trame sintetiche da luci al neon e fluorescenti raggi laser, in cui l’attore esprime una presenza fantastica e irreale.

Tuttavia, nell’arco di maturazione del decennio, sembrano esaurirsi le spinte più decostruttive dell’avanguardia. La ricerca sente il bisogno di un cauto ritorno all’ordine, ripristinando un confronto, sebbene in forme decisamente originali, con i canoni della scrittura drammatica, della narrazione e dell’interpretazione.

In questo senso, è emblematico il rilancio che Eugenio Barba impone al suo Odin Teatret. Pur senza abbandonare le gloriose vie del baratto e degli spettacoli di strada, con Ceneri di Brecht , in scena dal 1979 al 1982, il regista esaurisce le spinte centrifughe dei suoi attori, cimentandosi nuovamente con un testo drammatico, sia pure in forma di collage. Un riposizionamento nei confronti della propria tradizione che produce, con Il Vangelo di Oxyrhincus (1985), uno dei momenti più alti dell’intera storia del Nuovo teatro. A cui, nello stesso anno, sembra quasi rispondere il Mahabharata (1985), spettacolo capolavoro di Peter Brook. Il mito sprigionato dal grande poema epico indiano si fonde in uno straordinario complesso di attori provenienti da tutto il mondo, riconferendo alla linearità del racconto l’esclusiva per restituire la vicenda tragica dell’umanità.

All’interno del paesaggio italiano, i sintomi più evidenti di questa mutazione corrispondono alla riconfigurazione di alcuni gruppi: La Gaia Scienza si divide in due formazioni, Solari-Vanzi e la compagnia di Barberio Corsetti, con due distinti percorsi artistici; Falso Movimento si trasforma in Teatri Uniti, da cui emergeranno negli anni artisti come Antonio Neiwiller, Enzo Moscato e Toni Servillo; mentre i Magazzini reinventano se stessi all’insegna di un teatro di poesia e di un recupero del testo, tanto che Sandro Lombardi si affermerà negli anni Novanta come uno degli attori più significativi della nostra scena teatrale.

Percorsi individuali e recupero della parola

Il Nuovo teatro italiano, a cavallo tra i due decenni, comincia a evidenziare quella frammentazione che distinguerà l’ultima ondata di artisti. I teatranti rispondono alle sollecitazioni sociali e della scena attraverso percorsi sempre più solitari, elaborando gli impulsi dell’innovazione e della tradizione secondo una progettazione individualizzata. Unico elemento di continuità è, appunto, il recupero della parola all’interno di un tessuto performativo estremamente ibrido, spesso in forme straniate e artificiose, relative alla sensibilità personale con cui ciascuno scandaglia le proprie necessità poetiche. Una strada in questi anni mai abbandonata dai padri fondatori dell’avanguardia teatrale italiana, Carmelo Bene e Leo de Berardinis, accomunati dall’amore per Shakespeare e Dante: non testi da “riferire", bensì voci in cui perdersi, sfondo su cui impostare la cerimonia di se stessi, al di là di ogni sterile narcisismo solipsistico.

Non a caso la fine degli anni Ottanta coincide con l’affermazione del regista belga Thierry Salmon. Legato indissolubilmente all’Italia, egli predilige un confronto diretto con il testo, sia esso teatrale o letterario, spesso spazializzato in luoghi urbani riadattati allo spettacolo. Nei suoi lavori (A. da Agatha, 1986; Le Troiane, 1988) l’attore tende a fisicizzare la propria condizione emotiva in partiture dal sapore coreografico e rituale, che, insieme a una parola riumanizzata, conferisce al personaggio una vivacità ritmica, mai banalmente psicologica.

Ma il panorama è comunque assai frastagliato: ecco distinguersi il lavoro di Alfonso Santagata e Claudio Morganti, che mettono a frutto la lezione di Carlo Cecchi immergendosi in dense e straniate atmosfere pinteriane (Il calapranzi, 1984). Oppure, all’opposto, il Laboratorio Teatro Settimo guidato da Gabriele Vacis, che sceglie il terreno della narrazione come proprio luogo di elezione ( Elementi di struttura del sentimento, 1985). Il gruppo pone così le basi di un genere tanto fortunato, nel decennio successivo e tuttora, quanto i percorsi dei singoli artisti coinvolti: da Laura Curino a Marco Baliani, fino all’esplosione di Marco Paolini e dei suoi racconti “civili" (Racconto del Vajont, 1994).

Sebbene incastonata nella ricerca di un’origine rituale dell’azione, la parola riecheggia anche nell’esperienza del cesenate Teatro della Valdoca, guidato dal regista Cesare Ronconi e dall’attrice e poetessa Mariangela Gualtieri. Prima emarginata nella gestualità essenziale di un universo femminile e di un cosmo primitivo al confine tra regno minerale e vegetale: spazio contemplativo, creaturale, che suggerisce una dimensione carica di attesa e bellezza. Poi, dal 1986, progressivamente liberata fino alla accesa trilogia Antenata (1991-1993), nella quale, senza cercare alcun rilievo narrativo, si situa al centro di un universo lirico misterioso ed enigmatico. Parola infine scomposta in Ossicine (1994), Fuoco centrale (1995) e Parsifal (1999) in una coralità estesa, una tribù mutante di giovani performer che dipinge a più riprese un affresco fisico barbarico e detonante.

Quella sospensione dell’umano che distingueva la fase più ardita della sperimentazione teatrale durante gli anni Ottanta, cede perciò progressivamente il passo a una riacquisizione di competenze attoriali. Anzi risponde, come nel caso del gruppo Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, a un rigore quasi ideale. L’attore – definito dal regista Marco Isidori “attore generale" – corrisponde a una macchina fonetica, derivata da Carmelo Bene, che scioglie la composizione verbale in una partitura ritmica e sonora. A cui non sfugge, però, anche una dimensione più performativa (Una giostra: l’Agamennone, 1988), grazie a un apparato scenografico e visivo in grado di orientarne fisicamente l’azione scenica.

Più tradizionale, se non proprio “capocomicale", l’assetto del Teatro delle Albe di Marco Martinelli, in cui ricompaiono chiaramente i ruoli del regista-autore e degli attori-maschere. La compagnia ravennate coniuga la propria memoria dialettale a uno sguardo pungente e ironico sugli aspetti più drammatici dell’attualità, eleggendo Aristofane e Jarry a propri numi tutelari. Ma soprattutto, sulla scorta di un audace principio di “meticciato teatrale", inserisce nel proprio organico alcuni attori senegalesi: in Ruh-Romagna più Africa uguale (1988), o in I ventidue infortuni di Mor Arlecchino (1992), la loro fisicità buffonesca si contrappone alla solidità terragna di Ermanna Montanari e Luigi Dadina, conferendo al lavoro una tragicità dai tratti a un tempo vitalistici e grotteschi.

Dalle spinte simboliche della Socìetas Raffaello Sanzio alla multidisciplinarietà della Generazione Novanta

A imporsi però, in questi anni, come gruppo guida nella costruzione di un paesaggio simbolico potente, stratificato nelle sue funzioni teatrali, è certamente la Socìetas Raffaello Sanzio, anch’essa di Cesena. L’ensemble di Romeo Castellucci riconduce l’insieme dei fattori pertinenti alla visione nella cornice di una spettacolarità altissima, infera e meravigliosa. È appunto l’icona, drammatizzata in archetipi, a fornire il terreno per uno scontro-incontro con una teatralità dell’eccesso, in cui l’attore e l’animale vengono parificati nell’economia della scena, ridotti a presenza oggettiva. La parola viene sottoposta a un processo di sintesi e rialfabetizzata da una coralizzazione, alla ricerca di una lingua “generalissima". Già da Santa Sofia - Teatro Khmer (1985) passando per Amleto (1992), la compagnia esalta un teatro dell’invasione sensoriale. Finché Orestea (1995), Giulio Cesare (1997) e, oggi, Tragedia Endogonidia (2002-2005) proiettano la Raffaello Sanzio sulla scena internazionale, grazie a una capacità visionaria che fa piombare dentro la scatola scenica un’umanità allucinata e inquietante. Un viaggio che progressivamente estingue la missione di Castellucci al centro di una testualità tragica, per invocare piuttosto una produzione teatrale del tutto autonoma, sensibile alle risorgenze mitiche della contemporaneità.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta si affaccia in Europa anche una terza ondata di registi, provenienti dall’Est. Anatolij Vassiliev, Lev Dodin ed Eimuntas Nekrosius rilanciano le ipotesi di un grande teatro poststanislavskiano dell’attore, del testo e del personaggio, nei margini di un lavoro ricalibrato sulla condizione oggettiva del dispositivo scenico.

Ma il Nuovo teatro è ormai proiettato verso l’adozione del corpo come fulcro iconico del proprio immaginario. La danza, nel caso dell’eclettico artista belga Jan Fabre, diventa appunto il termine medio di un’indagine panica sul corpo, esplorandone i codici in una direzione altamente provocatoria. Così come nelle diverse esperienze “estreme" di performer quali Ron Athey, Franko B., Orlan, Stelarc, Marcel Antúnez Roca, in cui il corpo, in una continuità ideale con la body art degli anni Settanta, assume le proporzioni di un feticcio ultrasensoriale su cui letteralmente incidere la propria azione, talvolta al limite della stessa sopravvivenza fisica dell’artista.

La mappa del Nuovo teatro si fa così sempre più puntiforme. Pur animata da un crescendo tecnocratico, non utilizza più le nuove tecnologie come nella sua fase originaria, con un’adesione pressoché immediata, bensì le inserisce all’interno di un cerchio critico, riconfigurandone la portata segnica e simbolica. L’americano Peter Sellars, nella sua continua analisi politica e sociologica del mezzo televisivo; o il canadese Robert Lepage, nello svelare agli occhi dello spettatore una tecnologia dalle rifrazioni poetiche: entrambi giocano con i diversi livelli dell’uomo alle prese con il suo doppio elettronico.

In Italia, grazie ai gruppi dell’ultima, giovane generazione degli anni Novanta, come Motus, Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander, Masque e Accademia degli Artefatti, questa spettacolarità rimane fisiologicamente incentrata su una multidisciplinarietà adescante, che dialoga senza compromessi con i diversi livelli progettuali del teatro: dall’installazione alla performance; dall’intervento sullo spazio alla pratica dell’attore, fino alle infinite concatenazioni con l’universo musicale. Come in O. F. (1998), di Motus, chiuso scenicamente dentro una croce di plexiglass e derivato dall’ Orlando furioso dell’Ariosto, che diviene la piattaforma su cui impostare una congegno citazionista. Pop, schegge sadomaso, fantasmi kitsch, karaoke fumettistico, tutto converge in una sottomissione del corpo alla trasformazione e alla follia.

Il Terzo teatro

Ai pericoli autocelebrativi del ciclico ritorno del postmoderno, il Nuovo teatro ha opposto negli anni una ricerca connessa al superamento dello spettacolo, fatta di incontri e di relazioni con una comunità che si affida agli insegnamenti di alcuni maestri della scena novecentesca. In particolare, è nella rivendicazione di una precisa continuità con il magistero di Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba che si situa la cruciale esperienza del Centro Teatrale di Pontedera, diretto da Roberto Bacci. Fin dagli anni Settanta, il centro assume in Italia il ruolo di crocevia per quell’area di artisti che fanno capo al cosiddetto Terzo teatro, tra cui il Teatro Tascabile di Bergamo e il Teatro Potlach di Fara Sabina.

L’attore, inteso nell’accezione grotowskiana di veicolo per un viaggio verso se stessi, viene assunto come campo di indagine privilegiato. La presenza di Grotowski e del suo workcenter (ospitato a Pontedera dal 1986) catalizza simbolicamente e operativamente la direzione di lavoro del gruppo toscano. Che non manca di condensarsi in eventi memorabili, come la trilogia melvilliana Laggiù soffia, Era, In carne e ossa (1986-1990), spettacolo itinerante per cinque spettatori in cui Bacci mette in atto una qualità mentale ed emotiva della partecipazione, dislocata in diversi luoghi della cittadina di Pontedera.

Nel tempo, questa circolazione di saperi ha rotto il pericolo dell’esclusività e della volontaria separatezza dall’immaginario contemporaneo. E questo grazie soprattutto ad artisti che hanno saputo convertire le conoscenze teatrali acquisite in un bagaglio poetico non meccanicamente sovrapponibile a quello dei maestri, sebbene sempre votati a un rapporto di comunione con lo spettatore. Identità liminali e solitarie nel panorama del Nuovo teatro, comunque solidamente ancorate a una concezione esperienziale della scena.

Come quella di Danio Manfredini, attore, regista e pittore, nato teatralmente a contatto con César Brie e l’Odin Teatret. Nei suoi pochi spettacoli, che riscrivono ossessivamente una mitologia genettiana (Miracolo della Rosa, 1988; Al presente, 1998; Cinema cielo, 2003), il corpo diviene strumento lirico e passionale per raccontare luoghi ed emblemi della solitudine, attraverso personaggi in bilico tra disperazione e normalità. Oppure Pippo Delbono e Armando Punzo, il cui apprendistato con Grotowski e Barba trasmette un’idea del lavoro dell’attore come sacrificio e ostensione della diversità: data, nel primo caso, dalla condivisione di un percorso con attori portatori di handicap (Barboni , 1997; Guerra, 1998; Esodo, 2000; Gente di plastica, 2002, Urlo, 2004); espressa, nel secondo caso, dal difficile lavoro con i detenuti del carcere di Volterra (Marat-Sade, 1994; I negri, 1996; Insulti al pubblico, 1999; I pescecani, 2003).

Il panorama aperto dal nuovo secolo farà tesoro di questa diversità, formale ed etica, ampliandone possibilità e applicazioni. Ma allo stesso tempo non mancherà di guardare al passato come a una vera e propria tradizione storica (basterebbe pensare alla longevità creativa di un gruppo come l’Odin Teatret, che nel 2005, con Il sogno di Andersen, ha festeggiato i propri gloriosi quarant’anni di attività). Il Nuovo teatro, ormai consapevole della sua forza, rilancerà dunque le proprie sorti, a dispetto di una crisi sempre annunciata e – fortunatamente – mai del tutto scontata.

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