Il patrimonio artistico e culturale

L'Unificazione (2011)

Il patrimonio artistico e culturale

Simona Troilo

Nei primi decenni successivi all’unificazione, la costruzione del patrimonio culturale della nazione fu terreno di incontro e scontro tra progetti, ambizioni e aspirazioni di soggetti istituzionali diversi e per molti versi in competizione. I beni storico-artistici, nella loro complessità ed eterogeneità, furono al centro di tensioni che riguardavano la loro gestione e valorizzazione. A partire dal 1861, e almeno per tutto il decennio successivo, da un lato il governo centrale, dall’altro quello delle città espressero idee e modelli di tutela differenti e spesso inconciliabili, rivelando l’esistenza di prospettive diverse su un tema importante come la conservazione delle testimonianze di un passato comune. Questa tensione prese forma sullo sfondo di eventi che segnarono profondamente la vita del paese. La frammentazione politica e sociale della penisola, l’avvio difficoltoso dei processi di nation-building, l’imminente terza guerra d’indipendenza, la questione impellente di Roma rendevano per molti marginale il tema della conservazione, apparentemente rimandabile a momenti di maggior chiarezza e di maggior disponibilità di risorse. Questa percezione finì con l’allontanare la prospettiva di un impegno in grado di tracciare linee e indirizzi di intervento coerenti e articolati. Il settore della tutela soffrì in questo senso di carenze notevoli, sia dal punto di vista culturale che materiale, finendo con lo scontare difficoltà e incongruenze di vario tipo.

Mentre ostacoli e difficoltà minavano l’azione dello Stato nei confronti del patrimonio della nazione, i decenni Sessanta e Settanta dell’Ottocento videro l’emergere di altri soggetti in grado di supplire alle carenze esistenti e di promuovere azioni di tutela autonome e specifiche: le istituzioni locali. Il loro protagonismo nel settore si plasmò nel giro di pochi anni grazie alle conseguenze non scontate di un evento che segnò il destino di numerosi beni storici, artistici, architettonici e librari, vale a dire la liquidazione del patrimonio ecclesiastico. Essa portò all’acquisizione da parte dell’autorità pubblica di materiale tradizionalmente custodito dalla Chiesa, e a un conseguente duro confronto tra governo centrale e locale sulla sua destinazione e futura gestione. Il tema della tutela divenne così una questione importante del rapporto centro/periferia, un nodo difficile da sciogliere per le molteplici implicazioni culturali e politiche che sollevava. I risultati che da questo scambio si ebbero furono però notevoli. Grazie ad esso venne a delinearsi il sistema di tutela policentrico ancor oggi in larga parte esistente. Grazie alla mobilitazione municipale a difesa della tutela in loco dei manufatti acquisiti dalla Chiesa, le difficoltà e le contraddizioni del governo centrale relativamente alla costruzione di un apparato di tutela adeguato e di un patrimonio fonte di identità comune vennero alla luce, chiarendo il ruolo che i diversi soggetti interessati alla salvaguardia dei documenti della storia ebbero nel tempo. In questo senso i primi decenni postunitari costituiscono un momento fondamentale per la definizione di funzioni e competenze e, soprattutto, per il chiarimento del valore simbolico e identitario di beni patrimonio della collettività.

Conservare prima e dopo l’Unità

Per comprendere caratteri e significati della tutela all’indomani dell’Unità, è utile soffermarsi brevemente sulle culture e le pratiche della conservazione proprie degli Stati preunitari, facendo emergere continuità e rotture con quanto andò dispiegandosi a partire dal 1861. Nell’eterogeneo panorama della penisola, due erano i contesti istituzionali in cui leggi e provvedimenti disegnavano una realtà conservativa, innovativa e avanzata: lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie. In entrambi, la funzione sociale dei beni d’arte e di antichità era alla base di una tradizione conservativa che affondava le proprie radici nell’età moderna e che, a cavallo tra Sette e Ottocento, aveva preso forma in maniera chiara e specifica.

Dopo il «sacco» francese, a Roma si era a lungo dibattuto sulla necessità di salvaguardare e valorizzare un patrimonio immenso, colpito dalle vicende politiche di fine secolo e frammentato nella sua integrità. L’esigenza di contrastare future dispersioni e di affermare al contempo il valore pubblico di oggetti e manufatti aveva sollecitato la nascita di un servizio di tutela incentrato su norme e divieti e articolato in organismi ramificati nel territorio. Da Roma a Bologna, passando per Perugia e altri centri minori, le indicazioni contenute nell’editto Doria Pamphilj prima (1802), in quello Pacca poi (1820), avevano limitato le prerogative dell’«utile privato», e al tempo stesso riconosciuto al patrimonio la capacità di generare crescita culturale e civile nella collettività. Forte del proprio apparato di commissioni e ispettori, la macchina della conservazione allestita nel primo Ottocento dallo Stato aveva quindi assunto una propria autonomia, divenendo modello futuro per il Regno d’Italia e non solo.

Il concetto di tutela come servizio di utilità pubblica autonomamente organizzato era maturato negli stessi anni anche nel Regno delle Due Sicilie, dove la ricchezza del patrimonio archeologico aveva favorito l’emanazione di importanti provvedimenti di salvaguardia. Gli straordinari ritrovamenti settecenteschi di Ercolano e Pompei e, più in generale, le continue scoperte effettuate in un territorio ricco di testimonianze storiche avevano sollecitato misure rivolte a contrastare un mercato antiquario che rendeva reperti e rovine oggetto di aperta e frenetica compravendita. Anche in questo caso, limitare la dispersione e vigilare sul posseduto erano gli obiettivi principali di un’azione che si concretizzava in termini legislativi e nell’istituzione di organismi centrali e periferici specifici. Da Napoli, dove operavano un soprintendente degli Scavi di antichità e, dal 1822, un’articolata commissione d’Antichità e Belle Arti, la mano dello Stato si allungava nel territorio, dove ispettori appositamente preposti indirizzavano e sorvegliavano le operazioni di scavo.

Nel panorama composito della penisola, il caso dello Stato pontificio e del Regno delle Due Sicilie rappresentava una felice eccezione, singolare com’era nell’affermare la centralità dell’arte e della storia nella maturazione di una nuova coscienza civica. Le difficoltà incontrate nella concreta attuazione della tutela furono certo notevoli, a causa della vastità dei territori controllati e degli scarsi mezzi a disposizione del settore. Gli strumenti disegnati e i princìpi elaborati costituivano tuttavia un importante traguardo nel processo di acquisizione di una nuova consapevolezza circa il significato della conservazione dei beni d’arte e di antichità. Quanto accadeva nei territori dello Stato pontificio e nel Regno delle Due Sicilie non avveniva però altrove, nel disomogeneo mosaico di entità statuali che avrebbero composto il futuro Stato nazionale. Nel Lombardo-Veneto, ad esempio, singole iniziative di tutela erano promosse esclusivamente a livello cittadino. Nei Ducati dell’Italia centrale, soluzioni generiche producevano esiti limitati ai soli centri urbani. Nel Granducato di Toscana, la conservazione era demandata alle strutture tecnico-amministrative dello Stato, interessato più al risvolto economico che a quello culturale della salvaguardia di oggetti e edifici. In tutte queste realtà, gli organismi di tutela, laddove esistevano, avevano una mera funzione consultiva, risultando privi della facoltà di imporre divieti e limitazioni alla dispersione del materiale e, più in generale, di promuovere iniziative realmente incisive. La situazione era ancora più grave nel Regno di Sardegna, dove Carlo Alberto solo nel 1832 aveva istituito una Giunta d’Antichità e Belle Arti con sede a Torino e compiti anch’essi puramente consultivi. Né una legislazione in materia, né una struttura in grado di competere con quelle di altre realtà della penisola erano presenti nello Stato che avrebbe di lì a poco guidato l’unificazione del paese. Questo scarto legittimò la brusca reazione che la periferia del nuovo Regno riservò a partire dal 1860-61 alle decisioni prese dal governo centrale, percepite come estranee e lesive di tradizioni locali ormai radicate.

A Unità compiuta, la difficoltà dello Stato di imporre una prassi legislativa nuova, volta a intraprendere la costruzione di un sistema nazionale di tutela e del patrimonio della nazione, emerse infatti sin da subito. Sin da quando, nel biennio commissariale 1860-1861, i primi provvedimenti vennero presi dai governatori preposti al comando provvisorio delle varie regioni della penisola. Le nuove misure da questi adottate risultarono diverse, in linea con le esperienze maturate nel tempo nei singoli contesti territoriali. Nelle province dell’Emilia – che, a partire dal 1859, riunivano le Legazioni pontificie e i territori degli ex Ducati di Parma e Modena –, in Toscana, in Umbria e nelle Marche vennero istituite commissioni volte a vigilare e indirizzare future iniziative di tutela. Questi organismi furono il più delle volte affiancati dalle Accademie di Belle Arti e da altri istituti ereditati dal passato, provocando scontri e frizioni che di fatto bloccarono l’attività complessiva delle varie strutture. Nelle province meridionali si provvide a riattivare gli organismi esistenti, rafforzando il ruolo della Soprintendenza napoletana. Diretta da Giuseppe Fiorelli, essa venne arricchita di nuove competenze, anche se l’ambiguità normativa prodotta dal passaggio di potere dai Borboni al nuovo Stato ne limitò per il momento l’attività. In Piemonte e nei territori della Lombardia ci si mosse all’insegna della continuità, in attesa di provvedimenti che avrebbero interessato l’intera penisola. Dal punto di vista amministrativo la spinta a creare nuovi istituti si intrecciò con l’esigenza di non cancellare le esperienze passate e di farle proprie rilanciandole almeno dal punto di vista progettuale. Vennero in questo senso recepiti, almeno formalmente, i mezzi legislativi più avanzati messi a punto dai cessati governi, nel tentativo di salvare norme e misure utili ad accompagnare la difficile transizione. Ma la tensione prodotta da esigenze diverse, sommata all’impossibilità di procedere nell’immediato alla definizione di strumenti normativi e burocratici omogenei a livello nazionale, favorì la crescita della confusione, immobilizzando organismi vecchi e nuovi e rendendoli di fatto poco operativi.

In questo panorama di incertezza vide la luce il provvedimento che più di altri segnò la messa a punto del futuro sistema nazionale, vale a dire la soppressione delle corporazioni religiose, avviata in alcune aree della penisola negli anni 1860-61, estesa a tutto il territorio nazionale nel 1866. Grazie ad essa lo Stato incamerò un numero notevole di edifici e manufatti storico-artistici tradizionalmente custoditi dagli enti ecclesiastici.

Le prime soppressioni vennero decretate in Umbria, nelle Marche e nelle province napoletane. Qui lo scioglimento degli ordini religiosi e la conseguente chiusura di monasteri e conventi resero inderogabile affrontare la questione della sorte degli oggetti divenuti di proprietà pubblica. Quale sistemazione dare alle tele, alle sculture, agli arredi sacri, ai manoscritti e ai libri rari passati nelle mani dello Stato? Soprattutto, quali mezzi e risorse mobilitare? Il problema era serio, data l’instabilità conosciuta da queste regioni a ridosso dell’Unità. La sua soluzione era urgente, vista la necessità di provvedere immediatamente alla collocazione di un materiale di facile deperimento. Vennero allora identificati tre punti di raccolta verso cui far confluire il materiale da incamerare: l’Accademia di Belle Arti di Perugia, quella di Urbino e il Museo archeologico di Napoli, trasformato da Garibaldi in Museo nazionale. Il patrimonio librario venne invece destinato alle biblioteche dei singoli comuni, per quanto riguardava l’Umbria e le province napoletane, alle città sedi di università o ai capoluoghi di provincia, per quanto riguardava invece le Marche. La scelta rispondeva a ovvi criteri di necessità, ma non teneva conto dell’impatto che avrebbe suscitato sulle realtà interessate. Nello specifico, sulle comunità che si vedevano private di beni tradizionalmente custoditi all’ombra dei propri campanili. La decisione di accentrare in pochi punti di raccolta un materiale diffuso nel territorio scatenò una reazione fiera e orgogliosa da parte di città che si opposero alla cessione degli oggetti ad altri centri urbani, reclamando a sé il diritto di tutelare le testimonianze della propria storia. Questa reazione, che riguardava i manufatti artistici più che il materiale librario e documentario, fu talmente aspra da indurre alla sospensione o al ritiro dei tre provvedimenti, in attesa della promulgazione di una normativa nazionale. Essa non si fece attendere: qualche anno dopo, nel 1866, riprendendo la legislazione sarda del 1855, lo Stato italiano procedette alla soppressione degli enti religiosi in tutto il Regno e alla conseguente liquidazione dell’asse ecclesiastico.

Consapevole della reazione ai decreti del biennio commissariale, il governo centrale scelse in questo caso una soluzione diversa da quella precedentemente adottata. Rinunciando alle ipotesi centralistiche, la legge del 1866 mirava infatti a redistribuire gli oggetti a livello provinciale e comunale. Essa prevedeva che i libri, i manoscritti, i documenti scientifici, gli archivi, i monumenti, gli oggetti d’arte o «preziosi per antichità» fossero devoluti a biblioteche o musei pubblici esistenti nelle rispettive province. Si tentava in questo modo di stabilire un criterio di assegnazione più attento alle spinte provenienti dalle differenti aree del paese. Si mirava inoltre a potenziare gli istituti conservativi preesistenti, garantendo una migliore tutela del materiale incamerato. Neppure questa modifica parve però soddisfare le istanze dei comuni che si mossero compatti nel denunciare il tentativo di accentrare gli oggetti nei capoluoghi di provincia. Era in questi centri infatti che si concentravano in genere musei e biblioteche in grado di ospitare il materiale. Ed era qui che, razionalmente, il governo intendeva indirizzare il flusso in entrata dei beni storico-artistici. Le proteste quindi ripresero, ancora all’insegna della rivendicazione del diritto alla tutela in loco, segno di una forte tensione ad affermare la propria appartenenza e la propria identità.

La questione della tutela tra centro e periferia

La protesta dei municipi sfociò in una mobilitazione fatta di appelli, petizioni, sospensione dei trasferimenti, volta a reclamare il decentramento della tutela in nome di princìpi evocati in maniera simile in tutta la penisola. Il decoro delle città, il valore del passato, il desiderio di tramandare le proprie glorie artistiche alle future generazioni, la necessità di non minare, semmai di alimentare, una memoria comune vennero indifferentemente rivendicati a Pisa come a L’Aquila, a Savona come ad Aversa, in un crescendo di voci articolato ma omogeneo nella sostanza. La richiesta di tutelare i manufatti in loco coincideva con l’affermazione di un’appartenenza al luogo e alla comunità di cui le istituzioni locali si candidavano ad essere promotrici principali. Ma in che modo questa rivendicazione identitaria prese forma e in che termini si espresse nei diversi contesti civici? La difesa del valore «locale» della salvaguardia degli oggetti venne forse espressa al meglio dagli amministratori di un comune abruzzese, Sulmona, i quali sostenevano che «alcune cose d’importanza locale, cui alcune date popolazioni si sono affezionate, concorrono potentemente a formare una patria, la quale si costituisce di omini, di edifizi, di memorie». Questa patria andava protetta nei suoi simboli più importanti dai tentativi «lesivi» di un «amore» e di un attaccamento espressi da una città «che molto t[eneva] alla sua vetustà alla sua storia alle sue memorie» (Acs 1877). La loro difesa andava tradotta, a Sulmona, nell’opposizione agli attacchi «spogliatori» del governo centrale, altrove, ad esempio in alcuni comuni marchigiani, in una «seria e insormontabile resistenza» (Acs 1866) alle mire conquistatrici delle città privilegiate dalle decisioni prese a livello nazionale. In questo senso bisognava lottare per la difesa del «lustro» di tradizioni che non ammettevano cesure di alcun segno.

Il tema del vincolo del passato fu declinato in vario modo a livello cittadino, soprattutto in termini di rispetto di quei geni artistici che nel tempo avevano reso celebri i diversi luoghi. A Sant’Angelo in Vado, ad esempio, era prioritario difendere la «memoria imperitura» di quegli «illustri» ai quali la città aveva dato i natali, favorendo la conservazione di oggetti e manufatti che ne ricordassero «il nome immortale» (Acs 1867b). A Monreale, in Sicilia, il «lustro e decoro» civico era espresso da «illustri filosofi e grandi artisti» di cui era imprescindibile tutelare il ricordo (Atti Parlamentari 1869). Ovunque le glorie patrie divenivano numi tutelari da custodire gelosamente e ammirare, in vista di una grandezza dimenticata da recuperare. In questo senso il passato spalancava le porte al futuro, nella forma di uno sviluppo economico da potenziare o di una crescita culturale da incrementare. I «numerosi e distinti forestieri» da attrarre nei propri territori e la «gioventù studiosa» da far crescere e coltivare divenivano i punti di riferimento di un’azione che mirava a definire vocazioni culturali specifiche per città alla ricerca di un nuovo ruolo. In questo senso si puntava a sviluppare «l’ammirazione dei passeggeri» e a favorire al contempo il «progresso degli studi e il perfezionamento delle arti». Nelle parole degli amministratori spoletini, era necessario «trar profitto anche dalle più meschine risorse onde migliorare per quanto sia possibile la condizione morale, ed economica della nostra città». Il patrimonio culturale locale doveva suscitare anche l’interesse dei «forestieri», ed essere esibito «alla studiosa gioventù per esempio del bello», servendo anche «di modello a una scuola di pittura, dove l’arte vecchia fosse lume della nuova» (Acs 1867a).

L’affermazione delle proprie radici e le rivendicazioni che da essa prendevano forma venivano inquadrate in un discorso a tratti esplicitamente antistatale. Il governo centrale era infatti accusato di «sovercheria» laddove imponeva le proprie regole, uniformando un procedere amministrativo ritenuto invasivo e problematico. Questa accusa passava attraverso temi sapientemente coniugati. In alcuni casi, ad esempio, si faceva riferimento ai beni contesi come a materiale che nel Risorgimento aveva garantito una resistenza morale decisiva in vista della riunificazione nazionale. Simboli di una sofferenza e di un’attesa comunemente vissute, questi beni avevano ispirato la partecipazione collettiva al «destino della nazione» che ora non poteva essere tradita. «Conforto al passato servaggio», si scriveva da Macerata, gli oggetti appartenevano al luogo e alla comunità a cui erano legati da vincoli sacri e inviolabili (Acs 1862). Vincoli che lo Stato, frutto del processo risorgimentale, non poteva permettersi di indebolire.

Altro tema impiegato nella mobilitazione comunale fu la presunta somiglianza tra l’atteggiamento del neonato governo nazionale e quello dei passati regimi stranieri, impegnati all’inizio del secolo a depredare la penisola delle sue ricchezze. La «rapina» francese sembrava rivivere, nelle parole degli amministratori di Fabriano, nelle azioni dello Stato italiano il quale riproponeva mezzi e misure che solo le «prepotenze straniere» erano state in grado di infliggere (Acs 1861). Anche in questo caso, combattere contro le decisioni centrali significava affermare un’appartenenza radicata nella storia e nelle forme del mondo locale. Vale la pena notare come in tutti questi passaggi discorsivi, i beni in questione rappresentavano indistintamente la piccola e la grande patria, visto che l’una era tassello imprescindibile dell’altra. «Colpire» la prima con provvedimenti ritenuti lesivi della sua identità significava dunque «colpire» anche la seconda, non cogliendo il legame intrinseco che univa entrambe. In questo discorso, radicato nelle richieste formulate negli anni 1860-70, si verificava un pericoloso cortocircuito sull’idea di appartenenza nazionale, letta nei termini della località e contrapposta a quella di uno Stato accusato di mettere a repentaglio l’integrazione tra i vari elementi che lo componevano.

Differenti istanze culturali erano dunque sottese a una contestazione che assunse varie forme e che rivelava il forte antagonismo, da un lato, tra le città e il governo centrale, dall’altro tra i singoli centri urbani impegnati a difendere ad ogni costo la propria identità. La contesa dei beni si dispiegava in questo senso tra centri di diversa dimensione e diverso potere, i più deboli dei quali denunciavano un progetto complessivo di «brutale» centralizzazione. Di qui la protesta di Alcamo che, insieme ad altri comuni della provincia di Trapani, si rifiutò di consegnare i propri oggetti al capoluogo «non merita[ndo] per nessuna ragione che venisse spogliata de’ capolavori d’arte de’ quali e[ra] fornita» (Acs 1868). La «cupidigia» dei capoluoghi fu diffusamente condannata, soprattutto laddove l’unificazione produceva disincanto e delusione. Il «sacrificio» vissuto da comunità poco avvantaggiate dalla nuova situazione politica indicava allora nella tutela un «discreto compenso», volto a sanare situazioni incresciose e spesso di grande smarrimento. «Questa tendenza di spogliare continuamente i piccoli a favore dei più grandi – scrivevano gli amministratori di Borgo San Donnino schierati contro Parma per la cessione di alcuni oggetti – aliena fortemente gli animi delle popolazioni e finisce per far credere, che invece di una libertà vera, si abbia una libertà fittizia, che non giova a tutti, ma che sia anzi il patrimonio di chi ha il privilegio della maggiore importanza e della maggiore influenza» (Acs 1876). Nella forma del «malumore», del «malcontento», delle «ripulse», la mobilitazione municipale indicava l’esistenza di un attaccamento al luogo, alla sua storia e alla sua cultura profondamente radicata e a tratti radicalmente esacerbata. Ma che cosa celava in fondo questa rivendicazione così esplicitamente espressa?

La tutela locale era reclamata dai municipi come terreno su cui rilanciare un’identità, utile nel confronto con le trasformazioni dettate dall’unificazione. Il timore di soccombere a una «piemontesizzazione» lesiva delle diverse appartenenze, a una nazionalizzazione omologante e poco rispettosa delle singole specificità, spingeva a enfatizzare la dimensione locale come spazio di storia e memoria. La piccola patria diveniva un universo simbolico in cui individuare tradizioni, immagini, narrazioni in grado di valorizzare le peculiarità storiche delle cento città della penisola. Questa enfasi prendeva forma sullo sfondo di processi che ridefinivano gli assetti amministrativi e politici territoriali. Con la creazione del Regno, la redistribuzione di mezzi e risorse trasformava il ruolo delle città e delle loro classi dirigenti, ridisegnando le gerarchie esistenti. Il potenziamento di alcuni centri urbani produceva il declassamento di altri; la nascita di nuove province obbligava alla soppressione di antichi capoluoghi; più in generale, la nuova localizzazione di investimenti economici, l’incremento della rete infrastrutturale, la costruzione di tribunali, ospedali, istituti educativi creavano disomogeneità, spostando il baricentro politico ed economico di intere aree geografiche. L’unificazione e la modernizzazione del paese producevano grandi cambiamenti, riconfigurando la natura di istituzioni ed élites dal futuro incerto. La difesa del diritto/dovere alla tutela municipale risultava in questo senso anche funzionale alla riaffermazione del potere delle classi dirigenti locali e alla elaborazione di nuove idee di futuro per universi sociali scossi dall’unificazione. In ogni caso, la sfaccettata ragione che spingeva le città ad allarmarsi e mobilitarsi per la tutela suscitava anche a livello centrale ansie e timori di non facile soluzione.

Dinanzi alle richieste comunali, lo Stato assunse un atteggiamento di grande prudenza, dovuto all’esigenza di promuovere innanzitutto il consenso del mondo locale alle istituzioni del Regno. Nel momento in cui si tentava di rafforzare un’adesione collettiva ai valori e all’apparato amministrativo dello Stato, antagonismi e contestazioni andavano arginati, poiché minavano il processo di nation-building, alimentando lo spettro di una disgregazione fatale. Il timore di scontri e fratture portò in breve il governo a dialogare, mediare, negoziare, fino a cedere alle istanze municipali, favorendo la distribuzione del materiale in base alle rivendicazioni inoltrate.

Questa soluzione, che segnò di fatto la nascita nel nostro paese di un sistema di tutela policentrico, fu del resto caldeggiata da quei rappresentanti dello Stato chiamati ad approfondire meccanismi e dinamiche in atto nelle varie aree del paese. Nelle loro riflessioni sulle mobilitazioni in corso, i prefetti ad esempio misero in luce gli interessi ruotanti attorno alla tutela dei beni d’arte e di antichità, restituendo il quadro mosso di una protesta di cui essi coglievano vari aspetti. Il vincolo emotivo che legava le comunità ai propri manufatti, il desiderio di promuovere iniziative di tutela autonome, il protagonismo di istituzioni culturali antiche e recenti erano elementi di continuo sottolineati, insieme ad altri che rivelavano l’ampio spettro di motivazioni sottese alle richieste comunali. La rivalità tra città e il personalismo di sindaci ed eruditi impegnati a ridefinire il proprio ruolo nella società venivano ad esempio considerate questioni oltremodo rilevanti nell’attuazione di scelte e decisioni dagli effetti importanti. La strada della conciliazione era quindi proposta come soluzione in grado di non inimicare allo Stato le comunità locali, evitando al contempo di intralciare la costruzione di un rapporto di per sé non facile da definire. Questo sbocco era sollecitato anche da altri soggetti, patrocinatori a livello centrale delle rivendicazioni locali: dai rappresentanti dei singoli collegi elettorali, ad esempio, i quali si calavano spesso nel ruolo di mediatori, facendo proprie e rilanciando le istanze dei propri elettori; dai consigli provinciali, interessati a potenziare le strutture della tutela nei propri territori; da singoli esponenti dell’amministrazione centrale i quali, con il passare del tempo, riconobbero l’utilità di uno sbocco volto a ricondurre il bene storico-artistico a una dimensione primariamente locale. Al di là delle motivazioni politiche e culturali sottostanti alla decentralizzazione della tutela, un’altra esigenza spingeva infatti in questa direzione: quella di non appesantire le finanze pubbliche, già gravate dai costi straordinari dell’unificazione.

La necessità di razionalizzare le spese in un momento di grave scompenso per le casse del Regno si imponeva anche per un settore delicato come quello della tutela. Con l’unificazione lo Stato ereditava del resto un patrimonio immenso fatto anche di musei, gallerie, pinacoteche, appartenute a passati governi e sovrani. Questi spazi della conservazione andavano riorganizzati, amministrati e in gran parte finanziati. Si trattava certo di una sfida, vista la ricchezza e l’eterogeneità di un panorama che andava dalla Galleria degli Uffizi di Firenze al Museo archeologico di Napoli, passando per le ricche collezioni di Palermo. Accanto ad essi, raccolte spesso di grande rilevanza crescevano presso università e accademie antiche e prestigiose. Trasformate in «regie» o «nazionali», le collezioni di molte città e, dopo il 1870, di Roma necessitavano di nuove risorse per essere valorizzate e salvaguardate. Stesso impegno esigevano poi le biblioteche nazionali, preesistenti alla nascita del Regno, e quella miriade di raccolte librarie custodite da istituti scolastici ed universitari di varia rilevanza. Lo Stato, infine, si trovava a gestire gli edifici ecclesiastici monumentali sottratti nel 1866 alla gestione municipale e affidati, per il loro valore inestimabile, direttamente al governo. Tra essi, la Certosa di Pavia, le badie di Montecassino, di Cava dei Tirreni, di Monreale con le rispettive dotazioni artistiche e librarie. Il settore della tutela era dunque sterminato, laddove la disponibilità economica dello Stato mostrava tutta la propria inadeguatezza.

Decentrare parte della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale alle istituzioni locali permetteva di risparmiare e al tempo stesso di avviare anche progetti conservativi nuovi, volti a celebrare la nascita del nuovo Stato e a richiamare interessi e valori da esso promossi. Se l’esistenza di antiche, grandiose raccolte consentiva il rafforzamento dell’immagine dell’Italia culla d’arte e civiltà, la loro continuità con il passato, il loro essere eredità di mondi trascorsi minava l’impegno dello Stato nell’onorare l’unificazione del paese. Nasceva quindi l’esigenza di creare istituzioni ex novo, di fondare musei e biblioteche frutto del nuovo spirito nazionale, al pari di quanto avveniva in altri paesi europei, dove la nascita degli Stati-nazione era salutata da raccolte nazionali di nuovo conio. Nei due decenni successivi all’Unità, in Italia vennero create alcune istituzioni che andavano proprio in questa direzione. Nel 1861, ad esempio, alle antiche biblioteche nazionali di Napoli e Palermo venne affiancata la nuova Biblioteca nazionale di Firenze, frutto della fusione di precedenti raccolte. Nel 1875 a Roma, presso il Collegio Romano, venne istituito un polo conservativo che accoglieva il Museo preistorico ed etnografico «Luigi Pigorini» e la nuova Biblioteca nazionale «Vittorio Emanuele II», istituti intesi soprattutto a rinnovare il prestigio della nuova capitale. Tre anni dopo, a Torino veniva decretata la nascita del Museo del Risorgimento, volto a celebrare il ruolo della casa regnante nel processo di unificazione nazionale. Si trattava in questi casi di progetti attraverso cui lo Stato organizzava le proprie istituzioni culturali, sancendo il ruolo di città chiamate a sostenere il confronto con le altre capitali europee. La crescita del numero degli istituti direttamente o in parte finanziati dallo Stato venne nel tempo moltiplicandosi, dando vita a una trama fitta di raccolte ordinate in una scala di rilevanza che distingueva centri di prima e seconda classe, governativi o misti, nazionali o statali, verso cui indirizzare gli scarsi investimenti a disposizione. La questione economica rimaneva centrale nella difficile messa a punto di un sistema, per sua natura vitale e bisognoso di continue risorse.

Furono dunque diverse le ragioni che portarono lo Stato ad assecondare le richieste provenienti dal mondo locale. La scelta decentralizzatrice produsse in ogni caso due conseguenze di grande importanza. In primo luogo, la costruzione di una mappa territoriale della tutela che rispecchiava la diffusione capillare degli oggetti, affermando l’inviolabilità della gestione pubblica e urbana dei manufatti. In secondo luogo, il monopolio da parte del mondo locale di un discorso della «piccola patria» che si dispiegava nella contrapposizione allo Stato e, nello stesso tempo, nell’adesione a una patria più grande, vale a dire la nazione. La forza di questo discorso permeava il rapporto centro/periferia, avvantaggiando il mondo locale nella propria rivendicazione d’identità.

L’assenza di coordinate

Il processo finora descritto di assunzione da parte delle istituzioni locali di grandi responsabilità nella conservazione dei documenti della storia fu segnato, oltre che dalle difficoltà di un rapporto centro/periferia complesso e conflittuale, anche dalla percezione generale della tutela quale tema di scarso rilievo nazionale. Numerose emergenze concorrevano infatti ad assegnare poco risalto al tema, considerato meno importante e più differibile di altri. Questa percezione contribuì ad allontanare la possibilità di un confronto serio e articolato sul patrimonio culturale, il quale venne definendosi senza princìpi-guida generali che ne regolassero la costruzione: per essere più precisi, in totale assenza di un quadro legislativo di riferimento. Fu infatti soltanto all’inizio del nuovo secolo che venne promulgata una legge organica di tutela, con l’intento di affermare attraverso un apposito sistema conservativo territoriale i diritti della collettività su beni inalienabili. Fino ad allora ci si limitò ad ereditare norme e leggi dei passati governi, rimandando a tempi futuri la messa a punto di un provvedimento complessivo. Di fatto deleteria, questa scelta fece sì che al momento di un passaggio delicato come quello dell’incameramento dei beni di ex pertinenza religiosa non ci fossero strumenti in grado di regolarne a livello nazionale fasi e modalità.

A ben guardare, l’assenza di una legislazione o quanto meno di un dibattito in materia di tutela rimandava a una difficoltà di fondo, vale a dire all’incapacità del mondo politico liberale di confrontarsi con la relazione pubblico/privato che la tutela di fatto richiamava. Il timore di ledere il principio cardine del liberalismo, sul quale si fondava la stessa impalcatura del nuovo Stato, rendeva impensabile la scelta di misure – ad esempio l’esproprio – utili a conservare, accrescere e salvaguardare il patrimonio nazionale. Il riconoscimento del «vantaggio pubblico» e collettivo che sin dal Settecento aveva caratterizzato la cultura della conservazione italiana lasciava ora spazio al timore di intaccare la proprietà singola e individuale. Questo timore finiva con l’indebolire la stessa azione coercitiva delle norme ereditate dagli stati preunitari, e con il consentire la dispersione del materiale attraverso vari canali. I disagi legati alla messa in discussione di un principio insindacabile erano poi accresciuti dalla scarsa consapevolezza del valore culturale di beni dal grande potenziale evocativo e identitario. Per le classi dirigenti nazionali, almeno nei primi decenni postunitari il patrimonio rimase uno strumento di retorica efficace, ma sterile per celebrare la gloria della nazione. Generiche affermazioni sulla grandezza dell’arte e del passato italiano alimentarono un discorso nazionalista poco utile a impedire esportazioni e trafugamenti degli oggetti, e scarsamente efficace nel sanzionare manipolazioni e distruzioni di edifici e rovine.

La scarsa attenzione che i politici ponevano sul tema della conservazione non passò inosservata, ma venne denunciata da alcuni personaggi che sollecitarono più volte un diverso atteggiamento da parte del governo. Già nel 1862, il deputato Giovanni Morelli tuonava in Parlamento:

A me sembra che torni ad altissima lode del Governo del Re di staccare per qualche istante lo sguardo dalle strade di ferro, dai porti, dai fari, dalle navi corazzate, dai sali e dai tabacchi, per innalzarlo a quelle arti che sono la maggiore, la meno contrastata gloria della nazione. Un argomento che mi sembra di grandissima importanza, né a voi potrà parere futile, e del quale pur troppo fino ad oggi i rappresentanti d’Italia, di questa terra consacrata dal cielo alle arti belle, non trovarono mai tempo di occuparsene; intendo dire dello stato di abbandono in cui giacciono i monumenti d’arte della penisola (Atti Parlamentari 1862).

L’appello accorato di Morelli era pienamente condiviso da chi con lui a ridosso dell’Unità aveva compiuto un’importante ricognizione di alcune parti del territorio italiano, mettendo in luce questioni e problemi da affrontare in futuro: Giovanni Battista Cavalcaselle. Studioso e conoscitore di molte realtà storico-artistiche nazionali, egli richiamava il governo all’immane compito ereditato dalla storia, vale a dire «l’obbligo di mantenere la gloriosa tradizione del paese». Pochi passi vennero però computi in questa direzione soprattutto dal punto di vista della messa a punto di strumenti legislativi adeguati.

Soltanto la discussione sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico introdusse in Parlamento il tema della tutela, imponendo per un attimo la questione della sorte dei beni da incamerare. In maniera discontinua e spesso superficiale, ci si confrontò agli inizi degli anni Sessanta dell’Ottocento sulla natura e la legittimità dei provvedimenti da emanare, soprattutto sull’opportunità di acquisire un patrimonio artistico e librario estremamente rilevante. Di nuovo la questione della proprietà privata tenne banco, sostenuta da quanti ritenevano la liquidazione dell’asse un attacco diretto a soggetti e proprietà ben identificabili. In questo caso, ragioni economiche e politiche prevalsero, consentendo allo Stato l’acquisizione di vaste proprietà ecclesiastiche e l’immissione di beni in un mercato faticosamente avviato a trasformarsi in nazionale. Anche le voci di coloro che riconoscevano alla Chiesa una tradizione conservativa di cui far tesoro nella futura conservazione dei manufatti vennero sopraffatte da quelle di quanti ritenevano inderogabile il passaggio all’autorità pubblica del materiale acquisito. All’ipotesi di lasciare dipinti, sculture, oggetti, arredi sacri nelle strutture religiose si preferì quella di trasferire tutto nei musei di nuova e antica costituzione. Su queste decisioni pesò il clima politico arroventato da un anticlericalismo in parte radicato e da tensioni connesse alla terza guerra di indipendenze alle porte. Pesò inoltre una certa inconsapevolezza della reale articolazione delle strutture conservative disseminate nella penisola e, da ultimo, una scarsa conoscenza della consistenza effettiva del materiale da acquisire. Elementi che svelavano l’approssimazione con cui il tema della tutela venne nel complesso affrontato nelle aule parlamentari.

All’episodica discussione apertasi nelle più alte sedi rappresentative del paese seguì però, negli anni successivi, non solo la crescita del ruolo delle istituzioni locali, ma anche la messa a punto di organismi amministrativi in grado di fornire strumenti utili per far chiarezza nel settore. Ancora una volta, si trattava di provvedimenti che tentavano di colmare un vuoto legislativo pesante e assai significativo. Nuovi organismi e nuovi regolamenti vennero promulgati in relazione sia al patrimonio storico-artistico che a quello librario, riorganizzato, almeno sulla carta, da decreti volti a restringere il numero degli istituti a carico dello Stato e a regolarne gli organici. Fu però nel 1875, con la creazione della Direzione generale degli scavi e dei musei del Regno, che lo Stato impresse una vera svolta razionalizzatrice, intesa a ripensare un sistema di tutela dei beni storico-artistici complesso e frammentato.

Questa svolta fu sollecitata da un settore che con l’Unità conobbe un forte incremento soprattutto, di nuovo, a livello cittadino: l’archeologia. L’esplosione della passione per la storia e la moltiplicazione dei musei locali diedero infatti nuova linfa agli scavi, promossi da gruppi di eruditi impegnati a potenziare l’identità municipale all’ombra dei vari campanili. Il fenomeno si innestava su un tessuto di esperienze relative all’antico decisamente eterogeneo a livello nazionale. Laddove esistevano tradizioni di studio e di scavo radicate, l’archeologia aveva raggiunto importanti risultati ben prima dell’Unità favorendo, era questo il caso dello Stato pontificio e del Regno di Napoli, una legislazione in materia, come dicevamo, piuttosto avanzata. In altri contesti, l’esistenza di istituzioni e di forme di associazionismo dedite allo studio e all’esplorazione del passato aveva arricchito la conoscenza della storia di città e regioni, alimentando un insieme di saperi che travalicava i confini nazionali. Più in generale, l’archeologia era però rimasta terreno di sperimentazione di amatori e cultori dell’antico, impegnati a sviluppare forme di collezionismo di stampo familiare e antiquario. L’eterogeneità e la frammentarietà di questo panorama crebbero dopo l’Unità, quando gli organismi ereditati dai passati governi – ad esempio, la Soprintendenza agli scavi di Napoli – furono affiancati da istituzioni di nuova creazione. Esse operarono il più delle volte in competizione con gli altri, rivendicando un’autonomia di difficile attuazione. Anche a Roma, dopo il 1871, una situazione di grande tensione si sviluppò tra vecchi e nuovi organismi, comunali e statali, interessati a gestire l’immenso patrimonio ereditato dalla Chiesa. La creazione, nel 1870, di una Soprintendenza per gli Scavi di antichità e per la conservazione dei monumenti nella provincia suscitò una forte reazione da parte del municipio, che vi intravedeva il tentativo di espropriare sue antiche prerogative. Questo conflitto produsse la nascita di organismi contrapposti, le cui funzioni vennero specificate dal governo solo negli anni successivi, nella speranza di far cessare i contrasti armonizzando ruoli e competenze.

Se il caso di Roma rappresenta una specificità difficile da negare, è tuttavia evidente che il sovrapporsi di funzioni e ruoli costitutiva una costante delle molteplici esperienze avviate a livello centrale e periferico. Fu merito del ministro Ruggiero Bonghi uniformare un sistema soffocato dal conflitto di competenze, paralizzato da rivendicazioni e compromessi, caratterizzato, il più delle volte, da dilettantismo e improvvisazione. Con la istituzione della Direzione generale e delle commissioni provinciali da essa controllate in tutto il territorio nazionale, la macchina della tutela cominciava a diramarsi capillarmente, imponendo omogeneità e scientificità alle procedure di scavo e di tutela di reperti e rovine. Una rete di operatori veniva per la prima volta attivata uniformemente, e messa in grado di interloquire con il centro in maniera diretta.

La svolta imposta da Bonghi fu duramente contestata da quanti vi vedevano un attacco all’attività e alle prerogative locali. Essa in realtà produsse un’ulteriore decentralizzazione del sistema, che inglobava al proprio interno saperi e competenze radicati nello spazio locale e le valorizzava investendole di nuove responsabilità. Depositari e cultori delle patrie memorie furono infatti trasformati in commissari e ispettori, investiti di nuovi compiti e resi formalmente partecipi della costruzione del patrimonio della nazione. Il loro ruolo divenne nel tempo centrale per il raggiungimento di questo scopo: senza essere stipendiati, né tanto meno sostenuti da un sistema ricco di risorse, questi operatori dimostrarono il più delle volte zelo, passione e abnegazione nello svolgimento di un lavoro che rafforzava le prerogative locali, potenziando le radici dell’identità. In questo senso la costruzione del sistema, il suo funzionamento, il suo valore politico e culturale divennero adempimento quotidiano di singoli individui pronti a operare gratuitamente in vista della realizzazione del patrimonio della nazione. Il valore culturale dell’operazione ricadeva positivamente sulle spalle della periferia, mentre il ruolo dello Stato ne usciva compromesso, e la tutela si affermava come dovere morale assolto in primo luogo dagli operatori locali.

Negli anni successivi al 1875, altri provvedimenti mirarono a migliorare il sistema di tutela, prospettando un ordinamento uniforme e un assetto definitivo per gli istituti conservativi del paese. L’istituzione del ruolo unico per il personale addetto ai musei e alle biblioteche; la definizione di un regolamento generale per tutte le collezioni pubbliche del Regno e l’imposizione del catalogo dei materiali posseduti; la separazione tra musei e Accademie di Belle Arti e, conseguentemente, tra ambito della conservazione e ambito dell’istruzione; l’introduzione del biglietto d’accesso ai musei rivelarono un maggior impegno in un settore a lungo considerato ancillare. Ma il riconoscimento, istituzionale e culturale, del protagonismo locale e l’assenza di una legge organica che fissasse l’orizzonte materiale e simbolico della tutela fecero sì che il patrimonio della nazione fosse innanzitutto costruito e gestito nei singoli mondi urbani.

Conservare in loco

La nascita di un sistema di tutela policentrico avvenne dunque nell’ambito di un rapporto centro/periferia ambiguo e problematico. Al suo interno vennero rapidamente definendosi valori, ruoli e funzioni che potenziarono la dimensione urbana rafforzando l’idea di una piccola patria coesa e omogenea nella propria rivendicazione identitaria. Questa immagine di coerenza messa a punto soprattutto nel conflitto con il governo centrale risultava in realtà segnata al proprio interno da ulteriori tensioni, che attraversavano la sfera urbana, producendo effetti duraturi. Nei decenni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, lo scontro ingaggiato dalle istituzioni locali non si rivolse infatti unicamente contro quelle governative, ma si estese anche alle ecclesiastiche, private dei beni tradizionalmente custoditi nelle proprie strutture. Il passaggio di questi ultimi dall’autorità religiosa a quella pubblica produsse una forte reazione da parte del clero, il quale condannò l’intera liquidazione come un’ignobile usurpazione. I decenni qui considerati videro in questo senso altri, specifici interessi in gioco, nonché molteplici livelli di conflitto ruotanti attorno alla questione della tutela dei beni d’arte e di antichità.

Il passaggio di proprietà degli oggetti venne accolto dalla Chiesa in maniera aspra e polemica. Sabotaggi dei trasferimenti dalle strutture chiuse al culto ai musei si ebbero in molti centri urbani, dove contestazioni e appelli maturarono nel solco della mobilitazione condotta dai municipi contro il governo nazionale. Suore, monaci, religiosi appartenenti agli ordini soppressi tentarono in molti casi di mettere in salvo i manufatti, nascondendoli, trasferendoli, vendendoli a privati pur di non cederli all’autorità pubblica. In questo incontravano gli interessi di un mercato antiquario particolarmente ricettivo e interessato a sfruttare a proprio vantaggio la confusione generata dalla chiusura delle strutture e dall’allestimento delle collezioni civiche. A Roma, come denunciavano i commissari per la vigilanza sul patrimonio storico-artistico della città, la situazione appariva particolarmente grave poiché molti religiosi si disfacevano degli oggetti, spesso distruggendoli, per «preservarli» dall’acquisizione da parte dei musei. La difesa della proprietà del materiale custodito e gestito spesso per secoli ebbe per la Chiesa un duplice significato. Da un lato servì a contestare l’azione di uno Stato laico, intenzionato a far valere le proprie prerogative nel territorio amministrato. Dall’altro, mirò invece a salvaguardare quell’insieme di tradizioni e consuetudini sviluppatesi nel tempo negli spazi sacri della penisola. Il valore di statue, dipinti, argenti, paramenti, arredi risiedeva, infatti, nella dimensione liturgica e devozionale in cui erano impiegati, mentre il loro significato evocava aspetti ed emozioni propri della sfera religiosa. Attorno ad essi memorie, legami, sentimenti si erano sviluppati nel corso del tempo, finendo ora con l’essere messi a repentaglio dal violento intervento pubblico. Quest’ultimo si traduceva nella rivendicazione da parte dei municipi del diritto a una tutela laica e civica, improntata a una fede nuova, quella del patriottismo. Una nuova religione civile veniva quindi reclamata, una religione caratterizzata da forme di ritualità pubblica da espletare non più nelle navate di una chiesa, ma nelle sale di un museo. Dinanzi a questo progetto la Chiesa faceva sentire la propria voce, contestando duramente i provvedimenti attuati.

Essi toccavano del resto non solo la comunità ecclesiastica, ma anche la più ampia comunità urbana composta di fedeli e credenti, e rappresentata dalle istituzioni locali nell’ottica della «piccola patria». Difficile era in questo senso preservare l’equilibrio di contesti cittadini scossi da numerose tensioni. L’atteggiamento dei comuni nei confronti delle rivendicazioni ecclesiastiche fu in ogni caso disomogeneo, improntato alla duplice esigenza di non incrinare complessi rapporti sociali e di smascherare al contempo l’opportunismo di soggetti, spesso disinteressati alla reale conservazione degli oggetti. Alla prudenza e all’attenzione che spesso spinsero alla sospensione o riprogrammazione dei trasferimenti, seguirono quindi la denuncia e l’accusa alle autorità ecclesiastiche di voler disperdere un patrimonio, bene primario dell’intera collettività. A questa accusa se ne aggiungevano altre. Le commissioni comunali o, più in generale, i soggetti preposti dai municipi all’acquisizione del materiale segnalavano di continuo il cattivo stato di conservazione di beni, che proprio l’uso liturgico spesso danneggiava. Le relazioni sul patrimonio da incamerare descrivevano la diffusa ignoranza del clero relativa al valore dei manufatti custoditi, la loro scarsa cura, le manipolazioni subite, l’inesistente manutenzione di arredi e strutture, la disponibilità a vendere manufatti per far fronte alle proprie spese personali e a quelle relative alle proprie strutture. La difesa del patrimonio della nazione era allora enfatizzata come scopo ultimo dell’azione municipale, la quale passava attraverso un’acquisizione volta a portare gli oggetti nello spazio di istituzioni in grado di conservarli adeguatamente.

Un altro elemento spesso citato nelle relazioni sullo stato dei manufatti di pertinenza religiosa era poi il significato antinazionale della protesta del clero, volta a contrastare l’autorità pubblica in maniera opportunistica e pretestuosa. A parere di molti, infatti, la richiesta in essa implicita era quella di ottenere, in cambio dei manufatti, privilegi e concessioni che i pubblici poteri non erano interessati a concedere. La tesi dell’opportunismo era espressa soprattutto in relazione alle contestazioni sorte nei contesti rurali, in cui più facilmente si intravedeva la minaccia della reazione clericale. In questo caso, erano disconosciuti i legami culturali esistenti tra le piccole comunità e i loro spazi devozionali, legami etichettati come superstizione, finti vincoli, false consuetudini. Il diritto delle città sedi di musei si imponeva su quello di paesi e villaggi costretti a cedere i loro oggetti e ad allontanarli dallo spazio sacro della loro conservazione. Anche in questo caso la tutela emergeva come azione ed esperienza in primo luogo urbana, oltre che pubblica e laica.

Tutti questi aspetti finivano con l’essere determinanti nell’assegnazione di nuovi significati ai manufatti incamerati. La conservazione civica, infatti, era letta come fonte d’orgoglio e fierezza per le città che si vedevano riconoscere un diritto importante: quello alla tutela di testimonianze della propria storia e della propria cultura. In questa prospettiva, gli oggetti venivano riletti attraverso una nuova chiave interpretativa: non più quella della fede, appunto, ma quella del valore documentale, artistico e monumentale. Nei loro confronti, si ergevano non più i diritti della devozione o della liturgia, ma quelli dell’arte e degli studiosi, delle istituzioni locali e di una cittadinanza impegnata a celebrare la religione laica della patria. L’insieme di queste istanze rivelava ancora una volta la complessità di un terreno, quello della tutela, in cui interessi, aspirazioni, ambizioni, sensi di appartenenza si intrecciavano, collidendo e trasformandosi. Ma in che modo si arrivò concretamente alla messa a punto degli spazi della conservazione? Come i municipi si adoperarono per far sì che i loro progetti conservativi divenissero reali?

L’avvio del sistema di tutela qui ripercorso non fu affatto semplice, non solo per le tensioni provocate, ma anche per le difficoltà logistiche incontrate nella creazione o nel rinnovamento degli istituti conservativi urbani. Gli scarsi mezzi economici a disposizione di municipi gravati da innumerevoli titoli di spesa e la penuria di locali in cui accogliere il materiale contraddistinsero la vicenda di molti comuni, in cui gli oggetti prelevati dalle strutture chiuse vennero il più delle volte depositati in magazzini e scantinati, in attesa di soluzioni idonee. Questa scelta non riguardava solo i municipi privi di musei e biblioteche e sollecitati a crearne di nuovi dalla possibilità di vedersi assegnati gli oggetti, ma anche centri in cui collezioni esistenti anche da lungo tempo risultarono inadeguate a ospitare il materiale. Il numero delle strutture interessate dalla liquidazione variava del resto da città a città, raggiungendo un picco elevato nel caso di Roma in cui delle 221 case religiose esistenti, 134 furono quelle soggette a soppressione. La mole di manufatti, libri, documenti incamerati risultò nel complesso davvero ampia rispetto agli spazi a disposizione, motivo per cui ci si attestò su soluzioni transitorie, il più delle volte peraltro inadatte a impedire la dispersione del materiale.

Mercanti d’arte, italiani e stranieri, collezionisti e semplici rigattieri attesero con una certa aspettativa il momento caotico del trasferimento, prevedendo spiragli di intervento che il più delle volte effettivamente si vennero a creare. I municipi tentarono in vario modo di arginare i furti, i trafugamenti e le vendite delle opere d’arte da parte del clero, in molte occasioni riuscendo a evitarne la perdita o tornandone in possesso in maniera rocambolesca. Ma il flusso in uscita dei manufatti era difficilmente controllabile, anche a causa di quel vuoto legislativo che impediva un’azione coercitiva seria e diffusa nel territorio. La lentezza con cui si portò a termine la catalogazione del materiale segnò poi un ulteriore fattore di dispersione. Nel giro di pochi anni non si poté che constatare l’avvenuta scomparsa del San Michele arcangelo del Guercino dalla collegiata di San Nicolò a Fabriano; dei quindici quadri di vari autori dal convento di San Martino a Firenze; della tela di Paolo Veronese ad Alessandria; dei dipinti di Girolamo Marchesi a Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Anche in questo caso, mancando una normativa unificante, i singoli municipi non riuscirono a porre un argine alla dispersione che solo a fatica la catalogazione cercava di impedire. Nonostante tutto, fu però proprio grazie all’emergenza e alla necessità di confrontarsi rapidamente con la situazione che essi maturarono di fatto specifiche competenze in materia, riuscendo ad avere un ruolo centrale nella stessa formazione delle nuove raccolte civiche.

L’opera di conoscenza e catalogazione portata avanti dagli eruditi, dagli esperti d’arte, dagli artisti, dagli storici locali nell’ambito delle commissioni conservatrici istituite nel 1875 in tutte le province del Regno fu infatti fondamentale per mappare l’esistente e al tempo stesso per accrescere la funzione di selezione operata dalle istituzioni locali. Laddove il governo centrale, vale a dire il ministero della Pubblica istruzione e per esso la Direzione generale, rinunciava a svolgere un proprio ruolo nel passaggio di proprietà degli oggetti, i municipi e i loro rappresentanti avevano la possibilità non solo di divenire depositari di un nuovo sapere relativo alle testimonianze storiche e culturali del territorio, ma anche di selezionare cosa conservare e cosa liquidare, definendo in parte la natura delle future collezioni civiche. In questo senso si ampliava il protagonismo di soggetti radicati nella sfera locale e operanti per la crescita di una consapevolezza storica e identitaria di grande rilevanza.

Una volta catalogato, schedato, acquisito dalle istituzioni locali, una volta compiuto il transito presso sedi temporanee, il materiale incamerato oltrepassava la soglia del museo civico dove veniva allestito ed esibito. Stessa destinazione trovava spesso anche il materiale librario, assegnato alle biblioteche civiche i cui spazi si intrecciavano con quelli dei musei. Codici antichi, statue, documenti, pitture formavano allora, a Udine come ad Ancona, un tutt’uno in grado di restituire all’occhio del visitatore la storia e la memoria della città e del suo territorio. Laddove biblioteche e musei trovavano destinazioni separate, questi ultimi assumevano varie forme in sedi spesso di grande prestigio. Palazzi comunali, edifici monumentali, sedi restaurate accoglievano gli oggetti stabilendo una stretta continuità tra il potere della città e delle sue classi dirigenti e quello di un passato testimoniato dalla ricchezza del patrimonio custodito. Il Palazzo dei Priori di Perugia, quello dell’Arengo di Ascoli Piceno, l’edificio restaurato da Camillo Boito per il Museo civico di Padova, il Castello Sforzesco per le collezioni milanesi offrirono lo spazio per celebrare un orgoglio civico evocato dai tesori gelosamente conservati. Un forte simbolismo scaturiva allora dalle collezioni, proposte come templi laici di una memoria collettiva che oscillava dalla città alla nazione. Il numero di questi templi nei primi decenni postunitari subì un’esplosione, dovuta proprio all’incameramento dei beni di ex pertinenza religiosa. Che si trattasse del consolidamento di raccolte precedenti, o della formazione di nuove, i musei civici iniziarono ovunque a simboleggiare un’appartenenza profondamente radicata. Da Reggio Emilia a Capua, da Trieste a Lecce, le collezioni civiche divennero depositarie dei frammenti della storia e del genio locale che, riproposti nelle sale, «rivivevano» grazie allo sguardo dei visitatori. La traiettoria che esse testimoniavano attraverso i reperti archeologici, i quadri, le sculture, i documenti, i codici miniati evocava quei valori unitari e di coesione sociale che fondavano l’idea della piccola patria. Gli oggetti nel museo esprimevano l’appartenenza rivendicata dalle istituzioni locali verso altri soggetti – lo Stato, la Chiesa, le altre città – in competizione per la gestione e valorizzazione delle tracce di una storia comune. Questa storia veniva celebrata nelle collezioni civiche, che offrivano un’immagine ricca e peculiare della vicenda storica locale e una rappresentazione esauriente della sua natura e del suo essere tassello fondamentale della nazione.

In questo senso le raccolte cittadine svolsero un’imprescindibile funzione dal punto di vista culturale, esprimendo costantemente la forza di un legame tra piccola e grande patria che veniva ribadito anche nelle più importanti occasioni di partecipazione collettiva: le festività, in primo luogo la festa dello Statuto, le celebrazioni, le commemorazioni, le premiazioni scolastiche costituivano infatti momenti in cui le istituzioni culturali sancivano il proprio ruolo di snodi identitari potenti ed efficaci. Il valore della conservazione civica si esprimeva allora pienamente, ripagando l’impegno che i diversi attori della tutela profondevano in un settore dal potenziale unico e straordinario. Un potenziale che, evocando i fasti e la gloria del passato, fungeva da ammonimento per il presente e il futuro di quella collettività che nelle raccolte si riconosceva e rappresentava. Il significato del patrimonio si dispiegava in questo caso pienamente, restituendo il senso a una storia e a una cultura lette attraverso le lenti originarie dell’urbanità e della comunità.

Il patrimonio della nazione

Da quanto detto finora risulta chiaro il significato molteplice che la costruzione del patrimonio culturale della nazione assunse nei difficili anni successivi all’unificazione. La messa a punto dell’apparato amministrativo dello Stato e la contemporanea formulazione di un senso di appartenenza comune rappresentarono i due poli entro cui la questione del patrimonio si espresse. Percepite come onere da parte del governo, assediato dai costi dei processi di nation-building, le testimonianze della storia e della cultura disseminate nelle varie aree del paese suscitarono l’attenzione delle amministrazioni locali, in cerca di un sistema simbolico nuovo in grado di dar forma al proprio senso di appartenenza. Con la soppressione delle corporazioni religiose e la successiva liquidazione dell’asse ecclesiastico, il patrimonio divenne questione dirompente nell’agenda politica del paese, poiché la sua tutela fu trasformata nell’obiettivo delle rivendicazioni di molti municipi, interessati a gestire oggetti in grado di evocare memorie e tradizioni radicate nei propri territori. In questo senso il patrimonio culturale già di pertinenza religiosa fu al centro di conflitti vari, tesi ad affermare interessi, valori, progetti, aspirazioni diverse a seconda di chi se ne fece interprete e portavoce. Da questi conflitti emersero nozioni e valori che sopratutto la periferia del Regno seppe utilizzare, a vantaggio di una cultura della conservazione che faceva della piccola patria l’orizzonte entro cui evocare anche la grande, in una tensione costante con lo Stato.

Fu in questo processo di scambio, rivendicazione e mediazione che nacque e crebbe un sistema conservativo profondamente radicato nelle singole località, eppure in grado di evocare un universo simbolico specificamente nazional-patriottico. Nei beni d’arte e d’antichità, nei documenti e monumenti del passato, l’identità molteplice della penisola si esprimeva richiamando la peculiarità delle singole vicende urbane e al contempo la specificità di un senso d’appartenenza comune e condiviso. Il duplice significato del patrimonio culturale diveniva così una caratteristica che nei decenni successivi sarebbe maturata, finendo con l’accrescere il valore locale di beni inscritti nell’orizzonte ampio di una patria condivisa.

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