Il pensiero politico della Restaurazione

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Claudio Fiocchi
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Il pensiero reazionario conosce la sua compiuta manifestazione intellettuale nella prima metà del XIX secolo. Veicolato da un gruppo di autori di area francofona (Maistre, Bonald, Lamennais), le cui radici affondano nell’ultimo decennio del secolo precedente (Burke, Barruel), trova importanti riscontri in Spagna, nei Paesi di lingua tedesca e in Italia (Donoso, Haller, Ventura, Taparelli), e si distingue dalla filosofia politica romantica di segno conservatrice tipica dell’età della Restaurazione (Müller, Schlegel, Novalis, Chateaubriand).

Rivoluzione e controrivoluzione

Di “reazione” in termini filosofici e politici si comincia a parlare durante la Rivoluzione francese, quando essa diviene sinonimo di controrivoluzione. Le espressioni più compiute di questa scuola di pensiero emergono tuttavia con la fine della parabola napoleonica, negli anni della Restaurazione.

Occorre quindi tener presente che gli scritti degli autori “reazionari” si suddividono fra quelli composti immediatamente a ridosso della rivoluzione – in cui essa è oggetto di analisi e di confutazione – e quelli con panoramica più ampia, volti a rievocare i caratteri rilevanti del mondo premoderno, che hanno l’evidente finalità di sostenere l’opera restauratrice del Congresso di Vienna e appoggiare la visione politica del suo principale fautore, principe di Metternich.

Per inquadrare meglio lo slittamento da “reazione” a “controrivoluzione” è necessario richiamare lo sviluppo del termine dall’ambito delle scienze naturali, della fisica in particolare, a quello intellettuale-filosofico con marcata accentuazione polemico-politica. La carica reazionaria del tradizionalismo filosofico è in primo luogo, e pressoché esclusivamente, un rabbioso rigetto degli ideali dell’Illuminismo che ruotano attorno a quattro concetti di fondo: individuo, ragione, natura e progresso (da non trascurare è l’anelito al conseguimento di una “felicità” terrena).

La critica a questi ideali fa tutt’uno con la condanna senza appello della loro concreta espressione storico-rivoluzionaria; del resto l’idea del ritorno è già presente nel termine “rivoluzione” ed è proprio nel distacco dal comune ambito fisico-astronomico che “re-azione” marca la differenza con il termine affine. Il termine reactio è già noto nella filosofia medievale e insieme con actio indica i fenomeni di azione reciproca. Nella seconda metà del XVII secolo, la terza legge di Newton sul moto offre una nuova spiegazione oggettiva a ciò che chiunque può osservare: la reazione non è soltanto o semplicemente l’effetto che un corpo produce quando viene sollecitato da un altro, ma è anche uguale – e soprattutto di segno contrario – all’azione. Da Newton, e questa è storia del XVIII secolo, si passa ad applicare il concetto, in senso metaforico, fuori dall’ambito fisico di originaria pertinenza. Nei più diversi campi, dalle scienze naturali alla filosofia morale, “reazione” diventa la risposta a una stimolazione, a un’alterazione di stato, a una rottura di equilibrio o combinazione di elementi. Nel 1788 il lessicografo Féraud nota che i termini “reazione” e “reagire” sono ormai usati per qualsiasi argomento. “Reazionario” segna una nuova tappa nell’evoluzione del lessema originale dalle scienze naturali alla filosofia e alla politica. Esso è storicamente preceduto da “reattivo”, che trova uno dei suoi primissimi impieghi nell’opera di Antoine-François de Fourcroy (Système de connaissance chimique; Sistema di conoscenze chimiche), ma contemporaneamente, passando dal significato neutro di “contraccolpo” a quello polemico di “movimento retrogrado”, la coppia di termini “reazione/reazionario” inaugura la sua fortuna filosofica e politica prequarantottesca.

Anche il liberale Benjamin Constant aveva scritto Le reazioni politiche, e poi Gli effetti del Terrore. Ma per lui la reazione era stata quella messa in atto dal regime del Terrore, forma degenerativa della rivoluzione e ritorno al dispotismo della forza, mentre la rivoluzione del 1789 era stato l’evento necessario, l’origine di una nuova epoca tendente al bene dell’umanità. Tutto al contrario il controrivoluzionario de Maistre iscrive la sua profezia reazionaria direttamente nel segno della Provvidenza.

Joseph de Maistre

Joseph de Maistre

Preoccupazione per i caratteri satanici nella Rivoluzione francese

Considerazioni sulla Francia

C’è nella rivoluzione francese un carattere satanico che la distingue da tutto quello che si è visto finora, e forse da tutto quello che si vedrà.

Si rammentino le grandi assise, i discorsi di Robespierre contro il sacerdozio, la solenne apostasia dei preti, la profanazione degli oggetti di culto, l’inaugurazione del culto della dea Ragione, e quella moltitudine di scene inaudite nel corso delle quali la provincia si sforzò di superare Parigi: tutto ciò esce dall’ambito ordinario del crimine, e sembra appartenere a un altro mondo.

E, nello stesso tempo in cui la rivoluzione si è assopita, i maggiori eccessi sono scomparsi, ma i principî sussistono. I legislatori (per servirmi del loro stesso termine) non hanno forse pronunciato questa frase unica nella storia: La nazione non finanzia alcun culto? Qualche nostro contemporaneo mi è sembrato, in certi momenti, spingersi fino all’odio per la Divinità: ma non è affatto necessario raggiungere questo spaventoso limite per rendere nulli i più grandi sforzi costituenti: il solo oblio del grande Essere (non parlo del disprezzo) comporta un anatema irrevocabile sulle opere umane che ne sono caratterizzate. Ogni istituzione immaginabile poggia su di una idea religiosa, altrimenti non è che transitoria: Esse sono forti e durature nella misura in cui sono divinizzate, se è permesso esprimersi così. Non solo la ragione umana, ovvero ciò che si definisce filosofia, senza sapere quello che si dice, non può supplire a quelle basi che si definiscono superstiziose, sempre senza sapere ciò che si dice; ma la filosofia è proprio, al contrario, una potenza disorganizzatrice.

In una parola, l’uomo non può rappresentarsi il Creatore che mettendosi in rapporto con lui. Per quanto fossimo insensati, se noi volessimo riflettere in uno specchio l’immagine del sole, lo volgeremmo verso la terra?

Queste riflessioni sono rivolte a chiunque, al credente come allo scettico: è un fatto quello che io sostengo, e non una tesi. Non importa che si rida delle idee religiose o che le si venerino: nondimeno esse formano, vere o false, l’unica base di ogni istituzione duratura.

Rousseau, l’uomo che forse più di ogni altro s’è ingannato, si è tuttavia imbattuto in questa osservazione, senza aver voluto tirarne le conseguenze.

La legge giudaica, dice Rousseau, che sussiste tuttora, e quella del figlio d’Ismaele che da undici secoli regge la metà del mondo, celebrano ancora oggi i grandi uomini che le hanno dettate... l’orgogliosa filosofia e il cieco spirito di parte non vedono in essi che degli impostori fortunati. Non gli restava che concludere, invece di parlarci di quel grande e possente genio che presiede alle istituzioni durevoli: come se questa poesia spiegasse qualcosa!

Riflettiamo sui fatti attestati dalla storia intera; scorgeremo che, nella catena degli umani eventi, dalle più grandi istituzioni che hanno segnato la storia, fino alla più piccola organizzazione sociale, dall’impero fino alla confraternita, tutte hanno una base divina, e la potenza umana, ogni volta che se ne è distaccata, non ha potuto dare alle sue opere che un’esistenza effimera e fasulla: che cosa dovremmo pensare del nuovo organismo francese e della potenza che l’ha prodotto? Per quanto mi riguarda, non crederò mai alla fecondità del nulla.

Sarebbe interessante approfondire successivamente le nostre istituzioni europee, e mostrare come siano tutte cristiane; come la religione, mescolandosi a tutto, animi e sostenga tutto. Le passioni umane hanno un bel da infangare e snaturare le più antiche creazioni; se il principio è divino, ce n’è abbastanza per assicurare loro una durata prodigiosa. Fra mille esempi, si potrebbero citare gli ordini militari. Certamente non si farà torto ai membri che li compongono affermando che l’obiettivo religioso non è il primo a cui mirano: non importa, essi perdurano, e ciò è prodigioso. Quanti spiriti superficiali se la ridono di questo strano amalgama fra monaco e soldato! Sarebbe invece il caso di estasiarsi di fronte a quella forza nascosta, grazie alla quale questi ordini hanno percorso i secoli, schiacciato potenze formidabili, e resistito a colpi che ancora non cessano di stupirci. Ora, questa forza è il nome sul quale si fondano queste istituzioni; poiché infatti, nulla è se non per Colui che è.

I controrivoluzionari, a cura di C. Galli, Bologna, Il Mulino, 1981

Maistre, savoiardo non alieno da un’iniziale simpatia per la Rivoluzione francese, rimane profondamente colpito dalla celebre opera di Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione francese, che esercita un’enorme influenza sugli ambienti dell’emigrazione politica e da cui Maistre trae ispirazione per propugnare il ritorno all’antica costituzione di Francia nelle Considerazioni sulla Francia.

Se le nostre moderne costituzioni devono anche alla Francia degli anni immediatamente successivi alla rivoluzione l’idea stessa di una Carta costituzionale scritta come legge fondamentale dello Stato, il pensiero controrivoluzionario – cui il movimento del tradizionalismo francese appartiene – esalta l’idea di un ordinamento frutto della tradizione storica (costituzione non scritta), dove la permanenza di antichi retaggi e costumi non è che il segno tangibile di un assetto sociale e politico di stampo feudale, con le sue gerarchie, i suoi privilegi, le sue “libertà”. La lotta al razionalismo “astratto” del pensiero illuministico, prima, e rivoluzionario, poi, e l’attaccamento al mondo feudale (fondato sulle istituzioni naturali, a partire dall’autorità paterna fino a quella religiosa, passando attraverso il potere del monarca e del ceto della nobiltà e dell’alto clero) prendono le forme dell’organicismo politico, una concezione secondo la quale una comunità è un organismo vivente, la cui messa in forma è compito di una Provvidenza che agisce tramite il suo inviato, il monarca, che assume le caratteristiche di pontefice. Legittimismo e monarchia per diritto divino dei re sono i due pilastri del pensiero maistriano – e reazionario in generale – tradotto in rivendicazione politica.

Ma il tradizionalismo di de Maistre assume una particolare colorazione teocratica e ultramontanistica grazie all’antica convinzione, risalente agli ultimi anni Settanta, e ribadita ancora nella tarda Lettera sullo stato del Cristianesimo in Europa, della necessità di un’unica Chiesa cattolica, che in sé riunisca tutte le confessioni – un risultato da ottenersi anche operando entro le logge massoniche (funzione religiosa della massoneria).

Nell’organicismo di Maistre, il dominio è la vera espressione della volontà organizzatrice e ordinatrice di Dio. L’uomo e la società sono inseriti nella natura per diretta volontà di Dio. Solo in questo senso, e non certo nella linea inaugurata da Grozio, si può parlare di un giusnaturalismo di Maistre, di un suo “naturalismo cristiano”, mentre emerge a tutto tondo un radicalismo occasionalista che non ammette distinzione fra “ordine naturale” e “natura dell’uomo”, e per il quale il miracolo non è altro che la punta dell’iceberg del costante, diretto intervento divino sul mondo. Non è previsto nessuno spazio per un rapporto autonomo, cioè libero e razionale, dell’uomo con la natura; è questo il motivo filosofico di fondo che differenzia la concezione maistreiana non solo dal contrattualismo moderno, ma dallo stesso assolutismo inteso come organizzazione politica secolarizzata fondata sull’accentramento delle funzioni statali nel re.

Nel Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche , Maistre precisa con rigore didattico come tutto ciò che si pone al di fuori del diretto intervento provvidenziale sia solo “errore, putrefazione e nulla”. Dio è la mano “infallibile, superiore all’uomo” che guida e organizza la caduta nello spazio degli innumerevoli elementi che compongono la realtà fisica e politica. L’opera prediletta dall’autore, Le serate di san Pietroburgo, redatta durante il soggiorno in Russia al servizio dello zar, reca l’eloquente sottotitolo di Colloqui sul governo temporale della Provvidenza: nulla avviene per caso e dal vocabolario di Maistre è bandito il termine “fortuna”. Nel disegno arcano della Provvidenza è compreso anche il disordine; la stessa Rivoluzione, popolata da esseri “infernali” come Robespierre e veri “demoni meridiani” come Napoleone, è opera di Dio, è il castigo diretto contro l’orgoglio manifestato dagli uomini nel secolo dei Lumi e della Ragione. Il pessimismo di Maistre (il peccato originale sta alla base della sua antropologia negativa) lo induce a tratteggiare un’ipotesi di redenzione a seguito della catarsi rivoluzionaria: la Restaurazione ha per Maistre il suo senso integrale nel ripristino a tutti gli effetti del potere del papato, dell’ordine ecumenico medievale della cristianità. È il solo modo per rendere “naturale” la sovranità e quindi battere in breccia, alla radice stessa, l’idea di resistenza al potere. Lo scritto Del Papa, in cui Maistre teorizza l’assolutismo pontificio, non solo finisce per creare un comprensibile imbarazzo alla monarchia borbonica, restaurata anche sulla base di una parziale accettazione del costituzionalismo moderno, ma rappresenta anche un attacco frontale alla Russia che lo ha ospitato e al romanticismo mistico e per qualche tratto illuminato di Alessandro I. L’opera è infatti dedicata alla confutazione punto per punto delle Considerazioni sulla dottrina e lo spirito della Chiesa ortodossa, redatte da Alexandre Stourdza e ispirate da un altro esponente del romanticismo tedesco, Franz von Baader, teorico della necessità di una Chiesa universale e sostenitore dell’incontro interreligioso fra le tre confessioni.

Louis de Bonald

Il gallicano Bonald, se da un lato non condivide l’entusiasmo per la teocrazia papale, dall’altro accoglie e accentua per quanto possibile i principali aspetti del pensiero di Maistre con un’intensa opera di pubblicista (fonda la rivista “Le Conservateur”, con Lamennais e Chateaubriand), nonché con un assiduo attivismo come pari di Francia fra il 1815 e il 1830 (ottenendo l’abolizione del divorzio).

Bonald giustifica la “necessità dello scandalo rivoluzionario” con uno stile rigoroso e austero fin dalla Teoria del potere politico e religioso nella società civile, e ribadisce il primato del “noi” sociale contro l’“io” individualista – appoggiandosi anche a Pascal nella Dimostrazione filosofica del principio costitutivo della società. “L’uomo esiste solo per la società e la società non lo forma che per se stessa”: la società religiosa impone il suo modello, divinamente ispirato, alla società politica, venendo così a costituirla. Lo schema di Bonald è “triadico” e nella Legislazione primitiva egli espone il significato della “proporzione generale”: “Il potere sta al ministro come il ministro sta al suddito; proporzione non è altro che la traduzione, in un linguaggio relativo alla società, di questa altra proporzione generale, espressa in linguaggio più astratto e analitico: la causa sta al mezzo come il mezzo sta all’effetto. Il potere, il ministro, il suddito si definiscono le persone della società”.

Bonald individua nel linguaggio il principio generatore anche della società: in diretta polemica con il convenzionalismo e il sensismo di Condillac, nega che il linguaggio sia un insieme di segni frutto di un’autonoma capacità operativa della mente umana. Al contrario, secondo Bonald, il linguaggio è l’espressione di idee necessarie che esso rivela, proprio come un raggio di luce rivela la presenza di oggetti fisici: “l’uomo pensa la propria parola prima di parlare e di esprimere il proprio pensiero. [...] L’uomo conosce la parola prima di parlare: la riceve e non la inventa”. Dunque siamo di fronte all’intervento diretto di un “essere superiore all’uomo” che tramite il linguaggio mette in collegamento le idee e le menti.

Al centro delle Ricerche filosofiche sui primi oggetti delle conoscenze morali, opera anch’essa composta nei primi anni della Restaurazione, torna il concetto di tradizione come unico veicolo per ripristinare la fede in Dio detronizzata dalla “moderna filosofia” (alla quale Bonald oppone l’“assoluta impossibilità” di ottenere un vero sistema filosofico, a causa dello spirito di indipendenza che caratterizza l’uomo). Con tale concetto torna anche l’idea della nuova sottomissione dei popoli all’autorità del monarca, espressione dell’autorità divina. Ancora una volta l’alleanza fra trono e altare è espressa in termini filosofico-politici con la necessità di instaurare un nuovo e più saldo legame fra religione e politica.

Félicité de Lamennais

Quella di Lamennais è figura complessa: a lungo considerato il campione dell’ortodossia cattolica per le sue posizioni rigidamente ultramontane, oltre che reazionarie, nell’imminenza della rivoluzione del 1830 si schiera a fianco del nascente cattolicesimo liberale; dopo avere subito la condanna papale con l’enciclica Mirari vos del 1832, è tra i fondatori de “L’Avenir” insieme a Montalembert, Lacordaire, De Coux e nel 1834 pubblica le Parole di un credente. Con l’avvicinarsi del 1848, abbraccia l’idea di democrazia sociale; è per due volte deputato all’Assemblea costituente e redattore di “Le Peuple constituent”. Negli ultimi anni della sua vita si fa sempre più aspro lo scontro con la Chiesa di Roma. Il filo rosso della sua intera riflessione è il continuo richiamo agli autentici ideali cristiani.

L’antisoggettivismo e l’anticartesianesimo stanno alla base del pensiero del primo Lamennais, come dimostrano il Saggio sull’indifferenza in materia di religione, ma anche – con segni di attenuazione del rigore ultramontanista – La religione nei suoi rapporti con l’ordine politico e civile . Sotto il titolo spregiativo di soggettivismo Lamennais pone tutto l’arco teorico che va dal materialismo sensista alla metafisica kantiana, a cui contrappone la tradizione e l’autorità del senso comune.

Al centro del Saggio sull’indifferenza in materia di religione, la sua opera principale, risalente ai primi anni della Restaurazione, sta l’idea dell’indissolubile legame che deve unire la politica alla religione: solo grazie alla loro azione congiunta sarà possibile una riscossa a fronte del binomio, attualmente imperante, di ateismo e rivoluzione. Emblema di una tale condizione è il sentimento di indifferenza nei confronti della religione che caratterizza l’epoca; anzi quest’ultima è percorsa da ben tre “sistemi dell’indifferenza” che, con caratteristiche diverse, rappresentano tutti l’esito di una situazione di “tolleranza” scaturita tanto dal principio protestante del libero esame quanto dalle dottrine illuministiche prima e rivoluzionarie poi.

Félicité Robert de Lamennais

Mediocrità contro Talento

La religione considerata nei suoi rapporti con l’ordine politico e civile

Nelle democrazie la mediocrità ha più successo del vero talento, soprattutto quando questo si unisce ad un carattere nobile. L’adulazione, il servilismo, la bassezza, una falsa abilità malleabile e paziente, conducono più sicuramente al successo che il genio e la virtù, presso quei popoli che si definiscono liberi. D’altronde il genio, e lo stesso talento, anche se avessero qualcosa di elevato, incontrerebbero troppe difficoltà, troverebbero troppi ostacoli ad impiegarsi in uno Stato democratico. Per conseguire un risultato importante, per realizzare delle grandi cose, il tempo è indispensabile, così come la coerenza nei consigli. Questa perseveranza è propria dei governi aristocratici; essi non dormono mai, non si stancano mai, non abbandonano mai un disegno già concepito: tutto, al contrario, viene lasciato al caso, per foga o per capriccio, nelle democrazie; per questo, non hanno mai avuto altro splendore che quello delle armi, né altra prosperità che la conquista.

Il cristianesimo aveva creato la vera monarchia, sconosciuta agli antichi; la democrazia, presso un grande popolo, distruggerebbe inevitabilmente il cristianesimo, perché un’autorità suprema ed invariabile nell’ordine religioso è incompatibile con un’autorità che muta continuamente nell’ordine politico. Il cristianesimo conserva tutto, fissando tutto; la democrazia distrugge tutto, destabilizzando tutto. Sono due principî che si combattono senza tregua nello Stato: un principio di unità e di stabilità, un principio di divisione e di cambiamento perenne; e come nessuna società potrebbe uscire dai suoi binari fin quando il principio che la regge e che ha presieduto alla sua costituzione sussiste con tutta la sua forza, così nessuna monarchia cristiana può degenerare in democrazia senza che il principio religioso non abbia subito prima una profonda alterazione. Sempre e necessariamente la rivoluzione cominciata nella Chiesa, passa in seguito nello Stato, che a sua volta la compie nella Chiesa. È in questo modo che si sono viste nascere e stabilire in Europa, coi governi o dispotici o repubblicani, le religioni nazionali o civili, che altro non sono se non un ateismo camuffato.

L’uguaglianza assoluta, ovvero la distruzione di ogni gerarchia sociale, non lasciando sussistere altre distinzioni che quelle della fortuna, produce un’estrema cupidigia, un’insaziabile sete d’oro; poiché, per quanto si dica, gli uomini vogliono innalzarsi, vale a dire, distinguersi: e poiché anche la ricchezza partecipa alla mobilità del governo e della società intera, essa diventa corruttrice al sommo grado. I desideri senza limiti e senza regole si precipitano verso tutto ciò che promette oro, sola nobilità ormai, solo onore, sola considerazione; e in questo rapido movimento, mancando a tutti il tempo per imparare a possedere, tutti si gettano nei godimenti con una sorta di furore. Nessuna previdenza per i propri cari, nessun pensiero per l’avvenire; il presente è tutto per l’uomo concentrato nell’abiezione dei sentimenti personali, e le leggi e i costumi tendono di conseguenza all’annientamento della famiglia.

Nel disordine universale, ognuno cerca con ansia il posto dovuto al suo merito, ai suoi servizi, ai suoi bisogni o alla sua cupidigia. Da ciò innumerevoli pretese, mormorii, lamentele, odî appassionati, in uno sfondo generale d’accidia e di scontento che cresce senza misura. Per calmarlo, per offrire, almeno come speranza, un pascolo ai desideri che divorano il popolo, uno scopo fisso e attuale alle passioni che lo agitano, lo si getta, secondo le circostanze, nella guerra o nel gioco; lo si attira alla borsa, o lo si spinge sui campi di battaglia; si moltiplicano gli spettacoli, le lotterie e le case da gioco; lo si corrompe in ogni modo per mettersi al riparo dalla sua corruzione.

I controrivoluzionari, a cura di C. Galli, Bologna, Il Mulino, 1981

Carl Ludwig von Haller

Lo svizzero Haller, di nobili origini e già alla fine del XVIII secolo al servizio della Casa d’Austria, diventa membro del Gran Consiglio della città di Berna non appena, con il Congresso di Vienna, il regime aristocratico torna al potere. Successivamente compone la Restaurazione della scienza politica, opera che eserciterà grande influenza anche sulla cultura politica tedesca e in particolare prussiana. La concezione patrimonialistica dello Stato sostenuta da Haller è nutrita della storia delle antiche città elvetiche e ispirata dal modello delle tradizionali istituzioni svizzere: è alle “antiche libertà repubblicane”, e non certo alla repubblica alla francese, di stampo egualitario, ch’egli guarda; ma la definitiva preferenza è accordata alla monarchia assoluta.

Haller è particolarmente radicale nel porre alla base del suo sistema “naturale” (e “razionale” sui generis) il rapporto signoria-servitù. Nella Restaurazione della scienza dello Stato leggiamo che “l’autorità e l’obbedienza non dipendono dalla volontà dell’uomo: l’effetto della legge è universale, necessario e indistruttibile come tutto ciò che viene da Dio. [...] Il sovrano patrimoniale esiste da prima del suo popolo, anziché averne ricevuto il potere; la sua autorità riposa sulla propria potenza e sul proprio diritto. [...] Sulla doppia base dell’indipendenza e della proprietà fondiaria egli non governa, in fondo, altro che i suoi affari”.

La natura, spiega Haller, è ancora ciò che era migliaia di anni fa e la subordinazione gerarchica, che le è caratteristica, è “antica come il mondo”; la natura insegna che i sovrani sono anzitutto signori, cioè proprietari fondiari. Lo Stato è bene privato della corona e da questa premessa discende tutta la concezione patrimonialistica del teorico bernese.

Contro lo Stato moderno, Haller “restaura” i rapporti di dipendenza diretta di tipo signorile e feudale: i sudditi sono legati al principe da un rapporto disuguale e dipendente, mentre la società è una scala di obbligazioni personali che s’innalza fino a Dio.

Juan Donoso Cortés

Il percorso di Donoso Cortés va da una giovanile adesione al liberalismo fino alla posizione reazionaria e decisionista: il riconoscimento della necessità storica della dittatura controrivoluzionaria.

Dal Discorso sulla dittatura al Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Donoso Cortés espone la convinzione che l’unico modo per arginare la secolarizzazione e l’avanzata della sua forma estrema, il socialismo, non sia più il richiamo al legittimismo d’ ancien régime, bensì l’appello a una forza non meno potente di quella del nemico da battere. È qui che il ragionamento dell’autore si ricollega al significato originario, fisico, del termine “reazione”, nel tentativo estremo di sanare, con misure eccezionali, il “male grave e profondo che corrode l’Europa” di metà secolo: il venir meno dell’autorità divina e umana. La visione di Donoso Cortés è apocalittica: la storia è manifestazione dello scontro di forze opposte e irriducibili. Bisogna prendere atto che “la vita sociale, come la vita umana, si compone di azione e reazione, del flusso e riflusso di forze che invadono e di altre che resistono”; la dittatura si impone in maniera “chiara, luminosa, indistruttibile”.

Juan Donoso Cortés

Scuole liberali e scuole socialiste

Saggio sopra il cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo

Quanto alla scuola liberale, considerata in generale, non è teologica se non nel grado in cui lo sono necessariamente tutte le scuole. Senza fare una esposizione esplicita della propria fede, senza curarsi di dichiarare il suo pensiero intorno a Dio e all’uomo, al male e al bene, all’ordine e al disordine in cui si trovano tutte le cose create, ed ostentando invece la sua noncuranza per queste profonde speculazioni, si può affermare che la scuola liberale crede in un Dio astratto o indifferente, che nel governo delle cose umane è servito dai filosofi, nel governo universale delle cose da certe leggi che ha istituito al principio dei tempi. Benché re della creazione, il dio di questa scuola ignora perpetuamente, con augusta ignoranza, il modo in cui sono governati e retti i suoi regni. Quando elesse i ministri perché governassero in suo nome, dette loro la pienezza della sua sovranità e li dichiarò perpetui ed inviolabili. Da allora fino ad oggi i popoli gli devono culto, ma non obbedienza.

Per quel che riguarda il male, la scuola liberale lo nega nelle cose fisiche e lo riconosce nelle umane. Per questa scuola, tutte le questioni relative al male o al bene si riducono ad una questione di governo, e ogni questione di governo ad una questione di legittimità; di modo che il male è impossibile quando il governo è legittimo e, al contrario, quando è illegittimo, il male è inevitabile. La questione del bene e del male si riduce dunque ad accertare, da una parte, quali sono i governi legittimi, e dall’altra quali gli usurpatori. (...)

Le scuole socialiste, fatta astrazione dalle masse ignare che le seguono, e considerate per i loro dottori e maestri, prevalgono sulla scuola liberale, precisamente perché affrontano direttamente tutti i grandi problemi e tutte le grandi questioni e perché propongono sempre una risoluzione perentoria e decisiva. Il socialismo è forte solo perché è una teologia satanica. Le scuole socialiste, per quello che hanno di teologico, prevarranno sulla liberale per ciò che questa ha di antiteologico e di scettico; e per quello che hanno di satanico, soccomberanno davanti alla scuola cattolica, che è insieme teologica e divina. Gli istinti dei socialisti devono essere d’accordo con le nostre affermazioni, se si considera che per il cattolicesimo nutrono odio, mentre per il liberalismo hanno solo disprezzo.

Il socialismo democratico ha ragione contro il liberalismo quando dice: Che Dio è quello che offri alla mia adorazione e che deve essere al di sotto di te, dato che non ha volontà e non è nemmeno una persona? Io nego il Dio cattolico, ma negandolo lo concepisco; ciò che non posso comprendere è un Dio senza i divini attributi. Tutto mi fa credere che gli hai dato l’esistenza solo perché ti dia la legittimità che non hai; la tua legittimità e la sua esistenza sono una finzione che cavalca su un’altra finzione, e un’ombra che cavalca su un’altra ombra. Io sono venuto al mondo per dissipare tutte le ombre e per farla finita con tutte le finzioni. La distinzione tra la sovranità attuale e quella costituente ha tutte le apparenze di una invenzione di coloro che, non avendo il coraggio di prenderle ambedue, vogliono prenderne almeno una. Il sovrano è come Dio: o è uno o non esiste. La sovranità è come la divinità, o non esiste, oppure è indivisibile ed incomunicabile. Legittimità della ragione sono due parole, delle quali l’ultima indica il soggetto e la prima l’attributo; io nego l’attributo e il soggetto. Che cosa è la legittimità e cosa la ragione? E anche se sono qualche cosa, come sai che questa cosa sta nel liberalismo e non nel socialismo, in te e non in me, nelle classi agiate e non nel popolo? Io nego la tua legittimità e tu la mia; tu neghi la mia ragione ed io la tua.

I controrivoluzionari, a cura di C. Galli, Bologna, Il Mulino, 1981

Gioacchino Ventura e Luigi Taparelli d’Azeglio

Il tradizionalismo del primo Lamennais esercita particolare influenza sul legittimismo italiano, nell’ambito del quale spicca Monaldo Leopardi con i suoi Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831. Qui il propugnato ritorno all’economia rurale riecheggia anche toni bonaldiani.

Il palermitano Gioacchino Ventura elabora in maniera più originale le teorie lamennaisiane, sforzandosi di innestare gli elementi portanti della riflessione del controrivoluzionario francese nel tronco della filosofia scolastica della cui restaurazione egli si pone, a metà secolo, come alfiere. Dopo il 1830 risente tuttavia della svolta in senso liberale attuata da Lamennais e nello scritto Dello spirito della rivoluzione e dei mezzi di farla cessare tratteggia una teocrazia democratica in cui si conferma la supremazia della Chiesa sullo Stato. Un’ispirazione giobertiana e neoguelfa risalta dal Discorso funebre per i morti di Vienna, in cui Ventura chiede alla Chiesa di marciare con i popoli guidandone affettuosamente il cammino; l’autore aderisce inoltre al progetto di Rosmini per una confederazione degli Stati italiani sotto l’autorità pontificia.

Il programma del gesuita Luigi Taparelli è una restaurazione politica all’insegna dei principi della scolastica. L’obiettivo della sua argomentazione filosofica è la ricomposizione dell’unità tra metafisica, morale e diritto compromessa dal protestantesimo e da tutto ciò che a esso è seguito, cioè i principi di individualismo, razionalismo e indipendenza. Nel Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, Taparelli respinge l’idea del contratto sociale e della sovranità del popolo, della moltitudine. Egli sostiene che l’autorità, cioè il principio di unificazione della società corrispondente all’anima nell’uomo, esiste in virtù di una legge naturale e necessaria che trova origine in Dio. La sovranità è sacra, mentre la società esiste come mezzo per il perfezionamento individuale. Nel 1850 Taparelli fonda con Carlo Maria Curci “La civiltà cattolica”.

Conclusioni

Il pensiero reazionario conosce quindi due fasi distinte: quella di diretta critica, contestazione e confutazione delle idee propagandate dalla Rivoluzione francese e una fase più tarda, quella, per dir così, della ricostruzione, in cui i diversi autori, con differenti modalità, agiscono in funzione di supporto all’opera della Restaurazione. La riproposizione di miti, concetti e modelli rievocativi dell’età feudale e medievale, più che la finalità di un impossibile ritorno al passato, ha quella di contestare globalmente l’organizzazione moderna dello Stato e in particolare la sua centralizzazione. Il binomio Riforma protestante / Rivoluzione francese testimonia al meglio il loro rifiuto della modernità: i due eventi storici non solo sono entrambi oggetti di critica violenta, ma sono soprattutto intesi come un continuum; la rivoluzione è l’esito ultimo del libero esame propugnato dalla Riforma. Di qui l’appello all’ortodossia cattolica e a un possibile ruolo politico del papato. Al riguardo, da ricordare in conclusione è il fenomeno delle numerose conversioni dal protestantesimo al cattolicesimo di cui sono protagonisti molti intellettuali tedeschi negli anni della Restaurazione. Tra costoro, Friedrich Schlegel e Adam Müller, esponenti del romanticismo politico maturo, dalle cui pagine si colgono motivi di assoluta consonanza con gli autori del tradizionalismo francese fautori di una riscossa cattolica.

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