Il Rinascimento. La medicina

Storia della Scienza (2001)

Il Rinascimento. La medicina

Nancy Siraisi
Andrea Carlino

La medicina

La medicina come disciplina

di Nancy Siraisi

Nel XV e nel XVI sec. la medicina occupava un posto importante tra le discipline di insegnamento. Dotata di un'estesa letteratura specializzata nonché di proprie, prestigiose auctoritates antiche, essa costituiva una rispettata branca del sapere da tempo saldamente istituzionalizzata nelle università. In un'epoca in cui si cominciavano ad abbattere le barriere tradizionali tra le varie discipline e andavano emergendo nuovi campi del sapere scientifico, la medicina, pur conservando il proprio ruolo tradizionale, era aperta all'innovazione, tanto da promuoverla. Lo status peculiare di questa disciplina emerge con chiarezza qualora la si confronti con quelle branche del sapere che nel Rinascimento avevano qualcosa in comune con essa. A differenza della magia naturale e dell'alchimia ‒ discipline in espansione che si dedicavano anch'esse, tra le altre cose, allo studio e alla manipolazione del corpo umano sia sano sia malato ‒ la medicina non aveva aspetti illeciti di cui doversi liberare; a differenza della botanica e della storia naturale, che proprio in questo tempo venivano acquisendo una loro autonomia nei confronti della stessa medicina, non doveva crearsi uno spazio disciplinare autonomo.

Naturalmente, la medicina non costituiva solo un corpus di conoscenze, ma rientrava anche in un complesso modello sociale di risposta alla malattia. Numerose testimonianze dimostrano che il ricorso ai medici e alle loro pratiche era ampiamente diffuso, e che quindi, presumibilmente, si aveva fiducia nei loro confronti.

Ma la società rinascimentale ricorreva in larga misura anche ad altri mezzi per curare le malattie acute, croniche o epidemiche. Le autorità pubbliche avevano infatti cominciato a manifestare una crescente attenzione per i problemi riguardanti la salute e la malattia (particolarmente nell'area del controllo delle epidemie). Gli individui, specialmente nei contesti urbani e nei ceti medio-alti della società, non esitavano a consultare i medici professionisti, ma risolvevano i loro problemi di salute anche ricorrendo ad altri mezzi, quali la preghiera, l'autocura e l'assistenza fornita da parenti e da amici. Inoltre, vi era tutta una schiera di erboristi, astrologi, guaritori, fattucchieri e consiglieri religiosi pronti a fornire spiegazioni, consigli o rimedi. Quando si aveva bisogno di un'assistenza medica professionale, ci si poteva rivolgere non soltanto ai medici laureati nelle università, ma anche ai numerosi medici che avevano ricevuto un'educazione informale e che erano qualificati sprezzantemente dai primi come 'empirici', nonché ai barbieri chirurghi, ai cerusici e ai farmacisti. Considerata come branca del sapere, la medicina del XV e del XVI sec. rappresentava la continuazione e il massimo sviluppo di quella disciplina ippocratico-galenica che si era andata formando nell'Europa occidentale nel corso del Tardo Medioevo, ma allo stesso tempo si caratterizzava per una serie di radicali innovazioni sul piano delle idee, della letteratura, del tipo di approccio all'indagine sulla Natura e dei metodi di insegnamento. Le innovazioni più significative si sono verificate nel corso del Cinquecento, secolo in cui l'Umanesimo, le correnti filosofiche alternative all'aristotelismo, la scoperta di realtà geografiche extraeuropee e la diffusione della stampa hanno avuto un profondo impatto sulla medicina, così come su tanti altri aspetti della cultura scientifica. A sua volta, un nuovo interesse verso le scienze descrittive ha favorito ed è stato alimentato da una serie di sviluppi interni alla medicina nel campo dell'anatomia e della botanica, nonché dai dibattiti sulle cause e sui mezzi di trasmissione della malattia. L'immagine della medicina rinascimentale è stata spesso associata a questi sviluppi del XVI sec.; oggi, tuttavia, gli storici tendono sempre più a mettere in risalto i fondamentali cambiamenti verificatisi già nel corso del XV sec., epoca che non può essere relegata in un indifferenziato Medioevo medico.

Le trasformazioni in questione peraltro hanno avuto luogo per la maggior parte all'interno di un sistema preesistente. Sino alla fine del XVI sec., con l'importante eccezione di Paracelso (1493-1541) e di alcuni dei suoi seguaci, era raro che si giungesse a rifiutare in blocco la dottrina medica galenica o l'insegnamento basato sullo studio e sul commento dei testi antichi. Al contrario, semmai la dipendenza dalle idee e dai metodi terapeutici della medicina dell'antica Grecia (e in particolar modo da Galeno) si era andata rafforzando. Non soltanto lo studio dei testi antichi aveva conservato un ruolo centrale nei corsi universitari, ma gran parte dell'erudizione medica si era impegnata a fornire testi migliori (attraverso emendationes, edizioni critiche, nuove traduzioni, ecc.). Tuttavia lo studio attento dei testi antichi ora si associava ‒ come mai era accaduto in passato (a partire dallo stesso Galeno) ‒ a una più forte attenzione per la Natura, per la descrizione esatta, per i particolari osservativi. Integrazioni, modifiche e critiche parziali dei classici si sono andate moltiplicando, fino a diventare così numerose da assumere nel loro complesso il carattere di una vera e propria trasformazione. Nessuno di questi sviluppi ha avuto peraltro un impatto significativo sulla terapia, che è mutata ben poco nel periodo in questione (e per lungo tempo ancora).

Inoltre, alla fine del Cinquecento così come agli inizi del Quattrocento, la medicina continuava a essere condotta sui testi antichi, che non erano, però, più gli stessi: la versione medievale arabo-latina della medicina galenico-ippocratica era stata quasi interamente sostituita dalle nuove traduzioni degli originali greci. Tra le più significative conquiste della medicina rinascimentale si annoverano la conoscenza integrale e diretta (per la prima volta nell'Europa occidentale) del patrimonio di testi della medicina greca; l'affermarsi dell'anatomia e della botanica come discipline scientifiche, sempre più indipendenti dagli Antichi e, nel caso della botanica, dalla medicina stessa; infine, una critica sostanziale di alcuni aspetti della fisiologia e dell'anatomia galeniche. Concludendo, occorre sottolineare che la formazione medica in molti casi forniva quel patrimonio scientifico (e una fonte di sussistenza) a quanti contribuirono pionieristicamente allo sviluppo di nuovi campi del sapere: ne sono esempi Agricola (Georg Bauer, 1494-1555), autore del De re metallica, e William Gilbert (1540-1603), autore del De magnete.

Certo, non tutti coloro che esercitavano la professione medica hanno partecipato in egual misura a questa trasformazione. Sebbene ancora oggi si sappia di più su un ristretto numero di innovatori e sulle istituzioni maggiori che non sui centri e sui medici di minor rilievo, alcuni studi hanno contribuito ad ampliare il quadro storico della medicina e delle discipline affini. Senza dubbio, infatti, in diversi casi, l'apertura all'innovazione (spesso recepita in forma modificata o parziale) è dovuta a fattori sociali oltreché intellettuali. La posizione geografica, l'accesso all'informazione, il contesto istituzionale, la religione, l'atteggiamento dei mecenati o dei pazienti, le esigenze del mercato medico sono tutti fattori che possono aver influito su un certo sviluppo di questa disciplina. Così, per esempio, l'interesse per lo studio della filosofia naturale condiviso da alcuni professori italiani di medicina trovava scarso riscontro in Inghilterra, mentre la medicina paracelsiana in un primo tempo ha attratto soprattutto i medici 'empirici' dei paesi dell'Europa settentrionale. Gli interessi e le esigenze di prìncipi, nobili ed élites hanno avuto un ruolo importante sia nella sfera pubblica sia in quella privata. Molti medici e chirurghi erano al servizio di prìncipi, e le loro attività come medici di corte possono essere forse considerate come esempi di scienza praticata in un ambiente circoscritto ed elitario. L'influenza esercitata dall'intervento di prìncipi o di autorità municipali sullo studio della medicina nelle università è attestata da numerosi esempi, soprattutto per quanto riguarda l'assegnazione delle cattedre. Inoltre, la folta schiera di medici empirici del XV e del XVI sec. con tutta probabilità è rimasta in gran parte estranea alle innovazioni o alle controversie che hanno interessato l'ambiente medico accademico. La nostra rassegna dovrà necessariamente limitarsi alle principali linee di sviluppo, che peraltro non esauriscono completamente l'articolato e variegato quadro della medicina rinascimentale.

Con la funesta peste pandemica della metà del Trecento (v. La scienza bizantina e latina, cap. XXVI, par. 4) si aprì un'epoca di epidemie ricorrenti. Nell'arco di tempo esaminato in questo capitolo il quadro delle patologie europee sarebbe stato dominato dalla peste (termine che indica sia la peste bubbonica sia varie altre malattie epidemiche manifestatesi nel XV e nel XVI sec.). In Italia, negli anni Settanta del Cinquecento, si ebbero epidemie particolarmente gravi, che devastarono Venezia, Milano e altre città (un'altra terribile epidemia di peste sarebbe seguita negli anni 1630-1631). Sembra ipotizzabile che all'epoca in Europa vi fosse anche un'alta incidenza della tubercolosi. Inoltre, molti contemporanei tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento arrivarono alla convinzione che la loro epoca fosse afflitta da numerose forme morbose sino ad allora sconosciute. Tra queste si pensava rientrassero, per esempio, alcune epidemie come il morbo cui fu dato il nome di 'sudore anglico' e lo scorbuto, che si verificava, in occasione di carestie e di assedi, fra gli strati più poveri della popolazione, nonché durante lunghi viaggi per mare. A partire dalla fine del Quattrocento il morbus Gallicus divenne una delle minacce più gravi per la salute, dapprima in forma epidemica e poi in forma endemica (piuttosto che parlare di 'sifilide venerea' sembra preferibile usare uno dei numerosi termini con cui la malattia era designata dai contemporanei, poiché allora non era riconosciuto il cosiddetto periodo terziario e la sifilide non era chiaramente distinta da altre malattie a trasmissione sessuale).

Senza dubbio, a seguito dell'epidemia di peste del XIV sec. ai medici furono rivolte aspre critiche ‒ di solito di ordine morale più che scientifico ‒ per la loro incapacità a fronteggiare l'emergenza; tuttavia per la medicina, così come per altri aspetti della cultura europea, la crisi della metà del Trecento si dimostrò solo temporanea. All'inizio del XV sec. alcuni medici, tra cui Jacques Despars (1380-1458) e Ugo Benzi (1360 ca.-1439) ‒ entrambi autori di estesi e dotti commentari al Liber canonis di Avicenna ‒ furono altrettanto rinomati tra i contemporanei quanto lo erano stati i loro predecessori circa un secolo prima. Inoltre, dall'invenzione della stampa sino agli anni Venti del Cinquecento, gran parte dell'estesa letteratura medica che si era andata sviluppando dalla fine dell'XI sec. ‒ traduzioni di trattati ippocratici e galenici, la cosiddetta Articella, traduzioni in latino di testi di medicina araba, nonché scritti di autori latini ‒ fu divulgata attraverso ripetute edizioni a stampa. Alcune opere medievali ebbero vita assai più lunga, e ciò vale in particolare per il Liber canonis di Avicenna, la cui traduzione latina continuò a essere ristampata sino al XVII secolo.

La tendenza più significativa che si può individuare nella medicina del XV sec., sia in Italia sia in Germania, è una crescente attenzione per gli aspetti pratici e per i dati dell'esperienza. La letteratura concernente la practica, in effetti, aveva già una tradizione ben consolidata, in parte perché alcune opere di Galeno lette nel Medioevo riguardavano le malattie e la cura, così come gran parte della letteratura medica araba. Nel fare appello all''esperienza' raramente si operava una distinzione tra le descrizioni fornite dalle antiche auctoritates e le conoscenze dirette. Tuttavia gli scritti accademici di alcuni medici del XV sec. rivelano, rispetto a quelli dei loro predecessori, una maggiore inclinazione a presentare informazioni derivate dall'esperienza personale e dalla pratica quotidiana dell'autore. Nel corso del XV sec. si moltiplicano i trattati sulla peste e le raccolte di consilia ai pazienti. I trattati sulla peste, che hanno fatto la loro prima comparsa a seguito della pandemia del XIV sec., hanno continuato a essere scritti o aggiornati finché il morbo è stato presente in Europa (soltanto tra il 1480 e il 1599 sono stati pubblicati a Strasburgo ben ventuno trattati di questo tipo, in latino e in tedesco). I manuali di consigli pratici contro il morbo gallico, che hanno iniziato a comparire verso gli anni Novanta del Quattrocento, rispondevano a un'esigenza del tempo. Alcuni illustri medici del XV sec. hanno lasciato collezioni di centinaia di consilia. Anche se il contenuto di questi trattati è spesso altamente standardizzato, essi erano scritti sulla base dei problemi sanitari dell'epoca e della considerazione di casi particolari (cosa che non implicava necessariamente un contatto personale con il paziente, visto che i consilia potevano essere il frutto di consulti tra medici per iscritto). Oltre a ciò, alcuni medici colti redassero i loro trattati per soddisfare le esigenze di singoli mecenati o di un gruppo selezionato di pazienti o lettori. Per esempio, Michele Savonarola (1384-1468 ca.) ‒ che in qualità di professore di medicina a Padova era anche autore di numerosi trattati di practica ‒ scrisse un manuale dietetico in volgare per Borso d'Este, signore di Ferrara, e un manuale sulla gravidanza e sulla puericultura dedicato alle donne di Ferrara. I consigli elargiti in questi due trattati erano essenzialmente quelli presenti nelle tradizionali auctoritates scolastiche, ma erano presentati in modo tale da rispondere alle esigenze specifiche dei contemporanei, ossia, nella fattispecie, di preservare la salute tra le crescenti raffinatezze della tavola e dello stile di vita delle corti rinascimentali, e di favorire la procreazione nelle famiglie cittadine.

L'interesse per i dati dell'esperienza e per i fenomeni locali fu alimentato anche dal gusto per le meraviglie e i prodigi della Natura, che portò alcuni medici italiani a descrivere le proprietà terapeutiche di determinate sorgenti d'acqua minerale. Come suggerisce questo esempio, la crescente attenzione per i multiformi fenomeni dell'esperienza metteva in risalto quegli aspetti della medicina che erano meno riducibili a una scientia nel senso aristotelico del termine, ossia basata su argomentazioni logiche in grado di condurre a conclusioni universali. Ciò potrebbe aver contribuito a rafforzare gli elementi descrittivi della medicina, e a renderla nel contempo più aperta alle spiegazioni basate sull'astrologia e sulla magia naturale. Il medico fiorentino Antonio Benivieni (1443-1502), interessato a collezionare le 'meraviglie nascoste' della Natura, ci ha lasciato un singolare resoconto della sua personale esperienza. Nel suo De abditis nonnullis ac mirandis morborum et sanationum causis ha descritto accuratamente le malattie insolite in cui si era imbattuto, nonché le guarigioni ottenute con rimedi straordinari, ma naturali, oppure per miracolo divino. Tuttavia, sebbene Benivieni considerasse il morbo gallico e la possessione demonica come le più funeste epidemie del suo tempo, per la maggior parte delle malattie e delle guarigioni descritte non invocava cause magiche (naturali o demoniache). La sua tendenza a evitare spiegazioni di tipo magico e astrologico ‒ e a privilegiare l'idea che le cause di molte malattie e guarigioni fossero semplicemente sconosciute ‒ può forse essere ricollegata alle sue convinzioni religiose, in quanto seguace di Girolamo Savonarola (di cui si ricorderanno gli attacchi all'astrologia). Nel secolo successivo, il barbiere chirurgo francese Ambroise Paré (1510-1590), affascinato anche lui dalle meraviglie della Natura, con il suo Des monstres (1573), oltre alla descrizione di alcuni animali fantastici e alla convinzione che certi tipi di nascite anormali fossero il frutto di una maledizione divina, fornì un accurato resoconto di numerose altre malformazioni che per contro attribuiva a cause naturali.

L'Umanesimo, che ben presto avrebbe pervaso ogni aspetto della cultura rinascimentale, ha cominciato a esercitare un'influenza significativa sulla medicina solo nell'ultimo ventennio del XV secolo. Ovviamente, nelle città italiane si sono avuti assai prima esempi di rapporti personali tra medici ed esponenti dell'Umanesimo letterario. Petrarca, nonostante stigmatizzasse le pretese intellettuali dei medici, ha avuto un'intensa corrispondenza epistolare improntata all'amicizia e alla stima con Giovanni Dondi (1330 ca.-1388), professore di medicina a Padova, astronomo, astrologo e costruttore di un orologio astronomico, l'astrarium, di cui lasciò una dettagliata descrizione nel Tractatus astrarii. Tuttavia, il programma dell'Umanesimo medico, nell'Italia settentrionale, ha cominciato a prender forma negli anni Ottanta del Quattrocento, per diffondersi ben presto in Francia (specialmente nell'Università di Parigi), nei paesi di lingua tedesca e, per un certo tempo, in Spagna. Sono stati i medici umanisti anglosassoni, in particolare Thomas Linacre (1460-1524) e John Caius (1510-1573), a introdurre la nuova medicina presso i loro compatrioti. L'Umanesimo medico era caratterizzato essenzialmente dallo sforzo di recuperare integralmente, dapprima in edizioni manoscritte e successivamente stampate, tutti i testi originali della medicina antica (in particolare il corpus ippocratico e le opere di Galeno); dalla preparazione e dalla pubblicazione di nuove traduzioni in latino umanistico dei testi greci; infine dal rifiuto di gran parte del passato più recente, in particolare delle auctoritates arabe, dei traduttori medievali e degli stessi magistri scolastici. A parte alcuni casi, in cui i testi della medicina antica sono stati oggetto d'attenzione da parte di alcuni importanti filologi (ne sono esempi Angelo Poliziano e Giuseppe Scaligero), solitamente erano i medici stessi a cercare i manoscritti originali, a curare l'edizione dei testi e ad approntare nuove traduzioni. Essi lo facevano perché consideravano i testi come una fonte di saggezza medica pratica, tanto da arrivare talvolta a mettere in discussione le interpretazioni basate su argomentazioni puramente filologiche, come peraltro attesta la controversia tra un gruppo di medici e Giuseppe Scaligero (1540-1609) sul trattato di Ippocrate De capitis vulneribus.

Una delle figure più influenti è stata quella di Niccolò Leoniceno (1428-1524), professore di medicina all'Università di Ferrara, proprietario di una notevole collezione di manoscritti di medicina greca, al quale si devono alcune delle prime traduzioni umanistiche dei trattati di Galeno. Nel 1492, Leoniceno ha pubblicato un trattato dal titolo De Plinii et plurium aliorum medicorum in medicina erroribus, in cui affermava con vigore la posizione umanistica fondamentale (dando altresì origine a una controversia), asserendo che non solo gli autori arabi e i loro traduttori medievali, ma anche il naturalista romano Plinio ‒ un'auctoritas latina classica tenuta in grande considerazione ‒ avevano frainteso il vocabolario botanico greco, tramandando sui rimedi informazioni confuse e prive di valore. La controversia avviata da Leoniceno probabilmente ha agito come stimolo per la pubblicazione nel 1498 di una delle prime, importanti opere della medicina antica in greco, il De materia medica di Dioscuride. Tuttavia, soltanto negli anni Venti e Trenta del Cinquecento i testi della medicina greca divennero accessibili in quantità maggiore. Le prime edizioni aldine in lingua originale delle opere complete di Galeno e del corpus ippocratico sono state pubblicate rispettivamente nel 1525 e nel 1526. A queste e ad altre successive edizioni dei testi della medicina greca hanno fatto seguito numerosissime nuove traduzioni in latino (l'editio princeps più o meno integrale del corpus ippocratico è di fatto una nuova traduzione latina apparsa nel 1525, un anno prima dell'edizione greca). Tra i principali testi che nel Medioevo erano completamente sconosciuti o conosciuti solo parzialmente, e che divennero accessibili, vi sono l'edizione integrale delle Epidemiae di Ippocrate e le opere di anatomia di Galeno (il De anatomicis administrationibus appare in edizione latina nel 1531). Il trattato sulle Epidemiae è uno degli esempi più significativi di scienza greca basata sull'osservazione, ma il suo impatto immediato non deve essere sopravvalutato, visto che comunemente erano letti soltanto i Libri I e III e per di più alla luce dell'interpretazione galenica. Nel corso del XVI sec. sono state pubblicate più di seicento edizioni delle opere di Galeno. Tuttavia questo non ha significato un completo trionfo dell'Umanesimo medico e del nuovo galenismo, nemmeno nell'ambiente universitario. Alcune opere arabo-latine continuarono a essere stampate e lette, apprezzate e difese per la loro utilità pratica, mentre i curricula in molte università (e parte dei curricula di tutte le università), nonostante alcuni cambiamenti, rimasero estremamente conservatori.

Di fatto l'Umanesimo medico impresse una svolta allo studio critico dei testi e all'indagine filologica, in quanto gli studi eruditi e testuali erano tenuti in grande considerazione dagli esponenti della medicina umanistica, profondamente convinti che l'interpretazione fedele delle opere antiche fosse la chiave per una corretta conoscenza della teoria e per un adeguato esercizio della pratica medica. Di conseguenza, i commentari come genere di letteratura medica conobbero un rinnovato sviluppo. I professori del XVI sec. misero sotto accusa i metodi dell'esegesi scolastica utilizzati tra il XIII e il XV sec. nei commentari alle opere mediche ‒ divisione dell'argomento, ragionamento sillogistico, elenchi di obiezioni e di risposte ‒ e li abbandonarono in larga misura in favore di una forma espositiva più semplice e retorica. Nondimeno, al pari dei loro predecessori, anch'essi basavano l'insegnamento prevalentemente sull'esposizione dei testi, ed erano prolifici autori di commentari. In ciò essi prendevano a modello lo stesso Galeno, i cui commentari ad alcune opere di Ippocrate erano grandemente apprezzati nel Rinascimento. Egli era talmente ammirato come commentatore che nel XVI sec. sono stati prodotti alcuni falsi dei suoi perduti commentari a certi testi ippocratici.

L'approccio primariamente filologico dell'Umanesimo medico, lungi dall'essere una parentesi marginale, ha avuto conseguenze scientifiche e pratiche di vasta portata per la medicina del XVI secolo. Per esempio, sebbene vi fossero molteplici fattori all'origine dell'interesse rinascimentale per l'anatomia (v. par. 2), esiste una stretta connessione tra la nuova attenzione per gli scritti anatomici di Galeno e le critiche mosse da Andrea Vesalio (1514-1564) nei suoi confronti. In questo, come in molti altri casi, sono state le edizioni e le traduzioni umanistiche a far nascere e a fornire gli strumenti per la contrapposizione tra l'antica scienza descrittiva e l'esperienza moderna. Analogamente, la filologia umanistica ha stimolato una serie di tentativi, peraltro non sempre riusciti, di affinare il vocabolario tecnico per renderlo più preciso. Infatti, giacché le fonti della medicina medievale erano in lingue diverse (greco, arabo e latino), ne erano risultate numerose ambiguità nel vocabolario tecnico in uso ed era stato difficile identificare i vari nomi delle malattie e delle piante medicinali usati dalle venerate auctoritates greche. Per citare solo un esempio, Vesalio si proponeva non solo di correggere la dottrina anatomica di Galeno, ma anche di istituire una coerente nomenclatura anatomica grazie all'invenzione di un sistema di numerazione (anziché di denominazione) dei muscoli e alla compilazione di liste di nomi per le ossa equivalenti nelle diverse lingue. A seguito degli sforzi degli editori e dei commentatori umanistici, inoltre, verso la seconda metà del XVI sec. ha cominciato a svilupparsi un atteggiamento più critico rispetto alle questioni circa l'autenticità e l'attribuzione dei testi della medicina antica.

Nel corso del tempo gli autori medievali hanno cessato di essere il principale oggetto di critiche, ormai sempre più spesso rivolte alle stesse antiche auctoritates della medicina. Così, per esempio, una lunga controversia, sviluppatasi negli anni Trenta e Quaranta del XVI sec., sulla teoria e sul metodo del salasso è condotta nei termini di una contrapposizione tra 'Arabi' e 'Greci'. Sostanzialmente, la questione dibattuta con complicate argomentazioni relative ai processi di 'derivazione' e di 'revulsione' era se l'emorragia dovesse essere provocata in una vena vicina oppure distante dalla parte ammalata. Nella seconda metà del Cinquecento, però, l'esempio di Andrea Vesalio, che aveva contestato l'anatomia galenica, incoraggia Gerolamo Cardano (1501-1576) a definire Galeno un cattivo interprete di Ippocrate, e Giovanni Argenterio (1513-1572) a mettere in discussione le sue teorie sulle cause e sui sintomi delle malattie. In molti casi, tuttavia ‒ e ciò vale sia per Vesalio sia per Cardano ‒ le critiche a Galeno erano presentate come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più antica e, si presumeva, più 'autentica'.

La medicina era inoltre sensibile all'influsso delle correnti filosofiche provenienti da un più ampio contesto culturale. Infatti, anche se da prospettive differenti, sia la medicina che la filosofia naturale si occupavano del corpo umano, tanto che una conveniente preparazione per l'educazione medica accademica era generalmente tenuta a includere lo studio della filosofia naturale. Sebbene dunque su alcune specifiche questioni i seguaci del galenismo avessero posizioni nettamente distinte da quelle dei filosofi naturali aristotelici, entrambi avevano però in comune una formazione generale di tipo aristotelico. In Italia, dove esisteva una lunga tradizione istituzionale e intellettuale che collegava la medicina alla filosofia (v. La scienza bizantina e latina, cap. XXVI, par. 1), alcune città come Padova erano sedi di importanti centri di aristotelismo rinascimentale oltre che di illustri scuole di medicina. Diversi filosofi aristotelici, assai famosi, attivi in queste istituzioni tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento erano laureati sia in filosofia sia in medicina ‒ come per esempio Pietro Pomponazzi (1462-1525) ‒ o avevano insegnato entrambe le discipline in fasi successive della loro carriera. Nella seconda metà del Cinquecento, Jacopo Zabarella (1533-1589) dedicò grande attenzione alle tematiche e ai problemi attinenti la medicina, mentre, a loro volta, insigni medici nei loro scritti si sono occupati diffusamente degli aspetti filosofici della medicina. Né gli interessi filosofici erano incompatibili con un approccio pratico. Per esempio, Giovanni Battista da Monte (1498-1551), professore all'Università di Padova celebre per essere stato uno dei primi a praticare l'insegnamento clinico al letto del malato, in alcune delle sue lezioni sul Liber canonis di Avicenna si è occupato estesamente di tematiche attinenti alla filosofia naturale, dimostrando una notevole conoscenza delle dottrine aristoteliche (cfr. da Monte, In primam fen primi Canonis Avicennae explanatio, 1554, ff. 25r-35r). Né l'aristotelismo né il galenismo costituivano un corpus dottrinale monolitico, bensì entrambi erano in grado di inglobare diversi tipi di interpretazione e di varianti. Nel campo della fisiologia, in cui le posizioni di Aristotele e di Galeno divergevano, i medici di solito sostenevano le dottrine di quest'ultimo, anche se le linee di demarcazione erano tutt'altro che rigide.

La medicina è stata inoltre influenzata da una serie di tentativi di riformare l'insegnamento filosofico e dal diffondersi di filosofie non aristoteliche. In alcune università tedesche si sono creati stretti legami istituzionali tra anatomia e filosofia. La convinzione di Filippo Melantone ‒ l'umanista e riformatore religioso le cui teorie pedagogiche hanno avuto grande influenza sulle università della Germania luterana ‒ secondo cui l'anatomia avrebbe dovuto essere parte integrante della filosofia della Natura, si rifletteva sia sul suo trattato sull'anima, sia sul curriculum delle Facoltà delle arti a Wittenberg e altrove. L'influenza del neoplatonismo rinascimentale e delle teorie relative all'esistenza di forze occulte nella Natura è evidente ‒ per citare solo un esempio ‒ nel ruolo esercitato dagli spiriti celesti nella fisiologia e nella patologia di Jean-François Fernel (1497-1558), professore di medicina a Parigi (v. oltre). Successivamente Melchiorre Guilandino (1520 ca.-1589), prefetto dell'orto botanico all'Università di Padova, ha espresso nei suoi scritti amicizia e ammirazione per Francesco Patrizi (1529-1597), platonico eclettico e filosofo ermetico. L'atomismo antico era fra le fonti cui si ispirava sia l'idea di Girolamo Fracastoro (1483 ca.-1553) riguardo ai 'semi' delle malattie (v. oltre), sia, a quanto sembra, il successivo tentativo del botanico Prospero Alpino (1553-1616) di far rivivere all'Università di Padova l'antica setta dei medici metodici (De medicina methodica libri tredecim). Oggetto di discussione tra i medici erano anche i presunti poteri delle streghe e la possibilità che le malattie fossero causate dall'intervento dei demoni, considerati, nel XVI sec., argomenti seri dal punto di vista scientifico e di immediata rilevanza pratica.

L'interesse di illustri intellettuali del Rinascimento per le scienze occulte, l'astrologia e varie forme di magia naturale contribuirono con molta probabilità a rafforzare ulteriormente il tradizionale legame tra medicina e astrologia, che forse non era mai stato così forte come nel XV e nel XVI secolo. Determinate credenze e pratiche medico-astrologiche (per es., l'idea che i vari pianeti controllassero le diverse fasi della gravidanza o le malattie di certe parti del corpo, l'associazione fra certi corpi celesti e particolari rimedi, o il calcolo dei 'giorni critici' di un'infermità in base alle fasi lunari) erano assai diffuse, normalmente accettate e persistenti. Nel caso di alcuni medici, invece, le credenze occulte o astrologiche, derivate dalle fonti umanistiche, potrebbero aver influenzato il loro pensiero nel suo complesso. Così, per esempio, il regime per la salute guidato dagli astri, raccomandato dal filosofo neoplatonico e medico Marsilio Ficino (1433-1499) nel suo De vita, ha esercitato una profonda influenza sul medico francese Symphorien Champier (m. 1539 o 1540). Invece, l'importante critica all'astrologia espressa in questo periodo ‒ in particolare il veemente attacco di Pico della Mirandola (1463-1494) ‒ probabilmente ha avuto una minor influenza sull'ambiente medico, in quanto gli stessi critici di questa disciplina spesso facevano un'eccezione riguardo alla sua presunta utilità per la medicina. Nel frattempo, la stampa aveva contribuito ad ampliare la diffusione di immagini medico-astrologiche sotto forma di pamphlets e opuscoli a buon mercato, come per esempio alcuni dei primi trattati sul morbo gallico, tra cui una famosa illustrazione di Albrecht Dürer. Nel corso di questi due secoli si è continuato ad asserire ripetutamente il valore dell'astrologia per la medicina: molti astrologi esercitavano o avevano studiato anche medicina, mentre le spiegazioni e le predizioni concernenti la salute e la malattia costituivano aspetti importanti della pratica astrologica.

Al suo interno lo studio della medicina era diviso in vari modi. I curricula universitari conservavano la tradizionale bipartizione tra medicina teorica e pratica, sebbene alcuni medici nei loro scritti riproponessero la classica divisione in cinque rami: fisiologia, semeiotica, patologia, igiene e terapia. L'insegnamento della medicina teorica consisteva in alcuni principî fondamentali e in un compendio di fisiologia galenica. Nonostante alcuni aspetti estremamente conservatori (per es., la discussione di certe quaestiones che appartenevano alla tradizione già nel XIII sec. o in epoca ancora antecedente), quest'area dello studio e dell'insegnamento della medicina era tutt'altro che statica. La fisiologia e l'anatomia come materie di studio per molti aspetti coincidevano, o meglio, non erano completamente distinte. Di conseguenza, sia i medici impegnati in ragionamenti speculativi sui testi, sia gli anatomisti che praticavano la dissezione (e la vivisezione) affrontavano in parte gli stessi argomenti e, a partire dalla seconda metà del XVI sec., i loro approcci si influenzarono reciprocamente. Questo è il caso, per esempio, di una serie di discussioni sulla relazione tra il polso arterioso e il movimento del cuore. Specialmente nell'ambito della fisiologia cardiovascolare le differenze tra la dottrina aristotelica e quella galenica in merito a questioni quali il primato del cuore, la natura del polso arterioso e le sue relazioni con il movimento cardiaco, il ruolo dello spiritus e del calore innato, hanno ingenerato dispute per tutto il XVI secolo. Per esempio Andrea Cesalpino (1524 ca.-1603), professore di medicina all'Università di Pisa e successivamente alla Sapienza di Roma, nonché medico di papa Clemente VIII, è stato un rinomato esponente dell'aristotelismo (oltre che un importante botanico). Cesalpino ha pubblicato per la prima volta il suo resoconto sul transito del sangue nei polmoni (che talvolta è stato erroneamente interpretato come riferito all'intera circolazione sanguigna) nel contesto di un'argomentazione mirata a sostenere, contro Galeno, la posizione aristotelica (Peripateticarum quaestionum libri quinque, f. 111v). Le discussioni mediche e le ricerche anatomiche sul cuore e sul sangue condotte all'Università di Padova e in altre università italiane nel Cinquecento sono state alla base degli importanti sviluppi avvenuti nel secolo successivo nel campo della fisiologia.

Nonostante l'intensità del dibattito sulla fisiologia condotto in alcuni circoli di studiosi, le materie su cui i medici concentravano principalmente la loro attenzione erano la diagnostica e la terapeutica. In termini di curricula universitari, tutti gli aspetti di queste due discipline, insieme ad alcuni principî basilari, erano insegnati come una parte della branca nota come practica. Inoltre diagnostica e terapeutica non erano solo, com'è ovvio, i principali ambiti di interesse della pratica effettiva, ma anche argomenti centrali del dibattito medico sia all'interno sia all'esterno del mondo accademico. L'attenzione si andava focalizzando su due problematiche fondamentali: le cause delle malattie e i metodi propri della medicina. Sebbene anche i primi trattati sulla peste si fossero soffermati sulle cause del morbo, l'interesse per questa problematica si andò intensificando nell'ultimo decennio del XV sec. a seguito della prima grande epidemia di morbo gallico, e restò vivo per gran parte del secolo successivo. I medici espressero le loro opinioni sia in pamphlets divulgativi con consigli e informazioni, sia in trattati di maggiori ambizioni teoriche.

L'origine di determinate forme morbose costituiva uno dei principali argomenti di discussione, poiché, come abbiamo già osservato, sia i medici sia i pazienti erano convinti di trovarsi di fronte a malattie epidemiche del tutto nuove. Oltre alla classificazione di molti tipi di febbre, la medicina ippocratico-galenica aveva fornito un vocabolario tradizionale per i nomi delle diverse 'malattie' (morbi), il quale in genere rifletteva l'identificazione di un complesso di sintomi. Alcuni autori pertanto, tra cui Niccolò Leoniceno, spinti dall'incondizionata ammirazione per la grecità tipica dell'Umanesimo, asserivano che tutte le forme morbose erano già state descritte dai Greci e che, di conseguenza, ogni malattia apparentemente sconosciuta in realtà doveva essere solo una forma nuova di una specie nosologica già identificata nell'Antichità. Altri autori, invece, accettavano semplicemente il fatto che malattie differenti potessero apparire in diverse epoche storiche o in corrispondenza di diverse condizioni astrologiche; altri ancora ritenevano che ogni regione del globo avesse le proprie malattie tipicamente locali, così come una propria fauna e una propria flora. Nella generazione seguente all'epidemia degli anni Novanta del Quattrocento, quest'ultima idea avrebbe portato alcuni autori a sostenere un'origine americana del morbo gallico (la dinamica effettiva della diffusione mondiale della sifilide venerea presenta tuttora molti lati oscuri; in ogni caso, il contatto tra civiltà diverse nella prima Età moderna ebbe conseguenze assai più funeste per gli indigeni americani che non per gli Europei).

Negli anni Quaranta del Cinquecento Fernel ha avanzato un'altra teoria per spiegare le cause di alcune malattie insolite, sconosciute o epidemiche. Spostando l'accento dal ruolo svolto dagli umori e dal temperamento individuale a quello dello spiritus, egli sovvertiva la tradizionale dottrina galenica di stampo razionalistico sulle cause dei fenomeni morbosi. Secondo la fisiologia galenica, tre varietà di spiritus (pneuma) ‒ una sostanza materiale estremamente sottile, simile ma non identica al respiro ‒ sarebbero preposte rispettivamente alla funzione vitale del corpo umano, a quella psichica (motoria, sensoria e cognitiva) e a quella naturale (di fatto la terza varietà di spiritus, quella naturale, preposta alla crescita, alla nutrizione e alla riproduzione, rappresentava un'integrazione posteriore rispetto alla teoria galenica originaria). Nel trattato De abditis rerum causis Fernel sosteneva che oltre alle tre varietà fisiologiche di spiritus, vi fossero degli spiriti celesti di origine divina che defluivano dal cielo nel corpo umano. A suo parere, questi spiriti celesti erano all'origine di tutte le funzioni vitali e, in certi casi, potevano anche produrre un'affezione della 'sostanza complessiva', assai diversa ‒ e assai più grave ‒ dei fenomeni morbosi causati da uno squilibrio umorale.

Il problema correlato, di come e attraverso quali mezzi si diffondessero le epidemie, ha acquisito un'importanza di primo piano nei numerosi trattati sulla peste che hanno cominciato a essere scritti a partire dal XIV secolo. Per spiegare la comparsa e la diffusione delle epidemie di peste era invocata una gerarchia di cause, nessuna delle quali escludeva le altre. Come causa ultima, naturalmente, era indicata la volontà divina; tra quelle naturali ma remote rientravano le condizioni astrologiche; quelle prossime e naturali invece includevano l'aria corrotta o miasma e il temperamento individuale, il quale faceva sì che alcuni contraessero il morbo e che altri, al contrario, ne restassero immuni. Inoltre, in alcuni trattati scritti a cavallo tra il XV e il XVI sec., si menzionava il contagio, senza per questo escludere la spiegazione basata sulla corruzione dell'aria. 'Contagio' era infatti un termine piuttosto vago e generico, che poteva indicare anche l'effetto derivante dall'aver respirato l'aria infettata dalle esalazioni delle vittime del morbo.

Nel corso del XVI sec. nessuna di queste spiegazioni era stata abbandonata, anche se l'attenzione si andava sempre più focalizzando sulle modalità concrete di trasmissione della malattia, e su teorie che facevano riferimento a qualità occulte (ovvero qualità impercettibili ai sensi) e a varie forme di azione a distanza. Sia negli scritti dei medici sia in quelli dei profani era stato ben presto riconosciuto che il rapporto sessuale costituiva il principale mezzo di trasmissione del morbo gallico. Tuttavia un tale riconoscimento continuava a coesistere con varie spiegazioni alternative: altre forme di contatto (per es., tra balie e neonati), un veleno trasmesso dal rapporto con un lebbroso o con una donna mestruata, fattori astrologici, uno squilibrio umorale o temperamentale del paziente stesso, e così via. Una caratteristica del pensiero medico del XVI sec. era che nelle discussioni sulla trasmissione della malattia, come su altri argomenti, si combinassero fra di loro una pluralità di teorie e di livelli di spiegazione (pochi dei quali interamente nuovi). Un procedimento simile è evidente nella formazione e nella ricezione della più famosa teoria sul contagio elaborata in questo periodo, quella del medico veronese, filosofo della Natura e poeta Girolamo Fracastoro, secondo la quale il contagio sarebbe stato trasportato nell'aria da 'semi' invisibili (seminaria).

La tesi di Fracastoro, formulata compiutamente per la prima volta nel De contagione (1546), è stata spesso interpretata anacronisticamente come un'eccezionale, e all'epoca incompresa, anticipazione della 'teoria del contagio' (Fracastoro è anche famoso come autore di un poema che diede al morbus Gallicus il suo nome moderno, sifilide, che peraltro entrò nella terminologia usuale solo nel secolo successivo). Fracastoro, però, non era che uno dei partecipanti a un dibattito corrente. Le sue spiegazioni in merito alle cause della malattia includevano non solo l'ipotesi del contagio attraverso i seminaria, ma anche i principî della simpatia, dell'antipatia e della putrefazione. Per il suo concetto di seminaria (che egli considerava entità 'occulte' di natura puramente ipotetica, le quali non avrebbero mai potuto essere percepibili dai sensi) Fracastoro si rifà sia agli atomisti antichi conosciuti attraverso Lucrezio, sia ad alcuni occasionali accenni di Galeno ai 'semi' delle malattie.

In seguito, come ha messo in luce Vivian Nutton, vari contemporanei di Fracastoro ne hanno riecheggiato le idee e il linguaggio, mescolandoli però semplicemente ad altre parallele spiegazioni della trasmissione della malattia che facevano riferimento alla putrefazione, ai miasmi, alle differenze dei temperamenti individuali, e così via.

Gli aspetti di un'interpretazione sociale delle cause delle malattie presenti nelle spiegazioni mediche non possono essere disgiunti dalle credenze dominanti proprie della società d'élite nel suo complesso. In che misura nel corso del XVI sec. il morbo gallico diventasse oggetto di stigmatizzazione sociale (così come un tempo lo era stata la lebbra) è ancora argomento di discussione tra gli studiosi. La forma più comune di stigmatizzazione nella letteratura medica era il presupposto automatico che le prostitute fossero dei veicoli piuttosto che delle vittime della malattia. Inoltre, mentre tutti i medici condividevano in genere l'idea che la volontà divina fosse la causa ultima di tutte le malattie, alcuni, specialmente nel particolare clima religioso che caratterizzò la fine del secolo, consideravano le malattie trasmesse sessualmente come una specifica punizione dei peccati carnali. Certuni imputavano la diffusione del morbo agli strati più poveri della popolazione, considerati socialmente pericolosi ‒ i "furfanti e vagabondi […] dissoluti e oziosi", come ebbe a descriverli il chirurgo inglese William Clowes (A profitable and necessarie booke of observations, p. 149).

Sebbene i dibattiti rinascimentali sulle epidemie segnino in qualche misura il passaggio a una concezione della malattia più spiccatamente ontologica, non si dovrebbe assolutamente sopravvalutare la portata di questa trasformazione. Il fatto che si prestasse maggiore attenzione a un'idea della malattia considerata come entità invasiva, non significa che venisse attribuita minore importanza al ruolo della fisiologia individuale del paziente (ossia agli umori e ai temperamenti); tanto più che i medici spesso prevedevano la possibilità che una determinata 'malattia' si trasformasse in un'altra. Inoltre, sebbene fiorissero le discussioni sull'adeguata definizione dei concetti di 'malattia' e di 'sintomo' e sulla loro differenziazione, le distinzioni semantiche che ne risultavano erano applicate in modo ampiamente arbitrario (Argenterio, Varia opera de re medica).

L'interesse che i medici del XVI sec. rivolgono al problema di un metodo specifico per la loro disciplina rientra in un più generale interessamento ai problemi di metodo e di riforma delle procedure, quale risulta anche nella dialettica, nella retorica e nella filosofia naturale del Rinascimento. Gli sforzi in questa direzione nel campo della medicina segnalano un diverso atteggiamento nei confronti del significato intellettuale attribuito ai particolari dei singoli casi. In sostanza, il problema che gli scritti sul metodo tentavano di affrontare era come mettere in relazione i molteplici particolari propri dei singoli pazienti, delle malattie, delle terapie e dei fattori ambientali con la medicina come sistema dottrinale. In sé non era un problema nuovo, in quanto sin dal XIII sec. si era discusso sotto forma di quaestiones standard se la medicina fosse una scienza o un'arte, e si era preso in esame il rapporto tra medicina teorica e medicina pratica. Gli scolastici di solito risolvevano tali questioni affermando con qualche variante la tesi secondo cui nella sua componente teorica la medicina è una scienza nel senso aristotelico del termine ‒ ossia una disciplina che attraverso ragionamenti sillogistici arriva a verità universali ‒ mentre nella sua componente pratica è un'arte. Al contrario gli autori del Cinquecento tendevano a essere fortemente influenzati dalle idee di Galeno sul metodo della medicina. Le tesi contenute al principio della Ars medica (il trattatello che per lungo tempo costituì uno dei testi base dell'insegnamento universitario) vennero interpretate da Leoniceno come un'esposizione delle diverse forme di un metodo specificamente medico (distinto da quello della scienza speculativa). Nel suo grande trattato sul metodo, De methodo medendi, lo stesso Galeno insisteva sull'importanza di un 'metodo di cura' generale tale da poter essere applicato a ogni caso particolare. Di conseguenza, alcuni autori rinascimentali ribadirono l'unità della medicina (sia che fosse definita come una scienza sia come un'arte), e si considerarono dispensatori di regole appropriate per insegnare e per esercitare la pratica medica. Infatti è stato dimostrato che l'interesse di Giovanni Battista da Monte nell'insegnamento clinico al letto del paziente, derivava dalla sua fede nell'unità della medicina e dalla convinzione che fosse importante utilizzare un metodo corretto. Per quanto riguarda la diagnosi, la prognosi e la terapia (a differenza di quanto accadeva, per es., per l'anatomia o la botanica), raramente però era possibile trovare singoli elementi che ampliassero o contraddicessero in modo univoco le antiche dottrine. Di conseguenza, di solito si mirava semplicemente a trovare metodi per analizzare e ricondurre a un ordine la molteplicità e la casualità di eventi contingenti attraverso regole derivate dalle antiche auctoritates o codificate sulla base di principî dialettici (per es., attraverso varie forme di divisione, talvolta espresse in diagrammi). Il reale e principale interesse degli autori di opere sul metodo era di tipo pedagogico: qualora infatti fosse stato possibile insegnare delle regole valide, allora gli studenti che se ne fossero impadroniti avrebbero avuto la possibilità di trovare la strada tanto per la giusta prognosi quanto per il trattamento corretto di qualsivoglia malattia.

In realtà, sebbene nel corso del XV e del XVI sec. l'insegnamento della medicina pratica abbia subito una serie di trasformazioni, tali cambiamenti sono stati tutt'altro che sistematici. In molte università i testi o la descrizione dei corsi prescritti per l'insegnamento della practica hanno continuato a consistere principalmente ‒ come era stato per secoli ‒ in un compendio delle malattie di tutte le parti del corpo secondo il classico ordinamento a capite ad calcem (dalla testa ai piedi). Ma a partire dalla seconda metà del XVI sec., a Padova e in altre università, le lezioni canoniche hanno iniziato a essere ampiamente integrate ‒ e in alcuni casi sostituite ‒ da una forma di insegnamento privato più specializzato e concentrato sugli aspetti pratici della medicina.

Nell'ultimo decennio del Cinquecento, l'Università di Padova ospitava molti studenti tedeschi, attirati in Italia dall'opportunità di ricevere un tirocinio pratico, in contrapposizione all'insegnamento basato esclusivamente sullo studio dei testi (Bylebyl 1979). Sia all'interno sia al di fuori delle università, il tirocinio medico e l'accesso alla professione dipendevano in misura significativa dal rapporto personale tra lo studente e l'insegnante. Gli studenti che avevano un legame particolarmente stretto con i loro maestri ne curavano la compilazione delle raccolte di consilia, prendevano appunti sulle loro lezioni e li riordinavano per la pubblicazione, ne davano alle stampe le opere postume e potevano sperare di ereditarne in parte la reputazione, lo status professionale e la clientela. L'uso di annotare dettagli sul decorso e sugli esiti della malattia nei casi individuali, sebbene ancora poco diffuso tra i medici del XV e del XVI sec., era incrementato rispetto ai due secoli precedenti. Informazioni di questo tipo si possono ritrovare in alcune raccolte di consilia, sebbene in genere queste contenessero solo le raccomandazioni terapeutiche per i pazienti per i quali erano state scritte (e dai quali erano pagate). Il mutato atteggiamento nei confronti del resoconto narrativo e dello statuto epistemologico dei dettagli, nonché gli esempi forniti dalle Epidemiae ippocratiche e dal racconto trionfalistico dei propri casi contenuto nel De prognosis di Galeno, potrebbero aver incoraggiato lo sviluppo dell'anamnesi. Nel corso del XVI sec., alcuni medici e chirurghi ‒ tra cui il chirurgo inglese William Clowes e il medico olandese Pieter Van Foreest ‒ oltre ai consilia hanno pubblicato raccolte di 'osservazioni' in cui descrivevano con cura i singoli pazienti, insieme al decorso e all'esito delle loro malattie.

I compiti della pratica medica comprendevano le difficili arti della diagnosi e, soprattutto, della prognosi e della terapia. Ci si attendeva che i medici curassero qualunque tipo di malattia interna in pazienti dei due sessi e di ogni fascia d'età. Antonio Benivieni ha curato i disturbi ginecologici di una suora (De abditis nonnullis ac mirandis morborum et sanationum causis, cap. 34); Gerolamo Cardano è stato convocato parecchie volte per curare dei neonati, sebbene a quanto sembra egli paventasse i rischi che ciò comportava (De propria vita, capp. 33 e 40). Nel complesso la specializzazione era lasciata ai chirurghi e agli empirici, sebbene alcuni medici colti vantassero i successi ottenuti nella cura di particolari malattie (così, per es., Cardano affermava per qualche tempo di aver curato con successo casi di malattie respiratorie). La diagnosi di solito era formulata attraverso le domande poste all'ammalato, l'esame del polso e l'ispezione visiva del paziente (vestito). Sebbene sia Ippocrate sia Galeno raccomandassero una grande attenzione per la diagnosi e la prognosi, queste erano considerate procedure congetturali oltre che deduttive, cosa che induceva a istituire parallelismi con le predizioni astrologiche (e in certi casi a farvi ricorso). Un importante cambiamento nei metodi diagnostici che si verificò nel XVI sec. fu il declino dell'uroscopia, che da strumento essenziale della medicina (tanto che nelle illustrazioni medievali l'ampolla che conteneva le urine fungeva da segno di identificazione di chi esercitava la professione medica) divenne un metodo usato solo dai ciarlatani.

Per la terapia i medici pratici del Rinascimento, così come quelli dei secoli passati, ricorrevano ai tre strumenti tradizionali della dieta, della medicazione e della chirurgia. La parte della medicina pratica i cui metodi di insegnamento e i cui contenuti subirono maggiori trasformazioni è senza dubbio la botanica medica. Gli sviluppi della botanica saranno trattati separatamente in questa stessa sezione; qui ci limiteremo a mettere in luce alcuni punti che riguardano direttamente l'insegnamento e la pratica medica. Sebbene determinate sostanze minerali e animali fossero ingredienti essenziali in alcuni importanti medicamenti ‒ per esempio il mercurio per le malattie della pelle e, quando comparve, per il morbo gallico; la carne di vipera per la triaca, l'antidoto universale contro ogni tipo di veleno ‒ la maggior parte dei medicinali era derivata dalle piante.

Sin dai primi anni del XVI sec., tra le richieste di riforma della medicina vi era anche l'esortazione, rivolta sia a chi praticava sia a chi studiava la medicina, di basarsi su una conoscenza diretta delle piante medicinali, anziché limitarsi ad acquistare gli ingredienti disseccati o i composti già preparati dai farmacisti. I diversi autori raccomandavano così, di volta in volta, una corretta identificazione delle piante o dei preparati cui si riferivano gli autori antichi; una più ampia conoscenza delle piante locali; l'identificazione e l'uso di piante medicinali provenienti da regioni del mondo sino ad allora sconosciute o raramente visitate dagli Europei. Così, per esempio, Leoniceno e altri medici umanisti consideravano la confusione creatasi nella trasmissione dell'antica nomenclatura delle piante un serio problema pratico, in quanto erano convinti che l'ignoranza dei medici consentisse a farmacisti poco scrupolosi di operare sostituzioni illecite negli ingredienti dei medicinali. Analogamente, nel corso del XVI sec., i medici hanno discusso a lungo su quale fosse la ricetta corretta per la preparazione dell'antica triaca; mentre negli anni Settanta del secolo, una controversia di questo tipo oppose il naturalista Ulisse Aldrovandi al Collegio dei medici di Bologna. Anche le autorità civiche si preoccupavano della purezza e dell'autenticità dei farmaci, tanto che varie città tedesche (come, per es., Norimberga nel 1564) hanno pubblicato una farmacopea ufficiale al fine di assicurare l'uso di ingredienti medicinali approvati.

L'importanza dello studio diretto della botanica locale per gli studenti di medicina è stata sottolineata in un trattato generale di riforma pedagogica (De tradendis disciplinis, IV.7) dall'umanista Juan Luis Vives (1492-1540), che pure non era medico di professione. Anche Paracelso ha insistito (in questo caso con una tipica vena polemica antiaccademica) sul fatto che fosse essenziale conoscere e studiare le piante locali. L'istituzione di una serie di cattedre universitarie dei cosiddetti semplici (a Padova nel 1533, a Ferrara nel 1543) e la fondazione di orti botanici (a Pisa nel 1544, a Padova nel 1545, a Leida nel 1577, a Lipsia nel 1580, a Basilea nel 1588, a Montpellier nel 1597) ha introdotto lo studio diretto delle piante medicinali tra le materie di insegnamento nelle Facoltà di medicina. Insigni professori di medicina hanno dato un importante contributo allo sviluppo di questo campo di studi: per esempio, negli anni Quaranta del Cinquecento, l'insegnamento e gli scritti di materia medica di Antonio Musa Brasavola (1500-1550) attiravano numerosi studenti a Ferrara, mentre un decennio dopo, a Montpellier, Guillaume Rondelet (1507-1566) guidava i suoi studenti in escursioni botaniche.

Nel corso del XVI sec. si è anche cominciato ad attribuire particolare importanza alla raccolta di informazioni di prima mano sulle piante medicinali e sui metodi terapeutici extraeuropei. Due esempi significativi in questo senso sono le notizie raccolte da Prospero Alpino sui medicinali e sui rimedi in uso nell'Egitto del tempo (De plantis Aegypti liber) e l'elenco delle piante medicinali originarie della Nuova Spagna compilato da Francisco Hernandez negli anni Settanta del secolo, ma pubblicato parzialmente e con integrazioni, dopo molte vicissitudini, solo nel 1651, a spese dell'ambasciata spagnola a Roma, dopo che per anni vi avevano lavorato i membri dell'Accademia dei Lincei. La pianta medicinale originaria del nuovo mondo che ha avuto maggior diffusione è stata probabilmente il guaiaco, ritenuto in grado di curare il morbo gallico (mentre fra le piante non commestibili provenienti dal nuovo mondo nella stessa epoca, quella che a lungo termine ha avuto l'impatto maggiore sulla salute degli Europei è stata presumibilmente il tabacco). Nella seconda metà del secolo l'innovazione più significativa nel campo farmacologico è stata probabilmente la diffusione dei rimedi paracelsiani (ossia preparati con procedimenti alchemici a base minerale). Le medicine paracelsiane erano prescritte non soltanto dai seguaci di Paracelso dell'Europa settentrionale, ma anche da alcuni medici che avevano scarso o nessun interesse per le sue idee. Medicamenti di questo tipo erano anche divenuti di uso comune in regioni in cui la teoria di Paracelso aveva avuto un'influenza del tutto marginale.

Sembra peraltro probabile che, nonostante tutti questi sforzi, ossia nonostante il proliferare della letteratura botanica, il notevole perfezionamento del materiale iconografico di alcune opere e lo sviluppo raggiunto dalla materia medica, la maggior parte dei medici facesse affidamento su una gamma relativamente ristretta di rimedi preferiti, in larga misura costituiti da purganti. Inoltre, non solo gli empirici ma anche alcuni medici d'élite tendevano a vantare l'efficacia di rimedi 'segreti' di loro invenzione.

La chirurgia, anche se formalmente indicata come uno dei tre strumenti della medicina, da secoli si era affermata come una sottodisciplina autonoma con una sua letteratura specializzata. Com'è noto, medici e chirurghi appartenevano a categorie e organizzazioni professionali separate. Nell'Italia del XV sec. alcuni chirurghi avevano conseguito un titolo universitario, ma in generale la loro formazione avveniva attraverso un tirocinio. I barbieri chirurghi invece avevano ancora un altro status, inferiore nella gerarchia medica. In generale, come abbiamo osservato, i medici praticavano la medicina interna, laddove i chirurghi e i barbieri chirurghi trattavano le lesioni esterne.

Tuttavia, come nei secoli precedenti, medicina e chirurgia per molti versi si sovrapponevano. Uno dei principali strumenti della terapia medica ‒ la flebotomia ‒ era di fatto un intervento chirurgico minore. I chirurghi curavano le malattie che comportavano eruzioni cutanee (incluso il morbo gallico), nonché ferite, gonfiori, ulcere, fratture e lussazioni. Spesso erano prescritti medicinali interni per curare patologie causate da traumi esterni.

Nel Quattrocento e nel Cinquecento, come nei secoli precedenti, l'assenza di mezzi adeguati per controllare le infezioni, il dolore acuto e le emorragie limitavano gravemente il raggio d'azione della chirurgia. Essa consisteva in un trattamento standard ‒ e senza dubbio in genere efficace ‒ di lesioni non mortali attraverso medicazioni interne o esterne, suturazioni, bendaggi o contenzioni di fratture. Tecniche più invasive di solito erano adottate solo per eliminare le ernie o per estrarre i calcoli vescicali ‒ operazioni in cui alcuni barbieri chirurghi erano divenuti specialisti ‒ o per medicare le ferite gravi. Tuttavia alcune nuove tecniche si svilupparono per rispondere a nuove esigenze. Nel XVI sec. infatti le guerre avevano assunto dimensioni maggiori e si erano affinate tecnicamente, dando luogo a un contesto in cui si potevano diffondere nel trattamento delle ferite le famose innovazioni introdotte da Paré, un barbiere chirurgo al servizio dell'esercito francese (l'uso delle legature delle arterie nelle amputazioni e l'abbandono dell'antica pratica di spalmare olio bollente sulle ferite da arma da fuoco).

Analogamente, le illustrazioni di strumenti chirurgici di cui Paré correda i suoi scritti rappresentano la continuazione di una tradizione preesistente (i manoscritti medievali sulla chirurgia riportano spesso illustrazioni di strumenti), ma riflettono anche chiaramente il fiorente sviluppo tecnico ed economico di tutti i tipi di artigianato del metallo avvenuto nel XVI secolo.

In quanto barbiere chirurgo, avviato alla professione al di fuori del mondo accademico per mezzo di un tirocinio, Paré ignorava il latino e usava un robusto francese per spiegare le proprie tecniche e per denunciare i medici dotti, e i membri del Collège de St. Côme dei chirurghi di Parigi, che lo avevano avversato. Egli è spesso stato considerato un esempio di abilità pratica contrapposto alla cultura puramente accademica dell'élite medica.

Sull'abilità pratica di Ambroise Paré non vi sono dubbi, ma la sua fama di medico pratico, la sua produzione letteraria, la protezione di cui godette da parte del re e la vastità del suo sapere lo collocano in una ristretta élite che per molti versi era assai più vicina ai medici che non alla maggioranza dei chirurghi. Paré in realtà aveva in comune con i suoi avversari lo stesso patrimonio di idee e di conoscenze mediche e chirurgiche. Egli poteva ricorrere a una vasta letteratura moderna scritta in lingua volgare, nonché a traduzioni di varie opere dell'Antichità.

Infatti, così come la medicina e la chirurgia medievali attingevano a un comune patrimonio arabo-latino, allo stesso modo nel XVI sec. entrambe le discipline sono state profondamente influenzate dalla riscoperta, a opera degli umanisti, di antichi testi greci, tra cui le opere ippocratiche di argomento chirurgico. Nel XVI sec. gli editori, i traduttori e gli autori di opere sulla chirurgia cercavano di migliorare sia il livello della teoria sia quello della pratica di questa disciplina, ribadendo altresì lo stretto legame pratico e teorico tra chirurgia e medicina.

Frutto di questi sforzi sono stati, per esempio, l'esauriente manuale del chirurgo parigino Jean Tagault (Institutiones chirurgicae, pubblicato in latino nel 1543 e tradotto pochi anni dopo in francese, in italiano e in olandese), e la Chirurgie française, una compilazione di traduzioni e di commentari su testi antichi del chirurgo di Lione Jacques Dalechamps (1573), entrambi citati da Paré (Oeuvres complètes, ed. Malgaigne, III, pp. 678-679). Analogamente, Konrad von Gesner, umanista di cultura enciclopedica, pubblicò nel 1555 un'imponente collezione di scritti (De chirurgia) allo scopo di introdurre nei territori tedeschi le migliori opere antiche e moderne di chirurgia (egli dava peraltro per scontato che i suoi lettori conoscessero il latino).

La proliferazione e la varietà della letteratura medica rinascimentale non consente di generalizzare sulla sua diffusione o sul tipo di lettori che ne faceva uso. Venezia, Basilea, Lione e Parigi sono stati i principali centri dell'attività editoriale nel campo della medicina, ma non certo gli unici. Verso la metà del XVI sec. esistevano reti commerciali per la distribuzione e la diffusione dei libri in tutta Europa (per es., la fiera del libro di Francoforte). Alcune opere innovative sono state recepite con sorprendente rapidità: la Fabrica di Vesalio acquistò notorietà (nonostante le critiche di cui fu oggetto all'inizio) e fu assai ammirata dai medici a pochissimi anni dalla sua pubblicazione. Ma la perdurante importanza per i lettori (sia medici che non) delle tradizionali categorie di scritti in grado di offrire consigli pratici e rimedi contro le malattie è attestata dall'incessante produzione di trattati sulla peste e sul morbo gallico.

In questo periodo fanno la loro comparsa alcuni generi di letteratura scientifica completamente nuovi o ampliati. Oltre alla produzione dei commentari umanistici degli antichi testi medici menzionati in precedenza, nel XVI sec. assistiamo al progressivo uso dei manuali nell'insegnamento, a discapito dei commentari stessi. Per esempio, il contributo di Fernel probabilmente non è rappresentato dalla sua concezione degli spiriti, bensì dalla sua Medicina (la prima edizione è del 1554; le edizioni successive, ampliate, portano il titolo di Universa medicina), un compendio ben organizzato, completo e aggiornato di tutta la medicina. Ristampata più volte, l'opera di Fernel sembra acquistasse alla fine del secolo lo status di manuale standard del galenismo moderno. Questo testo è stato in un certo senso il precursore dei manuali della prima epoca moderna noti come 'le istituzioni di medicina'. Alcuni editori, inoltre, hanno tentato l'esperimento di pubblicare ampie antologie tratte da tutte le opere disponibili ‒ antiche, medievali e contemporanee ‒ su argomenti specialistici di interesse corrente. Una di queste antologie dedicata ai bagni medicamentosi e alle acque termali apparve nel 1554; un'altra sul morbo gallico fu pubblicata nel decennio successivo. Abbiamo già menzionato la raccolta di scritti sulla chirurgia curata da Gesner. Ma l'opera di questo genere che ha avuto maggior successo ‒ a giudicare dalle progressive integrazioni e modifiche subite nelle edizioni successive, l'ultima delle quali occupava quasi 1100 pagine in folio ‒ è stata il Gynaeciorum quotquot extant, dedicata al sistema riproduttivo femminile e ai disturbi delle donne.

La letteratura medica è stata influenzata altresì dai generi letterari tipici dell'Umanesimo. Così alcuni medici del XVI sec. hanno scelto per i loro scritti la forma dialogica prediletta dagli umanisti, che consentiva di presentare i differenti punti di vista in modo scorrevole, elegante e colloquiale. Per esempio, Alpino ha configurato il suo trattato sulla medicina egizia come un dialogo con Guilandino. L'uso di pubblicare le raccolte di lettere di medici insigni riflette l'influenza della letteratura umanistica e mette in evidenza una tappa della formazione di una comunità scientifica europea. Questo genere letterario sembra essere divenuto popolare in seguito alla pubblicazione nel 1521 delle Epistolae medicinales di Giovanni Manardi (anche Mainardi, 1462-1536), che difendevano l'Umanesimo medico. Fra gli epistolari pubblicati successivamente, diversi erano indistinguibili dai consilia, formati principalmente da ricette. In altri casi però la forma epistolare era utilizzata come strumento per scambiare e far circolare opinioni su controversie correnti, o per comunicare esperienze di rilevanza scientifica a colleghi distanti. Come esempi si possono citare l'epistolario di Johann Lange (1485-1565), professore di medicina all'Università di Heidelberg, i cui interessi spaziavano dalla riforma della chirurgia alla medicina dell'Antico Egitto, e la corrispondenza del medico di corte Crato von Krafftheim (1519-1585) con una vasta cerchia di colleghi. In tutta Europa, inoltre, i membri di una comunità di botanici, di medici e di naturalisti si scambiavano informazioni per lettera e si inviavano reciprocamente esemplari e campioni.

Gli epistolari medici esemplificano in modo particolarmente significativo una tendenza tipica della letteratura medica rinascimentale in cui l'autore, nella sua opera, dava libera espressione alla propria personalità. Questa tendenza ha assunto varie forme ed è emersa, in diverso grado, sia nei nuovi generi sia in quelli tradizionali. Abbiamo già accennato al moltiplicarsi, nella seconda metà del secolo, di raccolte di observationes, che per loro natura descrivono i casi clinici incontrati dall'autore e raccontano spesso in modo assai vivido le sue personali esperienze di medico. In altri contesti, Giovanni Argenterio inserisce un toccante racconto della morte della sua giovane sposa all'interno di un commentario medico, in un passaggio in cui spiega le ragioni del suo dissenso nei confronti della teoria galenica sulle malattie polmonari. Gerolamo Cardano, medico e autore di una delle più famose autobiografie del Rinascimento, introduce ripetutamente nelle sue opere mediche il racconto delle proprie esperienze personali e costella la sua autobiografia di episodi tratti dalla sua carriera. Andrea Vesalio nella Fabrica non solo informa i lettori della sua giovane età allorché completò l'opera, ma scrive anche di essere 'nato con la camicia', considerato tradizionalmente segno di doti e capacità straordinarie. Nelle Vite dei cittadini illustri di alcune città comparivano spesso biografie di medici. Infine, si può rilevare come un certo numero di medici (o i loro editori o biografi) abbia prontamente seguito l'uso invalso nel Rinascimento di includere i ritratti dell'autore nelle edizioni delle loro opere o nelle biografie. Inoltre, recentemente è stata avanzata l'ipotesi che le pressioni religiose, sociali ed epidemiologiche della fine del XVI sec. abbiano contribuito a sviluppare nei medici una maggiore sensibilità e un atteggiamento più sfumato verso i problemi deontologici.

Fino a qui abbiamo analizzato la medicina facendo riferimento quasi esclusivamente al patrimonio di conoscenze tramandate in latino. Tuttavia, come è già emerso dalle precedenti osservazioni sui trattati che riguardavano la chirurgia e la peste, nel XV e nel XVI sec. sono apparse molte opere mediche in volgare. Il volgarizzamento della medicina e di altre discipline scientifiche costituisce un importante sviluppo nella storia della cultura scientifica europea. Il rapporto tra il latino e le lingue volgari quali veicoli di informazione scientifica ha una storia complicata che copre svariati secoli, ed è assai difficile da sintetizzare. Due punti, però, meritano di essere sottolineati anche in una trattazione estremamente sommaria. In primo luogo, sino alla fine del periodo considerato in questo volume (e anche in seguito per un tempo considerevolmente lungo), le nuove opere mediche e scientifiche di carattere più serio hanno continuato a essere scritte in latino; secondariamente, il volgarizzamento della medicina non è un'innovazione legata all'invenzione della stampa. Esiste un imponente corpus di letteratura medica in volgare, prodotto tra il XIII e il XV sec., di cui solo ora gli studiosi hanno cominciato a dipanare l'intricata storia testuale. A partire all'incirca dal XIV sec., la traduzione di opere mediche dal latino in varie lingue europee e la produzione di manuali in volgare hanno segnato una sorta di secondo stadio nella ricezione della medicina ippocratico-galenica. Le opere tradotte comprendevano tutta la gamma degli scritti sugli aspetti pratici della medicina, dalla imponente summa di chirurgia di Guy de Chauliac (scritta intorno al 1360), ai più modesti manuali sulla flebotomia e sui regimina salutis. Sebbene questa fase di recezione in volgare sia stata studiata generalmente nel contesto della storia della medicina medievale, non esiste una netta linea di demarcazione rispetto a quella rinascimentale. Per citare un esempio, sono stati individuati trenta manoscritti in medio-inglese contenenti undici testi di ostetricia, di ginecologia o di raccolte di ricette. Le fonti principali erano costituite da alcuni compendia latini messi insieme nel XII e nel XIII sec. ‒ testi di ginecologia attribuiti a una donna di nome Trotula della Scuola di Salerno e una sezione della compilazione medica di Gilberto Anglico (v. La scienza bizantina e latina, cap. XXVII, par. 3) ‒ che potrebbero essere stati tradotti in medio-inglese nel XIV sec.; ma tutti i manoscritti in questione risalgono al XV sec. o all'inizio del secolo successivo. Il processo di volgarizzamento era particolarmente pronunciato nell'Europa settentrionale.

Il volgarizzamento è proseguito con rinnovato vigore a seguito dell'introduzione della stampa e ha conosciuto un'ulteriore accelerazione nel XVI secolo. Il tedesco probabilmente continuava a essere il volgare europeo maggiormente usato nella stesura di opere mediche. Per esempio, su 238 testi di argomento medico (alcuni dei quali hanno avuto numerose edizioni) pubblicati a Strasburgo tra il 1480 e il 1599, ben 90 erano scritti in tedesco. Nei territori tedeschi una salda tradizione preesistente di letteratura tecnica scritta in volgare ha trovato un seguito nelle semplificate opere mediche pubblicate per l''uomo comune' (gemeine Mann) da Walter Hermann Ryff, nonché in alcuni importanti nuovi erbari e testi di chirurgia. I seguaci di Paracelso a loro volta hanno contribuito in misura notevole a diffondere l'uso del volgare nelle regioni di lingua tedesca. Numerose testimonianze dimostrano una tendenza analoga anche in Francia. In questo paese, sebbene le opere originariamente scritte in greco continuassero a essere tradotte basandosi sulle versioni latine, alcuni testi iniziarono a essere tradotti in francese direttamente dal greco. Erano pubblicate le traduzioni di alcune opere medievali, ma soprattutto i testi di antichi autori greci o di illustri contemporanei, come Paracelso o Jacques Dubois (Jacobus Sylvius, 1478-1555), professore di medicina a Parigi. Fra gli autori dotti che scrissero opere anche in volgare si può ricordare Laurent Joubert (1529-1583), professore di medicina a Montpellier. Notevole era anche la produzione di nuovi testi in francese, tra cui molti trattati sulla peste e gli importanti scritti di chirurgia menzionati in precedenza. Sia in Francia sia in Germania, inoltre, la questione se il volgare fosse o meno una lingua appropriata in cui scrivere opere di argomento medico era divenuta oggetto di importanti e seri dibattiti. Per contro, nella Spagna del XVI sec., i guaritori moriscos, che rientravano in un gruppo sociale gravemente svantaggiato e discriminato, avevano per la maggior parte perso i contatti con l'imponente tradizione scritta della medicina araba.

Ovviamente, la cerchia 'popolare' di lettori che usufruiva della letteratura medica in volgare era circoscritta ai gruppi alfabetizzati della società e probabilmente ai ceti relativamente abbienti. La categoria dell''uomo comune' cui si rivolgeva Ryff includeva solo la popolazione urbana, escludendo i contadini e gli operai. Le opere di carattere generale sulla salute, il regime, e i semplici rimedi erano dirette a questo tipo di pubblico e senza dubbio assolvevano efficacemente la loro funzione di fornire consigli. Gli opuscoli di anatomia corredati di illustrazioni con alcuni risvolti sovrapposti, che il lettore poteva sollevare per osservare l'interno del corpo umano, miravano a divertire e insieme a informare questo tipo di pubblico, svelando gli intimi segreti della natura umana (in particolare di quella femminile). Tuttavia gran parte della letteratura medica in volgare era destinata a un pubblico di professionisti e non di profani. Da alcune ricerche sull'appartenenza dei manoscritti quattrocenteschi di traduzioni in volgare di testi medici è emerso che in molti casi questi erano commissionati o appartenevano a medici. Sembra probabile che nel XV e nel XVI sec. i fruitori di traduzioni di opere tecniche o erudite su argomenti quali la chirurgia o la flebotomia erano principalmente medici pratici che leggevano e scrivevano in volgare (o che avevano una scarsa padronanza del latino). In effetti, sembra difficile immaginare un qualsiasi lettore, che non fosse un chirurgo o un barbiere chirurgo, interessato a possedere una traduzione, per esempio, di un manuale tecnico sul salasso. Alcuni testi ginecologici erano dedicati espressamente alle donne, ed erano scritti, come si legge nelle loro prefazioni, in considerazione del pudore e del desiderio femminili di evitare l'esposizione a sguardi maschili; tuttavia, anche i manoscritti quattrocenteschi di queste opere appartenevano con tutta probabilità a uomini che esercitavano la professione medica. Un altro genere di ambiguità emerge nel caso di due trattati italiani destinati alle levatrici, scritti alla fine del XVI sec. da professori di medicina. Le studiose che hanno curato l'edizione critica di queste opere hanno osservato che probabilmente i loro lettori non erano le levatrici, cui erano esplicitamente destinate, bensì i capifamiglia, loro datori di lavoro.

La storia secolare della diffusione e della circolazione dell'informazione scritta riguardante la medicina, basata essenzialmente sulla tradizione ippocratico-galenica nelle sue versioni medievale o rinascimentale, dimostra che la medicina del Rinascimento non può essere nettamente divisa in due sistemi separati, uno 'popolare' e l'altro 'elitario' (il che non significa negare l'esistenza di pratiche terapeutiche locali o regionali). Infatti la medicina, al pari di altri sistemi di credenze e di pratiche del tempo, esisteva in versioni sia 'alte' sia 'basse', con interazioni significative tra di esse in termini di individui e di idee. Oltre a ciò, si tratta di una disciplina che prendeva parte al processo di divulgazione, di interazione tra categorie in precedenza separate, e di integrazione di tecniche e di mestieri, tipico dell'intera cultura scientifica rinascimentale. I lettori del XVI sec. di diversa estrazione sociale e differente grado di istruzione erano accomunati dal gusto per il meraviglioso combinato con un'informazione di utilità pratica, un gusto che era soddisfatto sia da alcune opere enciclopediche in latino sia dagli innumerevoli libri scritti in volgare sui segreti o mirabilia, dai compendia di medicina, dalle raccolte di rimedi casalinghi e dai manuali sulla distillazione. Un esempio di opera enciclopedica di questo tipo è la Magia naturalis di Giambattista Della Porta (1535 ca.-1615) ‒ pubblicata per la prima volta in latino nel 1560 ‒, una notevole compilazione i cui argomenti spaziavano dalle meraviglie naturali alla selezione di specie vegetali, dalla scienza domestica alla metallurgia e ai magneti, dalla cosmesi ai giochi di prestigio, e che includeva anche una sezione dedicata ai rimedi medicinali.

Molti medici rinascimentali sostenevano di essere dei riformatori della disciplina. La maggior parte di essi sopravvalutava sia l'entità dei cambiamenti intervenuti sia il ruolo dell'Umanesimo o dei loro apporti personali a tali innovazioni. Sebbene i medici umanisti affermassero ripetutamente l'importanza dell'esperienza, "i fatti sono più importanti delle parole", la medicina del XVI sec. restò profondamente legata a una tradizione puramente letteraria e verbale (tanto classica quanto medievale e quest'ultima in misura maggiore di quanto sia i medici del XVI sec. sia gli storici del XIX e del XX sec. siano stati disposti a riconoscere). La medicina era ancora in larga misura concepita come un insieme di libri. Nondimeno, i medici rinascimentali erano nel giusto allorché si ritenevano partecipi di una fase importante nella storia della loro disciplina. Nei periodi e nei luoghi più propizi, l'insegnamento accademico era divenuto più recettivo nei confronti degli aspetti pratici ed empirici della medicina. L'apertura alle sollecitazioni intellettuali provenienti da un contesto culturale più ampio aveva contribuito a scalzare l'autorità tradizionale in vari modi. Nella medicina del XV e del XVI sec. si cominciò a prestare maggiore attenzione al paziente come individuo e ai vari tipi di malattia. Con il suo interesse per i particolari delle piante, delle parti del corpo, della nomenclatura e dei rimedi la medicina condivise, e nello stesso tempo alimentò, la tendenza alla descrizione e alla raccolta di esperienze che fu una delle caratteristiche più significative della cultura scientifica dell'epoca. La nuova importanza attribuita all'anatomia e alla botanica, infine, trasformò importanti aree della conoscenza scientifica.

L'anatomia

di Andrea Carlino

La storia dell'anatomia ha una propria cronologia che non corrisponde necessariamente a quella delle altre scienze. Se si vuole dar conto di quel processo che ha portato all'affermazione dell'anatomia moderna ‒ che si fa usualmente coincidere con la pubblicazione del De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio nel 1543 ‒ è, dunque, necessario adottare una periodizzazione che risalga almeno agli inizi del XIV secolo. Due buoni motivi sono alla base di tale scelta cronologica: proprio a partire dai primi decenni del XIV sec., da un lato è possibile attestare con certezza, almeno in Italia, la pratica della dissezione del corpo umano, dall'altro lato cominciano a essere disponibili in traduzioni latine, e a essere studiati nei primi centri universitari europei (in particolare Bologna, Parigi, Montpellier), alcuni testi di anatomofisiologia che costituiscono un corpus di conoscenze che rimarrà sostanzialmente immutato almeno sino alla metà del XVI secolo.

Nel corso di questo 'lungo' Rinascimento che va dalla redazione nel 1316 dell'Anatomia di Mondino dei Liuzzi (1270 ca.-1326) alla prima metà del XVI sec., è possibile individuare una continuità tanto per ciò che riguarda le conoscenze anatomiche disponibili e utilizzate nell'insegnamento universitario, quanto per la stessa funzione assegnata all'anatomia nell'ambito della medicina tardo-medievale e rinascimentale. Allo stesso tempo, è proprio nel corso di questo lungo periodo, apparentemente immobile e immutabile, che vengono poste le basi istituzionali e le condizioni culturali e tecniche indispensabili alla radicale revisione dell'anatomia umana operata da Andrea Vesalio.

Un sapere tra medicina e filosofia

Le conoscenze, le teorie e le pratiche che caratterizzano e permeano la medicina insegnata nelle università europee, dal momento della loro istituzione fino al Rinascimento e oltre, sono basate complessivamente sul modello di medicina prodotto da Galeno nel II sec.; è infatti proprio all'interno di tale modello che la conoscenza dell'anatomia uma-na trova la propria giustificazione epistemologica ancora un millennio più tardi.

La vastissima produzione di Galeno comprende 26 trattati di carattere essenzialmente anatomico e fisiologico. In due di essi, il De anatomicis administrationibus e il De usu partium corporis humani, egli non soltanto sviluppa una trattazione accurata e dettagliata della composizione e del funzionamento del corpo umano che resterà valida in ogni suo aspetto almeno fino alla pubblicazione della Fabrica di Vesalio, ma definisce anche il ruolo e la funzione della conoscenza anatomica all'interno della medicina 'razionale' da lui propugnata e praticata. Questo modello galenico si ritrova formalizzato nei curricula delle scuole mediche e delle università dell'Oriente musulmano e dell'Occidente cristiano, in quanto esso costituisce e struttura l'insieme del sapere medico aulico, perpetuato nei secoli attraverso i libri e l'insegnamento superiore.

I due elementi che caratterizzano la medicina 'razionale' galenica ‒ in contrapposizione alla medicina cosiddetta 'empirica' ‒ sono l'anatomofisiologia e la logica dimostrativa. Infatti, l'apodittica, di matrice aristotelica, costituisce uno strumento intellettuale indispensabile non soltanto per stabilire i rapporti tra le cause e i fenomeni, ma anche per classificare le malattie o semplicemente ordinare i discorsi. D'altro canto, la conoscenza del corpo umano e del suo funzionamento è il fondamento certo, tangibile e materiale, della dimostrazione medica e, nello stesso tempo, la garanzia dell'esistenza di un rapporto univoco e teleologico tra le parti e le funzioni. Per Galeno e i galenisti questo tipo di conoscenza è la base incontestabile su cui costruire un sapere medico dimostrabile e unitario. L'anatomia costituisce il sapere a partire dal quale il medico, coadiuvato dalla logica, può formulare ipotesi e pareri relativi alla diagnosi, alla prognosi e alla terapia delle malattie. Nella medicina galenica, tuttavia, questo assunto resta del tutto ipotetico, in quanto lo stesso Galeno è costretto ad ammettere la difficoltà di tradurre sul piano applicativo e clinico l'insieme delle conoscenze relative all'anatomia umana, a eccezione di quelle poche più direttamente indispensabili alle pratiche chirurgiche. L'analisi minuziosa dei singoli frammenti anatomici, l'osservazione delle parti interne e del loro funzionamento, costituiscono infatti un 'sovrappiù' rispetto alla pratica medica fondata sul paradigma umorale, un insieme di conoscenze che risponde agli interrogativi e alle preoccupazioni della filosofia naturale più che della medicina.

Nell'Antichità classica, almeno a partire dalle opere biologiche di Aristotele, l'anatomia appartiene tanto al campo d'indagine della filosofia quanto a quello della medicina, e tale concezione del sapere anatomico persisterà almeno fino al Rinascimento. Sebbene siano soprattutto i medici a interessarsi all'anatomia e a produrre testi relativi alla descrizione del corpo umano, anche i trattati anatomici cinquecenteschi (compresa la stessa Fabrica di Vesalio) insistono sul fatto che la conoscenza del corpo umano è parte della filosofia naturale, un sapere che i medici, come i filosofi, devono perseguire 'per sé', senza necessariamente cercarne un'applicazione immediata nella pratica terapeutica. Nel modello di medicina elaborato da Galeno ‒ una medicina dal profilo alto, che si vuole colta e razionale ‒ l'anatomia assume, quindi, un grande valore in quanto sapere teorico indispensabile per la formazione dei medici e nell'ottica della promozione sociale e culturale dello statuto epistemologico della medicina, la quale in questo modo è accostata, appunto per il tramite della ricerca anatomica, alla filosofia. A Galeno e ai suoi scritti si deve dunque la definitiva associazione dello studio dell'anatomia umana alla medicina.

Le opere di Galeno sono oggetto di commenti e traduzioni incessanti per tutto il periodo che va dalla Tarda Antichità all'Età moderna. Commentatori bizantini come Oribasio, Ezio, Alessandro di Tralle e Paolo di Egina, medici e filosofi arabi come Rhazes (al-Rāzī, 865-925), Ali Abbas (῾Alī ibn al-῾Abbās al-Maǧūsī, m. 994), Avicenna (Abū ῾Alī ibn Sīnā, 980-1037), Abulcasis (Abū'l-Qāsim al-Zahrāwi, XI sec.), traduttori dal greco in siriaco e in arabo come Iohannitius (Ḥunayn ibn Isḥāq ) e suo nipote Hubaish, e traduttori dal greco e dall'arabo in latino come Gherardo da Cremona, Costantino l'Africano, Burgundio di Pisa, Pietro d'Abano, Arnaldo da Villanova e Niccolò da Reggio. Tutti questi studiosi, in varia misura e in modi differenti, contribuiscono tra il V e il XIII sec. alla diffusione della medicina e dell'anatomia galenica, alla trasmissione di alcuni testi del medico di Pergamo e, comunque, a tenere in vita e a consolidare il paradigma anatomico della medicina razionale. In questo lunghissimo periodo le opere prodotte da medici, filosofi naturali e commentatori manifestano una fiducia incondizionata nelle descrizioni operate da Galeno, le quali durante il Medioevo continuano a essere alla base di una clinica e di un'eziologia (fondate sulla teoria umorale) che restano sostanzialmente immutate. Ciò spiega, almeno in parte, la proliferazione di compendi, sunti ed epitomi che sintetizzano le opere anatomiche di Galeno. Da un lato questi forniscono gli elementi più direttamente utili alla pratica medica e gli aspetti fondamentali dell'anatomia, eliminando parte di quel 'sovrappiù' cui lo stesso Galeno aveva fatto riferimento; dall'altro lato, si configurano come espressione del paradigma anatomico della medicina razionale. Nell'Occidente medievale, l'anatomia è studiata e insegnata innanzi tutto a partire da queste sintesi.

Se il De anatomicis administrationibus è tradotto in latino soltanto nel XVI sec., il De usu partium corporis humani ‒ benché disponibile in latino dagli inizi del XIV sec. ‒ circola soprattutto in forma di compendio con il titolo di De juvamentis membrorum, che costituisce la versione latina di una traduzione araba realizzata da Iohannitius in cui l'opera originaria è stata fortemente abbreviata e semplificata. Il Liber canonis di Avicenna, uno dei testi più letti e studiati nelle università medievali, contiene molti elementi di anatomia e di fisiologia, ma non una trattazione sistematica di queste discipline. Una prima parte dell'opera di Avicenna è consacrata alle funzioni fisiologiche e dà qualche ragguaglio relativo alle parti "semplici", come le ossa, i muscoli, i nervi, le vene e le arterie. Nel Libro III, in cui sono esposte malattie e terapie relative a diverse parti del corpo, sono fornite le descrizioni anatomiche di alcuni organi definiti parti "composte" (per es., l'orecchio, l'occhio, il fegato).

Nel Tardo Medioevo e nel Rinascimento, gran parte dei testi medici che circolano nelle università e che sono utilizzati nell'insegnamento, conformemente alle indicazioni di Galeno, contengono dunque ampie descrizioni anatomiche, di solito nelle pagine introduttive o nei primi capitoli. È il caso del Pantegni, che si apre con una trattazione delle parti "semplici" e "composte"; del Libro IX dell'Almansor, un trattato di medicina dedicato alla diagnosi e alla terapia redatto da Rhazes, che inizia con una descrizione sistematica dell'anatomia umana; e ugualmente del Colliget, una sorta di opera enciclopedica di medicina scritta da Averroè sotto forma di commento al Liber canonis di Avicenna, che ha una notevole diffusione. D'altronde, essendo la chirurgia la branca della medicina in cui la conoscenza anatomica ha un'utilità più immediata per l'espletamento delle operazioni che a essa competono, è alla trattatistica relativa a questa disciplina che bisogna rivolgersi per trovare ancora qualche descrizione della composizione del corpo umano, come nel caso, per esempio, dei due trattati di chirurgia redatti rispettivamente da Guy de Chauliac e da Enrico di Mondeville. Ancora una volta, questi testi non sono altro che riscritture, rielaborazioni e riadattamenti delle conoscenze anatomiche e fisiologiche fornite in precedenza dagli scritti di Galeno, poi tramandate e diffuse dai commentatori arabi; ciò non di meno, essi forniscono l'evidenza di una stretta connessione fattuale tra il sapere anatomico e le pratiche mediche. Inoltre, l'associazione di chirurgia e anatomia nell'insegnamento universitario, soprattutto nel XVI sec., è certamente tributaria di questa connessione resa esplicita dalla tradizione chirurgica tardo-medievale.

Bisogna tuttavia ricordare che la chirurgia in questo periodo ‒ e almeno per tutto il Rinascimento ‒ rimane una disciplina secondaria e subordinata alla medicina, nonostante gli sforzi dei chirurghi per conseguire un maggiore riconoscimento sociale. Al chirurgo, come al barbiere e a tutti coloro che operano nel mercato terapeutico, competono unicamente operazioni e attività, quasi esclusivamente di carattere manuale, relative all'esterno del corpo; operazioni che peraltro devono, almeno formalmente, essere sempre avallate dal medico di formazione universitaria e membro della corporazione medica. Soltanto quest'ultimo ha infatti il diritto di agire sull'interno del corpo dei pazienti attraverso la prescrizione di terapie e di diete, un agire che d'altro canto ha un carattere puramente teorico e non implica il contatto diretto e fisico con i malati. In tale contesto si spiegano da un lato l'interesse dei chirurghi per la conoscenza del corpo, sia pure per quegli aspetti limitati che più direttamente coinvolgono la loro attività (per es., le parti esterne, gli arti), dall'altro lato il fatto che il controllo delle conoscenze relative all'anatomia interna costituisca una prerogativa del medico di formazione universitaria.

La riscoperta della dissezione

Il principale strumento per acquisire conoscenze sulla composizione del corpo umano è, certamente, la dissezione dei cadaveri. Nei suoi scritti, Galeno insiste a più riprese sulla necessità dell'osservazione diretta, considerata come il metodo migliore d'indagine anatomica, in contrapposizione all'anatomia appresa unicamente dai libri. Ciononostante sembra che, con l'eccezione del periodo trascorso ad Alessandria d'Egitto negli anni della sua formazione, Galeno abbia avuto soltanto qualche sporadica e fortuita occasione di osservare direttamente cadaveri umani o parti di essi. Nei suoi scritti è attestato il ricorso a una serie di tecniche di apprendimento e di svelamento dell'anatomia umana preposte ad aggirare l'estrema difficoltà di procurarsi dei corpi da dissezionare e il divieto ‒ operante di fatto ‒ di manipolarli, aprirli e smembrarli. Tali tecniche sono l'osservazione delle ferite nei corpi vivi o morti e, soprattutto, la dissezione degli animali, fondata sul principio analogico tra la morfologia animale e quella umana, di derivazione aristotelica, e su quello della corrispondenza tra l'aspetto esterno e la struttura interna. Questi principî sono alla base della scelta di Galeno di utilizzare nelle ricerche anatomiche innanzi tutto le scimmie, ma anche i maiali, i cani, le capre e i buoi, e di fondare, quindi, le proprie argomentazioni di anatomia umana sull'anatomia animale. Proprio su quest'aspetto procedurale si appuntano le critiche sviluppate nel corso del XVI sec. all'anatomia galenica, in quanto nella trattatistica rinascimentale è ripresa più volte la questione se Galeno abbia mai veramente potuto osservare e studiare un cadavere umano. Vesalio, nella Fabrica, si dichiara convinto che egli non abbia mai aperto un corpo umano e imputa gli errori, sovente anche grossolani, che si possono riscontrare nei suoi scritti proprio al fatto che le sue osservazioni fossero interamente inferite per analogia a partire dalla dissezione degli animali.

Con l'eccezione della parentesi alessandrina ‒ designata nella letteratura medica rinascimentale come una sorta di Eldorado della ricerca anatomica ‒ e di qualche rarissima testimonianza bizantina in cui è attestata l'apertura di cadaveri a fini di ricerca scientifica, non si ha alcuna traccia certa e verificabile della pratica della dissezione del corpo umano fino al XIV secolo. Ciò vale anche per la Scuola salernitana: le norme relative alla formazione del medico, promulgate da Federico II nel 1241, stabiliscono, conformemente al paradigma anatomico della medicina galenica, l'introduzione nel curriculum universitario dell'insegnamento della logica e dell'anatomia, non implicano però necessariamente la pratica della dissezione del corpo umano, ma unicamente lo studio libresco e le dimostrazioni operate sugli animali.

La prima testimonianza di un'osservazione diretta fatta su un cadavere umano a fini anatomici è invece attestata inequivocabilmente nel 1315. Il medico bolognese Mondino dei Liuzzi racconta nella sua Anatomia di avere compiuto la dissezione dei corpi di due donne, una nel mese di gennaio e l'altra nel mese di marzo di quello stesso anno. Il testo di Mondino è costruito seguendo l'ordine di apertura del cadavere nel corso della dissezione: innanzi tutto l'addome, poi il torace e infine il cranio. Le parti descritte sono soprattutto quelle interne, o più in generale quelle sulle quali la medicina poteva esercitarsi meglio, almeno ipoteticamente.

Tale ordine è dettato non soltanto dalla necessità di evitare gli effetti della putrefazione (più rapida per la cavità addominale), ma anche da motivazioni più propriamente filosofiche e teoriche relative alla concezione corrente della fisiologia umana, in quanto a ciascun 'ventre' corrisponde una delle principali facoltà del corpo umano (nutritiva, vitale e animale). Nell'Anatomia di Mondino non sono invece trattati gli arti, poiché le conoscenze a essi relative, e le applicazioni possibili di queste conoscenze, rientrano nel campo specifico della pratica chirurgica. Nonostante il fatto che il testo di Mondino voglia essere un manuale anatomico che segue l'ordine della dissezione, e nonostante la testimonianza relativa all'osservazione diretta del corpo umano, l'Anatomia resta quindi un'opera che si inscrive completamente nella tradizione dominante del galenismo. Mondino cita frequentemente il primo fen del Libro I del Liber canonis di Avicenna e soltanto qualche volta il De partibus animalium di Aristotele e il De diaeta in morbis acutis del Corpus Hippocraticum; nel complesso, però, la sua opera è basata, anche nei singoli dettagli, sull'unico testo galenico al tempo disponibile concernente l'anatomia e la fisiologia, ossia il De juvamentis membrorum, una sorta di compendio dell'anatomia di Galeno realizzato, come già detto, nel IX sec. da Iohannitius, che inizia a circolare nell'Occidente cristiano in traduzione latina verso la fine del XII sec. e che, ancora nella prima metà del XVI sec., compare in alcune edizioni delle opere complete di Galeno.

La testimonianza di Mondino relativa alla pratica della dissezione del corpo umano non è isolata. Guy de Chauliac, studente a Bologna negli stessi anni in cui Mondino scrive il suo manuale, ricorda nella sua Chirurgia magna di avere assistito a una dimostrazione su cadavere, ripartita in quattro lezioni e operata dal suo maestro Niccolò Bertucci. Un'altra testimonianza ci è data dagli atti processuali relativi al furto di un cadavere in un cimitero bolognese avvenuto il 20 novembre 1319 a opera di quattro studenti di medicina, allievi di un tal Maestro Alberto. Essi avrebbero dissacrato il sepolcro di un uomo condannato e giustiziato il giorno precedente, e ne avrebbero sottratto il corpo ad faciendam notomiam.

La documentazione relativa a questo episodio, benché assai scarna, consente tuttavia di attestare il fatto che le esercitazioni anatomiche sul cadavere erano pratiche piuttosto abituali a Bologna. Stando a quanto dichiara il suo domestico, non era infatti la prima volta che Maestro Alberto organizzava lezioni di anatomia private nel proprio domicilio e l'utilità didattica della dissezione è invocata come attenuante in difesa degli accusati; d'altra parte, l'attenzione dei giudici è rivolta all'effrazione della sepoltura e non al fatto che il cadavere sia stato utilizzato per una lezione di anatomia.

Sulla base di queste notizie è possibile attestare, dunque, una certa familiarità con la pratica della dissezione anatomica già nei primi decenni del XIV sec., e i documenti disponibili sembrano indicare nella città di Bologna il centro in cui tali attività si svolgono per la prima volta nell'Occidente medievale. Ciò può essere messo in relazione con il fatto che proprio a Bologna ‒ ma anche a Venezia, Padova e Parma ‒ almeno fin dalla metà del secolo precedente era praticata l'autopsia a fini medico-legali (in particolare quando si sospettava che il decesso potesse essere dovuto ad avvelenamento), oppure per la salvaguardia della salute pubblica (per es., nella verifica dei decessi causati da possibili crisi epidemiche).

Queste pratiche autoptiche costituiscono un antecedente importante che prelude alla fattibilità della dissezione anatomica, in quanto attraverso di esse sono infatti intaccate l'infrangibilità del corpo e l'intangibilità dei morti. Tuttavia la storia non è poi così lineare e la rinascita della dissezione anatomica nel Tardo Medioevo è accompagnata da incertezze e da dubbi relativi alla liceità di tale operazione. Questi derivano certo dalla debolezza dello statuto epistemologico dell'anatomia all'interno del paradigma umorale e dall'inefficacia clinica del sapere anatomico, ma sono soprattutto espressione del disagio generato dall'apertura dei cadaveri. Infatti, un insieme di resistenze e di costrizioni di ordine religioso e antropologico fa sì che l'apertura del cadavere sia percepita come un atto sacrilego e inumano.

Soltanto qualche anno prima della redazione del testo di Mondino, nel 1299, Bonifacio VIII aveva promulgato, infatti, la Bolla Detestandae feritatis contro l'uso di smembrare i cadaveri, farli a pezzi e bollirli per separare la carne dalle ossa, pratiche verificatesi in occasione della morte di alcuni esponenti della nobiltà e dell'alta gerarchia ecclesiastica, spesso per espressa richiesta del defunto, con lo scopo, da un lato, di moltiplicare i luoghi simbolicamente significativi in cui le parti del corpo erano seppellite (e, quindi, di accrescere il numero dei suffragi), dall'altro di facilitare il trasporto delle spoglie lì dove il defunto doveva o voleva essere seppellito (ciò accadeva in particolare nel caso in cui la morte fosse sopravvenuta in terra sconsacrata). Era scomunicato, in questo modo, chiunque contravvenisse alla proibizione di seviziare i cadaveri, chiunque trattasse i defunti in modo ‒ è scritto nel testo papale ‒ così "crudele e inumano"; e benché la Bolla non esprimesse alcuna riserva esplicita verso la pratica della dissezione, essa manifestava, più in generale, riserve sui maltrattamenti operati sul corpo dopo la morte, fondate su valutazioni di carattere essenzialmente morale, lasciando dunque un margine di dubbio sulla liceità di tutte le pratiche che comportavano lo smembramento del cadavere, ivi compresa la dissezione anatomica. In una glossa alla Bolla di Bonifacio VIII redatta dal cardinale Lemoine nel 1303, la proibizione è poi estesa a tutte le pratiche che comportano l'incisione e l'eviscerazione del cadavere, e due opere anatomiche scritte nella prima metà del XIV sec. ‒ l'Anatomia Richardi e l'Anatomia di Guido da Vigevano ‒ attestano l'effettiva operatività di un divieto della dissezione.

Nel Medioevo e nel Rinascimento la pratica della dissezione del corpo umano resta quindi problematica, vincolata da un sentimento di rispetto per i cadaveri e dal disagio prodotto dalla loro manipolazione e dalla violazione dell'integrità del corpo. Da un confronto con altre pratiche di smembramento dei cadaveri all'epoca ancora in uso, come per esempio il culto delle reliquie e alcune forme particolarmente cruente di esecuzioni capitali, come lo squartamento, appare con evidenza che l'apertura del corpo umano necessita costantemente di una particolare legittimazione sociale, culturale e istituzionale. Nel caso dell'autopsia, essa deriva dal contesto in cui è operata e dalle motivazioni medico-legali e medico-sociali che la sostengono; la dissezione anatomica inizia infatti a essere praticata ‒ sia pure in modo discontinuo e localizzato ‒ soltanto nel momento in cui si vengono a creare le condizioni culturali e istituzionali che ne legittimano la fattibilità. Sebbene la preesistenza dell'autopsia operata dai medici giochi un ruolo decisivo nel favorire il superamento dell'ostacolo antropologico della violazione del viluppo corporeo, la dissezione anatomica può essere operata unicamente nel momento in cui il paradigma anatomico galenico ‒ che postula la conoscenza delle parti del corpo come il fondamento di ogni pratica e teoria medica razionale ‒ diventa il referente fondamentale della medicina occidentale attraverso la traduzione e la diffusione delle opere di Galeno e dei suoi epigoni, ossia quando essa ottiene un definitivo riconoscimento sociale, professionale e istituzionale nell'insegnamento universitario. Le università assumono, di fatto, la fisionomia di istituzioni garanti della liceità della pratica della dissezione circoscrivendo i rischi di carattere antropologico, religioso e morale che essa comporta; in tale modo la dissezione è inscritta in una cornice accademica e nel discorso epistemologico e didattico da questa generato.

La lezione pubblica di anatomia

Nel corso del XIV sec. la dissezione, operata nel quadro dell'insegnamento dell'anatomia, inizia dunque a essere introdotta in varie sedi universitarie. Uno dei capitoli degli statuti dell'Università di Montpellier, redatti nel 1340, prevede una lezione pubblica di anatomia associata alla dimostrazione sul cadavere una volta ogni due anni, e nel 1376 Luigi d'Angiò, governatore della Linguadoca, concede che essa possa svolgersi annualmente; anche a Venezia nel 1368, con un decreto del Maggior Consiglio, e a Firenze nel 1372, con la riforma degli statuti dell'Arte dei medici e speziali, le dissezioni su cadavere sono praticate con cadenza annuale. A partire, poi, dai primi anni del secolo successivo gli statuti universitari integrano in modo definitivo la lezione pubblica di anatomia nel novero delle attività didattiche, stabilendo le norme precise che ne regolano lo svolgimento, ivi compresi i criteri di scelta da adottare per l'approvvigionamento dei cadaveri e le procedure istituzionali attraverso cui essi sono 'prestati' all'università. Tali norme sono enunciate per la prima volta negli statuti dell'Università di Bologna del 1405 e, in maniera ancora più dettagliata, negli statuti del 1465 della Facoltà delle arti di Padova (si tratta, in questo caso, di una revisione di statuti precedenti nei quali l'organizzazione dell'anatomia pubblica doveva, probabilmente, essere già stata prescritta). Queste norme sono in larga misura le stesse per tutte le università dell'Europa occidentale e restano sostanzialmente immutate almeno sino al XVII secolo.

La lezione pubblica di anatomia si svolge di solito nei mesi invernali e più precisamente nel periodo di carnevale (tra l'inizio di gennaio e la fine di febbraio). Ciò risponde a diverse esigenze: di ordine pratico, in quanto i corpi in questo periodo dell'anno si conservano più a lungo; di ordine didattico, poiché si svolgono in coincidenza con le vacanze invernali consentendo così a tutto il corpo accademico e a tutti gli studenti di medicina e di filosofia, liberi da altri corsi, di assistervi; di ordine culturale, poiché effettuarla in questo momento calendariale significa inserirla anche temporalmente in un periodo dell'anno in cui pratiche potenzialmente trasgressive sono ricondotte nell'ambito delle attività lecite attraverso la ritualizzazione.

La dimostrazione anatomica si svolgeva inizialmente in aule appositamente preparate che potevano trovarsi tanto all'interno dell'università quanto altrove (a Roma, per esempio, le dissezioni si svolgevano anche nell'ospedale di Santo Spirito o in una delle stanze del vicino Castel Sant'Angelo). Nel corso del XVI sec. negli edifici universitari potevano essere installati teatri lignei temporanei del genere di quello che si vede nel frontespizio del De humani corporis fabrica di Vesalio, dove il teatro anatomico è rappresentato all'interno del cortile del Bo, sede dell'Università di Padova; in seguito, veri e propri teatri permanenti destinati all'insegnamento dell'anatomia iniziarono a essere costruiti nelle maggiori sedi universitarie europee: a Padova nel 1594, a Leida nel 1597, a Londra nel 1636, a Bologna nel 1649. Potevano essere utilizzati per la dissezione esclusivamente i cadaveri dei criminali condannati a morte, di preferenza giustiziati con l'impiccagione; questo tipo d'esecuzione offriva infatti la possibilità di operare su un corpo integro, non deturpato o scempiato da torture, supplizi e mutilazioni, ricorrenti in altri tipi di esecuzioni. D'altro canto, l'impiccagione era comminata per aver commesso crimini particolarmente ripugnanti (reati "atroci et atrocissimi"), era usualmente riservata a criminali delle classi sociali più basse, e considerata una delle forme più ignominiose di pena capitale.

Gli statuti universitari e i regolamenti delle corporazioni dei medici, inoltre, insistevano concordemente sul fatto che i cadaveri da anatomizzare fossero di persone definite ignobili e di bassa estrazione sociale, stranieri senza famiglia o comunque persone senza parenti o amici nella città in cui la lezione d'anatomia doveva aver luogo. Se a Bologna gli statuti universitari del 1442 stabilivano che i corpi dovessero giungere da luoghi distanti almeno trenta miglia dalla città, a Pisa era vietato il ricorso ai corpi di cittadini pisani o fiorentini, e a Padova non potevano essere dissezionati né i padovani né i veneziani. Nel 1561, una revisione degli statuti bolognesi consente l'uso di corpi provenienti dai sobborghi circostanti; tale riforma ‒ dettata dalla penuria di corpi utililizzabili per le dimostrazioni anatomiche ‒ precisa tuttavia che cives honesti non sint, dove honesti sta per 'di origine onorata'. Nel 1569 la congregazione dei deputati romani super regimento Gymnasii emana un decreto in cui si sollecitano i medici a utilizzare per le anatomie pubbliche di preferenza i corpi degli Ebrei o di qualunque altro infedele.

Questi criteri di scelta del cadavere da anatomizzare risultano adottati omogeneamente, nelle linee generali, in gran parte dell'Europa occidentale; si tratta di norme che attestano l'interesse delle autorità civili e accademiche affinché la dissezione del cadavere si svolgesse senza rischi di reazioni o tumulti da parte di parenti o di amici del defunto, e perché non si formulassero giudizi di ordine morale e religioso su un'operazione che, comunque, implicava atti ancora percepibili e, di fatto, percepiti come sacrileghi, come l'apertura del cadavere e la sua esposizione prolungata. Il carattere ignobile e infame del corpo anatomizzato, la preliminare condanna terrena e la marginalità sociale, in sostanza, costituiscono una serie di elementi essenziali che preludono alla creazione di uno spazio di legittimità per la pratica della dissezione anatomica e facilitano la gestione del disagio ‒ sociale, religioso, antropologico ‒ da essa generato.

Nello stesso senso va inteso il complesso meccanismo burocratico che regola l'organizzazione dell'anatomia pubblica; infatti, la lettura delle fonti archivistiche e degli stessi statuti universitari rinascimentali evidenzia, per quanto riguarda l'anatomia, una massiccia mobilitazione istituzionale che vede coinvolte le massime autorità politiche, religiose, giudiziarie e accademiche. Ciascuna di esse, secondo le proprie specifiche competenze, dà il suo contributo nel garantire il corretto svolgimento delle procedure che accompagnano il corpo del condannato dal patibolo alla sepoltura, passando per il tavolo settorio, e fornisce il supporto istituzionale necessario a circoscrivere in uno spazio rituale lecito l'insieme degli atti moralmente, religiosamente e antropologicamente ambigui, necessari alla preparazione e alla realizzazione dello spettacolo anatomico.

Le anatomie pubbliche si configurano come un momento importante e solenne del calendario universitario. A partire dal 1405, data di promulgazione degli statuti dello Studio bolognese, e almeno fino al XVII sec., l'anatomia pubblica si svolge secondo un rituale accademico fortemente formalizzato e sempre identico a sé stesso. Dopo l'esecuzione del criminale, il corpo ‒ per il tramite della mediazione operata dal protomedico, dal rappresentante del potere politico e dalle autorità giudiziarie competenti ‒ passa dalle mani della confraternita che si occupa del conforto e della sepoltura dei condannati a morte, a quelle dei medici dello Studio. All'anatomia pubblica partecipano gli insegnanti e gli studenti (questi ultimi non più di una o due volte nell'intero corso degli studi universitari), e le autorità accademiche; in alcune occasioni possono assistervi alcuni invitati, rappresentanti delle élites politiche e intellettuali locali. In alcune località ‒ per esempio a Roma ‒ gli statuti corporativi prevedono che anche i barbieri e i chirurghi siano ammessi all'anatomia pubblica e, in tal caso, è previsto per essi il pagamento di un biglietto d'entrata.

Lo spettacolo anatomico è condotto da tre personaggi principali: il lector, il demonstrator, il sector. Il ruolo svolto da ciascuno di essi è esplicitato, oltre che dalle norme statutarie, anche da immagini contenute nei frontespizi di alcuni trattati anatomici. Il frontespizio che apre l'Anatomia di Mondino, contenuta nell'edizione veneziana del 1493 del Fasciculus medicinae di Giovanni di Ketham (Johannes de Ketham), mostra al centro ‒ con in mano un coltello e unico fra i presenti in abiti non accademici ‒ il sector, di solito un chirurgo o un barbiere, ovvero colui che materialmente esegue la dissezione del cadavere; il demonstrator è il personaggio all'estrema destra, che con una bacchetta indica al sector come, dove e quando tagliare il corpo; il lector, in cattedra, a debita distanza dal corpo e dallo spazio riservato alla manualità, legge o recita un testo anatomico.

Ci sono altri sei personaggi, anch'essi senza alcun rapporto diretto con il cadavere, che rappresentano studenti e docenti che animeranno l'ultima fase del rituale, la disputatio, ovvero la discussione formale successiva alla lettura del testo e alla dimostrazione pratica. I testi usualmente utilizzati per l'anatomia pubblica sono tutti di stretta osservanza galenica: il primo fen del Liber canonis di Avicenna, epitomi e sintesi delle opere anatomofisiologiche di Galeno prodotte nel corso del XVI sec., e la stessa Anatomia di Mondino. Ancora nel 1607, quest'ultima è imposta come testo di lettura che accompagna le anatomie pubbliche all'Università di Padova, nonostante molti decenni siano già trascorsi dalla radicale revisione dell'anatomia galenica operata da Andrea Vesalio e dai suoi epigoni.

In questo tipo di lezione di anatomia, che costituisce il modello generalmente seguito almeno nelle università italiane del XV e del XVI sec., la lettura guida la dissezione, e le descrizioni fornite dal testo canonico ‒ rigorosamente d'ispirazione galenica ‒ trovano conferma nell'osservazione del cadavere. Quest'ultimo è ridotto a semplice supporto visivo, a una funzione meramente iconica, in quanto si tratta di un oggetto sul quale mostrare la forma, il colore, la consistenza e le reciproche relazioni delle parti anatomiche. La dissezione non ha alcun intento investigativo, né è intesa come uno strumento di verifica empirica dei testi classici (anche gli errori più macroscopici dei classici, che l'osservazione diretta del cadavere potrebbe facilmente mettere in evidenza, non sono corretti né discussi); al contrario, essa trova una propria giustificazione unicamente come strumento didattico, come un'occasione straordinaria per vedere ciò di cui i testi parlano. Più in generale, l'intero rituale della dimostrazione anatomica appare innanzi tutto come una vera e propria celebrazione pubblica, teatralmente orchestrata, dell'autorità delle fonti classiche del sapere e, al tempo stesso, dell'autorità accademica che le dispensa e le amministra.

Terminata la lezione, i pezzi del corpo dissezionato devono essere accuratamente raccolti in una cassa e riconsegnati rapidamente alla confraternita che deve occuparsi della sepoltura del cadavere, a spese dell'università o del collegio dei medici. Alcuni aspetti delle pratiche relative alle esequie stabilite dagli statuti universitari, e che appaiono consolidate nella consuetudine, danno ancora un'indicazione relativa al disagio generato dalla dissezione anatomica e alla necessità di elaborare ed effettuare gesti e riti di carattere straordinario tali da circoscrivere tale disagio e ricondurre nell'ambito del lecito un'operazione che lambisce pericolosamente la sfera del sacrilegio. Alessandro Benedetti nell'Anatomia sive historia corporis humani (1502) ricorda, per esempio, la necessità di prevedere purificazioni rituali per ripagare le offese inflitte alle spoglie del defunto. Gli statuti romani del collegio medico del 1536, stabiliscono che lo stesso si assuma, oltre alle spese relative alla sepoltura, anche il pagamento di 20 messe supplementari da offrire in memoria del soggetto dissezionato, e l'elargizione di elemosine ai poveri pro anima anatomizati; inoltre, i medici e gli studenti sono tenuti a partecipare solennemente alla processione che accompagna i corpi anatomizzati alla sepoltura e a donare ceri e torce per la funzione funebre alla confraternita che gestisce le esequie.

L'insieme di questi atti, se da un lato va letto come una forma di ricompensa per il sacrificio del corpo immolato sull'altare dell'arte medica e in funzione di una riabilitazione ‒ insieme sociale e ultraterrena ‒ del cadavere, dall'altro costituisce una strategia concepita per riabilitare, nello stesso tempo, la figura morale e quella professionale dell'anatomista.

Le antiche auctoritates e il Rinascimento anatomico

Se l'insieme delle norme che regolano l'anatomia pubblica in un rigido rituale accademico, da un lato costituisce una strategia attraverso cui addomesticare i caratteri sacrileghi e trasgressivi della dissezione, dall'altro lato vincola fortemente l'osservazione stessa delle parti anatomiche e limita le potenzialità investigative della dimostrazione anatomica che resta, come abbiamo visto, pedissequamente dipendente dai testi letti dall'anatomista che dalla cattedra guida il coltello del sector e dirige l'intera lezione. L'aspetto unicamente informativo e didattico della lezione è dovuto, d'altro canto, anche al debole statuto epistemologico della conoscenza anatomica nell'ambito di una clinica fondata sulla teoria degli umori e, insieme, alla presunta esaustività, per la pratica della medicina, delle conoscenze fornite dalle antiche autorità ‒ innanzi tutto Galeno ‒ nonostante errori e lacune.

Tutti questi elementi forniscono una spiegazione del fatto che l'anatomia rinascimentale, nonostante le possibilità investigative offerte dall'osservazione diretta dei cadaveri e la regolarizzazione della pratica della dissezione in numerose università europee nel corso del XV e del XVI sec., resta sostanzialmente immutata fino alla radicale revisione operata da Andrea Vesalio nel 1543, con la pubblicazione del De humani corporis fabrica. I testi di Galeno e dei galenisti, in particolare l'Anatomia di Mondino, costituiscono non soltanto i testi guida per la lezione pubblica di anatomia, ma anche le opere di riferimento principali sulla base delle quali sono stati redatti tutti i trattati anatomici pubblicati prima di quello di Vesalio. Molti di essi, riprendendo la tradizione scolastica medievale, non sono altro che commenti o sintesi dei testi classici, in cui si assiste per lo più al tentativo di armonizzare, attraverso citazioni e glosse, eventuali discordanze dei testi canonici. Esemplare di questo genere d'esercizio è l'opera di Gabriele de Zerbi (1468-1506) Anatomiae corporis humani et singulorum illius membrorum liber (1502). Essa è organizzata in tre sezioni (parti anteriori, parti posteriori, parti laterali) riprendendo il modello proposto da Aristotele nel De incessu animalium e nel De caelo; l'autore costruisce il proprio libro producendo un textus relativo a ogni parte anatomica, seguito da un commento e da una serie di citazioni in cui vengono presentate posizioni diverse e discussioni relative alla parte anatomica in questione. Zerbi utilizza soprattutto gli autori arabi (Avicenna, Averroè, Rhazes, ῾Alī ibn al-῾Abbās), ma anche greci (Aristotele e Galeno, l'Onomasticon di Iulius Pollux per ciò che riguarda la terminologia), qualche latino (Plinio e Lucrezio) e alcuni autori medievali come Alberto Magno e Pietro d'Abano.

Il carattere compilativo contraddistingue anche l'Anathomia di Girolamo Manfredi, che appare qualche anno prima (1490). Fin dalla prefazione Manfredi dichiara che il suo trattato è stato composto attingendo ex variis antiquorum voluminibus, sintetizzandone il contenuto e traducendolo in italiano per facilitarne la comprensione. Le sue fonti sono gli autori greci e arabi ‒ in particolare Avicenna ‒ ma l'impianto complessivo dell'opera e le descrizioni anatomiche sono ispirate soprattutto alla migliore sintesi dell'anatomia galenica allora disponibile e diffusa: l'Anatomia di Mondino. Il medesimo atteggiamento è condiviso ‒ per portare ancora un esempio ‒ dall'anatomista spagnolo Andrés de Laguna, che descrive la sua Anatomica methodus seu de sectione humani corporis contemplatio, pubblicata a Parigi nel 1535, come un trattato in cui non è esposto nulla "che non possa essere provato dall'autorità di Ippocrate, Galeno, Cornelio [Celso], Platone, Aristotele, Plinio o, infine, dell'Afrodisiaco [Alessandro di Afrodisia]".

Parallelamente a questa trattatistica, che potrebbe definirsi eclettica in ragione della molteplicità delle fonti e delle auctoritates alle quali fa riferimento, già a partire dal primo decennio del XVI sec. si esprime l'esigenza di risalire alle uniche e vere fonti del sapere filosofico e scientifico, ossia i Greci. Alessandro Benedetti (1440-1511), uno dei rappresentanti dell'umanesimo anatomico dell'epoca, scrive il suo Anatomia utilizzando unicamente riferimenti ad autori greci, in contrapposizione a Zerbi che, come guida, adotta invece soprattutto autori arabi.

La pubblicazione e la rapida circolazione delle traduzioni latine delle opere anatomiche di Galeno ‒ innanzi tutto del De anatomicis administrationibus, tradotto da Demetrio Calcondila (la traduzione è della seconda metà del XV sec. e la pubblicazione avviene a Bologna nel 1529 con il titolo De anatomicis aggressionibus, a cura di Berengario da Carpi) e successivamente a Basilea nel 1536 a cura di Johann Guinter von Andernach (Johannes Guiterius Andernacus, 1505 ca.-1574) ‒ costituiscono certamente un momento di svolta importante. Esse, da un lato, rafforzano la tendenza ellenizzante di una parte della trattatistica anatomica, impongono una revisione della conoscenza anatomica in termini strettamente galenici e determinano la necessità di argomentare eventuali discrepanze tra i testi e le osservazioni operate attraverso la dissezione; dall'altro lato, creano inevitabilmente le basi per lo sviluppo di una lettura critica dell'anatomia galenica. A partire da queste date, in ogni testo anatomico si assiste a una straordinaria proliferazione di citazioni tratte direttamente dal De anatomicis administrationibus e dal De usu partium corporis humani a discapito degli altri autori antichi e moderni, ivi compreso Mondino. Tuttavia, l'Anatomia di Mondino, per il suo carattere di guida pratica alla dissezione, resterà una lettura più appropriata per le dimostrazioni pubbliche che poteva essere comunque integrata, nella lectio e nella disputatio, con le descrizioni fornite da Galeno.

Nel corso della prima metà del XVI sec., la Facoltà di medicina di Parigi diventa il principale centro dell'ellenismo anatomico grazie all'insegnamento e alle opere di Johann Guinter von Andernach e di Jacques Dubois (Jacobus Sylvius). Nel 1536 Guinter, insoddisfatto dei testi anatomici in circolazione utilizzati come manuali universitari, e per ricondurre il sapere anatomico alla sua fonte principale, pubblica a Basilea e a Parigi una propria versione abbreviata del De anatomicis administrationibus, intitolata Institutionum anatomicarum secundum Galeni sententiam, con l'obiettivo di rendere l'anatomia galenica direttamente accessibile agli studenti. Fin dall'introduzione, egli dichiara di seguire e imitare pedissequamente quanto dichiarato da Galeno: "nulla è asserito [nel libro] che Egli non abbia visto"; Guinter, quindi, abdica a ogni volontà di verifica e di revisione degli assunti contenuti nel testo canonico per eccellenza e scarta a priori le possibilità offerte dall'utilizzazione di altri strumenti di confronto, siano essi libri od osservazioni sui cadaveri, che pure egli conosce e pratica. I medesimi obiettivi didattici e culturali sono perseguiti da Jacques Dubois ‒ forse il più autorevole e conservatore dei galenisti parigini ‒ con la pubblicazione di un compendio di anatomofisiologia (In Hippocratis et Galeni physiologiae partem anatomicam isagogae, 1542) destinato a un notevole successo editoriale in Europa intorno alla metà del secolo, testo che esplicita sin dal titolo la posizione culturale dell'autore e il sistema di riferimento in cui si inscrive. In questo stesso ambiente si forma Charles Estienne, autore del De dissectione partium corporis humani libri tres, pubblicato a Parigi nel 1545; conformemente alla sua formazione umanistica, Estienne produce ancora una volta un testo di stretta osservanza galenica corredato, questa volta, da una serie cospicua di illustrazioni assai precise, dettagliate e di ottima fattura xilografica.

La lezione d'anatomia, concepita come un rituale accademico formalizzato e scevro da ogni intento investigativo, se da un lato è spiegabile come una strategia per aggirare il disagio generato dall'apertura del cadavere, dall'altro è dunque il frutto di questo clima culturale completamente pervaso dal rispetto incondizionato per le antiche autorità. Tuttavia il panorama non è poi così desolante e nel corso della prima metà del XVI sec., grazie proprio all'intensificarsi dell'attività anatomica e al prestigio culturale cui questa disciplina comincia ad assurgere nelle università, è possibile reperire alcuni elementi che preludono alla critica del paradigma anatomico fissato da oltre un millennio da Galeno, e che si configurano come condizioni di possibilità culturali e materiali per la realizzazione dell'opera innovativa di Andrea Vesalio.

Timidamente si insinua nelle pagine di alcuni autori, come per esempio Jacopo Berengario da Carpi (1460-1530) e Niccolò Massa (1499-1569), l'idea che Mondino, gli Arabi e addirittura Galeno abbiano potuto sbagliare, non vedendo in maniera corretta o addirittura non vedendo affatto. Già Alessandro Achillini (1463-1512) nelle Adnotationes anatomicae ‒ una raccolta di appunti delle sue lezioni anatomiche, tenute a partire dall'Anatomia di Mondino nei primi anni del secolo, pubblicata postuma nel 1520 ‒ insiste, forse soltanto retoricamente, sull'importanza da assegnare agli aspetti manuali dell'anatomia e sulla necessità dell'osservazione diretta del corpo umano. D'altro canto questi argomenti sono sviluppati e diventano operativi nei Commentaria super Anatomia Mundini di Berengario da Carpi (1521), testo in cui l'Anatomia di Mondino è sottoposta a una verifica dotta e minuziosa attraverso il confronto con gli altri autori d'anatomia antichi e moderni, in uno stile argomentativo che ricorda quello del trattato anatomico di Zerbi. Molti riferimenti testuali di cui i Commentaria sono ricchi consentono la ricostruzione di una bibliografia esauriente delle opere anatomiche di riferimento in circolazione; inoltre, la verifica e il commento al testo di Mondino sono condotti innanzi tutto attraverso l'osservazione dei cadaveri dissezionati a cui Berengario fa frequentemente allusione, insistendo sulla priorità della percezione sensoriale rispetto ai testi canonici, ivi compresi quelli di Galeno. Nell'anno successivo, il 1522, Berengario pubblica anche un'altra opera anatomica ‒ intitolata Isagogae breves ‒ in cui sono condensati in poche pagine i risultati dei Commentaria; si tratta di un manuale destinato innanzi tutto agli studenti di medicina e presumibilmente concepito per sostituire nell'insegnamento dell'anatomia a Bologna il libro di Mondino che Berengario reputa ormai per molti aspetti superato. Tanto i Commentaria quanto le Isagogae breves sono, inoltre, corredati di un apparato illustrativo, e i libri di Berengario sono i primi testi anatomici a stampa in cui si fa ricorso a materiale iconografico.

Un altro autore critico nei confronti di un atteggiamento conoscitivo completamente soggetto all'autorità degli Antichi ‒ atteggiamento assai diffuso, come si è visto, negli ambienti accademici della prima metà del XVI sec. ‒ è Niccolò Massa, medico veneziano e docente all'Università di Padova, che nel 1536 pubblica il Liber introductorius anatomiae. Benché abbia a disposizione e citi costantemente il De anatomicis administrationibus di Galeno, anche Massa prende molti spunti da Mondino, ma in aperta e veemente polemica con gli autori più recenti insiste, come già Berengario, su un metodo d'indagine anatomica basato sull'esperienza sensoriale: la vista e il tatto costituiscono gli strumenti essenziali del processo conoscitivo e sono gli unici garanti della 'verità' in contrapposizione alle hominum auctoritates. Nel complesso però, nonostante queste affermazioni di principio, e nonostante egli abbia occasione di dissezionare cadaveri anche al di fuori del rituale della lezione pubblica ‒ come ricorda nel suo trattato ‒ Massa redige, come Berengario d'altronde, un'opera che resta ancorata in buona parte al paradigma dell'anatomia galenica.

Un grande passo in avanti, tuttavia, è compiuto nel momento in cui alcuni di questi autori (per es., Berengario e Massa) dichiarano, almeno come principio teorico, la priorità dell'osservazione empirica e della percezione sensoriale rispetto ai testi degli Antichi, mettendo in tal modo in discussione lo stesso fondamento dell'autorità millenaria di Galeno. Si tratta di un mutamento radicale nell'approccio all'autorità testuale.

Leggere libri, dissezionare cadaveri: l'anatomia secondo Vesalio

L'attività e l'opera di Andrea Vesalio si innestano, quindi, in un contesto in cui sono già in buona parte sviluppate le condizioni intellettuali e materiali perché sia pensabile e realizzabile il rinnovamento dell'anatomia. Vesalio rivolge le sue critiche non soltanto agli anatomisti suoi contemporanei e ai deprecabili vezzi dell'accademia (come le infruttuose cerimonie anatomiche, l'interesse unicamente formale per l'anatomia, il disprezzo per tutte le operazioni manuali), ma direttamente alla fonte stessa del sapere anatomico: Galeno.

Studente a Parigi e allievo di Dubois e Guinter, dunque formato nella più stretta osservanza galenica, Vesalio già nel 1539, durante una lezione sulle ossa in cui utilizza i testi di Galeno e gli scheletri di un uomo e di un animale, avanza apertamente il dubbio che Galeno abbia mai veramente dissezionato un corpo umano. Ciò significa portare un attacco frontale al galenismo, minare alla base la credibilità stessa dell'intera produzione anatomica di Galeno. Tutta l'attività didattica ed editoriale di Vesalio è dettata e ispirata da questo dubbio, che nel tempo si fa certezza: tutte le descrizioni dell'anatomia umana fornite da Galeno sulla base di dissezioni animali sono potenzialmente sbagliate; l'anatomia nel suo complesso deve essere verificata e riscritta a partire dalle osservazioni ripetute e minuziose del corpo umano.

La pubblicazione del De humani corporis fabrica nel 1543 è il risultato di questo progetto; l'opera è uno dei capolavori dell'editoria cinquecentesca e le illustrazioni in essa contenute sono una delle massime realizzazioni non soltanto dell'iconografia anatomica, ma più in generale della storia della xilografia e dell'immagine a stampa. La Fabrica è stata stampata a Basilea contemporaneamente a due edizioni, una in latino e un'altra in tedesco, del De humani corporis fabrica librorum epitome, una sorta di compendio da utilizzare come introduzione alla lettura dell'opera maggiore e, in genere, allo studio dell'anatomia. L'Epitome è composta da un brevissimo testo in cui è esposta sinteticamente l'anatomia umana, accompagnato da un cospicuo apparato iconografico; le figure sono state incise e stampate in modo tale da poter essere ritagliate e incollate le une sulle altre, così da formare un'unica immagine anatomica a figure sovrapposte e sollevabili. La Fabrica è il prodotto di una conoscenza accurata e profonda della letteratura anatomica precedente (di Galeno, certamente, ma anche degli altri principali autori greci, arabi, medievali e rinascimentali) e dell'ostinata e meticolosa ricerca operata di prima mano sui cadaveri.

La dissezione per Vesalio non è più soltanto uno strumento didattico finalizzato a mostrare quanto è contenuto nei libri; essa è, al contrario, l'unico mezzo per verificare la veridicità del contenuto dei testi canonici, lo strumento conoscitivo che consente di sviluppare un'anatomia finalmente fondata sull'osservazione diretta del corpo umano. Dal punto di vista didattico, la dissezione ha senso e può essere di una qualche efficacia nell'apprendimento, soltanto a condizione che sia infranta la frontiera che separa gli studenti dal cadavere anatomizzato, lo spazio della teoria da quello della manualità. Infatti, Vesalio auspica che agli studenti sia data l'occasione ‒ almeno una volta nel corso dei loro studi ‒ di aprire e separare qualcuna delle parti del corpo umano con le proprie mani, al di fuori dunque del rigido e vacuo rituale che vincola lo svolgimento dell'anatomia pubblica.

La prefazione della Fabrica è, insieme al frontespizio, un vero e proprio manifesto in cui Vesalio annuncia il suo programma. Verbalmente, nella prefazione, e per immagini, nel frontespizio, sono esplicitate la posizione culturale, le procedure adottate, gli obiettivi polemici e la proposta metodologica che Vesalio intende avanzare con la realizzazione e la pubblicazione della sua opera. La stagnazione del sapere anatomico dai tempi eroici di Erofilo, prima, e di Galeno, poi, è dovuta innanzi tutto ‒ scrive Vesalio ‒ al discredito in cui è caduta presso i medici la manus opera. Essi si occupano sostanzialmente della prescrizione delle diete e delle medicine, ripudiando ogni attività manuale che, invece, è delegata ai chirurghi e ai barbieri, gli inservienti, la bassa manovalanza dell'arte della medicina. Tale deprecabile costume ha indotto la netta separazione dell'attività teorica dalla pratica terapeutica e, conseguentemente, l'accantonamento della naturae speculatio, la parte primaria ed essenziale della medicina. L'abbandono di ogni attività manuale, "fuggita come la peste" ancora dai suoi contemporanei (medici certamente eruditi, ma eredi di questa perversa tradizione), ha avuto effetti disastrosi non soltanto sulle pratiche terapeutiche, ma anche ‒ per ciò che concerne l'anatomia ‒ sulla conoscenza stessa delle parti interne del corpo umano e, naturalmente, ha fatto perdere ai medici l'abilità e la capacità stessa di dissezionare. La lezione d'anatomia così com'è ancora concepita e celebrata nelle università del Rinascimento è il risultato inevitabile di questa situazione: i sectores, di solito barbieri o chirurghi ignoranti, lacerano le carni del cadavere senza alcuna conoscenza dell'anatomia umana, mentre dall'alto della cattedra l'anatomista "come una cornacchia" ripete a memoria quanto ha appreso leggendo i testi altrui; in anatomia, un qualunque macellaio ‒ aggiunge Vesalio ‒ sarebbe più competente di costoro.

Nel frontespizio della Fabrica la lezione è rappresentata in modo radicalmente diverso rispetto all'iconografia precedente, in modo conforme, invece, alla concezione che Vesalio ha dello studio e dell'insegnamento dell'anatomia: la scena della pubblica dissezione si svolge all'aperto, in un cortile dove è stata sistemata una struttura teatrale in legno; un pubblico estremamente composito di settanta o ottanta persone assiste alla lezione; è un pubblico movimentato, attivo, che ha perduto la compostezza accademica e il distacco manifestati dagli astanti rappresentati nelle scene di dissezione riprodotte, per esempio, nei frontespizi dell'Anatomia di Mondino o delle opere di Berengario da Carpi. Al centro dell'immagine è posto uno scheletro con in mano una canna magistrale, un riferimento al tema del memento mori e, insieme, letteralmente, all'importanza dello scheletro in anatomia, la struttura portante della Fabrica del corpo umano. La scena che si svolge sul tavolo anatomico, poi, rappresenta il rovesciamento della tradizione iconografica e l'infrazione delle regole stabilite dagli statuti universitari relative all'organizzazione della lezione di anatomia: Vesalio ‒ il docente di anatomia ‒ è ritratto con una mano infilata nell'addome di una donna, mentre gesticola con l'altra enfatizzando le parole che accompagnano la dissezione. Non c'è più separazione tra lo spazio della lettura e quello della dissezione, né una pluralità di attori che recita nel cerimoniale. I barbieri sono relegati ai piedi del tavolo settorio intenti a litigare per un rasoio da affilare; l'anatomista è, insieme, lector, demonstrator e sector. Il ritratto di Vesalio che segue il frontespizio nelle prime due edizioni della Fabrica, l'una del 1543 e l'altra del 1555, riproduce l'anatomista nell'atto di mostrare l'anatomia dell'avambraccio sul corpo di una donna sproporzionatamente grande. Sul tavolo compaiono non solo gli strumenti chirurgici necessari alla dissezione di questa parte del corpo, ma anche una penna nel calamaio e un foglio di carta in cui è simulato l'inizio di uno dei capitoli della Fabrica. In quest'immagine Vesalio, che ha evidentemente seguito da vicino la realizzazione di tutte le illustrazioni del suo libro, pone l'accento sull'indissolubile duplice carattere dell'anatomia, frutto insieme di abilità pratica e di elaborazione teorica. Al tempo stesso, vuole indicare ‒ in polemica con i suoi predecessori ‒ il modo in cui egli ha prodotto il suo testo: se nella lezione di anatomia condotta secondo il modello stabilito dagli statuti universitari è il testo a produrre la dissezione, la scrittura della Fabrica è, invece, stata guidata e dettata dalla dissezione.

Oltre alle polemiche di carattere procedurale e metodologico che Vesalio indirizza, implicitamente ed esplicitamente, contro i galenisti e l'immutabile paradigma millenario da essi adottato, nella Fabrica egli discute e critica direttamente Galeno correggendo innumerevoli volte le descrizioni e le dimostrazioni anatomiche che questi fornisce nelle sue opere. Soltanto nell'indice ‒ peraltro incompleto ‒ il nome di Galeno ricorre 265 volte, la maggior parte delle quali per correggerlo, in particolare in relazione al fatto che le sue osservazioni erano state compiute sugli animali e non sull'uomo, e per non aver tenuto conto delle molteplici differenze che distinguono il corpo umano da quello degli animali, in particolare delle scimmie.

Vesalio, è bene puntualizzare, riconosce che Galeno ha svolto un ruolo decisivo nella storia dell'anatomia e della medicina in generale, tanto che nella prefazione della Fabrica lo definisce post Hippocratem medicinae princeps. Sono, inoltre, un vero e proprio tributo a Galeno la scelta adottata da Vesalio nella terminologia e quella dell'ordine che scandisce l'esposizione delle parti anatomiche nella Fabrica (osteologia, miologia, vene e arterie, nervi, organi), preso evidentemente a prestito dal De anatomicis administrationibus, e preferito al piano organizzativo usualmente utilizzato nella trattatistica quattro-cinquecentesca derivata da Mondino dei Liuzzi (ventre inferiore, mediano e superiore dall'esterno verso l'interno). Infine, è a partire dalla lettura attenta dei testi galenici che Vesalio redige la sua opera ed è possibile, a più riprese, sorprenderlo in errori interpretativi propri della tradizione anatomofisiologica galenica. È il caso, per esempio, della descrizione del setto centrale del cuore, i cui pori, tradizionalmente, si reputava consentissero il passaggio del sangue dal ventricolo destro al sinistro; tale descrizione è tuttavia parzialmente corretta da Vesalio nella seconda edizione della Fabrica (1555), parzialmente perché ‒ scrive ‒ "esito a tentare una descrizione completamente nuova delle funzioni del cuore". Nello stesso spirito di progressivo affrancamento dal modello anatomofisiologico di Galeno, già nell'edizione del 1543 Vesalio contesta per la prima volta l'esistenza nell'uomo della rete mirabile, un reticolo di minuscoli vasi sanguigni posti alla base del cranio che egli stesso, allineandosi al modello galenico e conformandosi ai testi anatomici coevi, aveva in precedenza descritto nelle Tabulae anatomicae sex, una serie di illustrazioni anatomiche pubblicate a Venezia nel 1538. La rete mirabile, presente negli ungulati ma non nell'uomo, era uno degli elementi chiave su cui poggiava la fisiologia galenica, in quanto per il suo tramite si reputava che lo spiritus vitalis, contenuto nel sangue proveniente dal cuore, si trasformasse in spiritus animalis, diffuso nel corpo attraverso i nervi, e in tal modo si spiegava il legame tra processi mentali e movimento muscolare.

L'atteggiamento critico (e autocritico) manifestato da Vesalio, sostenuto dall'osservazione anatomica, mette in discussione, quindi, gli assunti generali e le certezze più solide della fisiologia galenica. Vesalio segnala le manchevolezze del galenismo sul piano anatomico, per quanto riguarda le procedure e il metodo, e propone una ridefinizione complessiva dei modi di apprendere, di insegnare e di indagare la composizione del corpo umano; in tal modo apre una breccia verso un ripensamento complessivo della fisiologia umana. Un simile atteggiamento attacca e mina alle fondamenta la credibilità stessa di quanti improntavano il loro insegnamento alla consolidata tradizione del galenismo, e lo stesso Vesalio ‒ sempre nella prefazione della Fabrica ‒ prevede opposizioni, critiche e attacchi alla sua opera da parte degli ambienti accademici e intellettuali più conservatori; Jacques Dubois ‒ di cui è stato allievo a Parigi ‒ è infatti il primo che pubblicamente si schiera a difesa della tradizione galenica con un pamphlet amaro e violento, pubblicato a Parigi nel 1552. In quest'opera Vesalio è trattato come un folle calunniatore che ha insozzato la scienza anatomica, fisiologica e medica mettendo in dubbio la veridicità dei testi 'sacri' della medicina (le opere di Ippocrate e di Galeno) e, in particolare, sostenendo l'inaffidabilità degli scritti galenici. La polemica tra galenisti e antigalenisti, tra fautori della tradizione e sostenitori della revisione operata da Vesalio, dura ‒ a colpi di libelli pro e contro Vesalio ‒ fino alla metà degli anni Sessanta del XVI secolo. Tale dibattito annovera, tra gli oppositori, anche Bartolomeo Eustachio, potente medico e anatomista attivo a Roma intorno alla metà del secolo, autore, tra l'altro, dell'Epistola de auditus organis, in cui dà conto di importanti scoperte relative all'anatomofisiologia dell'orecchio e, inoltre, fa riferimento a una serie di illustrazioni anatomiche che saranno pubblicate però soltanto due secoli dopo, nel 1714.

Nonostante le resistenze opposte dai galenisti, tuttavia, a partire dalla pubblicazione della Fabrica e grazie alla sua repentina diffusione (anche al di fuori del ristretto circolo dei medici), l'intera trattatistica anatomica europea deve necessariamente fare i conti con l'opera di Vesalio, divenuta immediatamente lo spartiacque tra quanto si faceva prima e quanto si poteva e si doveva fare dopo la sua pubblicazione. Nelle loro opere e nella loro attività d'insegnamento, gli anatomisti italiani Realdo Colombo e Gabriele Falloppia (o Falloppio), lo spagnolo Juan de Valverde, i tedeschi Volcher Coïter e Leonhart Fuchs, lo svizzero Felix Platter, gli anglosassoni Thomas Geminus, John Caius e John Banister ‒ soltanto per citarne alcuni ‒ tutti in un modo o nell'altro si dicono debitori dell'anatomia vesaliana, e più in particolare della Fabrica. La maggior parte delle opere di tutti gli autori del XVI sec. che scrivono di anatomia si ispira a questa al punto, talvolta, da rasentare il plagio; in qualche caso se ne fornisce una versione abbreviata, o maggiormente centrata sull'iconografia, come per esempio fa Geminus; in altri casi si apporta soltanto qualche correzione alle descrizioni anatomiche di Vesalio o si fornisce un'organizzazione differente della materia anatomica.

Bisogna tuttavia precisare che nell'insegnamento universitario l'anatomia vesaliana non soppianta l'anatomia galenica. Ancora fino alla metà del XVII sec., almeno formalmente, la pratica della dissezione resta infatti vincolata da norme statutarie e da regole di comportamento che, se da un lato la legittimano, dall'altro la svuotano di ogni efficacia didattica e, soprattutto, investigativa. Ciò accade nonostante il successo della Fabrica, nonostante la dimostrazione palese dell'inconsistenza metodologica e degli errori dell'anatomia tramandata dal galenismo, nonostante le critiche ampiamente condivise al tedioso rituale accademico della lezione d'anatomia (a partire dal 1543 tutte le immagini di dissezione sono ispirate alla scena del frontespizio del De humani corporis fabrica e anche la vecchia iconografia della lezione ex cathedra diventa definitivamente obsoleta). Ciò accade, infine, a dispetto della crescente disinvoltura con cui gli anatomisti, nel corso del XVI sec., si vantano di osservazioni fatte su cadaveri anche al di fuori delle anatomie lecite e programmate dai collegi e dalle università. Di fatto, sembra che, nel corso del XVI sec., la conoscenza anatomica si sviluppi ai margini della legalità, grazie a dissezioni e osservazioni praticate in segreto, su cadaveri di assai dubbia provenienza. Queste 'anatomie private', designate da Vesalio come l'unico vero modo per conoscere il corpo umano, compiute e attestate più o meno esplicitamente in tutta la letteratura anatomica del Rinascimento, sono tollerate dalle istituzioni giudiziarie, religiose e accademiche, con un'implicita ammissione dell'incontestabile inutilità didattica e investigativa delle lezioni pubbliche d'anatomia. Queste ultime, infatti, sono ormai poco più che rituali finalizzati, da un lato, alla gestione pubblica del disagio religioso e antropologico generato dalla dissezione e, dall'altro lato, all'organizzazione delle solenni cerimonie attraverso le quali annualmente è riaffermato il prestigio professionale e sociale della medicina universitaria.

Figure anatomiche: medici e artisti

Le immagini che accompagnano il testo della Fabrica costituiscono uno dei principali elementi che hanno contribuito al successo dell'opera di Vesalio, tanto presso i suoi contemporanei quanto nei secoli successivi. Il dibattito relativo alla loro attribuzione ‒ sia per ciò che riguarda il disegno che per l'intaglio ‒ resta ancora aperto: mentre è certo che queste immagini siano state realizzate con la supervisione dello stesso Vesalio, è soltanto un'ipotesi plausibile che siano l'opera di un artista che gravitava intorno alla bottega di Tiziano Vecellio a Venezia negli anni Quaranta del Cinquecento. Nel 1538 Vesalio ha già pubblicato a Venezia le Tabulae anatomicae sex, sei immagini anatomiche accompagnate da un breve testo esplicativo, preparate in collaborazione con il pittore fiammingo Jan Steven van Calcar. Vesalio, tuttavia, non è il primo ad aver capito che l'anatomia è un sapere che può, anzi deve, essere trasmesso e comunicato essenzialmente 'mostrando', ricorrendo cioè al sussidio visivo. Anche sotto questo profilo, la sua opera giunge a compimento di un lungo processo che ha radici antiche e che, proprio nel Rinascimento, trova le condizioni culturali e tecniche per realizzarsi.

Per un sapere topografico come l'anatomia, fin dai tempi di Aristotele e di Galeno l'atto del vedere è reputato fondamentale per imparare e fissare nella memoria la forma, il colore, la consistenza, la posizione e la grandezza delle parti del corpo umano, e per comprenderne le reciproche relazioni. In effetti, tanto la pratica della dissezione, quanto l'uso di immagini (figure, schemi o diagrammi) costituiscono due diverse espressioni della medesima esigenza di visualizzazione nella comunicazione e nell'apprendimento del sapere anatomico. Dissezione e illustrazione sono poste sullo stesso piano come possibili alternative nella didattica da Guido da Vigevano il quale, già nella sua Anatomia del 1345, scrive di aver dovuto fare regolarmente ricorso alle immagini durante le sue lezioni, poiché un divieto ecclesiastico impediva l'apertura del corpo umano. Inoltre, sulla centralità dell'atto del vedere insistono in vari modi tutti gli anatomisti rinascimentali. Se, per esempio, Berengario da Carpi, parafrasando Galeno, sottolinea il ruolo della vista e del tatto, in contrapposizione all'apprendimento attraverso l'udito e la lettura, Jacques Dubois giunge a dichiarare la sua generale sfiducia nella lingua e l'aspirazione a insegnare l'anatomia solo mostrando e senza proferir parola. D'altro canto, anche Leonardo da Vinci segnala, nei suoi quaderni, le virtù esplicative e descrittive dell'immagine in contrapposizione alle parole, spesso oscure e insufficienti per rendere la complessità e la bellezza dell'anatomia umana.

A partire da simili considerazioni, e grazie alle possibilità offerte dalla stampa, l'utilizzazione di immagini nell'editoria anatomica e medica del Rinascimento diventa sempre più frequente, anzi necessaria. Il Fasciculus medicinae di Giovanni di Ketham ‒ pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1491 ‒ contiene alcune figure che mostrano parti dell'anatomia umana; ugualmente Johann Schott, editore di un testo chirurgico pubblicato nel 1517, il Feldtbuch der Wundtartzney di Hans Gerssdorff, decide di far realizzare e di rilegare all'interno di questo testo due fogli volanti che illustrano le parti interne del corpo umano giudicando che qualche semplice nozione di anatomia sia indispensabile per chiunque pratichi una professione terapeutica. Materiale illustrativo atto a facilitare la comprensione delle descrizioni testuali è usato, prima di Vesalio, anche da altri autori: Berengario da Carpi nel commento all'Anatomia di Mondino e nelle Isagogae breves; Johannes Dryander (Johann Eichmann) ‒ un medico di Marburgo autore di vari testi medici e anatomici ‒ nell'Anatomia capitis humani pubblicata nel 1536 e nelle Anatomiae del 1537; in Francia, Charles Estienne si avvale dell'opera di due artisti per realizzare le numerose immagini che illustrano il De dissectione partium corporis humani, pubblicato nel 1545 ma già completo in ogni sua parte nel 1539; ancora in Germania, Walter Hermann Ryff nel 1541 pubblica a Strasburgo un fascicolo dal titolo Omnium humani corporis partium descriptio seu ut vocant Anathomia, destinato a un discreto successo sul mercato editoriale di diversi paesi europei. L'opera di Ryff è una sorta di atlante anatomico costituito da una serie di illustrazioni tutte più o meno plagiate, realizzate e incise probabilmente da Hans Baldung Grien, che Ryff ha dotato di una brevissima legenda esplicativa.

Dopo la pubblicazione del De humani corporis fabrica, poi, diventa quasi inconcepibile pubblicare su tematiche relative all'anatomia umana senza un congruo apparato iconografico a complemento delle descrizioni testuali; un'eccezione è il De re anatomica di Realdo Colombo, pubblicato postumo a Venezia e senza illustrazioni nel 1559, il cui progetto originario era tuttavia ben diverso: esso doveva essere il prodotto della collaborazione di Colombo con Michelangelo Buonarroti, il quale appare ritratto nel frontespizio che apre il trattato in una sorta di allegoria del rimpianto per il progetto fallito.

Nel corso del Rinascimento tali collaborazioni non si limitano soltanto alla progettazione e all'eventuale realizzazione di imprese editoriali, non sono dunque unilateralmente volte allo sfruttamento dell'abilità grafica degli artisti per la produzione di immagini che illustrino libri di carattere scientifico; in questo periodo, infatti, l'anatomia umana viene progressivamente a configurarsi come uno dei saperi necessari anche alla produzione artistica conformemente alla teoria estetica, sviluppatasi in particolare a Firenze a partire dalla prima metà del XV sec., incentrata sul concetto di imitazione della Natura e sulla pratica del disegno. Alcuni dei protagonisti dell'arte del Rinascimento, in particolare in Italia, non soltanto assistono a dissezioni condotte da medici e anatomisti con cui sono in rapporto di collaborazione, ma le praticano essi stessi, più o meno lecitamente, su corpi di dubbia provenienza o grazie a qualche speciale privilegio ottenuto dalle autorità, oppure grazie alla personale generosità di qualche anatomista. Verrocchio, Leonardo, Pollaiuolo, Signorelli, Raffaello, Michelangelo, Tiziano ‒ soltanto per portare qualche esempio ‒ hanno tutti interessi anatomici e praticano dissezioni; attraverso l'anatomia, essi cercano di svelare i segreti del movimento, della forma e della proporzione, interrogandosi sulla bellezza e sull'armonia del corpo umano. È noto che Leonardo, Michelangelo e Rosso Fiorentino progettarono veri e propri trattati anatomici, che restarono tuttavia irrealizzati; sono sopravvissuti numerosi disegni, studi e schizzi che testimoniano la ricerca anatomica e gli sforzi profusi per sviluppare la traduzione grafica, bidimensionale, delle parti del corpo umano. I disegni di Leonardo, per esempio, frutto delle sue accurate ricerche sul cadavere, sono opere grafiche tra le più sofisticate ed efficaci della storia dell'iconografia anatomica, e dal punto di vista della realizzazione grafica sono certamente superiori alla produzione contemporanea. I suoi disegni, tuttavia, non hanno alcuna influenza sullo sviluppo dell'anatomia e dell'iconografia anatomica, in ragione del fatto che hanno una circolazione estremamente limitata; d'altro canto alcuni di essi sono realizzati prima che Leonardo stesso pratichi delle dissezioni, e si fondano, con ogni probabilità, sulle descrizioni testuali fornite da autori precedenti.

Le ricerche anatomiche di Leonardo da Vinci vanno comunque intese come espressione della sua generale attitudine per l'investigazione della Natura e non come frutto di interrogazioni direttamente generate dalla sua attività artistica. Inversamente, l'attività degli artisti del Rinascimento italiano si iscrive in una teoria ‒ già espressa da Leon Battista Alberti ‒ secondo la quale una corretta rappresentazione della figura umana non può essere compiuta senza una conoscenza di quanto è al di sotto dell'epidermide, soprattutto la struttura ossea e la miologia. Ciò induce lo scultore Vincenzo Danti e il pittore Alessandro Allori a scrivere di anatomia specificamente a uso e consumo degli artisti, e favorisce lo sviluppo di una disciplina ‒ l'anatomia artistica ‒ destinata a una lunga storia che corre in parallelo a quella dell'anatomia dei medici. Giorgio Vasari nelle Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori ‒ sempre accurato nel fornire aneddoti e resoconti relativi all'attività anatomica ‒ sostiene che proprio la conoscenza dell'anatomia umana ha consentito a Michelangelo di portare a perfezione la sua abilità nel disegno, indispensabile per la messa in pratica del principio dell'imitazione e fondamento di tutte le arti (pittura, scultura e architettura). Michelangelo, in particolare negli ultimi anni della sua vita, è pubblicamente celebrato come l'artista 'divino', l'ideale che tutti dovrebbero voler imitare. La sua figura professionale è presa a modello per la fondazione, nel 1563 a Firenze, dell'Accademia del Disegno, il cui promotore è proprio Vasari; tale accadimento, tra le altre cose, significa la definitiva consacrazione dell'anatomia ‒ ancora oggi insegnata in molte Accademie di Belle Arti ‒ come una delle materie fondamentali per la formazione del giovane artista.

Anatomia come conoscenza di sé

La prima metà del XVI sec. è dunque cruciale per la storia dell'anatomia umana sotto molti aspetti: per l'affrancamento progressivo dalle antiche autorità; per la regolarizzazione della pratica della dissezione nelle università e la tolleranza manifestata verso la moltiplicazione di occasioni private, straordinarie, irregolari in cui i cadaveri possono essere aperti; per l'affermazione di un metodo di ricerca basato innanzi tutto sull'osservazione diretta; per lo sviluppo di una cultura visiva dell'anatomia che investe tanto il mondo della medicina, quanto quello dell'editoria e delle belle arti. In questo stesso periodo, l'anatomia umana valica le frontiere dell'accademia, della speculazione filosofica e della medicina; essa non soltanto è integrata tra le discipline rilevanti per la formazione e la produzione degli artisti ma, più in generale, si configura come un sapere che deve inevitabilmente carpire la curiosità di tutti e non soltanto di chi dell'anatomia fa un uso professionale. Il pubblico dell'anatomia, nel Cinquecento, è molto più vasto di quanto ci si potrebbe aspettare e la stessa conoscenza del corpo umano e delle sue parti assume significati e incarna valori che possono essere recepiti in contesti socioculturali molto diversi.

A partire dal 1538 appare sul mercato una serie di fogli volanti a stampa in cui è rappresentato il corpo umano e la sua anatomia. Essi sono costituiti da una figura circondata da un breve testo. Le figure sono formate da più lembi di carta sovrapposti e sollevandoli si scoprono le parti interne del corpo umano. Questo curioso artefatto tipografico, inventato da editori-incisori attivi nella Germania riformata, ha uno straordinario successo commerciale nel corso del XVI sec. e, particolarmente, negli anni cruciali dello sviluppo dell'anatomia rinascimentale. Soltanto tra il 1538 e il 1545 quasi ovunque nell'Europa occidentale ne sono stampate una ventina di edizioni differenti ‒ in latino, in volgare, a colori, con un solo lembo o con sei o sette lembi di carta su ciascuno dei quali sono rappresentate le varie parti del corpo. Questi fogli sono venduti da piccoli e grandi librai, dagli stessi editori-incisori che li stampano o dai venditori ambulanti che nei mercati diffondono santini e letteratura popolare. Gli acquirenti potenziali non sono soltanto studenti di medicina e di filosofia, chirurghi, barbieri e ciarlatani, ma anche un pubblico non colto ‒ popolare, se si vuole ‒ che nulla ha a che fare con le pratiche mediche, che certamente non conosce il latino e che apprende, di solito, più attraverso le immagini che attraverso i testi. Gli studenti li utilizzano per seguire le dimostrazioni pubbliche di anatomia o come strumento mnemonico; i barbieri, invece, attingono da essi gran parte del loro esiguo sapere sulla composizione del corpo umano e sugli organi interni; i ciarlatani possono affiggerli e mostrarli durante i loro spettacoli.

Dal punto di vista del contenuto i fogli volanti rivelano spesso numerosi errori, anche grossolani rispetto alla trattatistica anatomica coeva, e fino alla fine del secolo restano saldamente vincolati a un'anatomia prevesaliana. Comparando le varie edizioni ci si rende conto di come la storia di questi fogli si svincoli progressivamente dalla storia dell'anatomia accademica e dell'iconografia anatomica 'alta'. Certamente alcune edizioni continuano a essere concepite per gli studenti, ma i fogli volanti assumono sempre più il carattere di prodotti atti alla divulgazione del sapere anatomico (un sapere rudimentale, grossolano, erroneo) nei settori più ampi e disparati del tessuto sociale. Per raggiungere questo vasto pubblico, popolare e professionalmente indefinito, nei fogli volanti devono essere messi in rilievo quegli aspetti del sapere anatomico che possono risultare accattivanti per una ricezione non professionale dell'anatomia. Alcuni dei brevi testi associati dagli editori-incisori alle figure anatomiche, infatti, fanno riferimento a un uso di questi fogli ‒ e dell'anatomia più in generale ‒ che si inscrive all'interno di un discorso di carattere morale centrato sull'antico apoftegma greco "conosci te stesso". Proprio a partire da questo periodo e per molti decenni a venire esso sarà costantemente associato all'anatomia, traslando il senso dell'enunciato dall'originario piano morale al piano fisico. Lo si trova intercalato nelle prefazioni di quasi tutti i trattati d'anatomia del XVI sec., inscritto nei frontespizi e nelle illustrazioni, cesellato nell'architettura dei teatri anatomici. Associato all'anatomia, nosce te ipsum assume un significato e un valore intrinsecamente ambigui. Da un lato, è inteso come un'esortazione alla conoscenza di sé come mezzo attraverso il quale riconoscere in sé stessi elementi divini, l'opera del Creatore realizzata nel proprio corpo; dall'altro lato ‒ in un senso più pessimistico ‒ significa riconoscere la fragilità, la caducità, la mortalità dell'uomo e diventa una sorta di memento mori. Nei testi dei fogli volanti, "conosci te stesso" significa innanzi tutto ammirare la composizione del corpo umano e di tutte le sue parti, contemplare lo straordinario spettacolo del suo funzionamento; sulla base di tali considerazioni, la conoscenza di sé non riguarda più soltanto i medici, ma più genericamente tutti coloro che vogliono conoscere ‒ come recita il testo di un foglio volante ‒ "fatti e segreti dell'opera meravigliosa di Dio".

L'anatomia nel Cinquecento esce quindi dalle aule universitarie e diventa ‒ attraverso la produzione editoriale, le lezioni pubbliche, la circolazione di storie, di leggende e di eventi a essa relative ‒ una disciplina che si svolge per molti aspetti nella sfera pubblica. Più che un sapere utile e da applicare (in medicina, nell'arte), essa assume per tutti ‒ medici, terapeuti, artisti e semplici curiosi ‒ un senso più generalmente culturale. È lo strumento che consente di conoscere sé stessi, il proprio corpo, può dare ragguagli sui misteri della vita e della morte, è infine un invito alla riflessione sulla condizione umana e sulla potenza divina.

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