Il Rinascimento. La rinascita del platonismo

Storia della Scienza (2001)

Il Rinascimento. La rinascita del platonismo

Michael J.B. Allen

La rinascita del platonismo

Platone e il suo più noto interprete, Plotino, il fondatore del neoplatonismo, furono fra i più importanti autori antichi il cui pensiero tornò a rifiorire nel Rinascimento, nonostante la loro influenza fosse già notevole nel Medioevo. Questa si era esercitata, in ambito medievale, attraverso le opere di alcuni Padri greci, dello Pseudo-Dionigi, di Agostino e della tradizione agostiniana, di Boezio, di Scoto Eriugena, o per mezzo delle due contraffazioni attribuite ad Aristotele (il Liber de causis e la Theologia Aristotelis), o ancora, mediante le opere di Tommaso d'Aquino, il cui pensiero trae un certo numero di principî da quello platonico. Dei dialoghi platonici, nel Medioevo, era disponibile la contorta traduzione in latino della prima parte del Timeo redatta con un commento di Calcidio nel IV sec., che sarà fondamentale per Boezio e poi, nel XII sec., per la Scuola di Chartres. Inoltre, Enrico Aristippo (sec. XII) eseguì versioni in latino, poco conosciute, del Menone e del Fedone e, tra il 1274 e il 1286, Guglielmo di Moerbeke realizzò una traduzione letterale dei brani del Parmenide (citati nel commento di Proclo) per Tommaso d'Aquino. Tuttavia, benché il Timeo e il Parmenide siano due dialoghi di grande importanza e fossero stati posti dagli antichi neoplatonici al centro del loro programma di insegnamento come le due vette del pensiero cosmologico e metafisico di Platone, non è certo che durante il Medioevo siano stati diffusamente conosciuti, anche soltanto attraverso le interpretazioni di Calcidio e di Proclo. Tranne che per il Timaeus di Calcidio, infatti, la rarità dei manoscritti delle traduzioni suggerisce una diffusione molto limitata, mentre delle Enneadi di Plotino non esisteva neppure una versione in latino.

Nel Quattrocento, invece, grazie alle approfondite ricerche bibliografiche svolte da umanisti che operavano al servizio di grandi signori, si conobbero direttamente i manoscritti dei dialoghi e si acquisirono, poi, anche manoscritti delle Enneadi, giunti in Occidente dalla Grecia. Il periodo successivo alla caduta di Bisanzio (avvenuta nel 1453 a opera degli Ottomani), con l'arrivo degli eruditi greci che, giunti in Italia, assunsero incarichi nell'insegnamento, nelle cancellerie e nel clero, segna la rinnovata fortuna di Platone e in seguito di Plotino. Inizialmente soltanto pochi dialoghi furono tradotti in latino (il volgare in questo caso non fu utilizzato) da Bruni e da altri umanisti, alcuni dei quali non particolarmente competenti o che svolgevano affrettatamente il compito che gli era stato commissionato (è il caso di Giorgio di Trebisonda per le Leggi e il Parmenide). In un primo momento, l'interesse si rivolse soprattutto ai dialoghi socratici, quali il Fedone, il Critone e l'Apologia, all'etica e, in una certa misura, alla politica platonica. In seguito, con l'arrivo di eruditi greci, come Argiropulo e Bessarione, si trasferì in Italia il 'conflitto' tra i sostenitori bizantini di Aristotele e i loro avversari platonici, e anche questo contribuì all'approfondimento della conoscenza di Platone.

Marsilio Ficino

La rinascita delle dottrine di Platone e di Plotino si realizzò compiutamente nell'opera di Marsilio Ficino (1433-1499), insigne grecista, filosofo, sacerdote, insegnante e medico esperto (Epidemiarum antidotus [1479]; De physiognomia [1458 ca., perduto]; De vita [1489]). Egli tradusse scrupolosamente, e per la prima volta, l'intero corpus delle opere di Platone in latino, includendovi le Lettere, l'Epinomide, l'Alcibiade primo e l'Alcibiade secondo e altri fra gli scritti oggi ritenuti di dubbia attribuzione, corredando ogni opera con introduzioni ed epitomi e, in alcuni casi esemplari, con vasti commentari. Il risultato di questo lavoro fu l'edizione degli Opera omnia di Platone terminata nel 1484 e dedicata a Lorenzo de' Medici, uno dei più preziosi incunaboli attualmente esistenti. Una seconda edizione di quest'opera fu pubblicata a Venezia nel 1491 con alcune correzioni, insieme alla monumentale opera filosofica e apologetica di Ficino, la Theologia platonica.

La seconda e forse ancora più imponente impresa compiuta da Ficino fu quella di tradurre in latino le Enneadi di Plotino e la biografia introduttiva scritta da Porfirio, corredando anche in questo caso il testo di un vasto commento filosofico e di un sommario. Quest'opera fu pubblicata nel 1492. Egli rese accessibili in latino anche un certo numero di testi neoplatonici ‒ il De abstinentia di Porfirio, il De mysteriis di Giamblico, il De somniis di Sinesio, il De daemonibus di Psello, ecc. ‒ e allo stesso tempo eseguì un lavoro preparatorio su altri testi destinati a un uso personale. Inoltre, egli colse ogni occasione per esporre i concetti platonici o, più correttamente, neoplatonici: nei discorsi e nelle letture; nei trattati in latino e in volgare; nelle lezioni e nelle conversazioni; nelle molte lettere indirizzate a più di cento autorevoli corrispondenti, tra i quali figuravano cardinali, prìncipi e l'élite sociale, politica e intellettuale di Firenze.

Ficino aveva la piena capacità di orientarsi in molte questioni di carattere scientifico, e soprattutto nei loro aspetti platonico-matematici; dotto teorico di medicina, di cui conosceva a fondo la tradizione aristotelica, aveva una conoscenza enciclopedica della farmacopea medievale e delle credenze tradizionali astrologico-mediche; inoltre era un musicologo colto in grado di leggere testi difficili sull'armonia come, per esempio, il De institutione musica di Boezio e aveva anche acquisito una sufficiente competenza in matematica che gli consentiva lo studio di alcuni difficili loci mathematici dell'opera di Platone. Nel suo memorabile De vita, un'opera del 1489, divisa in tre libri, egli riflette a lungo sull'arte di condurre una vita sana, lunga e astrologicamente temperata, o ‒ come recita il titolo del Libro III ‒ di "ottenere la vita dal Cielo", "organizzare la nostra vita in modo celeste", "armonizzare la nostra vita ai cieli" (ad vitam coelitus comparandam). Questo testo è un singolare centone di idee dietetiche, farmacologiche, astrologiche e filosofiche adattate in particolare alla vita dello studioso, alla sua malinconia, alla sua dieta e al suo regime di vita, in cui sono trattati anche un certo numero di temi magici, quali in particolare l'efficacia e l'uso dei talismani, e diversi aspetti della demonologia. A difendere Ficino dal rischio, a un certo punto possibile, di vedere sottoposta l'opera all'esame della Curia romana intervennero alcuni autorevoli personaggi, sia perché egli riuscì abilmente a dimostrare di aver ripreso molte delle sue idee dall'Aquinate, da Alberto Magno e da altri autorevoli esponenti del pensiero scolastico circa molte delle più controverse questioni, sia soprattutto per l'adozione delle loro sottili concezioni e distinzioni concernenti la 'forma' e le sue relazioni, attuali e potenziali, con la materia (la teoria dell'ilemorfismo). Ciononostante, il De vita rimane un testo provocatorio per un cristiano ortodosso e una delle più audaci opere scientifiche del primo Rinascimento. Esso è fortemente debitore nei confronti del platonismo, non soltanto in generale per le affermazioni di Platone riguardo al potere dei filosofi di guarire le malattie dell'anima (o, nel caso di Socrate, di fare da levatrice alla nascita di valori o almeno di idee più chiare), ma più in particolare per le idee contenute nel Timeo, tra le quali figurano soprattutto, come vedremo, l'interessante materiale delle prime sezioni che presenta una concezione magico-musicale del mondo, descritto come un grande organismo dotato di un corpo e di un'anima, e le idee di carattere propriamente medico delle ultime sezioni del dialogo.

Giovanni Pico della Mirandola

Altra figura chiave della rinascita del platonismo rinascimentale è Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494). Benché per formazione e soprattutto per convinzione fosse piuttosto un aristotelico che non un seguace delle dottrine neoplatoniche come Ficino, egli s'immerse con giovanile entusiasmo nelle opere di Platone, di Plotino, di Proclo e di altri neoplatonici e acquisì rapidamente un'inconsueta conoscenza delle loro tesi centrali e di molte delle loro difficoltà. Ma ciò non era che una parte di una ricerca ancora più ambiziosa e vasta, destinata alla raccolta di tesi (piuttosto che di testi veri e propri) greche, ebraiche (anche cabalistiche), patristiche e scolastiche che egli riuscì a riunire in una grande sintesi sia filosofica, sia teologica. La sua celebre proposta del 1486 di difendere durante l'anno successivo 900 di queste tesi a Roma, in un convegno aperto a tutti i sapienti, aveva una valenza scientifica, poiché un certo numero di queste tesi concerneva direttamente la Natura o influiva necessariamente sulla visione del mondo naturale, e una piccola parte si richiamava anche a idee matematiche e numerologiche. Il rifiuto di Pico di modificare 13 tesi che comportavano implicazioni teologiche non ortodosse portò alla proibizione papale del convegno, ma già egli aveva scritto la celebre Orazione introduttiva con il suo mito di Dio che si rivolge ad Adamo. Alla fine della sua breve vita e dopo aver scritto diversi altri commenti filosofici e biblici, Pico compose un lungo trattato contro le pretese dell'astrologia divinatrice. Ciò significava, almeno in parte, mettere in discussione l'autorità di Tolomeo le cui opere (Tetrabiblos e Almagesto) erano i testi base dell'astrologia e dell'astronomia occidentali, e ciò nonostante che lo stesso Ficino considerasse Tolomeo un platonicus. Tuttavia, dal nostro punto di vista, l'opera più interessante di Pico è un trattato diviso in sette parti sui sei giorni della Creazione mosaica, l'Heptaplus (v. oltre).

La prisca theologia

Sia Ficino sia Pico, come gli antichi esponenti del tardo- neoplatonismo, soprattutto Proclo, dal quale essi traevano molte dottrine, erano attenti, contrariamente ad Aristotele, a quelli che consideravano i principî pitagorici di Platone (un debito che lo stesso Platone riconosceva). Lo Stagirita aveva infatti criticato il concetto platonico, derivato da Pitagora, che postulava l'esistenza della forma indipendentemente dall'assunzione di un corpo fisico, e le nozioni, riprese da alcuni dei diretti successori di Platone, inclusi Senocrate e Speusippo, secondo le quali le forme erano numeri, e questi, a loro volta, costituivano la struttura fondamentale o il principio di tutte le cose. Medesima sorte incontrava poi il concetto platonico di causa esemplare o paradigmatica in Aristotele, il quale poneva invece in rilievo la supremazia della causa finale e quindi degli aspetti teleologici di una Natura rivolta a un fine più che all'imitazione o al rispecchiamento. Inoltre, nell'antica tradizione biografica, tra i maestri di Platone, perfino Socrate occupava una posizione meno importante di quella dei pitagorici, e in particolare di Filolao.

Per Ficino, se Pitagora era il più eminente rappresentante dell'evoluzione dell'antica sapienza nel periodo precedente al suo perfezionamento nelle opere del divino Platone, a sua volta, discendeva direttamente da una linea di pensatori o saggi che risaliva al più remoto passato e che Ficino definiva 'antichi teologi' e implicitamente antichi filosofi della Natura: i traci Orfeo e Aglaofemo, l'egiziano Ermete Trismegisto, l'iranico Zoroastro. Da questa prospettiva eclettica il platonismo, inclusa la sua dottrina scientifica, si considera l'espressione definitiva di una sapienza che risale a un'epoca anteriore ad Abramo, forse ai figli di Noè vissuti prima di Babele, forse perfino ai due progenitori degli scienziati e degli artefici vissuti nel periodo precedente a Noè: Jubal, "il padre di quanti maneggiano la cetra e il flauto", e Tubalcain "che affilava ogni strumento di rame e di ferro" (Genesi, 4, 21-22).

A prescindere dalle implicazioni di carattere teologico, questo interesse nostalgico per le origini e l'autorità della sapienza platonica dà origine a una scienza rivolta al passato. Quelli che oggi sarebbero considerati 'progressi' scientifici, per Ficino e per Pico erano 'riconquiste' di ciò che si era perso o che era stato dimenticato dagli uomini troppo imprigionati nella carne per poterle ricordare correttamente. Questo 'originarismo' finisce necessariamente col privilegiare l'apriorismo. A questi saggi prepitagorici non è comunque attribuito nessun progresso scientifico in quanto tale, benché si ritenesse che Ermete Trismegisto conoscesse la magia per animare le statue e che Zoroastro fosse un adepto, e forse persino il fondatore, dell'astrologia. Si riteneva, inve-ce, che questi ultimi e altri prisci theologi conoscessero già le dottrine successivamente esposte da Pitagora, inclusa quella dei numeri e dei loro rapporti, che nella tradizione pitagorico-platonica era la chiave per accedere alla comprensione dell'astronomia e della cosmologia, e successivamente all'intelligenza delle proprietà formali della natura sensibile.

È interessante osservare che altri presocratici come Eraclito ed Empedocle siano presi in considerazione non come physici, cioè come scienziati che avevano indagato sull'essenza e sullo stato della sostanza originaria della materia e sulle forze che agiscono nella sua trasformazione, ma come metaphysici, vale a dire come poeti-teologi. La maggior parte dei presocratici, infatti, come i più illustri tra i poeti, Omero ed Esiodo, aveva errato per i platonici rinascimentali nel supporre l'esistenza di un caos primordiale; soltanto Parmenide e i suoi seguaci eleati (in particolare Melisso e Zenone) avevano abbandonato lo studio della fisica di questo flusso perenne per ricercare le sue cause nella metafisica dell'Uno inalterabile.

Secondo i platonici del Rinascimento, che facevano assegnamento sulle osservazioni di Aristotele e di altri autori, Platone aveva ereditato dagli eraclitei la comprensione dell'incessante trasformazione della Natura, e dagli eleati la sua metafisica e la sua teologia monistiche, mentre aveva ripreso da Socrate la sua sapienza etica e politica. Anche gli eleati erano stati però discepoli dei pitagorici che, a loro volta, anche se non direttamente, erano stati seguaci di Zoroastro e della sua sapienza astrale; tale ricostruzione elevava l'astronomia e le discipline necessarie alla sua comprensione, vale a dire la geometria e l'armonia, al rango di scienze originali e originarie. A partire da queste credenze, fondate sul mito di Er esposto da Platone nel Libro X della Repubblica e sulle speculazioni contenute nel celebre commento di Macrobio (IV-V sec.) al brano dedicato da Cicerone al sogno di Scipione ‒ in cui si sostiene una nostra esistenza precedente la nascita come anime tra gli oggetti dell'astronomia, e cioè tra gli astri, quindi la successiva discesa lungo la via del Cancro attraverso le sfere planetarie fino alla materia e, una volta purificati dei nostri corpi mortali, la risalita attraverso la costellazione zodiacale del Capricorno fino all'empireo ‒, l'astronomia diviene, per i platonici, la scienza per ricordare il passato, la casa che ci siamo lasciati alle spalle e a cui ritorneremo. Più che una semplice scienza, l'astronomia è dunque un tornare a visitare la nostra casa, un viaggio nel ricordo, una riscoperta delle leggi che un tempo conoscevamo, una riacquisizione del nostro moto perfetto. Poiché l'anima è definita da Platone, in particolare nel Fedro, il principio del moto, la prima a muovere e a essere mossa, l'indagine sul moto degli astri si identifica necessariamente con l'indagine sull'anima; l'astronomia è dunque scienza dell'anima.

L'interesse di Ficino per la prisca theologia e per i suoi profeti introduce, inoltre, la figura rinascimentale dello 'scienziato-teologo' e mago (v. oltre); Zoroastro, Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora sono considerati maghi come, del resto, Platone e Plotino. Durante l'età dell'oro, infatti, la sapienza e la fede, la scienza, la filosofia e la religione erano unite, essendo una sola cosa. Di qui il concetto di profeta che è allo stesso tempo veggente, sacerdote, scienziato, mago, poeta, amante della saggezza, il custode delle verità nel Consiglio notturno della repubblica descritta nell'Epinomide. Dal momento che Marsilio Ficino e Giovanni Pico credevano che la stirpe dei saggi trovasse il suo compimento in Cristo, quest'ultimo diviene ai loro occhi l'ultimo pitagorico, il paradigmatico poeta-cosmologo-astronomo, il redentore dei fenomeni, il mago perfetto.

Per i platonici del XV sec., alle soglie del primo periodo della scienza moderna, lo scienziato ideale è il saggio platonico e quindi lo stesso Cristo, la realizzazione della saggezza zoroastriana, il Nuovo Astro venerato dai magi osservatori del cielo che provenivano dall'Oriente zoroastriano, il nuovo Numero del tempo.

La matematica

In questo contesto assume un notevole interesse l'eredità matematica di Pitagora, nella quale rivestono una grande importanza i rapporti, le raffigurazioni spaziali dei numeri e le sequenze numeriche, la geometria, e ovviamente il celebre teorema che, data la misura di due lati di un triangolo rettangolo, consente di determinare il valore del terzo lato, anche se tale valore solamente di rado può essere espresso da un numero intero. Raffrontata agli importanti brani del Timeo in cui i triangoli isosceli e i triangoli equilateri sono indicati come le figure che costituiscono in diverse combinazioni i poliedri che compongono i quattro elementi, e al passo ancora più significativo sui due gruppi di quattro numeri che formano le basi dell'armonia cosmica 1-2-4-8 e 1-3-9-27 visualizzati sotto la forma della lettera lambda, la matematica pitagorica diviene la chiave per accedere alla comprensione della fisica, dell'astronomia e dell'armonia platonica. In particolare, Ficino lesse interamente due antichi testi che non erano andati perduti, l'Expositio rerum mathematicarum di Teone di Smirne e l'Introductio arithmetica di Nicomaco di Gerasa (entrambi risalenti alla prima metà del II sec. d.C.). Egli conobbe inoltre il commento di Giamblico all'Introductio di Nicomaco, un altro trattato dello stesso Giamblico, il De communi mathematica scientia liber, e i commentari al Libro I di Euclide, insieme ai primi dodici libri del vasto commentario di Proclo alla Repubblica. Probabilmente Ficino e Pico conoscevano anche il De institutione arithmetica di Boezio, un testo apprezzato e utilizzato nel corso di tutto il Medioevo, che in realtà era una traduzione parafrasata e accresciuta dell'opera di Nicomaco. Benché oggi queste opere matematiche non siano quasi mai menzionate, esse costituiscono l'architrave di ciò che potrebbe essere definita la scienza platonica così come fu riportata in vita da Ficino, il quale realizzò inoltre la laboriosa traduzione in latino dell'Expositio di Teone e dei due brevi trattati di Giamblico. Ma soprattutto Ficino conosceva il commentario di Proclo al Timeo (In Timaeum), e compose egli stesso un vasto In Timaeum che, fra l'altro, tratta di una serie di questioni scientifiche poste da Platone o dal suo commentatore latino, Calcidio.

La cosmologia

Una delle questioni che interessavano maggiormente i filosofi ionici dell'Antichità consisteva nel problema del principio fondamentale della natura delle cose: era forse l'acqua di Talete, l'aria divina o vapore di Anassimene oppure l'illimitato (tò apeíron) di Anassimandro?

Ancora più avvincente appariva il problema di determinare la disposizione e la struttura fondamentale di questo principio: era retto dall'amore e dall'odio di Empedocle o dal perpetuo flusso di Eraclito, o, ancora, dall'essere inalterabile di Parmenide e degli eleati?

Per i platonici del Rinascimento gran parte di questo dibattito, che attualmente noi consideriamo un prodotto dei nascenti interessi scientifici dei filosofi della Natura dell'antica Mileto e di altre città ioniche, era stato anticipato, anzi articolato, da poeti come Esiodo e Orfeo rispettivamente nella Theogonia e negli Inni, dato che proprio i poeti erano stati i maestri di coloro che oggi consideriamo i primi filosofi della Natura. Questa discussione era stata poi dominata da Platone, i cui argomenti derivavano a loro volta da Pitagora e da altri saggi; un Platone che essi avrebbero voluto conciliare con la tradizione mosaica.

Il centro della scena era quindi occupato dai due grandi testi cosmogonici della tradizione gentile ed ebraica, il Timeo di Platone e la Genesi biblica. Entrambi i testi, infatti, descrivevano la Creazione per ordine divino della Natura da un vuoto o caos che i commentatori cristiani avevano tradizionalmente interpretato 'dal nulla' (ex nihilo), una nozione aperta a un certo numero di interpretazioni e di interrogativi, e forse definibile soltanto in riferimento alla contrastante nozione di Cosmo, termine che in greco designa ciò che è bello e buono perché ordinato e strutturato.

La Genesi

Per quanto riguarda l'interpretazione rinascimentale del libro della Genesi dobbiamo tornare a Pico e al suo Heptaplus. In quest'opera, composta nel 1489, Pico sottopone a sette interpretazioni i sei giorni della Creazione biblica e il settimo giorno dedicato da Dio al riposo, integrandole con un'appendice in cui offre un saggio della sua erudizione cabalistica. In questo complesso trattato la narrazione mosaica è affrontata da due principali prospettive, quella della cristologia e quella della metafisica neoplatonica. Quest'ultima si rende necessaria dal momento che, come scrive l'autore nel primo proemio, Mosè "parla dell'emanazione di tutte le cose da Dio, e del grado, del numero, dell'ordine delle parti del mondo con elevatissima capacità filosofica", e perché sotto "la rozza scorza delle parole" la Genesi nasconde in profondità qualcosa di più divino che può essere interpretato solamente da coloro che hanno raggiunto la maturità del giudizio, come aveva affermato Girolamo nella sua Epistola LIII. Pico intende dimostrare non soltanto la profondità del pensiero di Mosè, ma, in particolare, che il libro della Genesi è in primo luogo ideato in modo da interpretare "l'intera creazione del mondo, non in un senso solo, ma in sette sensi con un ordine d'esposizione continuato libero da confusioni"; e in secondo luogo che in esso non sono affermate "cose inconsuete o miracolose o estranee alla natura delle cose che qui si indaga o a quella verità ritrovata dai migliori filosofi". Nel proemio della seconda esposizione egli afferma che l'arte di Mosè "di servirsi di certi termini e di disporre il discorso in modo che parole, contesto, e ordine convengano pienamente a raffigurare i segreti di tutti i mondi e di tutta la natura" è "degna di abilità veramente divina, non umana"; il suo libro diviene così il modello della Natura e analogamente la Natura diviene un'immagine della Genesi.

Nel secondo proemio generale, Pico prosegue con l'esposizione dell'antica dottrina filosofica dei tre mondi, che egli ritrova anche nella Genesi, secondo cui esisteva un mondo sovrasensibile o ultraceleste, "che i teologi chiamano angelico e i filosofi intelligibile"; un mondo celeste formato dalle stelle e dai pianeti; e un mondo sublunare. Il primo è il mondo della luce ed è simboleggiato dal fuoco; il secondo si compone di luce e di tenebre ed è simboleggiato dall'acqua e dal fuoco; il terzo invece, quello in cui abitiamo, è il mondo delle tenebre ed è simboleggiato dall'acqua. Pico quindi attribuisce al primo vita eterna e immutabile attività, poiché esso è partecipe della natura divina della mente; stabilità di vita ma avvicendarsi di attività e posizioni mutevoli al secondo mondo, che è costituito dal corpo incorruttibile e dalla mente assoggettata a quel corpo; perpetua alternanza di vita e di morte al terzo mondo, che è costituito dal corpo corruttibile. Il terzo è mosso dal secondo, mentre il secondo, la cui sfera più lontana è il primo mobile, è retto dal primo. Questi tre mondi sono però un solo mondo poiché "tutto ciò che è nella totalità dei mondi è anche in ciascuno, né vi è alcuno di essi in cui non sia ciò che è in ognuno degli altri". Qui Pico si richiama evidentemente ai due celebri enunciati neoplatonici, già rielaborati da Proclo che li riteneva la chiave per accedere alla comprensione dell'unità del mondo, secondo i quali l'intero è contenuto nella parte, anche se conformemente alla capacità della parte, e tutte le cose sono in ogni cosa, benché ognuna in un modo diverso. Infatti, secondo Pico "ciò che è nel mondo inferiore è anche nei superiori, ma in forma più elevata", e al contrario "ciò che è nei superiori si vede anche nel più basso, ma in una condizione degenere". Così il nostro mondo elementare ha il calore e il fuoco che brucia; il mondo celeste, la virtù calorifica del Sole che genera la vita; e il mondo sovraceleste, l'idea di calore che si identifica evidentemente con l'amore dell'intelletto serafico.

Analogamente, ciò che presso di noi è acqua, nei cieli è la Luna, e nelle regioni sovracelesti le menti cherubiche. I nove ordini di angeli presieduti da Dio, che è unità immobile, corrispondono alle nove sfere celesti che si muovono incessantemente, presiedute dall'empireo che resta immobile; e queste a loro volta corrispondono alle nove sfere delle forme corruttibili, costituite dalla materia prima, che si muovono incessantemente. Queste ultime sono divise in tre livelli: le tre sfere inferiori contengono i quattro elementi privi di vita, i corpi misti e i corpi misti ma instabili come, per esempio, i fenomeni atmosferici; le tre sfere vegetali contengono i tre generi delle erbe, degli arbusti e degli alberi; infine le tre sfere degli esseri sensibili comprendono le creature imperfettamente dotate di anima, come, per esempio, gli zoofiti, gli animali inferiori guidati unicamente dalla loro anima o fantasia irrazionale, e gli animali superiori suscettibili di essere addestrati dall'uomo.

Inoltre, scrive Pico, "legati da vincoli di concordia tutti questi mondi si scambiano le nature"; la Natura stessa è abitata da "occulte amicizie e affinità" che consentono a un interprete illuminato di operare attraverso le corrispondenze. Sotto tale riguardo, però, la Natura dovrebbe essere plausibilmente anche lacerata dalla discordia; a ogni occulta amicizia e affinità dovrebbero, infatti, corrispondere rotture e opposizioni, a ogni attrazione del simile verso il simile ‒ per citare l'antico detto ‒ corrispondere necessariamente la repulsione del diverso per il diverso. Pico sembra però essere estraneo a una concezione basata sull'azione di due forze contrastanti come quella di Empedocle, forse perché gli appare eccessivamente dualistica. Per quanto il nostro mondo decaduto possa essere lacerato dalle discordie provocate da un'Elena o da una Clitennestra, le regioni intelligibili sono rette dalla concordia che legava Castore a Polluce, e tra questi due mondi vi sono le congiunzioni e le opposizioni che formano la danza degli astri. Dopo la triade conclusiva che introduce la suddivisione in zoofiti, animali inferiori e animali superiori, Pico assegna all'uomo un quarto mondo separato "in cui si trovano tutte le cose che sono negli altri". Poiché la scrittura di Mosè è la "vera immagine del mondo" ed è disposta nello stesso modo in cui Dio ha organizzato il Creato, ogni sua parola può e deve essere interpretata in relazione a tutti e quattro i mondi.

Tuttavia, è necessario un quinto genere di esposizione per spiegare in che cosa le nature siano distinte e allo stesso tempo legate "da una discorde concordia"; e un sesto, nel quale sono spiegati i quindici modi in cui si può comprendere come "una cosa sia congiunta o collegata a un'altra". Infine, l'interpretazione di Pico termina con la settima esposizione, per così dire sabbatica, della felicità delle creature e del loro ritorno a Dio. Nello stesso secondo proemio, l'autore afferma, infatti, che il libro di Mosè "è contrassegnato da sette sigilli ed è pieno di tutta la sapienza e di tutti i misteri".

Così, affrontando il testo mosaico, Pico affronta anche la lettura del mondo come testo e afferma che, poiché "le cose disperse in ogni mondo sono contenute in ciascuno", Mosè, come imitatore della Natura, "dovette trattare di ciascuno in modo che nelle stesse parole e nello stesso contesto trattasse ugualmente di tutti". Ogni lettura deve quindi riguardare e spiegare sia la natura sublunare, sia i cieli translunari e, allo stesso tempo, concordare perfettamente con la spiegazione teologica delle regioni angeliche; un interprete illuminato deve sapersi muovere armoniosamente tra il campo della scienza e quello della teologia. Del resto, una corretta conoscenza dell'uomo, un'antropologia illuminata, sarà in armonia con i risultati della cooperazione tra la scienza e la teologia, e queste tre discipline condivideranno la metodologia di base e l'ermeneutica. Una lettura in una disciplina non soltanto susciterà risonanze nelle altre ma sarà anche accordata, attraverso la natura isomorfica delle analogie stabilite da Dio al momento della Creazione, a una determinata lettura parallela in quell'altra disciplina. Risalente a Raimondo Lullo e alle sue 'chiavi', nel caso di Giovanni Pico tale prospettiva tende a una metodologia unitaria in grado di fornire una spiegazione per tutti i fenomeni.

L'Heptaplus di Pico potrebbe essere considerato, nonostante la sua audacia, un'opera tipicamente medievale in cui gli interessi teologici prevalgono rispetto alla considerazione dell'eterogeneità del mondo naturale, benché quest'ultima sia il tema centrale della prima esposizione. Inoltre, esso è dedicato al commento di un altro autorevole testo, rappresentato in questo caso dal Libro I della Bibbia. Pico vuole innanzi tutto capire la Genesi, e poi le cose come sono nell'era successiva alla Creazione; di qui il suo interesse per le intenzioni dell'autore, per il labirintico disegno formale di Mosè e per i problemi di un'interpretazione corretta, anche dal punto di vista numerologico. L'Heptaplus rivela tutta la sua originalità nelle riflessioni cabalistiche e nella sua interpretazione della Genesi in chiave cristologica, che esprime una visione del mondo dominata dall'uomo. Infatti, in ognuno dei sette capitoli in cui sono divise le sette esposizioni, il 'figlio dell'uomo' diviene la 'legge' definitiva, la chiave di ogni fisica, di ogni metafisica, di ogni teologia, la causa prima e finale. Tale opera è inoltre originale come summa in cui, alla vigilia della rivoluzione scientifica, sono esposti principî cosmologici basati sul principio dell'armonia, della corrispondenza e della consonanza. In questo modo essa si riallaccia a Boezio e ad Aristotele, ma soprattutto riprende i temi pitagorici presenti in Platone e le loro elaborazioni neoplatoniche, incluse quelle di Dionigi Areopagita (500 ca.), che molti studiosi rinascimentali ritenevano fosse il discepolo di s. Paolo menzionato negli Atti (17, 34).

Il Timeo

Dobbiamo ora rivolgere la nostra attenzione all'altro grande testo cosmologico della tradizione occidentale, il Timeo, e al suo principale interprete rinascimentale. Le più importanti speculazioni sulla scienza della Natura di Ficino compaiono nel suo commento al Timeo, e a quello che potremmo definire il materiale cosmologico di altri dialoghi come, per esempio, la Repubblica e l'Epinomide (che Ficino considerava autentico). I filosofi medievali, e in particolare quelli collegati alla Scuola di Chartres, avevano tentato in diversi modi di conciliare il Timeo, a loro accessibile solamente nella versione latina di Calcidio (e soltanto fino a 53c), sia con le loro concezioni della Natura, sia con la teologia dello Spirito Santo e dell'immanente amore di Dio per le sue creature. I loro tentativi avevano però più volte rasentato l'eterodossia, e in alcuni casi come, per esempio, in quello di Abelardo, persino l'eresia. Ficino riprese probabilmente alcune delle loro idee, ma la sua conoscenza era di gran lunga superiore alla loro, presumibilmente perché egli era, forse con Bessarione, il primo studioso dell'Antichità sufficientemente erudito per comprendere alla perfezione il materiale contenuto nel difficile commentario al Timeo di Proclo e quindi in grado di superare l'interpretazione tipicamente medio platonica di Calcidio di questo dialogo (riguardo al quale gli studiosi ancora oggi hanno opinioni discordi). Unico umanista nel Quattrocento ad affrontare nell'insieme il testo più autorevole e, allo stesso tempo, più pitagorico di Platone, egli divenne così anche il principale teorico della metafisica vitalistica esposta in questo dialogo e quindi della fisica, dell'astronomia e della cosmologia che derivavano e corrispondevano a questa concezione. L'interpretazione rinascimentale del Timeo si identifica così con quella neoplatonica di Ficino.

Il personaggio eponimo del dialogo, attraverso la presentazione di un "mito verosimile" (28a e segg.), descrive la creazione del mondo come opera di un divino demiurgo, artigiano o artefice, definito "padre" e "poeta" che "è difficile da trovare" e guarda a "ciò che è identico a sé", al modello o paradigma del Cosmo soggetto al mutamento che è sul punto di plasmare, un modello che è "bello" ed "eterno". Il testo greco di Platone sottolinea il concetto di guardare fissamente 'a', mentre gli interpreti neoplatonici ricorrevano al diverso concetto di guardare 'in', poiché essi potevano concepire il demiurgo soltanto come intelletto, la seconda ipostasi della metafisica neoplatonica, e ritenevano che in quanto tale contenesse o racchiudesse il regno delle idee platoniche nella sua interezza. I commentatori cristiani identificavano abitualmente il demiurgo con il Creatore che si riteneva guardasse alle idee contenute nel proprio intelletto. In ogni caso, nel periodo antecedente al suo imperfetto divenire, il Cosmo esisteva come idea perfetta (benché 'esistesse' in senso assoluto) e Timeo afferma che il Cosmo può essere definito "cielo" o "mondo". Dal momento che il Cosmo diviene, esso ha una causa antecedente al divenire; e quest'ultima è "la più perfetta causa" poiché il Cosmo è "fra tutte le opere la più bella che è stata generata" (29a). La migliore delle cause è l'Idea del Cosmo e quindi di ciò che è ordinato, bello e buono, non caotico. Secondo i commentatori antichi, il testo di Platone affermava implicitamente che il mondo, benché soggetto al divenire, esiste da sempre ed esisterà in eterno, mentre i commentatori cristiani, con Plutarco e pochi altri di diversa opinione, avevano tenacemente sostenuto che Platone intendeva affermare che il mondo ha avuto un inizio nel tempo; da parte sua Marsilio Ficino giunse a ritenere, basandosi sui miti narrati in dialoghi come, per esempio, il Politico e la Repubblica, che Platone pensava che il mondo avrebbe avuto una fine, mentre è più probabile che Platone credesse nell'eternità del mondo e in un concetto ciclico di tempo.

Il demiurgo è buono, incapace di invidia, e vuole che tutte le cose divengano il più possibile simili a lui. Egli ha quindi formato l'Universo ponendo l'intelletto nell'anima e l'anima nel corpo "sì che l'opera da lui compiuta fosse per natura la più bella e la più buona possibile" (30b); in altre parole, afferma Platone, "dobbiamo dire che questo mondo è un essere vivente, dotato di un'anima e di un'intelligenza, veramente generato dalla provvidenza di Dio". Discende da qui il concetto antimeccanico dell'Universo fisico come creatura vivente, dotata di anima e di moto proprio, il cui studio appartiene al campo della biologia e della psicologia, più che a quello della fisica della materia inanimata.

Tuttavia, secondo i neoplatonici, Platone aveva introdotto anche alcune sottili elaborazioni matematiche che andavano oltre la semplice spiegazione vitalistica dell'Universo come "un vivente unico, visibile, avente in sé tutti i viventi che per natura gli sono affini" (30d; cfr. 33b). Timeo, infatti, prosegue il suo discorso con la descrizione dei due medi che congiungono sempre un corpo solido composto dai quattro elementi e che hanno la stessa proporzione ossia come il fuoco sta all'aria così l'aria sta all'acqua, e come l'aria sta all'acqua così l'acqua sta alla terra. Così il mondo era "concorde per proporzione" e aveva "tale amicizia" da essere "in intimo collegamento". Esso fu innanzi tutto dotato di una forma sferica priva di parti o sensi esterni e aveva una superficie circolare equidistante dal centro in ogni direzione in modo tale da potersi muovere in modo uniforme e nello stesso luogo; fu dotato di un'anima diffusa in ogni sua parte, e si poteva considerare "un dio felice" (34b). Ma soprattutto Timeo descrive la Creazione e quindi la struttura dell'Anima del mondo, "che partecipa della natura del medesimo e di quella dell'altro" secondo le due armonie geometriche espresse dai termini 1-2-4-8 e da 1-3-9-27, ogni intervallo delle quali è a sua volta formato da due medi proporzionali (1-4/3-3/2-2-8/3-3-4-16/3-6-8 e 1-3/2-2-3-9/2-6-9-27/2-18-27). L'Anima del mondo è quindi "partecipe d'intelligenza e d'armonia" (37a), essendo divisa e unita "proporzionatamente" e "sempre rigirandosi in sé stessa" nella sua rotazione.

Così il concetto di proporzione matematica ‒ che Platone collega a quello di armonia musicale ‒ diventa essenziale per accedere alla comprensione dell'Anima del mondo, della sua bontà e perfezione. Esso è anche implicitamente la chiave per accedere alla comprensione delle anime individuali, e, quel che è più interessante, secondo i platonici, delle entità o istituzioni che per analogia si riteneva avessero un'anima: lo stato, la città, la chiesa, l'episcopato, il regno, e così via. La creazione dell'Anima è dunque un'aritmogonia, un flusso di numeri secondo proporzioni e rapporti armonici e musicali. Timeo postula, quindi, una serie di relazioni armoniche tra i sette pianeti e le loro distanze e un perfetto numero del tempo che si raggiunge "quando le velocità di tutti e otto i periodi [incluso quello delle stelle fisse], avendo reciprocamente compiuto il loro percorso, ritornano al punto di partenza" (39d).

Quest'ultimo era noto come il Grande Anno platonico ed era calcolato in diversi modi, anche se la maggior parte dei neoplatonici riteneva che esso corrispondesse a 36.000 anni solari (opinione che contraddiceva la credenza ebraico-cristiana secondo cui il mondo aveva avuto inizio nel 5199 a.C.). È inoltre significativo che Platone stabilisca la disposizione dell'ordine planetario nella seguente successione: la Luna, il Sole con Venere e Mercurio che si muovono lungo un'orbita ugualmente veloce ma in 'senso contrario', seguiti presumibilmente da Marte, Giove e Saturno. Si trattava in ogni caso di un ordine non tolemaico e il fatto che Ficino lo avesse riproposto, assieme a una variante elaborata da Porfirio, potrebbe aver concorso a scuotere l'incondizionata fiducia degli eruditi nell'autenticità dell'ordine tolemaico, soprattutto alla luce dell'attribuzione nella metafisica neoplatonica di un ruolo centrale al Sole come occhio del cielo e immagine dell'Intelletto divino e come fonte di luce e di vita sulla Terra. Benché non si identifichi con l'Anima del mondo, il Sole è in qualche modo l'anima suprema dei cieli e Ficino lo concepisce come l'intermediario tra l'Anima del mondo e tutte le altre anime.

Tra i molti passaggi significativi del Timeo ripresi da Ficino figura anche la complicata descrizione (53c e segg.) di Platone secondo cui gli elementi sono composti da quattro dei cinque solidi regolari ‒ il tetraedro, l'ottaedro, l'icosaedro e il cubo ‒ le cui facce sono formate dalle due specie in cui si suddivide il triangolo rettangolo. Le facce dei cubi che formano l'elemento terra sono composte da metà quadrati o triangoli isosceli (24, nell'interpretazione tradizionale), mentre ciascuna delle 20 facce degli icosaedri che formano l'acqua è composta da 6 semiequilateri scaleni (120 in tutto); anche ciascuna delle 8 facce degli ottaedri che formano l'aria è composta da 6 di questi triangoli scaleni (48 in tutto), come le 4 facce delle piramidi che formano il fuoco (24 scaleni in tutto). Il primo di questi semiequilateri scaleni ha il cateto minore pari a 1, l'ipotenusa pari a 2 e il cateto maggiore pari a 31/2 (radice quadrata di 3). Basandosi sul teorema di Pitagora e su altri teoremi tratti dall'Expositio di Teone di Smirne e dall'Introductio di Nicomaco di Gerasa, Ficino riuscì, aggiungendo o sottraendo un'unità, a determinare non solamente le loro ovvie radici quadrate irrazionali ma anche ciò che egli definiva radici quadrate razionali (perché costituite da numeri interi) di una particolare sequenza di triangoli isosceli. Forte di questa scoperta si sentì infine sufficientemente preparato per iniziare a spiegare l'inintelligibile riferimento del Libro VIII della Repubblica (546a-d) a un numero fatale o nuziale che determina persino il ciclo vitale di una repubblica ideale, rendendo possibile la pianificazione statale delle nascite, delle stagioni propizie al congiungimento tra gli sposi e dell'eugenetica. Questa indicazione rappresenta uno dei più significativi tentativi della filosofia antica di usare le teorie matematiche e musicali dell'armonia nel campo delle predizioni sociologiche e storiche, e in particolare per prevedere non soltanto semplici fenomeni naturali come, per esempio, febbri e pestilenze, ma la 'vita' delle istituzioni e altri fenomeni che oggi affidiamo alla competenza delle scienze sociali.

È interessante osservare che Timeo (55c) assegna il quinto solido regolare, il dodecaedro, dotato di 12 facce pentagonali, all'"Universo" decorato con disegni di animali. Tradizionalmente si riteneva che con quest'espressione Platone lo intendesse decorato con le 12 costellazioni dello Zodiaco, benché egli potrebbe essersi riferito all'etere, definito "una specie d'aria limpidissima" (58d). Nell'Epinomide (981c) l'etere è invece definito la forma più infiammabile dell'aria, intermedia tra la pura aria e il puro fuoco; un'identificazione difficilmente conciliabile con quella del Timeo.

Analogamente, nel Fedone (110b e segg.) Platone aveva paragonato la Terra a una palla formata da 12 pentagoni di cuoio di diversi colori cuciti insieme. Il dodecaedro in realtà non può essere formato da triangoli rettangoli, benché alcuni antichi commentatori come Albino ritenessero che esso fosse composto da 360 di questi triangoli (supponendo che ciascuno dei 12 pentagoni si scomponesse in 5 triangoli, a loro volta suddivisi in 6 rettangoli scaleni). Il numero totale dei triangoli così raggiunto aveva una grande forza di attrazione perché corrispondeva ai 360 gradi del circolo celeste e a causa dei suoi rapporti numerologici con il 5, con il 6 e con il 12. Tuttavia, il postulato importante era quello secondo cui il mondo sublunare e quello celeste sono legati poiché entrambi sono in definitiva costituiti da una delle due specie del triangolo rettangolo. La grande importanza attribuita da Ficino a questa fisica basata sui triangoli, che contrastava la tesi aristotelica secondo cui il mondo translunare era costituito da un quinto elemento sostanzialmente differente dagli altri quattro, esalta il ruolo della geometria euclidea e soprattutto pitagorica, come strumento di ciò che oggi definiamo analisi chimica e fisica. Non furono soltanto le osservazioni della Luna di Galileo a modificare la percezione umana della differenza tra la sfera celeste e quella sublunare, ma anche la riproposizione della geometria platonica dei triangoli rettangoli, della loro ipotenusa, e il ricorrente problema di estrarre radici razionali da potenze varie. Questa matematica, infatti, tentò di spiegare la natura dei cieli ignei, ma anche quella dell'aria e del globo terracqueo.

La psicologia

Per Ficino vi erano inoltre importanti implicazioni di carattere psicologico. Egli aveva ereditato dagli scolastici il concetto di habitus, con il quale era designata la nostra indole naturale o carattere, che regge e muove la nostra natura e quella di ogni anima; ed egli era anche convinto che l'anima, ritornando verso la propria intelligenza, riacquistasse il suo vero habitus. L'habitus, infatti, contiene le forme delle Idee che, rispecchiando le Idee assolute, ci rendono dunque partecipi del mondo intelligibile.

L'habitus è connesso da un lato al concetto di forma e dall'altro al concetto di potere o potenza; esso può essere in effetti identificato con la potenzialità della nostra anima di divenire puro intelletto. La riacquisizione del nostro habitus coincide con il raggiungimento di un certo genere di armonia musicale (un'analogia ricorrente) e perciò di un certo genere di uguaglianza aritmetica. Coerentemente alla tradizione matematica pitagorico-platonica non si tratta di un'uguaglianza associata ai numeri pari in quanto tali; questi, che traggono la loro origine dal due, la diade, sono inferiori ai numeri dispari che derivano dall'unità, la monade. Poiché in questa tradizione la successione dei numeri dispari era concepita in modo geometrico, come una serie di quadrati di misura sempre maggiore, l'addizione di questi numeri diviene la chiave per accedere alla successione dei quadrati ‒1+3=4 (22), 1+3+5=9 (32), 1+3+5+7=16 (42), e così via‒ nota come 'serie equilatera', perché realizza i due lati uguali necessari alla costruzione di un quadrato geometrico. Al contrario, l'addizione dei numeri pari dà come risultati numeri per i quali non vi sono radici quadrate razionali (integrali) ‒ 2+4=6, 2+4+6=12, 2+4+6+8=20, e così via ‒ ed è nota come 'serie non equilatera'. Il nostro vero habitus è analogicamente paragonato alle somme equilatere perché è uniforme, equilibrato, uguale a sé stesso; come somma, infatti, esso discende dai numeri dispari, ma come prodotto ha per radice un numero intero. Gli habitus instabili e nocivi sono, al contrario, il risultato di un'addizione non equilatera e come prodotto derivano non da un numero elevato al quadrato ma dalla moltiplicazione di due numeri differenti (2×3, 3×4 o 2×6, 4×5 o 2×10). Per inciso, osserviamo che il termine 'potenza' (dýnamis) in greco, impiegato in un contesto matematico, designa sempre il quadrato (potenza 2) o la radice quadrata (potenza 1/2) di un numero.

Se il nostro habitus corrisponde a questo genere di potenza geometrica, esso deve essere allora pensato come un quadrato o come una radice quadrata; o, in altre parole, come analogo alla potenza razionale o alla radice quadrata razionale o irrazionale dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo, e in particolare, dal momento che i suoi lati sono uguali, di un triangolo rettangolo isoscele (il triangolo elementare già ricordato a proposito della descrizione di Timeo del cubo che costituisce la componente fondamentale della Terra). Il teorema di Pitagora diviene quindi una delle chiavi dell'indagine psicologica; Ficino ritiene che la nostra anima, e perfino l'Anima come ipostasi, siano analoghe alla superficie o piano formato dai tre lati di un triangolo rettangolo (ai quali corrispondono i tre poteri dell'anima: intelligenza, collera e desiderio). L'Anima bidimensionale si contrappone da un lato al Corpo, che è simile a un solido tridimensionale, e dall'altro all'Intelletto puro, che è simile a una linea. Al di là di ogni estensione si trova invece l'Uno che assomiglia non tanto al punto, quanto alla monade priva di estensione. Così l'anima può essere rappresentata come un triangolo rettangolo e il suo habitus come la potenza, per così dire, della sua ipotenusa. Ciò comporta un certo numero di implicazioni mediche, psicologiche, musicali, astrologiche e magiche; ci troviamo dunque ai confini di una bio-matematica, o almeno di una iatro-matematica, per quanto rudimentale, che, come Ficino aveva scoperto, era implicita nella fisica basata sui triangoli del Timeo.

La demonologia

Accompagnate da spiegazioni di carattere scientifico, sono discusse da Ficino anche alcune questioni demonologiche. Nel neoplatonismo rinascimentale, data la credenza nel principio secondo cui Dio avrebbe plasmato il mondo in modo da renderlo il più pieno possibile, e in quello secondo cui lo avrebbe dotato di continuità, i demoni dovevano esistere per colmare quell'enorme spazio vuoto diviso in tre zone, nebbiosa, pura e ignea, che si trovava tra la brulicante vita del globo terracqueo e il mondo degli dèi celesti (spesso identificati con gli angeli dei cori inferiori). Quest'ultimo era il mondo del puro fuoco che inizia dalla Luna e si estende attraverso la sfera di Saturno, la sfera delle stelle fisse e del primo mobile, oltre i cori angelici che circondano lo stesso Dio. Poiché si supponeva che gli uccelli non abitassero nello spazio aereo sublunare, ma nella sfera acquatica e in quella terrestre, tra noi e gli dèi ignei dovevano vivere altri generi di esseri, i daimónes greci, spiriti dell'aria, che si riteneva ne popolassero le tre zone. Per un platonico, questi demoni dell'aria erano sia una necessità cosmologica sia esseri fondamentalmente belli e buoni; persino i platonici cristiani pensavano che essi fossero la necessaria conferma della pienezza e della continuità della Creazione e non semplici ornamenti della Natura. Ficino non era quindi disposto ad accettare l'equazione ortodossa tra i demoni e la schiera degli angeli ribelli caduti, benché dovesse riconoscere che alcuni demoni sono nocivi per gli uomini (infatti da esperto esorcista, in una lettera, racconta di aver espulso due spiriti saturnini dai quartieri malfamati di Firenze); necessariamente, per qualsiasi interprete neoplatonico, i loci classici su questo argomento erano i riferimenti di Socrate alla sua voce ammonitoria, al tò daimónion.

La demonologia era quindi un campo di studi riconosciuto dal punto di vista della speculazione scientifica e cosmologica di Platone e di Plotino. Dati i triangoli del Timeo, e la tradizionale definizione neoplatonica del demone come anima superiore razionale, intermedia tra quella umana e quella celeste, tra gli uomini e gli dèi astrali, la matematica diveniva anche uno strumento per comprendere e, come alcuni sostenevano, per controllare, la struttura bidimensionale delle anime dei demoni, i loro habitus e altri poteri triangolati. Nessuna disciplina si adattava meglio a questo compito della branca della geometria applicata che aveva implicazioni singolari per la pratica della magia demonica, vale a dire la scienza dell'ottica. Ficino, infatti, vede il mago platonico come colui che usa il suo spirito-habitus per catturare, far convergere e riflettere i flussi di immagini emanati dagli oggetti, ossia per stabilire, per così dire, un controllo bidimensionale sul mondo solido elementare, esercitando in tal modo lo stesso potere proprio dei demoni platonici a un livello superiore. Sembra che Ficino credesse che essi presidiassero il mondo bidimensionale, come signori del mondo dei triangoli e delle equivalenze pitagoriche che reggono i loro lati e le loro diverse potenze.

La Natura presenta una grande varietà di piani ‒ l'acqua e il ghiaccio, la sabbia e la superficie delle rocce, la nebbia e le formazioni di nubi ‒ che riflettono o rifrangono i raggi luminosi; e la luce svolge un ruolo di mediazione tra il mondo sensibile e quello intelligibile. Ma questi piani si ritrovano soprattutto nella naturale sfaccettatura delle gemme e dei cristalli. Il gioco di luce prodotto dalle superfici bidimensionali è il fenomeno su cui possono agire, attraverso l'habitus del loro spirito, il mago e il demone, esercitando una facoltà analoga alla luce perché, come quest'ultima, essa svolge un ruolo di mediazione tra il sensibile e l'intelligibile. In base all'antico principio secondo cui il simile agisce sul proprio simile, i demoni possono manipolare e guidare la luce, dal momento che esercitano un indiscusso potere nel suo regno; ciò è in parte dovuto al fatto che essi erano tradizionalmente considerati gli esseri più abili nelle discipline matematiche, e soprattutto nella geometria, che, secondo l'ammonimento rivolto agli aspiranti collocati nel vestibolo, era una conoscenza indispensabile per accedere all'Accademia, poiché Dio stesso era esperto in geometria. I demoni sono profondi conoscitori della geometria ‒ e delle discipline che derivano dalla sua applicazione, l'ottica, la musica e l'astronomia ‒ sia perché i loro corpi spirituali o aerei si comportano come superfici bidimensionali, rette dal loro habitus e quindi da poteri simili all'elevazione al quadrato e all'estrazione della radice quadrata, sia perché almeno le anime dei demoni superiori sono rette da rapporti geometrici, benché siano guidate anche da considerazioni astrologiche, dal momento che erano in vario modo assegnate ai sette pianeti come mezzi di diffusione di diverse qualità planetarie. Librandosi nella loro qualità di esseri dotati di poteri piani, bidimensionali, sui nostri corpi solidi, essi possono compiere meravigliose operazioni matematiche e, al contempo, svolgere una funzione di mediazione tra la nostra solidità elementare e il regno infuocato degli dèi celesti.

Come profondi conoscitori della geometria, i demoni sono in particolar modo attratti dall'ottica bidimensionale che noi associamo agli specchi, ai prismi e alle sfaccettature; è proprio in presenza delle gemme e degli specchi dunque che abbiamo maggiori possibilità di scorgere questi demoni superiori, i quali amano dimorare nella luce e giocare con i suoi riflessi e con le sue rifrazioni.

Quando si entra nello stato demoniaco o lo si riacquista ‒passando attraverso i propri sé cristallini, come Platone ipotizza nel Fedro (249a) parlando dei tre periodi di mille anni di vita filosofica ‒ si diventa non solamente esperti matematici ma esseri fondamentalmente matematici, numeri nel senso propriamente pitagorico deprecato da Aristotele. Analogamente allora si contempleranno le Idee platoniche come Numeri o come esseri simili a numeri, così come molti discepoli di Platone, tra i quali citiamo soltanto Speusippo, avevano sostenuto. Ficino subì dunque il fascino di una serie estremamente complessa di problemi e di metodologie scientifiche o quasi scientifiche che concernevano la geometria (in particolar modo la geometria dei triangoli rettangoli), l'aritmetica raffigurata spazialmente, l'ottica, la demonologia, la filosofia delle forme, l'astrologia, e la teoria della magia, ossia una serie di problemi derivati in ultima analisi dalla filosofia della Natura pitagorica di Platone, ma affrontati attraverso alcune nozioni fondamentali che egli aveva ritrovato nell'antica teoria dei numeri. Soprattutto è necessario osservare che per Marsilio Ficino la comunicazione con i demoni aveva un fondamento matematico, e in particolare geometrico, e di conseguenza richiedeva un genere di procedimento scientifico, anche se ancora dominato da considerazioni astrologiche.

L'uomo microcosmo

Rimane infine da esaminare una questione particolarmente scottante che è stata posta nel XX sec. dalle ripetute accuse rivolte a ciò che è assai di frequente erroneamente interpretato come antropocentrismo rinascimentale.

Un'ingenua interpretazione delle celebri sezioni iniziali dell'Oratio de hominis dignitate di Pico, e quindi in realtà dei versetti della stessa Genesi, ha visto nell'esortazione rivolta da Dio ad Adamo prima del peccato originale, un'esortazione all'umanità caduta a usare, a sfruttare, a conquistare la Natura. Certamente, letta al di fuori del suo contesto, la celebre apostrofe sembra attribuire all'umanità un ruolo privilegiato. Collocato tra l'immutabile eternità e il tempo mutevole, l'uomo originario era ed è il camaleonte cosmico, il "grande miracolo", "il vincolo tra le creature", "l'interprete della Natura", il legame, cioè la "copula del mondo", il più felice degli esseri animati, colui che negli antichi misteri era identificato con la figura di Proteo. Il discorso raggiunge il suo apice con l'esortazione ad Adamo "perché quel posto, quell'aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi" (ed. Garin, pp. 105-106) e quindi a scegliere liberamente la propria determinazione. Mentre le altre creature, incluse le anime celesti planetarie e gli intelletti angelici a queste superiori, hanno "nature" limitate a un particolare regno dell'essere, il primo uomo è privo di limiti. "Quasi libero e sovrano artefice di se stesso", egli può plasmarsi e scolpirsi nella forma che ha prescelto, che sia quella di un bruto o quella di un serafino. Adamo è così destinato a percorrere in tutta la sua estensione la scala della Natura, senza essere confinato in un regno o livello ontologico; e da questo punto di vista, tra le creature di Dio, egli è unico, perché è autonomo, dotato di libera scelta, estraneo all'ordine della Natura, un Proteo capace di assumere le forme più diverse.

Tuttavia, dobbiamo osservare che questo celebre discorso si presta a essere interpretato in diversi modi, a seconda della fonte, o delle fonti, antiche o anche medievali, alle quali Pico si richiama nel corso dell'esposizione, nonché a seconda del maggiore o minore grado di familiarità dell'interprete con gli enunciati paralleli se non identici contenuti nell'Heptaplus. Una di queste fonti è certamente rappresentata dall'idea di Socrate del viaggio della coscienza autonoma, che non s'identifica con il viaggio dello scienziato sugli oceani delle grandi categorie, ma piuttosto con quello dell'etico attraverso le aspre difficoltà della scelta intellettuale in una determinata situazione. Altri ricorrenti tópoi riguardano le immagini tradizionali ma contrastanti dell'uomo come microcosmos, il piccolo mondo, e del mondo come un grande uomo, il macroanthropos.

Questo antico tropo ha naturalmente, per il nostro concetto dei rapporti dell'umanità con la Natura, implicazioni piuttosto diverse da quelle dell'immagine di Proteo ed esprime un senso più complesso della nostra appartenenza al mondo, rispecchiante, nella sua pienezza e continuità, un senso del nostro essere simultaneamente in ogni sua parte come, citando le parole di Shakespeare, minimus, 'grano' o 'ghianda' della stessa natura.

Anche Ficino si riferiva continuamente al tropo dell'uomo come microcosmo, e alle innumerevoli corrispondenze che ne derivavano, tuttavia egli era attratto in misura ancora maggiore dall'immagine dell'uomo sui gradini centrali della scala cosmica. L'uomo, infatti, nella misura in cui è anima, partecipa al regno dell'Anima che è l'ipostasi centrale e dunque di mediazione nello schema pentadico delle ipostasi che Ficino aveva ripreso tanto da Proclo quanto dalla tradizione neoplatonica della Tarda Antichità: l'Uno, l'Intelletto, l'Anima, la Qualità e il Corpo (cioè materia estesa). Così, l'uomo in quanto anima serve implicitamente da nodo sponsale, da copula nuziale del mondo, poiché pone in relazione il regno intelligibile dell'Intelletto con il regno corporeo delle qualità sensibili. Il suo ruolo di mediazione deriva non dal suo essere una particolare entità o specie, e neppure dal fatto di rappresentare in dimensioni ridotte l'Universo, ma piuttosto dal suo partecipare dell'Anima, e dunque dell'Anima del mondo che ne è il grado originario (e i neoplatonici, nel trattare argomenti di carattere cosmologico, frequentemente identificavano l'una con l'altra). Ciò implica un riconoscimento delle relazioni tra l'uomo e l'Universo ancora più ampio di quello suggerito dal tropo del microcosmo, per non parlare della concezione di Pico dell'uomo come Proteo, e sottolinea la complessità dell'antropologia dei neoplatonici rinascimentali e delle loro numerose e talvolta contraddittorie rappresentazioni della Natura, dell'uomo nella Natura, e della Natura nell'uomo.

Inoltre, l'importanza attribuita da Ficino all'anima, e dunque all'Anima del mondo, distoglie la nostra attenzione dai concetti di entità e di specie particolari e la dirige verso i concetti generali di vita, potenzialità, essere e, in particolare, verso il concetto di appartenenza a una totalità più grande, di cui l'uomo è parte e, allo stesso tempo, riflesso. Mentre l'umanesimo di Pico e il suo riferimento al mito della Genesi serve in qualche modo a sottolineare l'unicità dell'uomo e delle scienze che si dedicano allo studio della sua natura e delle sue istituzioni, la concezione di Ficino è più unitaria, più 'panenteistica'. La sua metafisica riflette una costante attrazione per la Natura, per il gioco di voci antifonale e delicato del coro della Creazione, per le contraddanze cosmiche; egli considerava la matematica, e in particolare i concetti-guida di rapporto e di proporzione, come discipline preparatorie alla nostra partecipazione a questo coro e a questa danza astrale.

In conclusione si può affermare che il platonismo rinascimentale ha svolto un ruolo complesso nella nascita della scienza moderna. Esso ha dato un contribuito interessante, anche se effimero, a quelle che successivamente sono state definite scienze fisiche (vale a dire l'astronomia, la cosmologia e la fisica), nonché alle diverse branche della medicina. Ha inoltre contribuito, in modo rilevante, sia alla difesa sia alla critica dell'astrologia, successivamente scaduta al rango di pseudoscienza, evitando invece in gran parte l'altra importante pseudoscienza, l'alchimia. Ha dato spazio, sull'esempio della Repubblica di Platone, allo studio di problemi di scienza sociale come, per esempio, la teoria del controllo della popolazione, l'eugenetica e la teoria dei cicli nella vita dello stato e della politica. Ha discusso in modo scientifico la demonologia e soprattutto ha posto in primo piano il Timeo con il suo grande mito cosmogonico del demiurgo, da un lato, e con i suoi triangoli e i suoi elementi di rapporti pitagorici e di teoria armonica, dall'altro.

Le speculazioni di carattere 'psichiatrico' ed epidemiologico di Ficino, e la radicale critica dell'astrologia di Pico rappresentano contributi durevoli e, in qualche misura, in sintonia con la scienza che si sarebbe sviluppata nei secoli successivi. Riportando in vita il pensiero platonico, Ficino e Pico affrontarono questioni centrali, collocandosi lungo la linea del 'platonismo' che giunge fino a Kepler e Newton.

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