Il Rinascimento

Dizionario di Storia (2011)

Il Rinascimento

Sergio Bertelli

Innanzi tutto un problema di cronologia. Come distinguere il periodo che definiamo Rinascimento da quello precedente, che i manuali di storia chiamano Umanesimo; che cosa intendiamo per Rinascimento. Sono questioni che hanno dato luogo ad ampi dibattiti, a partire da La renaissance (titolo di un capitolo della Histoire de France) di J. Michelet (1855) e dall’altrettanto famoso libro di J. Burckhardt Die Kultur der Renaissance in Italien (1860), intendendo Kultur nell’accezione germanica di «civiltà». Notiamo però che già l’anno avanti G. Voigt aveva parlato di Die Wiederbelebung des classischen Alterthums, rivolgendo dunque l’attenzione alla sfera dell’arte e del pensiero. Risale a questi stessi anni la gestazione della Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis (si veda per questo B. Croce, Come fu scritta la Storia della letteratura italiana, in Una famiglia di patrioti e altri saggi, 1927), dove il Quattrocento è visto come «un secolo di gestazione ed elaborazione […] il passaggio dall’età eroica all’età borghese, dalla società cavalleresca alla società civile». De Sanctis non usa il termine Rinascimento (in una prima accezione, era definito Risorgimento), ma osserva come non vi sia iato tra Quattro e Cinquecento: «L’un secolo s’intreccia talmente nell’altro, che non si può dire dove finisca l’uno, dove l’altro cominci. Sono una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale», che è esplicitato nel nome di G. Boccaccio, nell’accademia platonica, in L.B. Alberti, in Poliziano.

L. Bruni (1370-1444) nei Rerum suo tempore gestarum commentaria (1440-41), pur individuando in Petrarca il punto di partenza della rinascita, dovette andare oltre Petrarca e Boccaccio, «perché» – come notò E. Fueter – «costoro non rispondevano più a quelle nuove esigenze stilistiche miranti a una metodica riproduzione del modo di esprimersi antico», che gli storici fiorentini ritrovavano nelle Decadi liviane (e su di esse si soffermò a lungo N. Machiavelli, nei suoi Discorsi, stesi tra il 1513 e la fine del 1517).

In tal senso, dobbiamo riconoscere con E. Garin che il Rinascimento «è stato una scoperta dell’antichità, proprio nella misura in cui è stato consapevolezza del mondo medievale; ed è stato una forma originale e nuova di classicismo e di umanesimo nella misura in cui si è reso conto dell’uso che anche il Medioevo aveva fatto dell’antichità criticandolo e respingendolo».

È questa riscoperta dell’antico che spinge P. Bracciolini, al tempo del Concilio di Costanza, ad ampliare il raggio delle proprie ricerche, scoprendo (1416) i codici sepolti nella biblioteca del monastero di San Gallo, in particolare, per i riflessi intellettuali che produrrà il De rerum natura lucreziano, un messaggio dal passato che influenzerà profondamente P. Leto (ne è testimone il codice Farnesiano IV.E.51) e, anni dopo, Machiavelli, tanto da indurlo a ricopiare, in gioventù, l’intero poema (è il codice Vaticano Rossiano 884).

Nel 1492 si spegneva Lorenzo de’ Medici, «il Magnifico», nella cui figura si era tanto impersonato il Rinascimento (accanto all’altra, non meno rilevante, di Alfonso d’Aragona «il Magnanimo», il quale lo aveva preceduto nella tomba nel 1458). Sembrò ai contemporanei che si fosse chiuso un ciclo, mentre si profilavano il papato di Alessandro VI Borgia e le turbolenze di suo figlio Cesare (più tardi quella stessa situazione si sarebbe ripresentata con papa Paolo III Farnese e il figlio Pierluigi).

Quando, il 19 novembre 1523, il cardinale Giulio de’ Medici succedeva ad Adriano VI di Utrecht, assumendo il nome di Clemente VII e prendendo come divisa il motto: candor illaesus, un sole ardente i cui raggi foravano una sfera di cristallo e un albero i cui rami si incendiavano, P. Giovio così spiegava l’impresa: «i raggi del sole, attraversando una sfera di cristallo, assumono un’unità e un’intensità così grande che, per effetto di propagazione ottica, bruciano tutti gli oggetti tranne ciò che è assolutamente bianco». L’oratore veneziano M. Foscari scrisse che il nuovo eletto era «continetissimo, né si sa di alcuna sorte di luxuria […] è pieno di giustizia e di pietà». La notizia della sua elezione così fu accolta da Michelangelo, scrivendo il 25 novembre 1523, a un suo corrispondente: «Avrete appreso che un Medici è stato fatto papa: tutti mi sembrano rallegrarsene. Penso che per l’arte si faranno laggiù molte cose». Dopo il breve regno di Adriano di Utrecht, che aveva meditato di cancellare il giudizio universale della Sistina, definendolo «una stufa di ignudi», sembrava dunque che l’arte rinascimentale stesse ritrovando nuovo vigore. G. Vasari scrisse: «Fu l’anno 1523 creato papa Clemente VII che fu grandissimo refrigerio all’arte della pittura e della scultura» (Le Vite, V). Nessuno avrebbe potuto allora immaginare quale futuro attendeva, anche in campo artistico, quell’elezione!

Affidando a Giovanni da San Giovanni l’incarico di affrescare le sale terrene dell’ala sinistra di palazzo Pitti, Ferdinando II volle che vi si raffigurasse Lorenzo de’ Medici nell’atto di accogliere il corteo delle muse. Eppure, a mio avviso, non si può confinare il Rinascimento e la sua epoca a un mero «fatto culturale», artistico e letterario (Garin), rischiando di uniformarlo in un blocco compatto, fatto più di luci che di ombre, mentre, al contrario, fu un periodo di grandi tensioni, di profonde lacerazioni per la storia, non solo italiana, ma europea, tanto che si è potuto parlare contemporaneamente di un «antirinascimento» (H. Haydn; E. Battisti). Visivamente, potremmo meglio capire questi due antitetici concetti, ponendo a raffronto le sculture di Michelangelo e di Giambologna, con quelle dell’allievo di quest’ultimo, P. Tacca, nonché ripensando la gran voga delle grottesche, che imperversò a seguito della scoperta della Domus aurea neroniana. Spingendosi più avanti nel tempo, e riprendendo un famoso libro di J. Huizinga (Autunno del Medioevo, 1919), W.J. Bouwsma ha parlato di «autunno del Rinascimento», dilatandone la periodizzazione ben addentro al 17° secolo.

A proposito di Huizinga, giustamente Garin, introducendo alla traduzione in italiano del suo Autunno del Medioevo, ha parlato di «un’inquietudine ove si traduce il travaglio dell’Europa». Se Lutero e Calvino ne sono la maggiore espressione, De Sanctis non esiterà a vedere in Machiavelli «il Lutero italiano». Accanto all’età aurea di Lorenzo il Magnifico, accanto al suo inno alla giovinezza («che si fugge tuttavia»), esistono e coesistono l’età del Bronzo e quella del Ferro. È questo l’altro aspetto del Rinascimento: il travaglio religioso impersonato ai suoi albori dalla predicazione savonaroliana e da un anelito di espiazione, da un’esigenza di rinnovamento e approfondimento della fede, che consentì ad A. Tenenti di scrivere un fondamentale libro su Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento (1957). Non dimentichiamoci che nel pieno di quest’età si colloca il sacco di Roma del 1527, che stravolse la sensibilità di tanti artisti, come ha potuto documentare A. Chastel, prendendo a modello un precedente studio di M. Meiss sui profondi cambiamenti operati dalla peste nera sulla pittura fiorentina e senese.

Il Rinascimento ha dunque almeno due facce: l’amore per la vita, appunto, e l’angoscia della morte. Se Savonarola bruciò le «vanità», con l’attiva partecipazione di bande di «fanciulli» da lui istigati, la battaglia di Agnadello (14 maggio 1509) avrebbe commosso gli animi, aprendo il vaso di Pandora dell’inconscio collettivo, delle paure e delle attese messianiche, mentre si profilava un lungo periodo di guerre combattute sul suolo italico (il 24 febbraio 1525, nella battaglia di Pavia, il re di Francia sarebbe addirittura caduto prigioniero dell’imperatore).

Un Rinascimento che, rispetto a un consolidato cliché storiografico, si presenta come un’atmosfera cupa, sovrastata da lutti e rovine, da drammatiche fratture religiose (Lutero, il 31 ottobre 1517, affigge le sue tesi alla porta della chiesa d’Ognissanti di Wittenberg). Il 21 gennaio 1518 Leone X aveva letto ai cardinali, come ricorda il cronista veneziano M. Sanudo, «alcune lettere de le aparizion di Bergamo» (di Verdello, un bosco non lontano da Agnadello). Il pontefice doveva aver ricevuto, fresca di stampa, la Lettera de Le meravigliose battaglie apparse nuovamente in Bergamasca, indirizzata da Bartolomeo di Villachiara, il 23 dicembre 1517, a un suo corrispondente, Bartolomeo Bonnuncio. Erano quattro fogli, con molta probabilità stampati proprio a Roma. Vi si comunicava che «da otto giorni in qua si vedono tre o quattro volte al giorno uscire da un bosco battaglioni formidabili di fanti, cavalieri e artiglieria, che avanzano schierati in grandissima ordinanza e perfettissimo ordine. Davanti a essi procedono tre o quattro principi, guidati da un altro sovrano che appare essere il maggiore fra loro. Essi avanzano a parlamentare con un altro re, il quale, gettato in aria un guanto di ferro, dà il segnale della battaglia, e in quello istante odesi tanti suoni di trombe, tamburi et nàcare, e terribilissimo strepito d’artiglieria […] Et ivi vedesi non poca copia di bandiere et stendardi venirsi a l’incontro, et con grandissima fiereza e impeto l’un l’altro assaltarsi e da crudelissima battaglia per peci tutti andare tagliati». La terribile scena si ripeteva da otto giorni, dunque dal 16 dicembre, corrispondente alle tempora invernali, quando in cielo appariva la caccia selvaggia. L’esercito dei morti – come avrebbe spiegato H.C. Agrippa, in De occulta philosophia (1533) – si scontrava durante le tempora invernali, guidato dai quattro re che scaturivano dagli inferi. Il re delle quattro tempora, che guidava l’esercito dei morti, sarebbe stato identificato in Carlo V, in un opuscolo posteriore, del 1538, dello stampatore veneziano Z.A. Valvassore.

Cinque anni dopo quella allocuzione papale, G. Negri, 17 marzo 1523, accennando alla Roma papale, scriveva: «questo stato sta per molte cagioni sulla punta di un ago, e Dio voglia che noi non dobbiamo fuggir presto ad Avignone e agli ultimi confini dell’Oceano». Una facile profezia avveratasi quando V. e A. Colonna, e con loro il cardinale Pompeo, il 20 settembre 1526, saccheggiarono il Vaticano. Non sarebbe stato che l’antipasto di ciò che preparava il destino futuro. Profezie su imminenti sciagure e alluvioni «in piscibus» si erano sparse per l’Italia, oscuri presagi si addensavano in cielo. F. Guicciardini, un testimone diretto di quegli eventi, dando inizio al libro XVIII della sua Storia d’Italia, avrebbe scritto: «Sarà l’anno mille cinquecento ventisette pieno di atrocissimi e già per più secoli non uditi accidenti: mutazioni di stati, cattività di principi, sacchi spaventosissimi di città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta Italia grandissima; pieno ogni cosa di morte, di fuga, di rapine».

Pur di una generazione successiva, appartiene comunque a quell’età J. Bodin (1530 ca.-1596) nella cui figura sono racchiuse assieme tutte le alterità del Rinascimento: la razionalità affatto moderna della concezione dello Stato, un epicureismo che sfiora l’incredulità religiosa (era già stato anticipato nell’accademia romana di P. Leto), e la credenza nel soprannaturale, nel mondo degli inferi, nella stregoneria. I sei libri Les six livres de la République (1576), De la démonomanie des sorciers (1589) e il Colloquium Heptaplomeres (1593) appartengono alla stessa mano.

Se Bouwsma ha spinto il Rinascimento sino al 1640, occorre dire che un’altra tacca cronologica va incisa nel calendario al 1630, l’anno del sacco di Mantova. Nella storia delle corti italiane vi sono infatti due date che segnano tragicamente la loro storia, a distanza di cento anni quasi esatti tra la prima e la seconda. Due date e due saccheggi di città rinascimentali. Il primo è quello, appena ricordato, di Roma, del 1527. Naturalmente l’Italia di quel primo Cinquecento aveva già conosciuto gli orrori di città invase: i mercenari tedeschi, al tempo della Lega di Cambrai, avevano semidistrutto Vicenza nel 1509, e Brescia aveva subito la stessa sorte nel 1512, Prato era stata saccheggiata invece dagli spagnoli, nel 1513. Ma l’arrivo sotto le mura della città eterna dei lanzichenecchi luterani, comandati da un rinnegato quale il connestabile di Francia, Carlo di Borbone, dopo che il loro capitano, G. von Frundsberg, era morto per un attacco cardiaco in seguito all’ammutinamento dei suoi uomini, fu un qualcosa che colpì a lungo, direi in modo indelebile. Anche perché, con il senno di poi, quell’evento sembrò confermare le tante funeste profezie che si erano diffuse negli anni precedenti.

Distrutta la grande corte pontificia, dispersi i suoi artisti, Pietro Aretino, perso a Governolo il suo protettore, Giovanni delle Bande Nere, trovava rifugio a Venezia, divenendo capostipite di correnti libertine che si sarebbero collegate con l’averroismo patavino di C. Cremonini e di Galileo, e scoprendo prolifico terreno di coltura tra gli amici del patrizio veneziano G.F. Loredan. Quanto a Sebastiano «del piombo», la svolta religiosa nella sua pittura, dopo il dramma del sacco, è più che evidente. Salva, dopo un oneroso riscatto, Isabella d’Este rientrava in una Mantova che presto si sarebbe invischiata ed estenuata nella lotta contro i Savoia per il Monferrato; a Ferrara, Renata di Francia riceveva Calvino, compromettendo di fronte a Roma lo sposo, Alfonso d’Este (Ferrara era feudo papale). A Firenze, Cosimo de’ Medici era impegnato a sottrarre alla giustizia pontificia i suoi più stretti cortigiani, tra i quali – non ultimo il Pontormo – si era diffuso un testo eterodosso quale il Beneficio di Cristo di J. de Valdés. Lucca era costretta a subire l’esilio ginevrino di una parte cospicua del proprio patriziato, pur di evitare la rappresaglia controriformistica, che ne avrebbe compromessa l’indipendenza. Mentre l’antico reame aragonese andava ormai alla deriva, sottoposto al dominio spagnolo di Filippo II.

La guerra dei Trent’anni, foriera di tanti lutti e di rovine per l’intera Europa, segnò il tramonto del Rinascimento, come l’avevano ancora inteso, all’aprirsi del 17° sec., i suoi stessi protagonisti.

Il sacco di Mantova segnò, a sua volta, la fine di un mondo che aveva avuto in B. Castiglione il suo migliore interprete. Ora, si faccia attenzione alle date: il De cardinalatu di P. Cortesi, in cui si illustra la corte cardinalizia, risale al 1510; il De principatibus è del 1513; Il libro del cortegiano è terminato a Mantova nel 1518. Il cardinale, il principe, il cortigiano: sono i tre distinti aspetti del Rinascimento, tutti raggruppati in un pugno di anni. Come ebbe a osservare G. Preti, il libro del Castiglione «è attraversato da un senso tipicamente umanistico, di concreta vita terrena». Per questo la fine di Mantova, assieme a quella di Urbino, passata sotto il dominio della Chiesa nel 1631 (mentre la Ferrara estense era già stata distrutta, fagocitata da papa Aldobrandini, nel 1598), può davvero essere considerata la data ad quem, dove fissare la fine del Rinascimento. Accanto a un’altra data non meno tragica e che riguarda il suo pensiero: il rogo di G. Bruno a Roma, in Campo de’ fiori, il 17 febbraio 1600.

Stiamo entrando nei «secoli bui» della Controriforma, se non vi fosse a resistere la flebile candela valdese (in tenebris lux) e il nicodemismo, la «dissimulazione onesta» di T. Accetto, sotto la quale resisterà il libertinismo erudito.

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