Il romanzo europeo

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Francesco Stella
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Nell’Ottocento il romanzo conosce una straordinaria stagione creativa per la sua capacità di rappresentare ogni aspetto della realtà: la storia nazionale, la dialettica delle classi sociali, le vicende interiori di un individuo sempre più inquieto ed estraneo a se stesso.

Il romanzo storico e il romanzo di formazione

Nel frammento 116 dell’"Athenäum", Friedrich von Schlegel sostiene che la forma aperta, dialogica e senza schemi del romanzo “colora di sé l’intera poesia moderna”, un "grande tutto" che abbraccia la vita spirituale di un individuo in rapporto dialettico con la società. In effetti, anche secondo la diagnosi di Michail Bachtin (1979), tra Sette e Ottocento si assiste a un processo di "romanzizzazione" della letteratura europea che rivoluziona il sistema tradizionale dei generi, ripudiati in quanto convenzioni astratte e usurate, e deliberatamente confusi in forme miste, prossime al mondo quotidiano.

Tra i componimenti più "moderni" si colloca il romanzo, che conosce una straordinaria stagione creativa in virtù della propria natura enciclopedica e antiretorica, capace di ammettere varietà di stili e di riflettere la dialettica storica delle classi sociali. Posto che ogni tradizione letteraria nazionale mette in opera strumenti peculiari, il novel europeo del primo Ottocento è caratterizzato dalla ricerca di un equilibrio tra l’individuo e la collettività, tra l’intrigo del personaggio e quello del contesto storico che, in un primo tempo, viene retrodatato in epoche lontane, meglio conciliabili con la libertà del romanesque: con il suo bagaglio di passioni e desideri, il cavaliere medievale agisce all’interno di un sistema di valori e credenze che egli contribuisce a consolidare, vincendo i conflitti del potere e le meschinità della vita quotidiana.

A partire dai novels di Walter Scott (Ivanhoe è ambientato nell’Inghilterra del XII secolo) esportati soprattutto in Spagna grazie a Benito Pérez Galdós, in Germania a Gustav Freytag, in Francia a Victor Hugo e in Italia negli anni che separano la pubblicazione de I promessi sposi (1827) dalle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (1867) – il racconto si costruisce intrecciando le vicende private con quelle dei popoli, coinvolgendo una natura pittoresca, utilizzando materiale folklorico (canti popolari e leggende), illustrando minuziosamente luoghi e situazioni emblematiche (castelli, assedi, tornei, duelli, cacce, amori cortesi), e popolando il racconto di figure tipiche di ogni classe sociale.

Nonostante prevalga, da subito, una rappresentazione di "maniera" del passato che ha assai poco di storico e molto di avventuroso, questa tendenza favorisce l’impegno degli scrittori per un’arte più realistica e attenta alle problematiche sociali, secondo una linea che troverà in Alessandro Manzoni, Victor Hugo e Honoré de Balzac – grande ammiratore di Scott – gli interpreti più autorevoli.

Alessandro Manzoni

Rispondendo alle critiche su Il Conte di Carmagnola

 Lettre à monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie

Spiegare quel che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto attraverso quel che hanno fatto, in questo consiste la poesia drammatica; inventare dei fatti per adattare ad essi dei sentimenti è, da Mademoiselle Scudéri ai giorni nostri, il grande difetto dei romanzi.

Non voglio per questo asserire che i componimenti che appartengono al genere romanzesco siano sostanzialmente falsi. Certo ci sono dei romanzi che meritano di essere considerati modelli di verità poetica; e sono quelli i cui autori, dopo aver preso atto, in modo preciso e sicuro, dei caratteri e dei costumi, hanno inventato, per poter rappresentare tali caratteri e tali costumi, azioni e situazioni conformi a quelle che si verificano nella vita reale: dico solo che, come ogni genere letterario ha il suo scoglio particolare, così lo scoglio del genere romanzesco è rappresentato dal falso. Il pensiero degli uomini si manifesta con maggiore o minore chiarezza attraverso le loro azioni e i loro discorsi; ma anche quando si parte da questa larga e solida base raramente si giunge alla verità nella rappresentazione dei sentimenti umani. A fianco di un’idea chiara, semplice e vera se ne presentano cento che sono oscure, forzate o false; ed è la difficoltà di separare la prima dalle seconde che rende così esiguo il numero dei buoni poeti. Tuttavia anche i più mediocri si trovano spesso sulla via della verità; qualche indizio più o meno vago di essa, lo hanno sempre. Ma è difficile seguire questi indizi: che cosa accadrà poi se li si trascura e li si disprezza? È questo l’errore che commettono, inventando i fatti, la maggior parte dei romanzieri. Ne è derivato quel che doveva derivarne, e cioè che la verità è sfuggita loro più spesso che a quelli che si sono tenuti più vicini alla realtà; ne è derivato che essi si sono preoccupati poco della verosimiglianza, sia nelle vicende che hanno immaginate sia nei caratteri dai quali hanno fatto scaturire queste vicende; e che a forza di inventare storie, situazioni nuove, pericoli inaspettati, contrasti eccezionali di passioni e di interessi, hanno finito col creare una natura umana che non somiglia in niente a quella che avevano sotto gli occhi, o, per meglio dire, a quella che non hanno saputa vedere. Di conseguenza l’epiteto di romanzesco è stato designato ad indicare generalmente, per quel che riguarda sentimenti e i costumi, quel tipo particolare di falsità, quel tono artificioso, quei tratti convenzionali che contraddistinguono i personaggi dei romanzi.

A. Manzoni, Scritti di teoria letteraria, a cura di A. Sozzi Casanova, introduz. di C. Segre, Milano, Rizzoli, 1981

Un altro tentativo di rappresentare il compromesso tra l’individuo e il contesto storico-culturale è quello del "romanzo di formazione", sul modello del primo Wilhelm Meister di Goethe. Seguendo il percorso educativo di un giovane che sperimenta il contrasto tra l’identità oggettivamente assegnata dagli altri (anzitutto i familiari) e quella soggettivamente fatta propria nel corso della crescita, l’autore propone alla fine un modello di integrazione sociale, attraverso il lavoro o il matrimonio, rispettivamente mete ultime dell’"apprendistato" di Wilhelm e di Elisabeth in Orgoglio e pregiudizio (1813) di Jane Austen.

Rispetto al romanzo storico, in queste opere troviamo l’interiorizzazione delle avventure, che coincidono con i conflitti tipici della civiltà borghese – tra l’ideale di indipendenza della volontà e le esigenze della socialità. Non sempre però, nel corso della "formazione", il personaggio riesce ad acquisire il senso della realtà, scegliendo allora di vivere da "artista", stralunato e problematico: il vague des passions assale gli omonimi protagonisti di René di François-René de Chateaubriand, Oberman di Etienne-Pivert de Sénancour, Heinrich von Ofterdingen di Novalis e, dopo qualche anno, pure Eugenio Onegin di Aleksandr Puskin, il quale riflette con disincanto sul proprio destino: “Beato colui che in gioventù è stato giovane e, al tempo giusto è maturato, e ha saputo sopportare a poco a poco, con gli anni, il freddo della vita”. Come per Julien Sorel e Fabrizio del Dongo, eroi di Il rosso e il nero e La Certosa di Parma, per Eugenij autonomia e integrazione non sono compatibili, se non a costo di infedeltà, incoerenza, duplicità e disarmonia.

Stendhal

Julien prende la signora del Renal per mano

Il rosso e il nero

Il sole che calava e avvicinava il momento decisivo fece battere il cuore di Julien in modo strano. Giunse la notte. Con una gioia che gli tolse un grosso peso dal petto egli notò che sarebbe stata molto buia. Il cielo, carico di nuvoloni sospinti da un vento caldissimo, minacciava tempesta. Le due amiche passeggiarono fino a tardi. Tutto quanto esse facevano quella sera sembrava insolito a Julien. Godevano di quel tempo che per alcune anime sensibili sembra rendere più vivo il piacere di amare. Alla fine si misero a sedere. La signora de Rênal accanto a Julien, e sua cugina accanto a lei. Preoccupato di ciò che stava per tentare, Julien non trovava nulla da dire. La conversazione languiva.

"Al mio primo duello sarò dunque così tremante e turbato?" pensò il giovane, che diffidava troppo di se stesso e degli altri per non vedere il proprio stato d’animo.

Qualsiasi rischio gli sarebbe parso preferibile alla sua mortale angoscia. Quante volte si augurò che qualche necessità obbligasse la signora de Rênal a lasciare il giardino e a rientrare in casa! Julien doveva fare troppo sforzi perché la sua voce non ne risultasse profondamente alterata; ben presto anche la voce di lei cominciò a tremare, ma Julien non se ne accorse: la spaventosa lotta del dovere contro la timidezza era troppo dura perché egli potesse rendersi conto di quanto gli accadeva intorno. Erano già sonate le nove e tre quarti all’orologio del castello, e non aveva ancora osato nulla. Indignato per la propria viltà, il precettore pensò: "Nel preciso momento in cui soneranno le dieci farò ciò che per tutto il giorno mi sono ripromesso di fare: se no andrò in camera mia e mi brucerò le cervella".

Dopo un ultimo istante di attesa e di ansietà, durante il quale Julien fu come fuori di sé per l’eccessiva emozione, le dieci sonarono all’orologio che si trovava sopra la sua testa. Ognuno di quei fatali rintocchi echeggiava nel suo petto e vi provocava una specie di sconvolgimento fisico.

Infine, quando il decimo colpo vibrava ancora nell’aria, egli tese la mano e prese quella della signora de Rênal, che si ritrasse immediatamente. Senza rendersi chiaramente conto di ciò che faceva, Julien la riprese di nuovo, e, benché fosse agitatissimo, fu colpito nel sentirla tanto gelida. La strinse con forza convulsa; sentì che la mano faceva un ultimo sforzo per svincolarsi, ma alla fine rimase nella sua.

La felicità gli invase l’anima; non che egli amasse la signora de Rênal, ma era cessato uno spaventoso supplizio. Perché la signora Derville non si accorgesse di nulla, il giovane si sentì in dovere di parlare; la sua voce era forte e squillante. Quella della signora de Rênal, invece, tradiva una tale emozione che sua cugina la credette indisposta e le propose di rincasare. Julien avvertì il pericolo. "Se la signora de Rênal torna in salotto, ricadrò nella spaventosa situazione in cui ho passato tutta la giornata. Ho tenuto la sua mano troppo poco, per potermi considerare vittorioso".

Quando la signora Derville ripeté la proposta di rincasare, Julien strinse forte la mano che gli si era abbandonata. La signora de Rênal, che stava già per alzarsi, si rimise a sedere, dicendo con voce spenta:

"A dire il vero mi sento un po’ indisposta, ma l’aria aperta mi fa bene".

Queste parole rafforzarono la felicità di Julien, che in quel momento era enorme: egli parlò, lasciò da parte le finzioni, e alle due cugine che lo ascoltavano sembrò l’uomo più amabile del mondo. Tuttavia, in questa improvvisa eloquenza c’era ancora una certa paura. Julien temeva terribilmente che la signora Derville, disturbata dal vento che cominciava ad alzarsi e che precedeva la tempesta, volesse rientrare da sola in salotto. Allora egli sarebbe rimasto a tu per tu con la signora de Rênal. Aveva trovato solo per caso il coraggio cieco di agire: ma sentiva che non era in grado di dire una sola parola alla signora de Rênal. Sarebbe bastato il minimo rimprovero per disarmarlo e per mandare in fumo il vantaggio ottenuto.

Stendhal, Il rosso e il nero, trad. it. di M. Lavagetto, Milano, Garzanti, 1968

Un romanzo milanese europeo

I promessi sposi di Alessandro Manzoni si rifanno consapevolmente alla nuova tradizione narrativa di Scott, escludendo però il melodrammatico e il pittoresco per scrutare – attraverso la vicenda dell’eroe perseguitato che deve fuggire dal proprio paese in mezzo alla tempesta di un conflitto sociale, mentre la sua futura compagna viene rapita da un iniquo potente – un nodo traumatico della memoria collettiva che nasconde sia una parabola del presente sia un’ipotesi sul mistero eterno dell’esistenza. Ordinato a sequenze alterne tra contado e città, da una parte nella sfera delle classi dominanti, dall’altra in quella dei ceti popolari, il romanzo di Manzoni ingloba lungo il tracciato di Lucia (che incontra tra gli altri Gertrude e l’Innominato) una sorta di racconto nero – tra Ann Radcliffe e George Byron – e lungo quello maschile un romanzo picaresco, con i tratti di una biografia in "formazione": non per nulla Renzo vive in strada, di volta in volta come fuggitivo, viaggiatore, pellegrino, cercatore.

Accanto agli elementi storici, sociali, avventurosi e psicologici, vi sono gli esperimenti "sterniani" dell’autore che moltiplica le voci intorno al testo in modo tale che il racconto parli di sé e del proprio codice combinatorio: Renzo racconta, l’Anonimo del "manoscritto" rielabora e commenta i fatti sulla base del resoconto di Renzo, e il Manzoni trova la stesura secentesca di cui rifà la "dicitura", accompagnandola alla propria ironia, ora benevola ora più aspra e sarcastica. E mentre il narratore multiplo pone in discussione la letteratura, parodiando tutti i generi letterari nel momento stesso in cui li utilizza, i personaggi confrontano i rispettivi punti di vista in un dialogo plurilinguistico, reso necessario dalla varietà delle situazioni comprensive dell’intera "scala del mondo". In corrispondenza a cronotopi moltiplicati (la strada e il paese, il monastero e il castello, lo studio e la piazza, la città infernale della peste e il purgatorio del lazzaretto), l’orchestrazione polifonica dei Promessi sposi riflette la problematicità di un esperimento di radicale innovazione letteraria che resta largamente incompreso, almeno sino alla lettura "umoristica" di Luigi Pirandello. Ridotto a exemplum scolastico ed edificante, il novel manzoniano esclude invece ogni soluzione idillica: lasciando ai personaggi l’ingenua facoltà di riconoscere in ogni evento della storia la manifestazione di un disegno provvidenziale, il narratore interviene per negare anche il "lieto fine": “che se ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a morire”. Lontano dal romanzesco di Scott e dalle armonie di Goethe, il Manzoni anticipa i "guazzabugli" antiromanzeschi degli scrittori del Novecento.

Alessandro Manzoni

Sulla poesia

Lettera a Claude Fauriel del 29 gennaio 1821

Vorrei proprio conoscere il vostro parere circa questo sistema di concedersi l’invenzione dei fatti per giungere a rappresentare nel loro sviluppo un complesso di costumi storici. A me, personalmente, sembra una felicissima risorsa per quella benedetta poesia, che si ostina a non voler morire, nonostante le vostre previsioni in contrario. Alla poesia penso sia interdetto il racconto storico vero e proprio, perché la relazione semplice e nuda dei fatti conserva, per ragioni di curiosità spiegabilissime negli uomini, un fascino così immediato, che li disamora di tutte le invenzioni poetiche che vi si volessero mescolare, e anzi le fa apparire ingenue e puerili. Ma radunare i lineamenti caratteristici di un’epoca della società e svolgerli nel giro di un’azione, profittare della storia senza pretendere di farle concorrenza, di fare ciò che essa da sola può fare senz’altro meglio: questa a me sembra la zona d’intervento che può legittimamente riservarsi alla poesia; quella in cui anzi a lei sola è dato di addentrarsi.

R. Bertacchini (a cura di), Documenti e prefazioni del romanzo italiano dell’Ottocento, Roma, Studium, 1969

La letteratura fantastica

Il romanzo simbolista del decadentismo

Verso la metà del secolo il romanzo ospita una strenua e radicale discussione sui problemi sociali e politici connessi al mondo della borghesia industrializzata: avvicinando progressivamente la letteratura alla scienza, i narratori rappresentano personaggi con connotati non solo psicologici ma anche "ambientali", sino a quando, con i naturalisti, il milieu campeggia incontrastato sui singoli.

Persino il genere "popolare" del feuilleton si concentra sullo studio della realtà, di cui esibisce la quotidiana violenza per meglio porre in risalto l’illusione catartica dell’happy end. Proprio la focalizzazione sul sociale, che riduce o annulla la dimensione interiore dei personaggi romanzeschi, determina una reazione "spiritualistica" volta a riconquistare la libertà dell’uomo e la sua possibilità di isolarsi da ciò che lo circonda.Cresciuto alla scuola naturalista di Zola, Joris-Karl Huysmans è tra i primi ad avvertire “il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più nulla in comune col prossimo” e in particolare con quei positivisti che nulla comprendono dell’"animo umano".

Joris-Karl Huysmans

Storia di una nevrosi

A ritroso

Secondo lui, v’erano solo due modi per arredare una stanza da letto: o farne un’eccitante alcova, un luogo di diletto notturno; oppure creare un luogo di solitudine e di riposo, un rifugio dei pensieri, una specie di oratorio.

Nel primo caso lo stile Luigi XV s’imponeva ai delicati, alle persone spossate soprattutto dagli erotismi cerebrali. Infatti, solo il secolo decimo ottavo ha saputo avvolgere la donna di un’atmosfera viziosa, foggiando i mobili secondo la forma delle sue grazie, imitando la contrazione dei suoi piaceri, le volute dei suoi spasimi, con le ondulazioni, le torsioni del legno e del bronzo, drogando il languore zuccherato della bionda con i suoi ornamenti vivi e chiari, attenuando il gusto forte della bruna con tappezzerie dai toni dolciastri, acquosi, quasi insipidi.

Questa stanza l’aveva avuta un tempo nel suo appartamento di Parigi, col grande letto bianco, laccato, che è un pimento di più, una depravazione da vecchio appassionato che si esalti dinanzi alla falsa castità, davanti al pudore ipocrita delle ragazzine di Greuze, davanti all’artificiale candore di un letto birichino che sa di ragazzo e di giovinetta.

Nell’altro caso – e ora che voleva romperla con gli irritanti ricordi della sua vita trascorsa, era il solo possibile – bisognava arredare una stanza come una cella monastica; ma allora le difficoltà si accumulavano perché egli si rifiutava di accettare, per parte sua, l’austera bruttezza degli asili di penitenza e di preghiera.

A forza di girare e rigirare per ogni verso il problema, concluse che lo scopo da raggiungere poteva riassumersi in questo: creare con oggetti gioiosi una cosa triste, o piuttosto, pur conservandole il suo carattere di bruttezza, dare all’insieme della stanza, così trattata, una sorta di eleganza e di distinzione; rovesciare l’ottica del teatro, i cui vili orpelli fanno la parte di tessuti lussuosi e preziosi; ottenere l’effetto assoluto opposto, servendosi di stoffe magnifiche per dare l’impressione di stracci; disporre insomma un appartamento da certosini che avesse l’aria di esser vero e che, naturalmente, non lo fosse.

Procedette in questo modo: per imitare la tintura a calce color ocra, il giallo amministrativo e clericale, fece tappezzare le pareti con una stoffa color zafferano; per tradurre lo zoccolo color cioccolato, usuale in questo genere di stanze, rivestì le pareti di pannelli di legno viola scurito di amaranto. L’effetto era seducente e poteva ricordare, di lontano, la spiacevole rigidità del modello che seguiva trasformandolo. Il soffitto fu, a sua volta, tappezzato di bianco grezzo, che poteva imitare la calce senza tuttavia averne il chiarore stridente; quanto al freddo pavimento della cella, riuscì a copiarlo assai bene in grazia di un tappeto a quadri rossi con macchie biancastre nella lana per imitare l’usura dei sandali e lo strofinio delle scarpe.

Ammobiliò questa stanza con un piccolo letto di ferro, un falso letto da cenobita, fabbricato con vecchi ferri battuti e politi, abbelliti, al capezzale e al piede, di ornamenti gonfi, di tulipani sbocciati allacciati a pampini, presi dalle rampe della superba scalinata di un vecchio palazzo.

Come comodino installò un antico inginocchiatoio il cui interno poteva contenere un vaso e il cui esterno sosteneva un eucologio; di fronte, contro il muro, pose una di quelle panche riservate ai fabbricieri, sormontata da un grande baldacchino a giorno, ornato di rilievi corali scolpiti nel legno massiccio. E pose nei candelieri da chiesa delle candele di vera cera, che acquistava in un negozio specializzato, dedicato alle esigenze del culto, perché provava una sincera ripugnanza per i petroli, gli scisti, i gas, per le candele di stearina e per tutta l’illuminazione moderna, così violenta e brutale.

E, tutto sommato, l’illusione era facile, poiché conduceva un’esistenza quasi analoga a quella dei religiosi. Aveva così il vantaggio della clausura e ne evitava gli inconvenienti: la disciplina soldatesca, la mancanza di cure, la sporcizia, la promiscuità, l’ozio monotono. Come aveva fatto della sua cella una stanza comoda e tepida, così aveva reso la sua vita normale dolce, circondata di benessere, libera e attiva.

Come un eremita, era maturo per l’isolamento, stanco della vita da cui non si aspettava più nulla; al pari di un monaco era sopraffatto da un’immensa stanchezza, da un bisogno di raccoglimento, da un desiderio di non avere più nulla in comune con i profani, che erano, per lui, gli utilitaristi e gli imbecilli.

Insomma, sebbene non provasse alcuna vocazione per lo stato di grazia, sentiva una sincera simpatia per le persone chiuse nei monasteri, perseguitate da una società piena di odio che non perdona loro né il giusto disprezzo che hanno per essa, né la decisa volontà di riscattare, di espiare con un lungo silenzio, la vergogna sempre crescente delle sue conversazioni ridicole o sceme. (...)

Evidentemente non gli restava alcuna rada, alcuna proda. Che sarebbe successo di lui in quella Parigi in cui non aveva né famiglia né amici? Non aveva più alcun legame con quel sobborgo Saint-Germain che traballava di vecchiaia, andava in polvere per decrepitezza e restava nella società nuova come una vizza buccia vuota. E quali punti di contatto potevano sussistere tra lui e quella classe borghese che si era innalzata a poco a poco profittando di tutti i disastri per arricchirsi, suscitando catastrofi per imporre il rispetto dei suoi delitti e delle sue ruberie?

Dopo l’aristocrazia della nascita, era venuta la volta dell’aristocrazia del denaro: era il califfato delle botteghe, il dispotismo di via Du Sentier, la tirannia del commercio delle idee venali e anguste, degli istinti scaltri e vanitosi.

Più scellerata, più vile della nobiltà spoglia e del clero decaduto, la borghesia prendeva in prestito la loro frivola ostentazione, la loro caduta iattanza degradandole con la sua mancanza di saper vivere; prendeva tutti i loro difetti convertendoli in ipocriti vizi. E, autoritaria e sorniona, bassa e codarda, infieriva senza pietà sulla sua eterna e fatale vittima, il popolo minuto, a cui aveva lei stessa tolto la museruola mettendolo all’agguato perché saltasse alla gola delle antiche caste.

Adesso era cosa fatta. Compiuto il dover suo, la plebe era stata salassata fino all’ultima goccia per misure igieniche: il borghese, rassicurato, troneggiava allegramente per la forza del suo denaro e il contagio della sua idiozia. Il risultato della sua ascesa era stato la prostituzione di ogni intelligenza, la negazione di ogni onestà, la morte di ogni arte. E, in realtà, gli artisti, avviliti, si erano inginocchiati e, pieni di ardore, si divoravan di baci i piedi fetidi dei grandi sensali e dei piccoli satrapi le cui elemosine li tenevano in vita.

In pittura, era un diluvio di smidollate scempiaggini; in letteratura un dilagare di stile anodino e di idee vili, perché l’affarista mestatore aveva bisogno di onestà; il filibustiere che cercava una dote per suo figlio e si rifiutava di pagare quella della figlia aveva bisogno di virtù, il voltairiano che accusava il clero di stupri e se ne andava ipocritamente e stupidamente, senza una vera arte della depravazione, ad annusare in qualche stanza equivoca l’acqua sporca delle catinelle e la polvere tiepida delle gonne sudice, aveva bisogno di castità.

Era la grande galera dell’America trasportata sul nostro continente, era, infine l’immensa, la profonda, l’incommensurabile cafoneria dei finanzieri e dei nuovi ricchi, raggiunte come un abbietto sole, sulla città idolatra, che eiaculava, ventre a terra, oscene cantiche davanti all’empio tabernacolo delle banche.

"E va’ dunque in rovina, società! Crepa, una buona volta, vecchio mondo!" esclamò Des Esseintes sdegnato dall’ignominia dello spettacolo evocato. Quel grido spezzò l’incubo che l’opprimeva. "Ah!" mormorò. "E dire che tutto questo non è un sogno! Che sto per rientrare nella ressa turpe e servile di questo mondo!" Per farsi animo chiamava in aiuto le consolanti massime di Schopenhauer, si ripeteva il doloroso assioma di Pascal: "L’anima non vede nulla che non l’affligga, quando medita"; ma le parole risuonavano nel suo spirito come suoni privi di significato: la sua pena le desgregava, toglieva loro ogni senso e ogni virtù sedativa, ogni vigore dolce e affettivo.

Si accorgeva, insomma, che i ragionamenti del pessimismo erano impotenti a dargli ristoro, che solo lo avrebbe calmato l’impossibile speranza in una vita futura.

Un accesso di rabbia spazzava via, come un uragano, i suoi tentativi di rassegnazione, i suoi tentativi di indifferenza. Non poteva nasconderselo: non v’era nulla, più nulla, tutto era a terra. I borghese si rimpinzavano come a Clamart, con un tovagliolo di carta spiegato sulle ginocchia, sotto le grandiose rovine della Chiesa divenute luogo di convegno, cumulo di macerie insudiciato da facezie triviali e buffonate oscene. Forse, per mostrare una buona volta la sua esistenza, il terribile Dio della Genesi e il pallido Dischiodato del Golgota stavano per riaccendere spenti cataclismi e riattizzare le piogge di fiamme che consumarono le genti un tempo condannate e le città morte? O il fango sarebbe continuato a colare fino a ricoprire con la sua sanie questo vecchio mondo dove non attecchivano più che semenze di iniquità e non si coglievano che messi di obbrobrio?

La porta si aprì bruscamente; nel fondo, inquadrati dagli stipiti, si videro degli uomini con un cappello alto in testa, le gote rase, una mosca sotto il labbro, che maneggiavano casse e portavano mobili. Poi la porta si richiuse alle spalle del domestico che portava dei pacchi di libri.

Des Esseintes si accasciò su una sedia.

"Tra due giorni sarò a Parigi", mormorò: "coraggio, è finita davvero. Come un maremoto, le onde della mediocrità umana salgono fino al cielo e stanno per inghiottire il rifugio di cui io stesso apro, mio malgrado, le dighe. Ahimè, mi manca il coraggio e il cuore mi si spezza! Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che s’imbarca solo, nella notte, sotto un firmamento che non è più rischiarato dai consolanti fari dell’antica speranza".

Joris-Karl Huysmans, A ritroso, trad. di U. Dèttore, Milano, Rizzoli, 1953

Nasce così Des Esseintes, il protagonista di A ritroso (1884) che, annoiato dalla banalità del mondo borghese, si ritira nella sua dimora per sottrarsi alle convenzioni della socialità, accompagnato soltanto dalle fantasie di donne fatali, strani incroci di fiori, artificiosi profumi, suoni e musiche rare, con quella mescolanza di sacro e profano già sperimentata da Baudelaire, dal Flaubert di Salammbô e dagli ammirati pittori Odilon Redon e Gustave Moreau, il quale afferma risolutamente: “Non credo né a quello che tocco né a quello che vedo”, ma “unicamente a quello che sento”.

Avanguardia del simbolismo proteso a “squarciare il velo di Maia ”che nasconde il volto autentico delle cose, sotto la dominante ideologica di Schopenhauer e successivamente di Bergson e Nietzsche, Des Esseintes è un esteta che rinuncia ad agire nella realtà, finendo vittima della sua malinconica passività. In altri casi questo nuovo romanzo dell’artista (rispetto al suo antecedente del primo Ottocento tanto più contraddittorio quanto più complesso è il groviglio delle componenti in gioco nella fin de siècle) include altri motivi più aggressivi e polemici nei confronti della mediocrità borghese: così, dopo avere ottenuto per un sortilegio di fermare lo scorrere del tempo, Dorian Gray si abbandona a una vita di piaceri e vizi, volutamente provocatoria nell’Inghilterra vittoriana (il suo autore è quell’Oscar Wilde, allievo di John Ruskin e Walter Pater, che finisce in carcere a causa dell’omosessualità). E se il dandy dannunziano del Piacere si limita a disprezzare il “grigio diluvio democratico odierno” in termini estetici, nelle Vergini delle rocce, Claudio Cantelmo mostra invece velleità operative sul piano politico, concependo lo Stato come “un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione di una classe privilegiata verso un’ideal forma di esistenza”.

L’evoluzione dei personaggi di Gabriele D’Annunzio – dalla sensualità di Andrea Sperelli (che vive con aristocratica intensità le avventure sentimental-erotiche dei coevi eroi del feuilleton) a fantasie di attivismo, con già operante la mitologia nietzschiana dello spirito dionisiaco del "superuomo" – mostra, da un lato, la complessità del romanzo decadente e, dall’altro, la sua straordinaria novità, che consiste nella forza dell’analisi psicologica: inseguendo i processi interni della sensibilità si perviene tanto agli abissi dell’introversione quanto agli scenari di un delirio agonistico. Tramontato l’ottimistico progetto naturalista di descrivere le lacerazioni della realtà esterna per porvi rimedio attraverso un’azione socialmente coordinata, resta allora la volontà di approfondire i conflitti della psiche individuale. Dal punto di vista della narrazione, questa tendenza si manifesta nella corrosione dell’intreccio (che nel naturalismo ingloba le azioni di interi "cicli" familiari) attraverso l’uso di principi onirici quali la simultaneità (in base alla quale gli eventi non hanno una progressione unilineare e teleologica, spesso anzi non si concludono) e la contiguità (che ostacola le leggi di causa ed effetto, favorendo l’attenzione su particolari in apparenza distanti e incoerenti). Così, mentre rimuove il ricordo delle effusioni passionali dell’antica amante Elena, Andrea Sperelli la ritrova analogicamente in Maria, per un processo di ripetizione dagli effetti drammaticamente distruttivi. Nella universale, wagneriana analogia del romanzo simbolista l’intensità delle emozioni fa smarrire la realtà di sé e degli altri.

D’altronde, sulla scorta del nichilismo dostoevskijano, l’artista percepisce l’inanità dell’esistente, ricercando ovunque i segni di una condanna a morte.

La simpatia per antiche epoche stanche e raffinate come l’ellenismo, la tarda romanità e il rococò, l’indugio sullo sfiorire di creature umane ed edifici, l’angoscia che conduce Baudelaire a vedere “tutto pieno di vago orrore, che porta non sai dove”, il culto di una “bellezza remota e insueta, sonnambolica, fragile, androgina, quasi trasparente contro la luce ”, come scrive Walter Pater, la vocazione oscuramente misticheggiante di Pío Baroja e di Antonio Fogazzaro sono tutti indizi di una crisi profonda: la coscienza cioè di trovarsi alla conclusione di un ciclo storico e prossimi alla fine di quella civiltà di cui Thomas Mann disegna l’ascesa e la decadenza nei Buddenbrook, lucidissimo “brano della storia dell’anima della borghesia europea”. E se il romanzo del primo Ottocento rappresenta le possibilità di integrazione offerte all’individuo dalla nuova società borghese e industriale, alla fine del secolo si percepisce la fenomenologia di un reale reso impotente dal fallimento dell’ideologia progressiva del positivismo. “Ah i fatti, i fatti, sempre i fatti! I fatti non sono nulla, non significano nulla!”, afferma D’Annunzio per voce di Giovanni Episcopo, poco prima che il Pirandello dell’Esclusa assegni il ruolo di motore narratologico a un "fatto" inesistente come l’adulterio presunto della protagonista.

E mentre Maurice Barrès, in Francia, si prodiga affinché l’estetizzante "culto dell’io" divenga "energia nazionale" ispirando poi l’Action Française – e in Spagna Angel Ganivet riflette drammaticamente sull’identità di un Paese appena privato dell’impero coloniale anticipando i fermenti esistenziali di Miguel de Unamuno e del "gruppo del ’98" – nella provincia italiana Italo Svevo elabora un modello umano di esclusione di cui si ricorderà tra gli altri James Joyce: l’uomo "inetto", condannato alla passività e alla solitudine dalla propria stessa "coscienza". Con i personaggi sveviani di Una vita e di Senilità può dirsi irrevocabilmente avviato quel processo di dissoluzione del romanzo ottocentesco che è segno dell’avvento di una cultura nuova, novecentesca, in cui per pervenire alla comprensione dell’uomo e della sua realtà bisogna scomporre, denudare, ricercare i particolari più intimi e minuti, muovendo dallo scomposto e slegato mondo dei sogni.

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