Il trattato sul clima

Il Libro dell Anno del diritto 2017

Il trattato sul clima

Tullio Scovazzi

I rischi globali, di cui i cambiamenti climatici sono il tipico esempio, derivano da fonti situate nel territorio di tutti gli Stati, non essendo possibile determinare quale Stato sia il responsabile e quale la vittima. Essi rischiano di alterare equilibri fondamentali del pianeta. L’Accordo di Parigi (2015) modifica radicalmente lo schema della riduzione di emissioni di gas a effetto serra, proprio del Protocollo di Kyoto (1997) e gravante solo sugli Stati parti sviluppati. Ora tutti gli Stati sono tenuti a determinare volontariamente “contributi nazionali” al contenimento delle emissioni e all’adattamento ai cambiamenti climatici. Il successo del nuovo schema è incerto.

La ricognizione. La consapevolezza dei rischi globali

Negli ultimi tempi la protezione dell’ambiente è stata intesa come un’esigenza essenziale per la preservazione della vita sulla Terra nei confronti di rischi ambientali su vasta scala che potrebbero alterare equilibri fondamentali (cd. inquinamento globale). Diversamente da quanto avviene per i fenomeni di inquinamento transfrontaliero, i rischi globali derivano da fonti situate indistintamente nel territorio di tutti gli Stati e minacciano di colpire tutti gli Stati. Non è in questo caso possibile determinare con precisione quale Stato sia il responsabile e quale la vittima, perché tutti gli Stati concorrono a provocare l’evento e tutti ne sono lesi. È importante che gli Stati cooperino, tramite appositi trattati di portata mondiale, ai fini della prevenzione di tali rischi, dato che i danni, se mai si verificassero, sarebbero irreversibili e assumerebbero una dimensione tale da eccedere qualsiasi possibilità di risarcimento.

Tipico esempio di rischio globale è il cambiamento climatico1. Si verifica un progressivo riscaldamento atmosferico (cd. effetto serra), dovuto all’impiego di combustibili fossili (carbone e petrolio) che emettono anidride carbonica. Questo gas, insieme ad altri che hanno simili effetti, trattiene l’irradiazione solare presso la superficie terrestre, con conseguente aumento della temperatura. La deforestazione di larghe aree contribuisce a incrementare la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera. Il riscaldamento provoca l’alterazione delle caratteristiche climatiche dell’intero pianeta, con conseguente rischio dell’innalzamento del livello dei mari a seguito dello scioglimento dei ghiacci polari e della sommersione di città e territori costieri. Per comprendere la dimensione economica del problema basti pensare che il carbone e il petrolio sono di gran lunga le più diffuse fonti di energia e che il ricorso su larga scala a fonti energetiche alternative non è per il momento realizzabile.

Vengono in considerazione gli interessi delle generazioni future. Non a caso il principio dello sviluppo sostenibile, come enunciato nella Dichiarazione adottata nel 1992 a Rio de Janeiro dalla Conferenza su ambiente e sviluppo (principio 3), prevede che occorra conciliare le esigenze dello sviluppo economico con quelle della tutela dell’ambiente, anche al fine di salvaguardare l’aspettativa delle generazioni future di ricevere un pianeta dotato di un capitale ecologico non inferiore a quello su cui possono contare le generazioni presenti (cd. equità intergenerazionale).

Significativo in relazione ai rischi globali è anche il principio precauzionale (principio 15 della Dichiarazione di Rio), che realizza una sorta di inversione dell’onere della prova. In caso di minaccia di un danno serio o irreversibile all’ambiente, l’assenza di certezze scientifiche non deve servire come motivo per ritardare l’adozione di misure efficaci rispetto al loro costo dirette a prevenire il degrado ambientale.

Oggi le incertezze sulle cause dei cambiamenti climatici sono sempre meno giustificabili. Il documento di sintesi del quinto rapporto del Gruppo d’esperti Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Intergovernmental Panel on Climate Change), diffuso nel 2014, segnala che, a partire dal 1950, si sono verificati cambiamenti in situazioni che per millenni erano rimaste stabili e valuta che, per contenere a 2° C rispetto al periodo preindustriale l’aumento di temperatura entro la fine del secolo XXI, occorrerà, entro la metà del secolo, produrre almeno metà dell’energia globale da fonti a bassa emissione di inquinanti atmosferici e, alla fine del secolo, eliminare completamente i combustibili fossili. Secondo il documento, se non saranno adottate misure per ridurre le emissioni, lo scenario di aumento delle temperature per il 2100 si collocherà, a causa della crescita della popolazione e delle attività economiche, tra i 3,7° e i 4,8° rispetto al periodo preindustriale. Ben si comprendono le preoccupazioni di quegli Stati insulari che rischierebbero di essere sommersi da un innalzamento del livello dei mari.

La citata Dichiarazione di Rio enuncia anche il principio delle responsabilità comuni, ma differenziate, particolarmente importante in tema di cambiamenti climatici: se tutti gli Stati devono contribuire a preservare e ristabilire l’integrità dell’ecosistema terrestre, non tutti devono essere gravati dagli stessi oneri, posto che gli Stati sviluppati hanno maggiormente contribuito, con i loro modelli di consumo delle risorse naturali, al degradamento globale dell’ambiente (principio 7).

Nel 1992, in occasione della Conferenza di Rio, fu adottato uno specifico trattato multilaterale: la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici2. La Convenzione si pone l’obiettivo finale di stabilizzare le concentrazioni nell’atmosfera di gas a effetto serra a un livello che impedisca ogni perturbazione antropica pericolosa del sistema climatico (art. 2). In base all’art. 3, tutte le parti hanno l’obbligo di proteggere il sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni, su base di equità e in rapporto alle loro responsabilità comuni, ma differenziate, e alle rispettive capacità. Gli Stati parti sviluppati sono tenuti a prendere la guida nella lotta ai cambiamenti climatici e ai loro effetti negativi. Devono essere prese in completa considerazione le esigenze specifiche e le circostanze speciali degli Stati in via di sviluppo, in particolare quelli facilmente vulnerabili agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e quelli che dovrebbero sostenere un onere sproporzionato o abnorme ai sensi della Convenzione. Come si vede, la Convenzione, pur distinguendo le posizioni dei diversi gruppi di Stati, non esclude che anche gli Stati in via di sviluppo possano essere gravati di obblighi.

Nell’ambito della Convenzione è istituito un meccanismo di riunioni periodiche (conferenze delle parti), che hanno il compito di fare il punto sull’applicazione della Convenzione stessa e degli strumenti collegati e di prendere le decisioni necessarie per favorire tale applicazione.

La focalizzazione. Il Protocollo di Kyoto e le sue carenze

Nel 1997, a seguito di complessi negoziati, il Protocollo di Kyoto3 fu adottato nell’ambito della Conferenza delle parti alla Convenzione.

Il Protocollo prevede alcuni obblighi precisi a carico degli Stati sviluppati e gli Stati in transizione verso un’economia di mercato, come risultanti da una lista allegata alla Convenzione quadro4. In particolare, questi Stati devono assicurare che, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2012, le loro emissioni antropiche di sei gas (biossido di carbonio, metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafloro di zolfo) siano complessivamente ridotte di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990. A tal fine il Protocollo attribuisce a ciascuno degli Stati in questione una percentuale di emissioni, che varia da Stato a Stato (per esempio, è previsto il 92% per i paesi membri dell’Unione Europea nel loro insieme, il 93% per gli Stati Uniti, il 94% per il Giappone, il 100% per la Federazione Russa, il 108% per l’Australia). Il commercio delle emissioni è consentito, sulla base di modalità da fissarsi ad opera della conferenza delle parti contraenti.

Come si vede, il Protocollo, andando al di là di quanto previsto dalla stessa Convenzione, non include nella lista degli Stati obbligati alle riduzioni gli Stati in via di sviluppo, ivi compresi alcuni Stati (cd. Stati emergenti, come Cina, India o Brasile) che sono oggi dotati di un importante apparato industriale e che consumano largamente combustibili fossili. Questa disparità di obblighi ha determinato la mancata ratifica del Protocollo da parte degli Stati Uniti, il paese che emette nell’atmosfera la più grande quantità di gas a effetto serra. Se si pensa che Stati Uniti e Cina rappresentano da soli circa il 50% delle missioni mondiali, si comprende come si sia rivelata sempre meno accettabile per gli Stati membri dell’Unione Europea, che hanno invece ratificato il Protocollo, una situazione che li vedeva gravati di onerosi obblighi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, mentre obblighi equivalenti non valevano per i principali paesi loro concorrenti.

L’evidente insufficienza del Protocollo determinava una sfiducia sempre più generalizzata sulla capacità degli Stati e dei loro esponenti politici di accordarsi su meccanismi su scala mondiale che potessero andare oltre le politiche di breve termine e l’esclusivo perseguimento degli interessi nazionali. Né contribuivano a migliorare la situazione gli scarsi risultati delle numerose riunioni, ivi comprese quelle nell’ambito della conferenza delle parti alla Convenzione, tenute al fine di rinnovare gli impegni discendenti dal Protocollo dopo la scadenza del 2012 o di stabilire diversi e più equi meccanismi di ripartizione delle riduzioni di emissioni. Vi era anche chi riteneva illusorio l’obiettivo di accordarsi su di un efficace meccanismo su scala mondiale, pur in presenza di un problema di dimensione mondiale, e suggeriva il ripiegamento su strategie bilaterali o regionali, cui partecipassero gli Stati legati da interessi comuni.

Nel 2012 le parti al Protocollo adottarono a Doha alcuni emendamenti che stabilivano nuovi obblighi, applicabili nel periodo dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2020. Ma questi emendamenti non sono ancora entrati in vigore.

L’Accordo di Parigi

Il fatto che nel 2015, dopo complessi negoziati, sia stato adottato l’Accordo di Parigi5 (il titolo di questo trattato non specifica la materia cui esso si riferisce) modifica in modo significativo la regolamentazione internazionale dei cambiamenti climatici, pur senza dissolvere i dubbi sulla sua futura efficacia.

Sul piano formale, l’Accordo è stato adottato dalla Conferenza delle parti della Convenzione e figura come allegato alla decisione 1.CP.21, presa il 12.12.20156. Si tratta di un insieme complesso e di difficile lettura, che risulta dalla combinazione di due strumenti collegati. Le disposizioni della decisione, composta di ben 140 paragrafi, mirano di solito a preparare l’entrata in vigore dell’Accordo, istituendo gli organi sussidiari necessari a far fronte a determinate competenze, attribuendo nuove competenze ad organi già esistenti o invitando gli Stati ad anticipare in via provvisoria alcuni adempimenti. Ma la ragione della collocazione di una disposizione nella decisione o nell’Accordo non appare sempre chiara. A questo si aggiunga che diverse norme dello stesso Accordo hanno natura programmatica e sembrerebbero più appropriate in una dichiarazione politica che in un trattato internazionale. L’esposizione che segue sarà necessariamente sintetica e limitata agli aspetti principali del meccanismo istituito a Parigi.

Tra i vari enunciati, il preambolo e l’art. 2, par. 2, dell’Accordo menzionano «il principio dell’equità e delle responsabilità comuni, ma differenziate, e delle capacità rispettive, tenuto conto dei contesti nazionali differenti». Viene così a cadere la netta distinzione tra Stati sviluppati e Stati in via di sviluppo che era alla base del Protocollo. Il preambolo dà anche atto che «è importante avere cura dell’integrità di tutti gli ecosistemi, compresi gli oceani, e della protezione della biodiversità, riconosciuta da certe culture come Madre Terra, notando l’importanza per alcuni della nozione di ‘giustizia climatica’, nell’azione condotta per far fronte ai cambiamenti climatici».

L’Accordo, che contribuisce all’attuazione degli obiettivi della Convenzione, intende rafforzare la risposta mondiale ai cambiamenti climatici, nel contesto dello sviluppo sostenibile e della lotta alla povertà, e si prefigge tre obiettivi (art. 2). Caratteristica fondamentale dell’Accordo è che il raggiungimento dei suoi obiettivi non discende da obblighi specificamente indicati nello stesso Accordo, ma dovrebbe essere il risultato degli “sforzi ambiziosi” che le parti volontariamente s’impegnano a intraprendere e a comunicare (art. 3). Questi sforzi devono rappresentare una progressione nel tempo. È così implicitamente affermato il principio di non regressione che, secondo alcuni, costituirebbe un significativo sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente.

Il primo obiettivo è l’attenuazione, vale a dire il contenimento dell’aumento della temperatura media del pianeta nettamente al disotto di 2° C rispetto ai livelli preindustriali, proseguendo nell’azione per limitare l’aumento a 1,5° C. Si tratta del meccanismo del cosiddetto doppio traguardo: uno ottimale, ma pressoché impossibile da raggiungere, e l’altro difficile, ma raggiungibile. A tal fine, le parti si propongono di pervenire a un tetto mondiale delle emissioni di gas a effetto serra nel più breve tempo, restando inteso che questo richiederà più tempo per i paesi in via di sviluppo, e in seguito di operare rapidamente delle riduzioni, conformemente ai migliori dati scientifici disponibili, in modo da pervenire nel corso della seconda metà del secolo a un equilibrio tra le emissioni antropiche e gli assorbimenti antropici di gas a effetto serra. In proposito, ogni cinque anni le parti determinano sul piano nazionale e comunicano i “contributi” che esse intendono realizzare. Il contributo successivo di una parte deve rappresentare un progresso rispetto al suo contributo precedente e deve corrispondere al livello di ambizione più elevato possibile, riflettendo le sue responsabilità comuni, ma differenziate, e le sue rispettive capacità, alla luce dei differenti contesti nazionali. I contributi sono iscritti in un pubblico registro tenuto dal segretariato dell’Accordo. È possibile, attraverso meccanismi precisati nell’Accordo, valutare nell’ambito dei contributi nazionali forme di cooperazione internazionale realizzate al fine di attenuare le emissioni di gas a effetto serra.

Il secondo obiettivo dell’Accordo è il rafforzamento della capacità di adattamento agli effetti negativi del cambiamenti climatici, accrescendo la resilienza e riducendo la vulnerabilità. Le parti riconoscono che l’adattamento (tema invece trascurato nel Protocollo) è una sfida globale, che comporta le dimensioni locale, sotto-nazionale, nazionale, regionale e internazionale e che esso è un elemento chiave della risposta mondiale a lungo termine ai cambiamenti climatici, al fine di proteggere le popolazioni, i loro mezzi di sussistenza e gli ecosistemi, tenendo conto delle esigenze urgenti e immediate dei paesi in via di sviluppo che sono particolarmente vulnerabili. A tal fine, le parti dovrebbero (qui è usato il condizionale) presentare e aggiornare periodicamente una comunicazione sull’adattamento, dove figurino priorità, necessità in materia di attuazione e di sostegno, progetti e misure. Anche queste comunicazioni sono iscritte in un pubblico registro tenuto dal segretariato dell’Accordo.

Le parti riconoscono la necessità di evitare le perdite e i pregiudizi derivanti dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici, in particolare i fenomeni meteorologici estremi e i fenomeni che si manifestano lentamente, di ridurli al minimo e di porvi rimedio (art. 8, par. 1). Tuttavia, il par. 52 della decisione precisa che tale disposizione non può servire da fondamento a pretese di risarcimento di danni.

Il terzo obiettivo dell’Accordo è di rendere i flussi finanziari compatibili con un percorso di evoluzione verso uno sviluppo a deboli emissioni di gas a effetto serra e resiliente ai cambiamenti climatici. A tal fine, l’art. 9, par. 1, dell’Accordo prevede in generale che gli Stati parti sviluppati siano tenuti a fornire risorse finanziarie per assistere gli Stati parti in via di sviluppo negli obiettivi dell’attenuazione e dell’adattamento. Più precise indicazioni sono date dalla Decisione, che, al par. 115, “chiede fermamente” ai paesi sviluppati di mobilitare a tal fine 100 miliardi di dollari americani all’anno fino al 2020.

Altre disposizioni dell’Accordo trattano di temi frequenti nei trattati ambientali aventi scala mondiale, come il trasferimento delle tecnologie (art. 10) o il rafforzamento delle capacità (art. 11). Tipica dell’Accordo di Parigi è invece l’accurata trattazione del tema della trasparenza, da valutarsi anche in base a un esame tecnico ad opera di esperti (art. 11). Un trattato basato su impegni volontari deve essere attuato in un contesto di fiducia reciproca e di chiarezza su quanto le parti comunicano di voler fare.

L’art. 14 stabilisce che la Conferenza delle parti faccia ogni cinque anni, e per la prima volta nel 2023, il bilancio globale sull’attuazione dell’Accordo,al fine di valutare i progressi collettivi realizzati. È anche previsto un comitato avente il compito di facilitare l’attuazione dell’Accordo e promuovere l’adempimento delle sue disposizioni (art. 15). Il comitato, che sarà istituito dalla prima conferenza delle parti, sarà composto di esperti e opererà in modo trasparente, non accusatorio e non punitivo. Sarà quindi ben lontano da un organo di soluzione delle controversie, che non è previsto dall’Accordo.

I profili problematici. Una scommessa

L’Accordo è una scommessa sull’efficacia dell’inedito concetto di “sforzo ambizioso”, vale a dire di un meccanismo di impegni volontariamente assunti dagli Stati che intende sostituire il ben più tradizionale concetto di “obbligo” loro imposto da un trattato. Il tempo dirà se questa sarà una carta vincente per far fronte al rischio di un danno irreversibile per gli equilibri fondamentali del pianeta o se si tratterà di un espediente diplomatico, utile soltanto a nascondere la persistente incapacità degli Stati di affrontare il problema.

Note

1 Cfr. in generale Nespor, S.De Cesaris, A.L., Le lunghe estati calde – Il cambiamento climatico e il Protocollo di Kyoto, Bologna, 2003.

2 Qui di seguito: Convenzione. Essa è entrata in vigore il 21.3.1994 e conta oggi 197 parti.

3 Qui di seguito: Protocollo. Esso è entrato in vigore il 16.2.2005 e conta oggi 192 parti.

4 Australia, Austria, Belgio, Bulgaria, Canada, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Monaco, Nuova Zelanda, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Ungheria, Unione Europea).

5 Qui di seguito: Accordo. È entrato il 4 novembre 2016 e vincola oggi 103 parti. Cfr. Nespor, S., La lunga marcia per un accordo globale sul clima: dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2016, 81; Gervasi, M., Rilievi critici sull’Accordo di Parigi: le sue potenzialità e il suo ruolo nell’evoluzione dell’azione internazionale di contrasto al cambiamento climatico, in La Comunità Internazionale, 2016, 21.

6 Qui di seguito: decisione (testo nel doc. FCCC/CP/ 2015/10/Add.1 del 16 gennaio 2016).

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