PIZZETTI, Ildebrando

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PIZZETTI, Ildebrando

Fiamma Nicolodi

PIZZETTI, Ildebrando. – Nacque a Parma il 20 settembre 1880 da Odoardo, insegnante di pianoforte e maestro di coro, e da Teresa Fava, primo di cinque fratelli, di cui due morti in tenera età.

Dopo aver frequentato il ginnasio classico Lazzaro Spallanzani di Reggio nell’Emilia (1891-95), nel 1896 fu ammesso al corso di armonia e contrappunto tenuto da Telesforo Righi nell’istituto musicale di Parma, di cui Giovanni Tebaldini diventò di lì a poco direttore (1897). Musicologo e cultore di musica sacra, questi accese l’interesse di Pizzetti per l’antico (canto piano, polifonia rinascimentale), suggerendogli di frequentare a Torino un corso di canto gregoriano tenuto da Franz Xaver Haberl (11-18 settembre 1898). Fervente verdiano, in qualità di promotore di pionieristiche esercitazioni orchestrali nell’istituto di Parma, Tebaldini portò i suoi allievi (fra cui Pizzetti) a villa S. Agata, per eseguire, alla presenza dell’ultraottantenne Giuseppe Verdi, alcuni estratti sinfonici delle sue opere (28 ottobre 1900): avvenimento di cui il compositore conservò un commosso ricordo (cfr. I. Pizzetti, Musicisti contemporanei, Milano 1914, pp. 3-36).

Diplomatosi in composizione nel 1901, il musicista lavorò come maestro sostituto al teatro Regio di Parma (1901-03) e mise mano alle sue prime opere teatrali, su testi dell’amico Annibale Beggi (rimaste per lo più incomplete, o distrutte). Il 10 settembre 1905, a Cremona, sposò Maria Stradivari (nata il 25 settembre 1879, e che morì nel 1920); dal matrimonio nacquero due figli, Maria Teresa (1906) e Bruno (1910).

Nel novembre 1905 Pizzetti partecipò al concorso bandito dalla rivista Tirso (Roma) per le musiche di scena della tragedia La nave di Gabriele D’Annunzio, terminate due anni dopo (novembre 1907).

Pizzetti compose ventuno numeri, nei quali ricreò il passato (solo Ave maris stella e tre melodie tratte dal Tonarius di Reginone di Prüm sono originali), ispirandosi ai canti liturgici e alla musica greca, appresa quest’ultima attraverso i volumi di François-Auguste Gevaert (Histoire et théorie de la musique de l’antiquité, Gand 1875-81). Gli episodi musicati (in prevalenza cori latini) alternano il registro religioso a quello popolare e dionisiaco. Omettendo l’aspetto lascivo con cui D’Annunzio ritrae Basiliola nella Danza dei sette candelabri, il compositore optò per una tavolozza timbrica dai colori esotici: flauti, oboi, corno inglese, fagotti, trombe, corni, arpe, timpani, piatti, triangolo e sistri. A partire da questa collaborazione ellenico-estetizzante si stabilì un fecondo sodalizio fra il musicista e il poeta.

Sarebbero nati in seguito altri lavori ispirati al poeta: le liriche per voce e pianoforte I pastori da Alcyone (1908) ed Erotica da La Chimera (1911), La sinfonia del fuoco per baritono, coro e orchestra destinata al film Cabiria (1914), il coro Cade la sera (1942), e per il teatro le musiche di scena per La Pisanelle ou La mort parfumée (1913), l’incompiuta Gigliola (1914-15) da La fiaccola sotto il moggio (restano 128 pagine di partitura), Fedra (1915), e la tarda «tragedia pastorale» La figlia di Iorio (1954; ridotta a libretto dallo stesso musicista), testo donatogli nel 1936 dal vate, che ne aveva auspicata la messa in musica da parte di ‘Ildebrando da Parma’ (così l’aveva infatti battezzato).

Le prime composizioni di rilievo furono il Quartetto in La maggiore (1906), dove il primo dei quattro movimenti in forma-sonata, di stampo modale, è connotato da una fresca vena popolare, e I pastori (1908).

Conferisce coesione a questa pagina la monodia strumentale in modo frigio per ottave, quarte e quinte vuote che si muovono parallelamente: i critici vi ravvisarono chi il «timbro della cornamusa» (Gatti, 1954, p. 83), chi un «ambiente pastorale» (Damerini, 1966, p. 16). La melodia vocale, esente da quadrature, procede – salvo discreti melismi – per gradi congiunti e note ribattute, condividendo con il testo dannunziano il senso di una mitica lontananza e di una gestualità reiterata nel tempo. I pastori furono più tardi inclusi nel ciclo Cinque liriche (1916).

Nell’ambito della vocalità cameristica, che si estese fino al 1957 (Vocalizzo), vanno poi segnalate le Due liriche drammatiche napoletane su poesie dialettali di Salvatore Di Giacomo, cariche di una forte impronta teatrale (1918), i raffinati Tre sonetti del Petrarca (1922), vòlti a raffigurare da angolazioni diverse il dolore della perdita, e le espansive Tre canzoni, su testi popolari toscani per voce e quartetto d’archi (1926).

Fin dagli esordi l’interesse di Pizzetti per la letteratura e il teatro si manifestò nella composizione di musiche di scena. Per l’attore Gustavo Salvini scrisse Tre intermezzi sinfonici per l’«Edipo re» di Sofocle (Milano, teatro Olympia, 1904), il cui ultimo movimento (che inizia «con molta espressione di dolore» e termina «molto calmo, quasi sereno») ricrea lo stato psicologico del protagonista, pronto a lasciare Tebe con la pietosa Antigone, dopo aver avuto la rivelazione del parricidio e del matrimonio incestuoso (la versione attualmente nota sono i Tre preludii sinfonici per l’«Edipo re», Milano 1927). Risale al 1912-13 la composizione della citata Pisanelle, andata in scena allo Châtelet di Parigi l’11 giugno 1913: recitazione e danze di Ida Rubinstein, regia di Vsevolod Mejerchol′d, coreografia di Michel Fokine, scene e costumi di Léon Bakst. Dalla partitura l’autore trasse una Suite orchestrale in cinque movimenti (Firenze 1922), che assicurò alla pagina una maggiore diffusione.

La composizione si apprezza per la varietà di sfumature orchestrali (non immemori dell’impressionismo francese), la ricostruzione di un Oriente immaginario e il recupero dell’antico, modernamente orchestrato (così nell’Estampie royale, costruita sulla melodia trovadorica Kalenda maya di Rambaldo di Vaqueiras). Seguirono in questo genere: La sacra rappresentazione di Abram e d’Isaac tratta da Feo Belcari e messa in scena da Luigi Rasi (1917); tre partiture inedite destinate al teatro Greco di Siracusa per Agamennone di Eschilo (1930), Le Trachinie (1933) ed Edipo a Colono di Sofocle (1936); le musiche commissionate dal Maggio fiorentino per La rappresentazione di s. Uliva su testo del secolo XVI (1933) e quelle per la commedia di Shakespeare As you like it (Come vi garba, 1938, inedite), lavori realizzati entrambi dal regista e drammaturgo francese Jacques Copeau.

L’affermazione di Pizzetti nel teatro avvenne con Fedra (Milano, La Scala, 1915), la tragedia in versi di D’Annunzio, alla cui composizione il musicista attese per più di tre anni (marzo 1909-ottobre 1912). Per rispondere alle esigenze della musica il testo poetico fu ridotto di circa la metà, lasciando immodificati l’impianto drammaturgico e la versificazione.

Fin dal 1907, e poi nel corso degli anni, Pizzetti, in opposizione all’opera verista, da lui aspramente contestata, aveva formulato alcune idee sul «dramma musicale latino» come via alternativa a quello wagneriano, ch’egli non condivideva per via dell’eccessiva importanza assegnata al sinfonismo. Rifuggendo da descrittivismi e stasi liriche (se non nei casi espressamente sollecitati dal testo: preghiere, lamenti ecc.), il progetto puntava a un teatro lirico che fosse «vita in azione e in divenire», onde esprimere «conflitti di materia e spirito, di istinti e aspirazioni, di egoismi e doveri morali», (I. Pizzetti, La Musica e il Dramma, 1932, in Id., Musica e dramma, [Roma] 1945, pp. 48, 52). Più vicino al teatro di parola che all’opera lirica, il dramma pizzettiano recuperava comunque da Wagner, se non la tecnica, l’uso dei motivi conduttori. Se D’Annunzio ritrae in Fedra un’eroina monolitica, trasgressiva degli ordini stabiliti, trascinata da istinti passionali e gesti di ribellione blasfema contro gli dèi, per Pizzetti la protagonista evolve nel corso del dramma: da ‘superfemmina’ crudele e vendicativa, essa abbandona ogni tensione al momento della morte, quando, in uno stato d’animo pacificato, si accascia sul cadavere del figliastro («Ippolito, son teco»), affermando con serenità la fine nella tonalità principale di La maggiore. In questo dramma il musicista fa ricorso ai modi greci (fin dal preludio cromatico affidato all’assolo di viole); recupera i modi ecclesiastici e i melismi del canto cristiano (così nella Trenodia per Ippolito morto in modo dorico intonata da Etra e da due cori a cappella fuori scena); non rinuncia alle armonie cromatiche wagneriane (nel bacio della matrigna, atto II: O voce! O labbra…, «Lento appassionato»; cfr. lo spartito per canto e pianoforte, Firenze 19272, p. 212 ss.). Né filologo né compositore antiquario, Pizzetti dimostra d’altra parte una perfetta conoscenza della musica moderna: echi di Salome ed Elektra di Strauss si riscontrano in particolare nel momento in cui la protagonista, dopo aver appreso del dono offerto a Ippolito di una «bellissima» schiava tebana, «s’abbandona alla sua frenesia» in un acceso movimento di gelosia («Molto concitato», ibid., pp. 81 s.; la conoscenza del teatro di Strauss da parte di Pizzetti risaliva almeno alla prima scaligera di Elektra, da lui recensita per Il momento di Torino, 7 aprile 1909, interprete Salomea Krusceniski, futura protagonista della sua Fedra). Scale e accordi esatonali, da ricondurre genericamente alla Francia di Debussy, risuonano nei processi di smaterializzazione: così nell’allusione di Fedra a Ippolito come a un «Dio esanime» che «già si trasfigura» (ibid., pp. 373 s.), oppure là dove la matrigna, rivolta ad Artemide, annuncia «con non umana voce» i sintomi della propria morte imminente («Ti vedo bianca. Bianca ti sento in tutta me»; «tremo […] d’un gelo che infuso m’è da un’altra ombra»; ibid., pp. 398 s.).

Dopo un anno dall’insediamento nell’istituto musicale di Parma come docente di composizione (1907), nel marzo 1908 Pizzetti fu chiamato a Firenze, dove tenne la cattedra di armonia, contrappunto e fuga (tra i suoi allievi Mario Castelnuovo-Tedesco); qui rimarrà in veste di direttore dal 1917 al 1924. Nel capoluogo toscano strinse amicizia con il critico-compositore Giannotto Bastianelli (insieme fondarono nel 1914 Dissonanza, rivista di «composizioni musicali italiane moderne», di cui uscirono tre soli numeri) ed entrò in contatto con i maggiori esponenti della rivista La voce, fra cui Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, Giuseppe De Robertis. Fu tra i promotori, nel 1920, della nascita degli Amici della musica di Firenze.

Nazionalista come molti vociani, ma contrario alla guerra, Pizzetti lasciò tracce di questa opposizione nella Sonata in La per pianoforte e violino (1918-19).

In un ambito armonico postimpressionistico, spicca il movimento centrale alla memoria delle vittime belliche («Preghiera per gl’innocenti»), dove il tema iniziale, a mo’ di corale, affidato al pianoforte (Do maggiore) viene ripreso al termine dal violino in un penetrante slancio espressivo («molto sostenuto con intenso fervore»: Mi maggiore). Questa ‘preghiera’ ritorna nel marziale ultimo movimento della Sinfonia in La (1940), lavoro commissionato dal Giappone per celebrare il 2600° anniversario dell’Impero del Sol levante, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia.

Nel 1924 Pizzetti si trasferì come docente e direttore al Conservatorio di Milano, dove rimase fino al 1936, contando fra i suoi discepoli Virgilio Mortari, Mario Pilati e Gianandrea Gavazzeni. Morto Respighi, dal 1936 al 1958 andò a ricoprire la cattedra di perfezionamento in composizione nell’Accademia di S. Cecilia in Roma. A Milano, nel gennaio 1925, aveva sposato Irene Campiglio, amica di famiglia dei Toscanini; l’anno dopo era nato il terzo figlio, Ippolito, apprezzato architetto paesaggista.

Intensa fu l’attività di Pizzetti critico musicale e saggista, iniziata con la rivista emiliana Per l’arte (Parma 1902-04) e poi con la Gazzetta di Parma (1904-07). Collaborò a diversi quotidiani: Il momento (Torino 1908-09), Il Secolo (Milano 1909-11), La Nazione (Firenze 1919-23), La tribuna (Roma 1936-39), Il Messaggero (Roma 1941-46), il Corriere della sera (1953-58). Contributi su periodici musicali o a carattere culturale apparvero, fra l’altro, in Rivista musicale italiana (Torino 1906-08, tra cui nel 1907 La musica per «La nave» di Gabriele D’Annunzio e nel 1098 Ariane et Barbebleue e Pelléas et Mélisande), La nuova musica (Firenze 1910-12), La voce (Firenze 1911-16), Il Marzocco (Firenze 1911-18), Orfeo (Roma 1911-18). Ma la sua firma figurò in maniera più o meno continuativa anche in molte altre riviste: Il pianoforte e La rassegna musicale (dirette entrambe da Guido M. Gatti), Pegaso e Pan (fondate da Ugo Ojetti); senza contare la stesura di una decina di voci per l’Enciclopedia italiana di Giovanni Gentile, di cui fu direttore per la sezione musicale.

Gli scritti più impegnativi, raccolti dall’autore in volume e caratterizzati da una prosa fluida e incisiva, sono la testimonianza delle sue predilezioni e idiosincrasie, sostenute con coerenza nel corso degli anni: La musica dei greci (Roma 1914), Musicisti contemporanei: saggi critici (Milano 1914); Intermezzi critici (Firenze 1921), Musica e dramma (Roma 1945), La musica italiana dell’Ottocento (Torino 1947).

Vi si riscontrano: la fede «nell’arte come nella più alta forma di religione umana e divina» (Musica e dramma, cit., p. 14); l’apprezzamento dell’opera italiana dell’Ottocento (Verdi, ma anche Bellini, di cui nel 1915 analizzò con finezza le capacità di introspezione emotiva); l’adesione a un riformismo moderato, impegnato nel conciliare la tradizione con la musica europea coeva a lui più congeniale (Ernest Bloch, Debussy, Ravel); l’incomprensione manifestata per le tendenze più avanzate (Scuola di Vienna, neoclassicismo, musica elettronica, avanguardie degli anni Cinquanta-Sessanta).

Un terreno scarsamente coltivato nell’Ottocento e nel primo Novecento in Italia, anche per via dell’assenza di istituzioni e organici adeguati, fu quello della musica corale. In questo genere Pizzetti si affermò come compositore di assoluta originalità, anche rispetto ai musicisti coetanei di quella che Massimo Mila battezzò ‘generazione dell’Ottanta’ (Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Ottorino Respighi), più interessati, questi ultimi, al rinnovamento della musica strumentale italiana. Dalle composizioni giovanili, che passando attraverso l’eufonico De profundis sul Salmo 130 (per sette voci miste senza accompagnamento, 1937) giungono fino alle Due composizioni corali (a sei voci sole su testi di Saffo, nella versione di Manara Valgimigli, 1961), Pizzetti sviluppò una cifra stilistica, definita «neo-madrigalistica» (Mila, 1959, pp. 220-222), che trovò poi ulteriori sviluppi da parte dei compositori più giovani, in particolare in Luigi Dallapiccola (Sei cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane, 1933-36) e in Goffredo Petrassi (Coro di morti, 1940-41).

Fra le principali composizioni del Pizzetti trentatreenne figurano le Due canzoni corali (1913), su testi popolari greci tradotti da Niccolò Tommaseo. Nella prima (Per un morto), per due tenori e due bassi, si allude alla sepoltura che alcuni soldati danno a un giovane compagno defunto: essa si distingue per un tessuto contrappuntistico lineare, vocalmente sinuoso per via del frequente cambiamento ritmico, ricco di spigolose ed espressive dissonanze. Un culmine della coralità sacra pizzettiana è la Messa di Requiem per sole voci (1922-23), in cui la rivisitazione dello stile polifonico rinascimentale si fonde con le acquisizioni armoniche del XX secolo, passando attraverso il Requiem di Verdi.

A differenza di Fedra, dove svolge funzioni di commento collettivo, il coro si staglia come figura protagonistica in alcune delle successive opere teatrali. Così nel dramma Dèbora e Jaéle (1918-21), liberamente ispirato alla Bibbia (Libro dei Giudici, 4-5: guerra fra Ebrei e Cananei), dove Pizzetti debutta come librettista in proprio, estendendo in seguito questa esperienza ai successivi lavori destinati alle scene (con l’eccezione della commedia musicale Il calzare d’argento, 1959-60, testo di Riccardo Bacchelli, da un episodio di Aliscans, chanson de geste del secolo XII: nella produzione teatrale del musicista, fu l’unico titolo non ‘tragico’, ricco peraltro di episodi mistico-religiosi).

I versi usati da Pizzetti poeta sono per lo più endecasillabi e settenari, con frequenti enjambements e anafore; il linguaggio colto, estetizzante, arcaico, ricorre volentieri a stilemi prefabbricati (nei libretti: «uccisi e sterminati», Dèbora, p. 9; «dolce come il miele», Lo straniero, p. 30; «ossa inaridite», L’oro, p. 18) e a procedimenti amplificatori («tuona e folgoreggia», Dèbora, p. 11; «ubriachi di sogni e di promesse», L’oro, p. 14).

In Dèbora e Jaéle, in cui i due personaggi eponimi rappresentano l’una la legge severa dell’Antico Testamento, l’altra le ragioni umane del sentimento, nutrito di rassegnazione e di pietas, si stabilizza il linguaggio drammatico dell’autore: domina il declamato, che può aprirsi a più mossi ariosi sempre attenti al significato e ai valori prosodici del testo e alieno dall’interrompere la continuità dell’azione; lo strumentale, ora denso ora rarefatto, percorso da pedali, ostinati ritmici, tremoli, incisi nervosi e frastagliati, restituisce la mutevolezza delle atmosfere: ieratiche, liriche, passionali, intimistiche. Non mancano in Dèbora influenze anteriori di notevole impatto teatrale: la prima comparsa della profetessa, scandita dal suggestivo canto degli ebrei («O Madre, o Madre! O Santa!», spartito per canto e pianoforte, Milano 1922, pp. 110 s.), riecheggia pagine corali del Boris Godunov di Musorgskij, opera vista e amata nel 1913 a Parigi; nel contempo si ritrova la pratica dei motivi conduttori, già presenti in Fedra e quindi nelle opere successive. Pezzo chiuso solo all’apparenza, in quanto privo di cesure nello scorrere del dramma, è l’accorata ninnananna di Mara al figlio morto (atto I), che ritornerà come segnale di coscienza per Jaéle, quando costei vacilla nella missione che le è stata assegnata di uccidere Sìsera, il re di stirpe nemica da lei amato (atto II).

Di ambientazione mitica, «al tempo dei Re pastori», è Lo straniero (composto tra il 1923 e il 1925, prima all’Opera di Roma, 29 aprile 1930), incentrato sulla figura del parricida fuorilegge, che morirà redento dal sacrificio della giovane Maria, la quale si immola per lui, insegnando agli uomini i valori della tolleranza e della superiorità della legge divina basata sull’amore. Il tema dell’umanità e della redenzione è presente anche nel successivo Fra Gherardo (1926-27), liberamente ispirato alla Cronaca medievale di Salimbene, all’epoca delle eresie e del fanatismo religioso, quando il ribelle frate tessitore, in lotta contro le ipocrisie e l’oppressione tanto del potere imperiale quanto di quello ecclesiastico, sperimenta le debolezze e i peccati della vita, prima di morire perdonato dall’alto.

In entrambi questi drammi, all’uso della modalità si affiancano sempre più ampie distese tonali di ascendenza romantica e postromantica. I temi percorrono in orchestra e nel canto l’intera partitura, mentre la composizione si apre a un più estroverso descrittivismo (inflessioni popolaresche, la canzone provenzale Reine avrillouse, una lauda polifonica intonata dai Flagellanti). Quest’apertura caratterizza anche alcune composizioni sinfoniche, concertistiche e cameristiche scritte fra la metà degli anni Venti e i primi anni Trenta, in cui si notano: elementi virtuosistici (il sinuoso disegno del flauto nel Notturno del Concerto dell’estate, 1928), riecheggiamenti di danze antiche (Sarabanda, Minuetto, Furlana nel Rondò veneziano, 1929), una franca cantabilità (Affettuoso nei Tre canti per violoncello e pianoforte, 1924; Adagio nei Canti della stagione alta per pianoforte e orchestra, 1930), accanto a vivaci pennellate pittoresche o popolari (Rapsodia di settembre nel Trio in La, 1925; Movimento di scherzo nel Quartetto in Re, 1932-33: lavori, questi ultimi, commissionati entrambi dalla mecenate Elizabeth Sprague Coolidge ed eseguiti la prima volta nei festival da lei promossi, l’uno a Parigi nel 1925, interpreti George Enescu violino, Hans Kindler violoncello e l’autore al pianoforte, e l’altro a Washington nel 1933, interprete il Quartetto Busch).

Dèbora e Jaéle e Fra Gherardo furono diretti in prima assoluta alla Scala da Arturo Toscanini rispettivamente il 16 dicembre 1922 e il 16 maggio 1928; allo stesso direttore, concittadino, amico ed estimatore di Pizzetti, spettarono anche altre creazioni: l’Ouverture per una farsa tragica (24 febbraio 1911, rimasta inedita), il Concerto dell’estate (28 febbraio 1929), il Rondò veneziano (27 febbraio 1930), l’Introduzione all’«Agamennone» di Eschilo (16 aprile 1931), questi ultimi tre eseguiti alla Carnegie Hall di New York (risale invece al 1920 l’incisione di Toscanini con l’Orchestra italiana dello smagliante preludio all’atto I della Pisanelle: Le port de Famagouste; disco Victor).

Nel febbraio-marzo 1930 il musicista partì per una tournée negli Stati Uniti (New York, Washington, Philadelphia) e nel giugno-luglio 1931 alla volta di Buenos Aires, dove tenne conferenze e diresse concerti di musiche proprie.

Il concetto di arte ‘umana’, intessuta dei contenuti stessi della vita, aderente allo spiritualismo e all’etica della rinuncia, presente nei suoi testi poetici, concorda con l’‘attualismo’ gentiliano, che Pizzetti condivise. È noto che il compositore firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Gentile nel 1925, insieme con Bruno Barilli, D’Annunzio, Di Giacomo, Malaparte, Marinetti, Ojetti, Pirandello, Soffici, Ungaretti e molti altri. Si indicano qui alcune interferenze con il fascismo, precisando tuttavia che, con maggiore o minor convinzione, in maniera più o meno dichiarata, in una fase più o meno precoce della loro vita, quasi tutti i musicisti italiani, delle più diverse tendenze, dal regime rimasero coinvolti. Nel dicembre 1925, mediatrice Margherita Sarfatti, Pizzetti fu invitato nell’abitazione privata del primo ministro in via Rasella, per eseguire con il violinista Arrigo Serato e il violoncellista Enrico Mainardi i suoi ultimi lavori da camera. Nel 1931 l’Accademia d’Italia assegnò a Dèbora e Jaéle il premio Mussolini, promosso dal Corriere della sera. L’anno successivo, con Respighi e Riccardo Zandonai, rappresentanti di spicco del sindacato e dei conservatòri, il compositore sottoscrisse un manifesto che mirava a tracciare le linee guida della musica ‘fascista’ (fu pubblicato dalla Stampa, dal Corriere della sera e dal Popolo d’Italia il 17 dicembre 1932): lo scopo era di mettere sotto accusa il modernismo e la sudditanza alle mode straniere, in nome del rispetto della tradizione, incluso il melodramma italiano ottocentesco (imputati sottaciuti: Casella e Malipiero). A dispetto delle attese, ma in linea con il laisser-faire e le strategie conciliative riservate a quella data a filoni artistici contrapposti, la politica culturale fascista non prese tuttavia posizione. Recalcitrante a terminare per la seconda edizione del Maggio musicale fiorentino il dramma Orsèolo (lavoro su soggetto veneziano del Seicento che, iniziato nel 1933, molto concede al melodramma, e per il tema della solitudine del protagonista si approssima al Simon Boccanegra verdiano), Pizzetti, dietro pressioni dei responsabili del festival, ricevette la commissione di completare la partitura dallo stesso Mussolini (l’opera andò infine in scena il 4 maggio 1935).

Nel 1937 il compositore collaborò con il regista Carmine Gallone alle musiche per il kolossal cinematografico Scipione l’Africano, dedicando una sua pagina (l’Inno a Roma per coro e orchestra) al capo del governo; fu diretta dall’autore in presenza del dedicatario, in occasione dell’inaugurazione di Cinecittà, il 28 aprile 1937. Altre colonne sonore, dai toni meno enfatici, sarebbero state destinate ai Promessi sposi (1941), e al Mulino del Po (1949) Nel 1939 Pizzetti venne chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia e fu nominato presidente dell’appena eretto Istituto italiano di storia della musica; e dal ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai fu chiamato nel 1941 a coordinare e presiedere alcune commissioni incaricate di studiare le modalità per realizzare l’«autarchia» nei metodi dell’insegnamento musicale professionale (vi parteciparono i maggiori musicisti, divisi per qualifiche e competenze specifiche: cfr. Nicolodi, 1984, p. 198, n. 174; Maione, 2005, pp. 77-80).

Nell’immediato dopoguerra (2 gennaio 1947) Pizzetti diresse alla Scala il proprio dramma L’oro (1939-42): già destinato al Maggio musicale del 1943, non si era potuto realizzare a causa della guerra.

Nel 1941 il libretto era stato accolto positivamente dall’Ufficio censura del regime per il suo significato ‘antiplutocratico’, in sintonia con la politica culturale degli anni del conflitto («la condanna dell’oro come ricchezza»: Nicolodi, 1984, p. 441, n. 31): anche se, per la verità, la trama rispecchiava più in generale quei valori di umanità e di eticità che nel teatro dell’autore non sono mai mancati.

Nel 1948-51 Pizzetti fu chiamato a presiedere l’Accademia nazionale di S. Cecilia di Roma, e dal 1963 al 1966 fu presidente dell’Istituto di studi verdiani. Nel 1950 venne effettuata la prima radiodiffusione dell’Ifigenia («tragedia musicale radiofonica» su testo dell’autore e di Alberto Perrini), vincitrice del premio Italia della RAI; nel 1952 alla Radio di Torino venne eseguito il dramma Cagliostro, diretto da Gianandrea Gavazzeni, interprete assiduo e devoto, al quale si devono anche i debutti scaligeri degli ultimi lavori teatrali di Pizzetti: Il calzare d’argento (23 marzo 1961) e la «tragedia» Clitennestra (1964, dall’Orestea di Eschilo e dall’Elettra di Sofocle).

Dal 1954 al 1959 Pizzetti ricoprì la carica di presidente del Sindacato musicisti italiani. Fu membro del consiglio di amministrazione della SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori) negli anni 1955-63. Nel 1958 l’Accademia nazionale dei Lincei gli assegnò il premio internazionale Feltrinelli per la musica; a Berna venne eletto presidente della Conféderation internationale des Sociétés d’Auteurs et Compositeurs per gli anni 1961-64.

Nel 1951 il serioso Preludio ad un altro giorno, nei cui tre movimenti si dispiega una densa concentrazione tematica, fu l’ultima composizione sinfonica di Pizzetti. In ambito teatrale – quello frequentato con più continuità dal musicista – fra i titoli di maggior rilievo, di forte impatto drammatico, figura l’Assassinio nella cattedrale (1956-57) di Thomas S. Eliot (nella versione italiana di monsignor Alberto Castelli), ridotto dal compositore e andato in scena alla Scala nel 1958, sotto la direzione di Gavazzeni, Nicola Rossi Lemeni protagonista (fra le riprese all’estero: New York 1958, Boston 1959, Vienna 1960 con Herbert von Karajan sul podio, Londra 1962, Anversa 1963, Buenos Aires 1967, Barcellona 1978; molte le riprese in Italia, fra cui quella di Torino del 2000 sotto la direzione di Bruno Bartoletti, Ruggero Raimondi protagonista).

Rispetto ai canoni fissi del dramma pizzettiano, antirealistico e a forte caratura etica, l’Assassinio estremizza il lascito delle esperienze precedenti, assecondando l’impianto oratoriale della tragedia di Eliot (monologhi interiori, scene oniriche più che dialogiche). Si evidenziano in particolare: la scansione (anche musicalmente) circolare degli eventi, che blocca la crescita e il divenire dei personaggi; l’uso pervasivo del coro; la centralità dell’unico personaggio individuato, l’arcivescovo Tommaso Becket, circondato da una serie di gruppi corali: le donne di Canterbury, i sacerdoti della cattedrale, i quattro tentatori, i quattro cavalieri. Entro la cornice storica (il conflitto tra Enrico II Plantageneto e il suo cardinale-cancelliere, consumato tra il 2 e il 29 dicembre 1170 a Canterbury), centrale è il tema della morte, presagita da Becket all’inizio dell’opera e invocata alla fine, quando, avendo egli accettato di cadere per mano degli assassini mandati dal sovrano, il martirio acquista il valore simbolico di una spirituale rigenerazione (il sangue «arricchirà la terra, e farà santo ogni luogo», intona il coro in chiusura).

Con la «cantata» per soprano, coro femminile e orchestra Filiae Jerusalem, adjuro vos (1966), su testo tratto dal Cantico dei Cantici, Pizzetti concluse in campo corale la sua lunga e operosa carriera compositiva.

Morì a Roma il 13 febbraio 1968.

L’archivio personale di Pizzetti (comprendente manoscritti musicali e numerose lettere) è stato diviso tra diversi istituti culturali (Roma, Biblioteca nazionale; Roma, Archivio storico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana; Firenze, Biblioteca nazionale centrale; Parma, Biblioteca Palatina).

Fonti e Bibl.: V. Tommasini, La musica per la «Nave» di Gabriele d’Annunzio, in Il giornale dei musicisti, 16 gennaio 1908, pp. 194-196; M. Castelnuovo-Tedesco, La «Pisanella», in La critica musicale, II (1919), 9-10, pp. 157-169; L. Pagano, «Dèbora e Jaéle» di I. P., in Rivista musicale italiana, XXX (1923), pp. 47-108; G. Gavazzeni, Tre studi su Pizzetti, Como 1937; G.M. Gatti, I. P., Milano 1954; G. Gavazzeni, Altri studi pizzettiani, Bergamo 1956; M. Mila, Il neomadrigalismo della musica italiana, in Id., Cronache musicali 1955-1959, Torino 1959, pp. 220-222; P. Santi, Il mondo della «Dèbora», in La rassegna musicale, XXXII (1962), 2-4, pp. 151-168; A. Damerini, I. P.: l’uomo e l’artista, in L’approdo musicale, 1966, n. 21, (n. monografico, con scritti anche di A. Mantelli, G.F. Malipiero, V. Gui, A. Gatto, G. Gavazzeni, L. Pinzauti), pp. 8-81; F. d’Amico, Era moderno senza volerlo, in l’Espresso, 25 febbraio 1968 (poi in Id., Tutte le cronache musicali. «l’Espresso» 1967-1989, a cura di L. Bellingardi, Roma 2000, pp. 70-73); C. Orselli, Primo incontro di Pizzetti con l’estetismo dannunziano: le musiche per «La nave», in Chigiana, 1980, 37, pp. 51-62; B. Pizzetti, I. P. Cronologia e bibliografia, Parma 1980; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, ad ind.; H. Sachs, Music in fascist Italy, London 1987 (trad. it., Musica e regime, Milano 1995), ad ind.; M.G. Accorsi, Fra Bacchelli e Pizzetti: «Devriansi i giullari molto amare, bramano gioia ed amano il cantare», in Rivista italiana di musicologia, XXIV (1989), pp. 131-152; J. Maehder, Il libretto patriottico nell’Italia della fine del secolo e la raffigurazione dell’Antichità e del Rinascimento nel libretto prefascista italiano, in Atti del XIV Congresso della Società internazionale di musicologia…, Bologna, Ferrara, Parma... 1987, a cura di A. Pompilio et al., III, Torino 1990, pp. 451-466; Pipers Enzyklopädie des Musiktheaters, a cura di C. Dahlhaus - S. Döhring, V, München 1994, pp. 12-20; F. Morabito, La romanza vocale da camera in Italia, Turnhout 1997, pp. 175-177; V. Borghetti - R. Pecci, Il bacio della Sfinge. D’Annunzio, Pizzetti e «Fedra», Torino 1998; L.S. Uras, Nazionalismo in musica. Il caso Pizzetti dagli esordi al 1945, Lucca 2003; C. Vivenza, Musica «poetica» e dramma in Pizzetti: la Trenodia della «Fedra», in Suono, parola, scena. Studi e testi sulla musica italiana del Novecento, a cura di V. Bernardoni - G. Pestelli, Alessandria 2003, pp. 113-152; P. Besutti, Bellini nella cultura italiana del primo Novecento, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nascita, a cura di G. Seminara - A. Tedesco, Firenze 2004, pp. 611-631; M. Sala, Dal muto al sonoro: le musiche di P. per «Cabiria» e «Scipione l’Africano», in Italian music during the fascist period, a cura di R. Illiano, Turnhout 2004, pp. 157-189; V. Borghetti, I. P. - Gabriele d’Annunzio: incontro e scontro di dramma e musica, in Tendenze della musica teatrale italiana all’inizio del Novecento, a cura di L. Guiot - J. Maehder, Milano 2005, pp. 211-224; O. Maione, Conservatori di musica durante il fascismo, Firenze 2005, passim; L. Ballauri, La modernità del linguaggio corale di I. P., in Nuova Rivista musicale italiana, XL (2006), pp. 275-313; C. Orselli, «Un’espressione particolareggiata e quasi analitica della poesia». Annotazioni sulla lirica di Pizzetti, in Pizzetti oggi, a cura di G.P. Minardi, Parma 2006, pp. 95 s.; V. Bernardoni, Dallapiccola e le radici della coralità novecentesca, in Luigi Dallapiccola nel suo secolo, a cura di F. Nicolodi, Firenze 2007, pp. 81-100; F. Petrone, L’«Orsèolo» di I. P., in Musica e Storia, XVI (2008), pp. 427-489; E. Sala, Musiche di scena e drammaturgia musicale. Ancora sulla «Pisanelle» (1913), in D’Annunzio musico immaginifico, a cura di A. Guarnieri - F. Nicolodi - C. Orselli, Firenze 2008, pp. 319-344; H. Gonnard, La modalité dans «Fedra» de d’Annunzio-Pizzetti, ibid., pp. 345-356; M. Beghelli, Ricognizione su «Gigliola» di Pizzetti, ibid., pp. 357-416; F. Sciannameo, Musiche per film di I. P.: i manoscritti autografi di «Scipione l’Africano», «I promessi sposi», «Il mulino del Po» conservati presso l’Università di Harvard, in Fonti musicali italiane, XVIII (2013), pp. 177-210; A. Sessa, Il melodramma italiano, 1901-1925, Firenze 2014, pp. 709-714; G. Salis, Un’«invisibile piattaforma musicale». Le musiche di scena di I. P. per «La rappresentazione di Santa Uliva», in Rivista italiana di musicologia, L (2015), pp. 99-146.

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