IMMAGINE

Enciclopedia Italiana (1933)

IMMAGINE (lat. imago -inis; fr. image; sp. imagen; ted. Bild; ingl. image)

Umberto FRACASSINI
Giuseppe DE LUCA
Laura OLIVIERI
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Rappresentazione visibile, spesso idealizzata, ottenuta mediante il disegno, la pittura o la scultura, dell'aspetto esteriore di un oggetto o di una persona.

Immagini sacre.

La storia delle immagini sacre si è svolta in conformità dello sviluppo come della religione così dell'arte.

Nei tempi più antichi e presso i popoli primitivi, la divinità non si rappresentò per mezzo di alcuna immagine, sia perché di essa si aveva un concetto troppo vago, sia perché non si sapeva ancora riprodurre alcuna figura, specialmente umana. Ma poi, col progredire della cultura e dell'arte, tutti i popoli civili hanno avuto e venerato le immagini dei loro dei, o per propria iniziativa o per l'influsso di altri popoli civili. Dal punto di vista religioso, il fatto segna da una parte un progresso, perché ha dato alla divinità un aspetto personale, dall'altra un regresso, perché ha umanizzato e quindi rimpicciolito la divinità, favorendo così il politeismo, senza distruggere l'idea di forza magica che è sempre rimasta attaccata agl'idoli di qualsiasi forma (v. idolo).

Hanno fatto eccezione gli Ebrei. Ma ciò non è avvenuto senza contrasti: il popolo ebraico al pari degli altri, e in specie del cananeo in mezzo al quale viveva, era, come dimostra il racconto del vitello d'oro, incline all'idolatria; e di fatto al tempo dei re venerava volentieri nei santuarî di Bethel e di Dan l'immagine di Jahvè in forma di vitello, e ha sempre nell'antichità sopportato nel suo mezzo idoli domestici (teraphim) in forma umana. Inoltre i profeti si sono opposti vigorosamente e infine trionfalmente al culto di qualsiasi genere d'immagini, ma non per una ragione di principio, giacché anche Jahvè era raffigurato in forma umana, come dimostrano alcuni racconti (cfr. Genesi, I-XI) e i frequenti antropomorfismi, e hanno ammesso il culto di Jahvè vivo e presente nell'arca; piuttosto l'hanno fatto per un senso di profondo rispetto verso Jahvè, concepito come superiore a ogni rappresentazione possibile, e per impedire che Israele cadesse nel politeismo, dietro l'esempio dei popoli vicini dediti all'idolatria.

Sopra una base razionale la questione fu posta e risolta dalla filosofia greca. La raffigurazione volgare della divinità era già da Senofane attribuita a un facile errore di psicologia. Per quanto diversamente la divinità fosse concepita dalle diverse scuole, era sempre ritenuta causa universale di tutte le cose e quindi superiore a qualsiasi forma individuale, sia d'uomo sia di animale. Ma se questa era la teoria comunemente professata, anche nella diatriba o filosofia popolare dei secoli vicini a Cristo (per es., da Apollonio di Tiana), in pratica essa non esercitò alcuna efficace opposizione al culto delle immagini, tollerate anche dai filosofi, o come simboli necessarî alla devozione del popolo, o anche come figure di esseri divini secondarî in cui la divinità, per sé stessa universale, in particolar modo si manifesta e concretizza.

Allora anche presso gli Ebrei la polemica contro l'adorazione delle immagini degli dei acquistò una base più razionale, e in specie si fondò sulla virtù creatrice e l'assoluta spiritualità propria di Dio. Così prima insegnarono i profeti (per es., Isaia, XL, 12-31) e poi i cosiddetti libri sapienzali, come la Sapienza, Baruch, ecc., ma soprattutto Filone, il quale portò l'idea di Dio al più alto grado d'astrazione sovramondana. Qui è evidente l'influenza della filosofia greca, della quale però i Giudei non accettarono la tolleranza pratica, ma piuttosto andarono all'eccesso contrario respingendo in modo assoluto qualsiasi sorta d'immagini, anche profane e indifferenti per sé medesime. Ugualmente agì l'islamismo.

Nel cristianesimo invece la storia delle immagini ha subito fasi varie e ha dato luogo a lotte religiose asperrime. Non vi è dubbio che al principio i dottori cristiani pensassero in teoria sulla figurazione di Dio allo stesso modo degli Ebrei e dei filosofi greci; molto espliciti in proposito sono, oltre gli Apologisti, Clemente Alessandrino e Tertulliano; Euseb-o, rispecchiando tutta la dottrina antecedente, afferma che non solo la divinità ma neppure Gesù possa essere rappresentato in figura umana, perché la sua umanità dopo la resurrezione si è trasfigurata in gloria. Nella pratica però il cristianesimo primitivo ha ammesso, come dimostrano gli antichi monumenti e in specie le catacombe, la rappresentazione soprattutto di simboli sacri (la croce, il pesce, l'agnello ucciso, il Buon Pastore), nonché di scene storiche, per lo più tratte dalla Bibbia. A tali rappresentazioni però, in conformità della filosofia greca, negò recisamente lo scopo di adorazione (can. 36 del concilio di Elvira (v. iliberri) e attribuì solo quello d'istruzione ed edificazione.

Ma l'uso delle immagini fino dai secoli VI e VII, dietro l'esempio del culto popolare degl'idoli, acquistò un senso nuovo e per l'impulso dell'arte bizantina ebbe larghissima diffusione. Le figure del Cristo e dei santi si considerarono, al pari delle persone rappresentate, come strumenti della grazia di Dio, aventi in sé medesime una forza divina soprannaturale per il bene spirituale e temporale di chi le venera; e quindi si moltiplicarono sopra ogni sorta di oggetti e sotto le forme più varie, e riscossero dimostrazioni di culto d'ogni specie. Non tutte le immagini del medesimo santo furono considerate d'uguale valore, ma questo fu diverso secondo il numero delle grazie che il santo era solito di operare per mezzo di questa o di quella immagine. Speciale stima si accordò a quelle immagini che si credettero formate non per mano di uomo, ma per il potere di Dio (εἰκόνες αχειροποίηται: vedi acheropita, I, p. 311).

Tale devozione popolare, favorita e propagata soprattutto dai monaci, incontrò opposizione tra molti dei fedeli; questa crebbe e si fortificò nel sec. VIII per la persecuzione contro le immagini (v. iconoclastia) condotta dagl'imperatori bizantini Leone III l'Isaurico (717-741) e Costantino V Copronimo (741-775). Sotto l'imperatrice Irene il culto delle immagini sacre fu ristabilito, e nel II concilio di Nicea (VII ecumenico; 787) e di nuovo sotto l'imperatrice Teodora in un sinodo di Costantinopoli (843) fu definitivamente approvato; cosicché da allora fino a oggi nella chiesa greca-orientale - e particolarmente nella Russia - esso tiene, nella liturgia pubblica e nella devozione privata, un posto di prima importanza. L'anniversario del suo trionfo è tuttora celebrato come la festa dell'"ortodossia". In Occidente, la medesima lotta ebbe gravi ripercussioni politiche: la stessa definizione del II concilio niceno fu aspramente combattuta dai teologi di Carlo Magno (vedi carolini libri; IX, p. 121). Ma, per il fermo contegno dei papi, anche in Occidente la venerazione delle immagini, contenuta però entro certi limiti, ebbe ragione dell'iconoclasmo.

Altri notevoli episodî di reazione al culto delle immagini furono quelli di Claudio di Torino (v.) e di Agobardo di Lione (v.) nel secolo IX; ma già nel successivo tutto era pacifico circa la legittimità e utilità del culto delle immagini rettamente inteso. L'iconoclasmo fu continuato da varie correnti dell'eresia medievale: pauliciani e bogomili, seguaci di Pietro di Bruys, wicliffiti e hussiti e fu tramandato così alla Riforma protestante. Tra le confessioni riformate, la più avversa alle immagini è la calvinista, la più tollerante l'anglicana. La dottrina cattolica fu fissata dal concilio di Trento; e il sinodo giansenista di Pistoia che aveva affacciato delle critiche, senza negare il culto, fu anche per ciò nettamente sconfessato.

Si distingue tra l'immagine (o simulacro) che ha valore di ricordo e di riferimento, e l'idolo, che ha un valore in sé; quindi tra il culto concesso anche a sacre immagini e la vera e propria adorazione, dovuta a Dio solo; inoltre, tra immagini naturali e artificiali. Sulle basi qui appena accennate i teologi hanno poi costruito una complessa teoria.

Bibl.: art. Bilder, di varî, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, I, Tubinga 1927, coll. 1098-1106; V. Grumel, Images (culte des), in Dictionn. de théol. cathol., VII, i, coll. 766-844; H. Leclercq, Images (culte des), i Dictionn. d'archéol. chrét. et de liturgie, VII, coll. 180-302; W. Elliger, Die Stellung der alten Christen zu den Bildern in der ersten vier Jahrhunderten, Lipsia 1930.

Le immagini degli antenati.

L'uso di foggiare immagini degli avi è uno degli aspetti più caratteristici del culto ancestrale, e al tempo stesso una delle fonti in genere dell'idolatria (v.). Largamente attestato presso i primitivi (Oceania), esso peraltro non è sempre necessariamente congiunto con l'adorazione e il culto delle immagini stesse, che talvolta, pur essendo destinate a rappresentare avi o personaggi eminenti trapassati, non hanno per questo carattere sacro, e sono solo un omaggio agli spiriti dei morti. Altrove, p. es. in India, l'uso delle immagini è concepito come l'apprestamento di un rifugio allo spirito dei morti, nell'intervallo tra la morte e i funerali, ma esse acquistano poi carattere permanente, e finiscono (Kafiri del Hindu Kush) col divenire vero e proprio oggetto di culto. In qualche altro luogo (Ostiacli della Siberia) tale culto è solo temporaneo.

L'aspetto generale dell'uso delle immagini degli avi si attenua e quasi oblitera in civiltà più progredite, in cui il motivo dominante nel loro uso è l'orgoglio familiare e gentilizio.

Tale è il caso delle imagines dei Romani, delle maschere (in epoca più antica in cera, donde il nome di cerae) riproducenti i volti degli antenati, che i Romani allineavano nell'atrium della casa chiuse ciascuna in un tempietto di legno. Ne venivano estratte per far corteggio, portate da parenti o da estranei, al funerale di un membro illustre della famiglia; e poiché si potevano esporre solo le imagines di antenati che avessero ricoperto ineccepibilmente alte cariche dello stato (ius imaginum), la loro vetustà e il loro numero erano chiaro segno di nobiltà. Le cerae si modellavano entro maschere di gesso prese sui tratti stessi del cadavere, e se ne faceva più d'una poiché quella che proteggeva il volto del morto era bruciata o inumata con lui. Ci resta una cera trovata in una tomba di Cuma. Le cerae si sostituirono fin dal principio dell'epoca imperiale con imagines in materie preziose.

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