Index librorum prohibitorum

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Index librorum prohibitorum

Vittorio Frajese

Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio furono stampati per la prima volta a Roma, nel 1531-1532, sotto la protezione e l’egida della Sede apostolica. Lo stampatore infatti non ottenne solo l’imprimatur papale, l’autorizzazione a stampare i testi, ma anche il ‘privilegio di stampa’, quel diritto esclusivo alla loro pubblicazione per un determinato numero di anni che costituiva una particolare protezione concessa graziosamente dal pontefice alle opere considerate meritevoli del suo favore. La situazione, tuttavia, cambiò rapidamente.

La prima idea che suscitò reazioni negative nel mondo ecclesiastico fu quella della contrarietà tra cristianesimo e valore militare. Si trattava di una tesi destinata a offendere soprattutto le orecchie degli spagnoli e dei portoghesi che stavano conquistando il continente americano con forza d’armi e grande spargimento di sangue. Prima lo spagnolo Juan Ginés de Sepúlveda (→) e poi il vescovo portoghese Jerónimo Osório protestarono dunque contro questa tesi. Ma l’ostilità del mondo religioso era destinata ad approfondirsi presto su questioni ben più essenziali e nel 1539, nella sua Apologia ad Carolum V, il cardinale Reginald Pole (→) definì M. «un nemico del genere umano» e il Principe un libro «scritto col dito del diavolo». Con il generale sviluppo delle attività di inquisizione, al principio degli anni Cinquanta questi giudizi presero forma di censura. Assunto nel 1549 dal Santo Uffizio come consultore in materia libraria, l’11 novembre 1550 Girolamo Muzio inviò al commissario generale Teofilo Scullica la nota di una serie di nomi da far confluire nel costituendo Index librorum prohibitorum, nel quale la Chiesa di Roma avrebbe elencato i libri sottratti alla pubblica lettura, tra i quali figurava quello di Machiavelli. «Tengo opinione fermissima» – scrisse – «che essi siano del tutto infedeli, ma perciocché lo scoprirsi interamente non sarebbe cosa sicura [...] col mostrarsi pur religiosi vogliono gettare a terra la religione». Due anni dopo, la sua segnalazione fu confermata da Ambrogio Catarino Politi che, nelle Enarrationes (1552), definì M. «empio e ateo». La censura di Catarino soccorse quella di Muzio inserendosi nel processo di redazione del primo Index romano avviato dalla Congregazione del Santo Uffizio della romana e universale inquisizione nel 1549 e conclusosi con una prima redazione inviata a Firenze, Venezia e Milano tra il 1553 e il 1554 senza il nome di Machiavelli. Questa prima versione dell’Index non fu accettata dagli Stati e il discorso riprese sotto il pontificato dell’ex inquisitore Paolo IV il quale, convinto della funzione di complessiva riforma ideologica della cultura italiana da assegnare alla censura, promosse un Index contenente una serie di nomi di scrittori italiani giudicati «empi» o «lascivi», tra i quali spiccavano Boccaccio e Machiavelli. Nell’Index di Paolo IV, pubblicato definitivamente nel 1559, il nome di M. venne posto in prima classe, tra quegli autori condannati come eretici dei quali era proibita l’intera opera e dannata la memoria. Si trattava dunque di una condanna già radicale che tuttavia non condusse a una completa chiusura nei confronti del Segretario fiorentino. Il Concilio di nuovo aperto a Trento nel 1562 istituì infatti, dietro ordine del nuovo papa Pio IV, una commissione incaricata di riconsiderare il tema dei libri da proibire e di pubblicare un nuovo e meglio ponderato Index. La commissione conciliare assunse un indirizzo complessivamente rivolto alla moderazione delle scelte compiute dall’Inquisizione romana e divenne per conseguenza teatro di diverse proposte di attenuazione delle condanne emesse tre anni prima. Le opere di M. furono così fatte oggetto di alcuni tentativi di espurgazione, promossi prima dallo stesso Muzio per conto di Guidubaldo II Della Rovere, duca di Urbino, poi da Giuliano de’ Ricci (→), poi ancora dai suoi cugini coinvolti dal primo segretario dell’Index Antonio Posio, e infine dal magister sacri palatii Paolo Costabili. Il tentativo di Girolamo Muzio venne anzi condotto a termine e produsse una censura tanto dell’Arte della guerra quanto dei Discorsi «purgati così in materia della religione come della tirannia e della crudeltà» (cit. in Procacci 1995, p. 101). Nessuna di queste proposte fu però accolta dalla commissione conciliare e nel nuovo Index pubblicato da Pio IV nel 1564 il nome di M. rimase inserito nella prima classe, tra gli eretici omnino damnati che, non potendo essere espurgati, erano destinati al rogo. Benché privo di esiti, tutto questo gran daffare intorno ai libri di M. è indizio di un rapporto ancora non del tutto chiuso con le sue pagine.

Per l’Index, come per tutto l’antimachiavellismo, una rilevante cesura arrivò nel 1576 con l’apparizione dell’Anti-Machiavel (→) del calvinista Innocent Gentillet (→), che attribuiva all’insegnamento di M. la responsabilità della strage di san Bartolomeo ordita dalla fiorentina Caterina de’ Medici e dalla sua corte italiana. Da una parte l’Anti-Machiavel amplificava l’accusa di ateismo già circolante, dall’altra coniava la categoria del ‘machiavellismo’: non più solo M. e i suoi testi, ma il modo di pensare secondo le sue categorie, accusate di guidare non soltanto la politica di Caterina de’ Medici, bensì anche quella dei papi e della Chiesa cattolica. Nell’Anti-Machiavel il termine Machiavelliste indicava un soggetto preciso: «les Italiens et Italianisez» cattolici operanti al seguito della regina, coloro che avevano

laissé l’ancienne façon de gouverner de nos ancetres françois, pour introduir et mettre en usage en France la nouvelle façon de gouverner de leur pays, enseigné par Machiavel

abbandonato l’antico modo di governare dei nostri avi francesi per introdurre e mettere in uso il nuovo modo di governare del loro Paese, insegnato da Machiavelli (Anti-Machiavel, éd. E. Rathé, 1968, p. 36).

Il concetto di ‘machiavellismo’ divulgato da Gentillet fu subito recepito in Italia e già nel 1577, nella sua Difesa della città di Firenze et dei fiorentini. Contra le calunnie et maledicentie de’ maligni, Paolo Mini sentiva il dovere di difendere il buon nome dei fiorentini dall’accusa di essere un popolo di machiavellisti. Un fiorentino, protestava, «non può essere Machiavellista: volendo inferire [...] questa parola machiavellista tanto quanto senza religione e senza fede» (Difesa della città di Firenze et dei fiorentini, cit., p. 148). A partire dalla pubblicazione dell’Anti-Machiavel, l’espurgazione dei libri di M. uscì così dal novero delle possibilità effettive. La concessione di un’edizione espurgata avrebbe infatti assunto il significato di una tolleranza e, con essa, di un’ammissione della validità dell’accusa mossa al papato e alla monarchia cristianissima di essere ispirati da principi machiavellici. Alla prima occasione utile – e cioè il 21 ottobre 1579 – Guglielmo Sirleto trasmise dunque alla Congregazione dell’Indice la decisione, trasmessa da Gregorio XIII vivae vocis oraculo, secondo cui

opera Machiavelli omnino reprobanda, ita ut de coetero nullus audeat illam expurgare et a manibus fidelium prorsus amoveantur

le opere di Machiavelli sono da condannare del tutto così che, d’ora innanzi, nessuno provi a espurgarle ed esse siano completamente tolte di mano ai fedeli (cit. in Frajese 20082, p. 104 nota 37).

Da allora in poi, con la fama assunta dal nome di M. in Europa, gli ulteriori tentativi di espurgazione avrebbero costituito episodi determinati da effimere contingenze. Nel 1587, nel corso del fervore espurgatorio suscitato dai nuovi cardinali nominati presso la Congregazione dell’Indice dopo la morte di Guglielmo Sirleto, il caso fu riesaminato e nel suo Discorso intorno all’Indice da farsi de’ libri proibiti il segretario dell’Indice, Vincenzo Bonardi, pose di nuovo all’ordine del giorno l’opportunità di approntare l’espurgazione di qualche titolo di quegli autori come Erasmo da Rotterdam, Juan Luis Vives, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, e M. (cfr. Frajese 20082, pp. 107-20), gravati da un giudizio più incerto o che, benché pericolosi, «volerli levare et prohibire affatto è quasi impossibile, per essere divulgatissima questa pratica et perché levarà il pane di mano a molti». Coerentemente con questa impostazione, il consultore Roberto de’ Roberti preparò una ‘censura’ dei Discorsi (cfr. Procacci 1995, pp. 43336) dove sostenne l’espurgabilità del testo pur confermando il giudizio ormai consolidato:

Totum opus prudentissime damnatum dicerem quod aliquando Ecclesiam concutat, in sacris ordinibus constitutos vituperet et posthabita religione omnia regnandi causa permitti edoceat et quod praecipue loquatur tamquam ethnicus et Christianae religionis vel ignarus vel contemptor.

Direi che tutta l’opera deve essere con somma prudenza dannata perché abbatte la Chiesa, getta discredito contro gli ordini sacri e, messa in secondo piano la fede, insegna a consentire ogni cosa pur di regnare, tanto più che l’autore parla come un pagano e come uno che ignora o disprezza la religione cristiana.

E ancora nel settembre 1596 Cesare Baronio ebbe occasione di proporre un’espurgazione di M. affidata a un canonico appartenente alla sua famiglia. Ma si trattava ormai di episodi marginali, generati dalle varie pressioni esercitate su un gruppo di cardinali, quali quelli dell’Index degli anni Novanta, inclini alla soluzione dell’espurgazione e sensibili alle insistenze clientelari. Il 7 dicembre 1596 l’impossibilità di espurgare i testi di M. fu definitivamente ribadita dal segretario del Santo Uffizio, Giulio Antonio Santoro, all’ambasciatore fiorentino Giovanni Niccolini, e due anni dopo tale posizione fu confermata da un papa flessibile e misurato in fatto di censura come Clemente VIII quando negò al patrizio fiorentino Agostino Michele l’autorizzazione a espurgare Machiavelli. Non si trattava, in questo caso, di una delle tante intransigenze imposte da Santoro all’esitante Clemente VIII, dal momento che in quegli stessi anni anche il gesuita Roberto Bellarmino inseriva il nome di M. nel suo elenco di «eresiarchi», così facendone un nome impronunciabile nel mondo cattolico. Una versione completamente sfigurata dei Discorsi fu infine stampata da Marco Ginammi a Venezia nel 1630 con il titolo Del governo de’ regni e delle repubbliche antiche et moderne. Del libro, che difficilmente potrebbe essere accostato al nome di M., risultava autore Amadio Niecollucci: un approssimativo anagramma convertito alla religione come il testo che introduceva.

La censura approntata da Roberto de’ Roberti, ritrovata e pubblicata da Giuliano Procacci, può offrire un’idea del tipo di lettura diffusa nel mondo dell’Indice. Per limitarsi alle più significative, de’ Roberti proponeva di sopprimere due capitoli del I libro: il xii, intitolato Di quanta importanza sia tenere conto della Religione e come la Italia, per esserne mancata mediante la Chiesa Romana, è rovinata, giudicato incline a sottoporre la religione alle valutazioni della ragion di Stato, e il xxvii, intitolato Sanno rarissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni, giudicato tale da parlare «del Papa, de’ Cardinali, e della Corte con poco rispetto e dispensa[re] un mal fuor di proposito». Tra i passi da togliere, spiccavano poi quello del cap. xi del I libro relativo a Girolamo Savonarola, perché «essendo stato condannato, non credo sia lecito parlar come si scrive»; quelli relativi a Mosè e di nuovo a Savonarola presenti nel cap. xxx del III libro; quello presente nel cap. ii del II libro, dove si contrappone la magnificenza dei sacrifici antichi all’umiltà di quelli cristiani, «perché dalle premesse vengha in una conclusione che per causa della nostra religione il mondo sia dato in preda ai tristi»; e quello del cap. xxvi del I libro, intitolato Uno principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova, perché «par che insegni ad essere tutti buoni o tutti cattivi e par che tenda, per mantenere uno stato nuovo, a ruinar ogni cosa, se ben poi biasima i modi come nemici del genere umano». Di grande rilievo, e destinata a grandi sviluppi, era poi la censura, nel cap. xxix del II libro, del concetto di fortuna perché «attribuisce alla fortuna quel che si deve alla provvidenza e par che sia assoluta governatrice delle attioni umane» (cit. in Procacci 1995, pp. 434-35).

Nonostante il vario dibattersi dell’Index, dopo l’Anti-Machiavel all’ipotetica espurgazione dei testi di M. si sostituì lo sforzo di costruire un modello di politica alternativo a quello da lui proposto, una politica cattolica che, alla reductio ad civitatem della religione, opponesse l’ancoraggio all’oggettività della veritas. La sfida proveniva dal consolidamento delle istituzioni politiche in corso in tutta Europa, ma veniva soprattutto dalla Francia, dove il protrarsi delle guerre di religione rafforzava all’interno del mondo gallicano la tendenza detta politique, un orientamento diretto a ristabilire la pace e a rafforzare la monarchia mediante la concessione della tolleranza al culto calvinista. Dal versante opposto a quello dell’Anti-Machiavel, anche i teologi romani consideravano però la soluzione politique un prodotto della cultura machiavelliana. Il machiavellismo da essi ravvisato nei politiques stava nel fatto di porre alla base delle scelte in materia di religione considerazioni pratiche e utilitarie – quali il conseguimento della pace o il rafforzamento della monarchia – invece dell’assoluto dovere di salvare le anime.

La linea promossa a partire dagli anni Ottanta fu dunque rivolta a unire alla condanna di M. e del machiavellismo la cristianizzazione dell’arte della politica. Il 19 novembre 1588 monsignor Minuccio Minucci lamentò con Antonio Possevino l’assenza di un «libro buono che con metodo e con certa facilità formi un huomo politico cristiano et l’insegni com’egli possa o apprendere o tingersi almeno di scienza tale». Tutti infatti – proseguiva Minucci – sono bramosi di apprendere la scienza politica e, se non vogliono ricorrere a Tacito,

ricorrono a bere quel che sta nella botte del Machiavelli, del suo antagonista genevense [scilicet Gentillet], non meno impio di lui, o del Bodino, et beato chi può avere la chiave del Santo Officio per arrivare a quella cantina.

Lo scopo della letteratura antimachiavelliana fiorita in Italia tra Cinquecento e Seicento rimase questo, illustrato da Minucci, di formare il politico cattolico. Ma la sua lettera segnala un dettaglio molto rilevante. La «chiave del Santo Officio» ivi menzionata era infatti tanto legale quanto materiale e indicava sia il permesso di leggere M., Bodin o Gentillet in eccezione al divieto, sia poi la possibilità di disporre di una copia dei loro libri custoditi nel deposito del magister sacri palatii o del locale inquisitore. A meno di non volersi procurare quei testi clandestinamente, scelta che poteva essere intrapresa da gente comune, ma non da teologi o da ecclesiastici, dietro ogni libro antimachiavelliano doveva dunque sempre darsi l’incarico o perlomeno l’autorizzazione del Santo Uffizio. Gabriel Naudé scriveva che negli anni Trenta del Seicento

on obtient assez aisement permission à Rome de lire toute sorte de livres heretiques: c’est le Maitre du Sacre Palais qui la donne, avec ces exceptions: on defende Luther et Calvin, et tout autre chef de parti, Machiavel

a Roma si ottiene facilmente il permesso di leggere ogni genere di libro eretico: è il Maestro del Sacro Palazzo che lo accorda ma con queste eccezioni: non si concede Lutero e Calvino e, sul versante opposto, Machiavelli (cit. in Savelli 2011, p. 5).

L’informazione non è esatta perché, in effetti, venivano concessi in lettura soltanto i libri proibiti non eretici, che erano molti, ma ci segnala una reale condizione fatta a Machiavelli. Come si evince dalla richiesta presentata da un gentiluomo genovese, al quale fu risposto con un «riserbato a Nostro Signore», il permesso di lettura di M. era prerogativa del Santo Uffizio da esercitare alla presenza del papa, che lo concesse in casi del tutto eccezionali e unicamente a teologi. Nell’Archivio arcivescovile di Firenze rimane traccia di un permesso di lettura concesso al vescovo di Cortona, Cosimo Minerbetti, il quale, in osservanza delle prescrizioni del Santo Uffizio, non possedeva alcuna copia dei libri di M. e di conseguenza, il 16 giugno 1626, dovette farne richiesta all’inquisitore di Firenze: «Desidero i libri de’ Discorsi, del Principe, dell’Historie fiorentine e dell’Arte della guerra». La lettura di M. non solo non poteva essere rilasciata dal Santo Uffizio senza il consenso del papa, ma non era ordinariamente concessa agli inquisitori medesimi: nel permesso generale di leggere libri proibiti concesso da Clemente IX ai cardinali, ai consultori e ai qualificatori del Santo Uffizio (14 sett. 1667), al fine di rendere più spedito e agevole il loro lavoro, era fatta eccezione per l’autore del Principe e per Charles Du Moulin. I cardinali avrebbero avuto, infatti, generalem licentiam retinendi et legendi omnes et singulas scripturas librosque prohibitos cuiusdam generis, exceptis dumtaxat Caroli Molinei et Nicolai Machiavelli operibus («permesso generale di leggere ogni genere di libri proibiti a eccezione delle opere di Charles Du Moulin e di Niccolò Machiavelli»). Il numero, peraltro piuttosto elevato, di richieste di leggere M. rivolte alle congregazioni romane dell’Indice e del Santo Uffizio non è dunque proporzionato all’effettivo interesse dei lettori, che rimase alto lungo tutto il Seicento. Il fatto è che M. non era concesso in lettura e, di conseguenza, neppure richiesto: a farlo erano solo uomini molto potenti i quali supponevano, quasi sempre a torto, di avere una qualche possibilità di ottenere il permesso o forse, più semplicemente, si sentivano autorizzati a farlo senza suscitare sospetti di eterodossia. La richiesta di lettura di M. offre dunque l’indice del potere di chi chiedeva più che la misura della domanda effettiva.

Gli scritti antimachiavelliani di ambito italiano fecero sempre parte di una strategia diretta dal centro, dalle congregazioni dell’Inquisizione o dell’Indice il più delle volte. L’incarico di scrivere contro M., dato a Possevino dal nunzio pontificio a Venezia (poi papa Innocenzo IX), Giovanni Antonio Facchinetti, portò alla pubblicazione, nel 1592, del Judicium de Nuae militis galli, Joannis Bodini, Philippi Mornaei et Nicolai Machiavelli quibusdam scriptis, un libro che, fin dal titolo, indicava l’interesse tutto francese dello scritto. Il problema del machiavellismo, in questi anni, rimase infatti orientato verso il caso francese e, con esso, verso il problema dei politiques e della tolleranza. Lo scrittore che con maggiore efficacia promosse il progetto di formazione del politico cattolico, Giovanni Botero (→), riprese la categoria di ‘machiavellismo’ in due scritti del 1583 e del 1584 per farne il simbolo dei politiques e della tolleranza verso gli ugonotti. La lezione tratta dalle guerre di religione secondo il De regia sapientia (1583) era che l’eresia rovina i regni introducendo uno «spirito di divisione» e di «sovversione». Il fondamento di ogni principato era la vera fede, non una religione qualsiasi, e tanto meno due religioni. L’interpretazione anti-politiques dell’antimachiavellismo proseguì l’anno seguente in Del dispregio del mondo, dove i «politici» venivano definiti come coloro che sostenevano «non importare che i popoli siano cattolici o eretici, gentili o cristiani [...] purché essi governino e i Signori loro portino la corona». Per questo motivo essi meritavano il titolo di machiavellisti. La connessione tra machiavellismo e tolleranza si fece ancor più insistente nelle successive Relazioni universali, dove i politiques erano accusati di machiavellismo per aver indotto «il Re prima a collegarsi co ’l Turco contra Cristiani e poi a confederarsi co’ Luterani d’Alemagna contra i Cattolici e finalmente a consentire pubblicamente l’esercizio dell’empietà di Calvino nel Regno».

Il machiavellismo fu così posto in relazione con una politica di potenza indipendente da vincoli confessionali e orientata verso la tolleranza. Attraverso questa serie di deduzioni, la discussione relativa alla situazione francese e al problema della tolleranza assunse a Roma la forma di una discussione su M. e sul machiavellismo, inteso come liceità di fare eccezione a leggi canoniche e venire meno al dovere di estirpare l’eresia in vista di considerazioni pratiche. L’effimera accademia di ‘cose politiche’ riunita dal cardinale Cinzio Aldobrandini nei suoi appartamenti nel corso del 1594 e la difesa di M. tenutavi da Goffredo Lomellini il 20 giugno possedevano questo significato immediato e vanno lette attraverso il filtro delle equazioni introdotte da Botero. Il ragionamento tenuto da Lomellini in quell’occasione – è vero, M. è ateo, e per questo va tolto dalle mani della gente comune, ma in politica è un maestro e va ascoltato –, oltre a fornire lo schema di un possibile recupero di M., possedeva un immediato risvolto pratico rivolto al caso francese. Non può dunque stupire che il più monumentale, anche se non il più incisivo, complesso di opere antimachiavelliane sia stato stampato tra la morte di Enrico III e l’assoluzione di Enrico IV da Tommaso Bozio (→), un oratoriano filospagnolo ostile alla riconciliazione con il re di Francia.

La discussione romana, accesa e drammatica perché posta in relazione con vitali scelte politiche, condusse a un duplice risultato: nel 1595 Clemente VIII ascoltò i ‘politici’ e assolse Enrico IV; quindi, l’anno successivo, furono inserite nel nuovo Index due clausole antimachiavellistiche. Fu vietato il richiamo al concetto di «fortuna» – quaecumque fato, aut fallacibus signis, aut ethnicae fortunae humani arbitrij libertatem subijciunt, obliterentur («sia cancellato ogni passaggio che sottometta la libertà dell’arbitrio umano al fato, ai fallaci segni degli astri o alla fortuna pagana») – e furono vietati quegli argomenti quae ex gentilium placitis, moribus, exemplis, tyrannicam politiam fovent et quam falso vocant rationem status ab Evangelica et Christiana lege abhorrentem inducunt («che, attingendo a sentenze, costumi o esempi tratti dai pagani, promuovono un governo tirannico e quella sedicente ragion di Stato in tutto contrastante con la legge evangelica e cristiana»). Se si confrontano queste formulazioni con le parole di Muzio e de’ Roberti si può capire che entrambe derivano dalla censura di Machiavelli.

Da allora, la chiusura verso M. rimase un fatto assodato e il suo nome fu regolarmente inserito in tutti i successivi Indices librorum prohibitorum fino a quello ripubblicato da Leone XIII nel 1890. A partire dal secondo decennio del Settecento, tuttavia, la censura ecclesiastica cominciò a perdere progressivamente efficacia e anche l’accesso ai libri di M., mai completamente interrotto, cominciò a farsi più agevole. Ne offriva una testimonianza Antonio Magliabechi quando scriveva al cardinale Leopoldo de’ Medici che

l’opere del Machiavello stampate già più di cento anni or sono qui in Firenze, che sono le stimate, si troveranno ma bisognerà pagare prezzi stravagantissimi, sì per essere, come Vostra Altezza Serenissima sa, stimatissime, come anche perché, tanto per essere stampate da così gran tempo quanto per averne gli inquisitori abbruciate la maggior parte, sono rarissime al maggior segno possibile (cit. in G. Totaro, Da Antonio Magliabechi a Philip von Stosch: varia fortuna del «De tribus impostoribus» e de l’«Esprit de Spinosa» a Firenze, in Bibliothecae selectae da Cusano a Leopardi, a cura di E. Canone 1993, pp. 377-417).

Nel 1900 Leone XIII fece pubblicare un nuovo Index che, allo scopo di snellire e svecchiare l’ormai ponderosa e inattuale lista dei titoli accumulati a partire dal Cinquecento, non riportava più le proibizioni anteriori al 1600 e, di conseguenza, ometteva il nome di Machiavelli. Si trattò quindi di una misura pratica che non implicava una revisione della condanna di M., così come non implicava una revisione della condanna di tutti quegli eretici cinquecenteschi omessi negli Indici novecenteschi. Si può forse dire piuttosto che, con l’abolizione dell’Index decisa da Paolo VI nel 1966, stia cadendo in disuso, tacitamente e quindi in maniera non irreversibile, quella funzione di pubblica condanna di autori e libri che il papato si era attribuita nel Cinquecento.

Bibliografia: Fonti manoscritte: Roma, Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, St. st. O 2 c, St. st. O 2 d; Indice, IX, I, f. 276r; Firenze, Archivio Arcivescovile, Fondo inquisizione, filza 7, f. 146. Fonti a stampa: P. Mini, Difesa della città di Firenze et dei fiorentini. Contra le calunnie et maledicentie de’ maligni, Lione 1577; G. Botero, Del dispregio del mondo libri cinque, Milano 1584; H. Reusch, Der Index der Verbotenen Bücher. Ein Beitrag zur Kirchen und Literaturgeschichte, 2 voll., Bonn 1883-1885 (rist. Aalen 1967); J. Hilgers, Der Index der Verbotenen Bücher, Freiburg im Breisgau 1904; I. Gentillet, Anti-Machiavel, éd. E. Rathé, Genève 1968.

Per gli studi critici si vedano: R. De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze 1969; A. Prosperi, La religione, il potere, le élites. Incontri italo-spagnoli nell’età della Controriforma, «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», 1979-1980, 31-32, pp. 508-15; J.M. De Bujanda, Index des livres interdits, 2 voll., Sherbrooke-Montreal-Genève 1985-2002; A. Coroleu, Il Democrates primus di Juan Ginés de Sepúlveda: una nuova prima condanna contro il Machiavelli, «Il pensiero politico», 1992, 25, pp. 263-68; Botero e la ‘ragion di Stato’, Atti del Convegno in memoria di Luigi Firpo, Torino 8-10 marzo 1990, a cura di A.E. Baldini, Firenze 1992; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; Aristotelismo politico e ragion di Stato, Atti del Convegno internazionale, Torino 11-13 febbraio 1993, a cura di A.E. Baldini, Firenze 1995; P. Godman, From Poliziano to Machiavelli. Florentine Humanism in the High Renaissance, Princeton 1998; V. Frajese, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia 20082; R. Savelli, Censori e giuristi. Storie di libri, di idee e di costumi (secoli XVI-XVII), Milano 2011.

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