INDIA

Enciclopedia Italiana - I Appendice (1938)

INDIA (XIX, p. 1)

Piero LANDINI
Ugo FISCHETTI
Anna Maria RATTI
Pier Fausto PALUMBO – Giuseppe TUCCI

Superficie e popolazione (p. 22). - Con la nuova costituzione, andata in vigore il 1° aprile 1937, la Birmania, già provincia indipendente dal 1923, è stata staccata dall'impero e costituita a colonia della Corona con una superficie di 605.277 kmq. e 14,7 milioni di abitanti, di cui l'India viene decurtata; l'India ha pertanto una superficie complessiva di 4.070.132 kmq. e una popolazione di 338.119.154 abitanti, con una densità di 83 ab. per kmq. Nonostante questa diminuzione, mantiene per numero di abitanti il secondo posto nel mondo tra le unità politiche della Terra.

Altissimo continua a mantenersi l'indice di natalità: 32,2‰ nel periodo 1926-1930; 35‰ negli anni 1933-1934; ma parimenti elevato è l'indice di mortalità (soprattutto quella infantile), quantunque accenni a una salutare decrescenza: 29,8‰ nel decennio 1914-1923; 24,3‰ nel periodo 1926-1930; 23,5‰ negli anni 1933-1934. L'eccedenza dei nati sui morti continua peraltro a mantenersi cospicua.

Per quanto riguarda le diverse religioni, dobbiamo osservare che rispetto al censimento del 1921 le cifre del 1931 accusano variazioni sensibili, come bene si può comprendere dalle cifre dell'unita tabella, che comprendono anche i dati relativi alla Birmania.

Si nota un generale aumento per tutte le religioni principali; sensibilissimo quello dei cristiani in prevalenza cattolici, distribuiti soprattutto nell'India peninsulare; in forte diminuzione invece gli animisti, in grazia della lenta ma sicura e ineluttabile penetrazione della civiltà.

Il cristianesimo (p. 20 segg.). - L'ordinamento della gerarchia cattolica ha subito varie modificazioni. La prefettura apostolica di Assam è, dal 9 luglio 1934, il vescovato di Shillong; nel 1937 l'arcidiocesi di Simla ha mutato nome in Delhi e Simla e sono state create le diocesi di Bezwada (già missione, dal 1933) e Cuttack. Sono inoltre da registrare le prefetture apostoliche di Sikkim (1931), Jubbulpore (1932; suffraganea di Madras), Indore (1935), Multan (1936) e la missione di Bellary (1928).

Per i Malankaresi si ha la provincia ecclesiastica (1932) di Trivandrum, con suffraganeo Tiruvalla.

Dalla delegazione apostolica delle Indie Orientali dipende anche la gerarchia della Birmania.

Industrie e commercio (p. 30). - L'India mantiene nel campo industriale il carattere di trasformatrice delle materie prime soprattutto di origine vegetale. Al primo posto viene l'industria del cotone: monda e pressa con 139.987 operai nel 1929; 129.233 nel 1933; filatura e tessitura con 336.682 individui occupati nel 1929 e 360.424 nel 1933. Degno di nota l'aumento sensibile della mano d'opera impiegata in questo ramo industriale, che pone l'India a uno dei primi posti con 9,7 milioni di fusi di filatura e 190.000 telai meccanici. Attualmente l'India è al secondo posto in Asia e al sesto nel mondo: la regione di Bombay continua a mantenere il primato. Importantissima è anche l'industria della iuta (pressa con 31.455 operai nel 1933 di contro a 37.300 nel 1929; iutifici con 257.175 e 346.765 operai rispettivamente). Riso, zucchero, tè continuano a dar vita a una fiorentissima industria di trasformazione con 73.000, 50.000, 57.000 persone occupate, rispettivamente, nel 1933. Si tenga presente che per il tè l'India accentua il suo primato nel mondo; e aumenta vieppiù la sua produzione di zucchero, tanto che essa ha nettamente superato le Indie Olandesi (Giava) e Cuba, ponendosi alla testa dei grandi produttori mondiali di zucchero di canna. Il forte consumo impedisce peraltro l'esportazione. Il commercio si mantiene molto attivo, e presenta ogni anno eccedenza delle esportazioni sulle importazioni. La tabella dà il movimento commerciale in milioni di rupie per il settennio 1930-1937.

In aumento è anche la rete ferroviaria, che sale da 68.044 km. nel 1930 a 69.390 nel 1936. La marina mercantile (compresa Ceylon) comprendeva, nel 1935, 204 navi per un tonnellaggio complessivo di 220.000 tonnellate.

Nell'anno 1935-36 sono entrate nei porti dell'India 3568 navi per un tonnellaggio di 9,3 milioni di tonn.; il cabotaggio è stato di 23 milioni di tonnellate.

Il commercio mantiene le caratteristiche di importare prodotti lavorati (manufatti meccanici e tessili) e di esportare soprattutto prodotti agricoli alimentari (semi, tè, cereali, ecc.) e industriali (cotone, iuta, ecc.).

Aviazione militare (p. 36). - Comprende attualmente le unità inglesi della Royal Air Force (R.A.F.), costituite da un complesso di 8 squadroni con circa 150 velivoli (da caccia, bombardamento e ricognizione); e la Indian Air Force (costituita nell'ottobre 1932), alle dipendenze del comandante della R.A.F. Benché sia lasciata facoltà al governo dell'India di stabilire l'entità di dette forze, la Indian Air Force non risulta ancora omogeneamente costituita.

Un certo numero di ufficiali, sottufficiali e truppa è attualmente di Indiani. Gli ufficiali indiani vengono addestrati all'Accademia di Cranwell, Inghilterra; i sottufficiali e la truppa vengono istruiti presso il deposito della R.A.F. a Karachi. Al compimento del loro addestramento a Cranwell, gli ufficiali vengono assegnati alle unità della Royal Air Force metropolitana prima di prestare servizio permanente nell'Indian Air Force.

Finanze (p. 36). - Diamo qui di seguito le cifre dei bilanci dal 1932-33 (in milioni di rupie).

Al 31 marzo 1938 il debito estero ammontava a 4882 milioni di rupie e quello interno a 7154 (di cui 4388 consolidato).

Sospesa la convertibilità dei biglietti il 21 settembre 1931 e seguita quindi la svalutazione della sterlina (40%) il cambio della rupia è rimasto stabile intorno 1 s. 6 d. oro. Il Reserve Bank Bill del 16 febbra10 1934 ha creato la Reserve Bank of India (entrata in funzione il 1° aprile 1935) attribuendole le funzioni di tesoreria prima esercitate dall'Imperial Bank, la gestione del debito pubblico, il controllo sui cambî e sul sistema creditizio (obbligo alle banche affiliate, scheduled banks, di tenere presso la R. B. una riserva del 5% dei loro impegni a vista e del 2% di quelli a termine) nonché a partire dal marzo 1935 il privilegio dell'emissione in luogo del Currency department. Al 31 dicembre 1937 i biglietti emessi dalla Reserve Bank erano 1854 milioni (la circolazione è però composta in gran parte di monete di cui l'ammontare è sconosciuto) e le riserve 444 milioni in oro, 626 in argento e 839 in divise.

Bibl.: v. le pubbl. periodiche della Società delle nazioni, specie l'Annuario. Cfr., inoltre, P. J. Thomas, India and her gold, in Economist, 13 giugno 1937; A. Venturoli, L'India e l'oro, in Riv. ital. di sc. econ., novembre 1937.

Storia (p. 45). - Il periodo tra il 1932 e il 1938 è stato caratterizzato dal riacutizzarsi della crisi costituzionale e dal riaccendersi della lotta per l'indipendenza. L'episodio culminante di essa è stato, sul finire del 1937, raggiunto con il rifiuto da parte dei nazionalisti indiani di riconoscere validità alla nuova costituzione approvata per l'India del parlamento inglese; la figura centrale del movimento nazionalista, inteso come fusione delle varie caste per la continuazione della lotta, è rimasta quella del mahātmā Gandhi. Iniziatasi nel gennaio 1932 una nuova campagna di disobbedienza civile, il presidente del congresso di Allahabad, Jawarharlal Nehru, e, successivamente, il pandit Malaviya, uno dei delegati alla conferenza della Tavola Rotonda, Gandhi stesso, la moglie e i figli, venivano arrestati. Il movimento di ripresa era stato ordinato dal Congresso panindiano a seguito del rifiuto opposto dal viceré britannico all'invito di discutere con Gandhi le misure prese dal governo dopo i torbidi del Bengala: alla campagna di disobbedienza passiva, canone della lotta patrocinata dal mahātmā, seguiva il boicottaggio del commercio inglese, dei telegrafi e dei tribunali. Il 4 gennaio il viceré stabiliva di demandare al governo poteri eccezionali, aggravati poco dopo da nuove misure e da un rafforzamento delle truppe inglesi. Arresti, perquisizioni, confische si succedettero; i nazionalisti risposero con atti di sabotaggio e disordini, dei quali gravissimo quello di Bombay della fine di gennaio, cui seguirono violente misure di repressione. Interdetto il raduno annuale, a Delhi, del Congresso panindiano, esiliati - al fine di vuotare le prigioni rigurgitanti - Gandhi e i capi del nazionalismo nelle Isole Andamane, il governo preferì poi di detenere il mahātmā nella prigione di Yeralda. Da lì, a seguito della decisione di dare una rappresentanza separata nella nuova costituzione indiana ai paria, agl'intoccabili, Gandhi annunzia nel settembre 1932 lo sciopero della fame. Spinti dal suo atto, i delegati dei paria e degli indù vengono a un accordo, che stabilisce a favore degl'intoccabili una equa rappresentanza politica. Parecchi mesi passano fra le pratiche di liberazione di Gandhi e i tentativi di accordo con il governo vicereale, sempre abortiti. Alla fine del marzo 1933 il governo britannico pubblica il Libro bianco, concernente le proposte relative alla riforma costituzionale indiana. Il sistema prescelto dal governo per l'India vi si dimostra federativo: il paese veniva diviso in undici provincie, autonome, rette da un governo centrale federativo, responsabile in tutto, tranne per quanto riguardasse "argomenti riservati" all'autorità del governo inglese. Così pure talune "responsabilità speciali" venivano direttamente demandate al governatore generale nominato dall'Inghilterra: tra queste "responsabilità", era il mantenimento dell'ordine e della pace all'interno. Proponendosi i delegati del Congresso panindiano, nonostante l'interdizione governativa, di riunirsi, tenendo la nuova sessione, più di mille arresti vennero effettuati dalla polizia. Facendosi sempre più precarie le condizioni di salute del mahātmā, egli è rimesso in libertà l'8 maggio 1933: il governo vicereale, d'altra parte, dichiarava che ove Gandhi, anziché continuare soltanto la sua azione a favore degli intoccabili, riprendesse la sua attività politica, sarebbero state tosto adottate nuove, più gravi, misure. E questo avviene: dopo poche settimane di pausa, la campagna di disobbedienza civile è ripresa e il 31 luglio Gandhi, seguito in breve dai suoi, è tratto in arresto e alcuni giorni dopo condannato a un anno di prigione dura. Innumerevoli arresti seguono la condanna del mahātmā.

Ammalatosi nella prigione di Jevarda dov'era stato tradotto, il 23 agosto Gandhi veniva liberato e, per un tentativo di pacificazione, il governo vicereale decideva di astenersi da nuovi imminenti arresti e di rilasciare molti nazionalisti. Per sua parte, Gandhi dichiara di astenersi per un anno da ogni forma di attività politica. Ma nel dicembre egli riprende, in numerosi viaggi attraverso le regioni, la propaganda nazionalista e nell'aprile successivo riafferma la sua fede nei metodi della resistenza passiva. Nel giugno 1934 il Congresso nazionalista decide la fine della campagna di disobbedienza civile; verso la metà di luglio, il capo del parlamento indiano, Patel Vallabhai, è rimesso in libertà. Ai primi di agosto, sintomo della distensione dei rapoorti tra i nazionalisti e il governo britannico, veniva decisa la formazione di un nuovo partito agrario, avente per scopo l'istituzione di un governo autonomo con metodi costituzionali. Gandhi però si riservava di agire personalmente, pur senza riattivare la campagna già da lui sostenuta. E infatti nel dicembre 1934, sembrando ch'egli stesse per riprendere la sua azione agitatrice, il viceré gli faceva giungere gravi minacce di rappresaglie. Il mahātmā non si lascia intimorire e continua a predicare il suo programma. Si entra però in un periodo nel quale i giovani nazionalisti si sciolgono dall'assoluta fede nel grande agitatore, che appare indebolito dalle malattie e dagli anni, e tentano nuove vie per giungere alla realizzazione del loro ideale. La promulgazione della nuova costituzione attrae tutto l'interesse; anche i consueti contrasti tra le varie caste tacciono per il momento. Tra la fine del 1934 e gli inizî del 1935 la costituzione viene votata e la pubblicazione dei risultati del voto avviene verso la fine del gennaio; sottoposta alla firma reale, la costituzione entra in vigore, preceduta da un breve periodo transitorio. Al viceré lord Wellington, dall'agosto 1935, era chiamato a succedere nel difficile governo dell'India lord Linlithgow, già autore di un rapporto sulla nuova costituzione indiana e membro tra i più influenti della Camera dei pari. Ma sin dai primi mesi dopo la sua applicazione il malcontento destato dalla nuova costituzione si profilava grave, dando luogu a recise opposizioni da parte del Consiglio di Bombay e in altre località, e provocando infine, sul finire del dicembre 1936, un atto deciso di rigetto da parte del Congresso nazionale. Il 4 agosto 1937, essendosi nei mesi precedenti acutizzati i dissidî di casta, tra intoccabili, indù e maomettani, e avendo le manifestazioni contrarie raggiunto una straordinaria violenza in molte città dell'India, il nuovo viceré chiamava a colloquio il mahātmā Gandhi, ascoltandone le lagnanze e i suggerimenti circa il miglioramento delle classi povere, specialmente quelle delle provincie del nord, in cui, per il continuo stato di guerriglia con tribù confinanti e montanare, era stato sempre impedito all'agitatore indiano di recarsi. Negli ultimi mesi dell'anno e nei primi del 1938 il movimento contro la nuova costituzione, giudicata imposta, si è riacutizzato, e, per conseguenza, i rapporti tra il governo e i capi del movimento nazionalista sono entrati in una nuova fase critica.

Letteratura (XIX, p. 53).

Letterature neoindiane. - Le letterature neoindiane, a parte il loro valore letterario vero e proprio, sono degne di studio particolare perché ci documentano il continuo rinnovarsi dell'anima indiana: esse hanno ricevuto vigore e si sono venute evolvendo e perfezionando per l'influsso di grandi personalità, specialmente religiose, le quali rompendo con la tradizione, s'esprimevano nella lingua del popolo.

In queste letterature è per così dire riflesso quello spirito di riforma che agitò l'India medievale e che fu nutrito da nuove concezioni di vita sbocciate nella società indiana dopo la conquista musulmana o i primi contatti col mondo occidentale. Di queste letterature tre meritano particolare ricordo perché non solo sono le più ricche, ma anche perché sopravvivono e si vanno svolgendo anche ai g10rni nostri: la bengalica, la marāṭhī e la hindī.

Bengalica. - La letteratura bengalica s'inizia con una serie di canti d'argomento buddhistico ed esoterico che si chiamano cāryā; questi canti risalgono forse al sec. X, ci conservano le più antiche forme a noi giunte del dialetto bengalico e adombrano, in una dizione volutamente enigmatica, liturgie mistiche e profonde meditazioni delle più tarde scuole buddhistiche.

Il libro ha interesse dunque più spirituale o linguistico che poetico. Ma è un notevole documento del grande fiorire che le scuole buddhistiche patrocinate da dinastie come quella dei Pāla (sec. VIII-XI) raggiunsero nel Bengala; anche dopo la riforma brahminica dei Sen (sec. XI) e il trionfo crescente dell'induismo le correnti buddhistiche sopravvissero specie nelle classi più basse.

D'ispirazione buddhistica sono lo Sūnyapurāṇa di Rāmāipaṇḍit e i poemi del Dharmaṅgala: i quali ultimi, probabilmente composti intorno al sec. Xl nella loro forma originaria, descrivono culti buddhistici non ancora spenti nei villaggi del Bengala occidentale.

Ma queste opere del più antico periodo della letteratura bengalica, che si chiude intorno al 1300, ci sono conservate in manoscritti recenti, traverso i quali non si può avere un'idea esatta della loro primitiva redazione, perché essi venivano inconsciamente adeguati dai copisti alla lingua parlata nel loro tempo. La prima opera giuntaci nella sua forma originale è il Kriṣṇakīrtan composto prima del 1400. È una raccolta di canti nei quali si descrivono gli amori di Kriṣṇa e Rādhā, amori simbolici dell'anima umana e del suo archetipo celeste; si chiama kīrtaṇa perché questi poemi venivano cantati in adunanze di devoti (bhakta). Ché la religione da cui questi poemi furono ispirati è quella della bhakti, cioè della dedizione amorosa del fedele al dio Kriṣṇa.

Il Kriṣṇakīrtan è l'opera più significativa del secondo dei periodi in cui possiamo dividere la letteratura indiana e che va dal 1300 al 1500; ma la più importante poeticamente è la raccolta dei poemi di Caṇḍīdās. La tradizione li tramanda sotto quest'unico nome: ma di fatto appartengono a due autori diversi. Il primo, seguace di scuole śivaite e tantriche (sezione rāgātmika), apparentemente cantando i suoi amori per una fanciulla di bassa classe, una lavandaia, di fatto descrive la tecnica delle più ardue pratiche yoga: l'altro poeta invece, o l'altra parte dei poemi, appartiene alla tradizione della scuola kriṣṇita ed esalta con finezza d'immagini ed armonia di verso gli amori di Kriṣṇa e Rādhā, continuando con popolaresca semplicità l'esempio di Jayadeva (secolo XII) e Vidyāpati (fine del sec. XIV e principio del XV); poesia delicata, tenue, idilliaca cui accresce fascino la grande musicalità del verso. Più tardi, durante il sec. XV, Kīrtivāsa conduceva a termine la sua traduzione in bengalico del Rāmāyaṇa, la quale più che una traduzione è un rifacimento che anche oggi gode grande popolarità.

Nel terzo periodo, che va approssimativamente dal 1500 al 1800, assistiamo a un grande fiorire delle scuole viṣṇuite; Caitanya (1485-1533) suscita ardori di fede e seguito da una folla di discepoli ebbri d'amore divino dà nuovo rigoglio di vita alla religione che minacciava di spegnersi. Egli aveva trovato terreno adatto in quell'emotività che è il carattere dominante del popolo bengalico: nei canti viṣṇuiti dei suoi predecessori inserisce gli abbandoni e i languori di una tenera passione umana; le ebbrezze delle estasi divine definisce con i termini dell'amore terreno. Iddio non è più il tremendo signore, Iśvara, ma lo svāmin, cioè lo sposo. Le più alte vette dell'esperienza religiosa sono raggiunte per mezzo del prema, che è dedizione dell'uomo individuo a Dio, amore come quello che lega l'amante all'amata. E quest'amore non è come quello regolato dalle leggi umane, cioè amore convenzionale (vaidhika), ma segue liberamente l'empito della passione (parakīya) e non fa conto delle norme sociali. Tale è l'amore di Kriṣṇa per Rādhā, donna legalmente già d'altri, e di Rādhā per Kriṣṇa.

Il fascino della personalità di Caitanya suscita grande entusiasmo nelle folle stanche del freddo convenzionalismo che i legisti come Raghunandana avevano codificato nei loro trattati. Caitanya emerge su tutti come una vivente incarnazione di Dio: e allora nasce la biografia: che ora sarà reverente esaltazione della sua figura come nel Caitanya-Bhāgavata, ora sarà opera di salda tessitura dogmatica e di superbi abbandoni lirici come nel Caitanya-Caritāmṛta di Kriṣṇadās Kavirāj, una delle opere più significative della letteratura dell'India medievale. E anche i suoi discepoli più celebri ebbero la loro biografia (Advaitaprakāśa, ecc.) mentre a dismisura crebbe la letteratura dei canti sacri (padāvalī) calcati sul modello delle simboliche effusioni d'amore fra Kriṣṇa e Rādhā: essa vanta fra i due migliori autori anche alcuni poeti musulmani. Un fatto apparentemente strano che non deve però sorprenderci in un paese ove persino le astrazioni dello yoga furono messe in versi da poeti musulmani come è nel Gorakṣavijaya di Sekh Phaijullah.

L'epica del Mahābhārata trovava in questo stesso periodo il suo interprete in Kāśirām che metteva in versi bengalici tutto il poema, adattandolo al gusto ed alla sensibilità popolare: e la terribile dea Caṇḍī, che già il Mārkaṇḍeyapurāṇa aveva cantato, ispira uno dei più celebri poemi della letteratura bengalica, vale a dire il Caṇḍīmaṅgal di Mukundarām Kavikaṅkan, il quale scopre e canta la partecipazione della dea alla vita del suo popolo.

Nell'ultimo periodo che comincia intorno al 1800 assistiamo al sorgere della prosa bengalica. Questa prosa si venne via via affermando attraverso le polemiche che accompagnarono e seguirono le ardite riforme della Brahmo-Samāj, la quale sotto l'impulso di Rammohan Roy e dei suoi seguaci, fra cui Akshay Kumār Dutt e Devendranāth Tagore, portò per la prima volta nell'India un vero sogno di redenzione dalle tradizioni meno simpatiche e più rigidamente ortodosse: oppure si ingentilì o si nobilitò nell'imitazione del romanzo occidentale. Il posto d'onore fra gli scrittori spetta a Bankim Chandra Chatterjee, il quale, pur derivando da modelli europei e specialmente inglesi (Walter Scott), ha tuttavia creato il romanzo indiano in India: celeberrima tra le sue opere l'Ānanda Māṭh, nel quale si racconta la rivolta dei Sannyāsi e si continua quel canto che comincia con le parole: bande mātaram, ed è diventato poi l'inno nazionale dei nazionalisti indiani.

I problemi sociali ispiravano insieme il dramma che senza allontanarsi molto dagli schemi o dai modelli tradizionali si ravviva per trattare questioni che la politica o la Brahmo-Samāj avevano messo in prima linea: così il Kulīnakulasarvasva di Rām Nārāyan Tarkaratna ed il Nīladarpan di Dinabandhu Mitra.

Ma questa letteratura, pur cercando di liberarsi dagli schemi tradizionali, era tuttavia scritta in una lingua molto elaborata nella quale predominano le parole sanscrite e sanscritiche. A Tagore spetta il merito di aver redento la letteratura bengalica da questa tirannia, del resto spiegabile perché le lettere erano restate sempre il privilegio dei brahmani o delle persone colte formatesi alle scuole dei pandit; Tagore torna al popolo, alle sue espressioni spontanee, alla sua lingua viva e zampillante sempre fresca dalle sue esperienze. Così la letteratura non era più il privilegio delle classi colte, ma ritornava in mezzo a quel popolo stesso dal quale il poeta aveva tratto la sua ispirazione ed i suoi ammaestramenti. In certe sue opere, come ad esempio in Lipikā, la lingua si sveltisce a tal punto da acquistare una nervosa concisione ed ha vivezza di plastica efficacia. Certo su Tagore poeta hanno anche influito modelli occidentali: ma tuttavia resta innegabile che le sue principali fonti d'ispirazione sono stati i sâdhu e i bâhûl (da vātula = vates), asceti itineranti i quali hanno espresso in canti spontanei, che sono forse una delle più vive ed umane ricchezze della letteratura indiana, l'ardore della loro fede e le sublimi visioni delle loro estasi. Il Tagore di Gītāñjali o di Sādhana ne è certo il più grande continuatore; per profondità di concezione e novità d'immagini e simbolismi sottili egli s'eleva letterariamente al disopra di Rām Prasāda (1718-1775) nel quale tuttavia il canto era sgorgato semplice ed immediato come una preghiera in quei rapimenti nei quali al devoto si palesava in tutta la sua tragica grandezza la gran madre Kālī.

Questo lirismo simbolico di Tagore toglie forse qualche volta immediatezza drammatica alle sue opere teatrali, le quali si muovono in un mondo d'idee, più che nella quotidiana realtà; l'azione avviene spesso in sfere lontane, così lontane che le figure sembrano perdere contorni ed acquistare la diafana apparenza di visioni o di sogni. Ogni cosa è trasfigurata dall'arte nobilissima di questi drammi, i quali ci trasportano in un mondo che non è il nostro, contesto di delicatezze, profondità, armonie, angelicazioni delle quali i poemi, che sono l'anima di queste opere, ci dànno il sentimento immediato, più che il dramma ce ne dica le vicende.

Se Tagore ha con la sua figura fatto passare in secondo piano molti altri grandi scrittori e poeti dell'India moderna, non può tuttavia far dimenticare il maggiore forse dei romanzieri bengalici da poco scomparso: Sarat Chandra Chatterjee, nel quale la vita irrompe con tutta la sua prepotenza e tragedia; contrasti e dubbî ed entusiasmi nella nuova generazione indiana vi compaiono con il loro pathos e la loro angosciosa complessità. Nato dal popolo, portato a vedere le cose concrete più che a sognare, Sarat Chandra ha creato il romanzo veramente indiano e due superbi capolavori come sono Śrīkaṇṭa e Devadāsi.

Bibl.: Sulla letteratura bengalica in generale: (Dinesh Chandra) Sen, History of Bengali language and Literature, Calcutta 1921, le cui informazioni e affermazioni richiedono tuttavia spesso attenta verifica. Sulla letteratura viṣṇuita: (Dinesh Chandra) Sen, The Vaisnava Literature of Mediaeval Bengal, Calcutta 1917; ottima l'introduzione di S. Chatterjee, The origin and development of the Bengali language and Literature, Calcutta 1926.

Un breve sommario che spesso tralascia nomi importanti può anche trovarsi in Winternitz, Geschichte der indischen Litteratur, III, Lipsia 1923, p. 592 segg. Su Caitanya e il suo pensiero v. le divesre opere di (Dinesh Chandra) Sen, specialmente Chaitanya and his Age, Calcutta 1922 e T. Melville Kennedy, The Chaitanya movement, Calcutta 1925.

Letteratura marāṭha. - La letteratura marāṭha è anch'essa soprattutto lirica e religiosa, poiché è costituita specialmente da canti consacrati a Viṭobā o Viṭṭhal, una forma locale di Visnu. Hanno anche questi canti il carattere della poesia bhākta, siccome i poeti vi effondono i lirici abbandoni della loro commossa devozione: i poeti passati alla storia hanno continuato un tipo di canti detto abhaṅg che fin da tempi antichi si recitava nelle cerimonie dedicate al culto di Viṭhobā.

La letteratura marāṭha comincia con due grandi nomi: Jñāneśvar e Nāmadev. Brahmano di nascita, il primo condusse a termine intorno al 1270 la Jñāneśvarī, un rifacimento in versi marāṭha della Bhagavadgītā, nella quale alla parafrasi del testo si inserisce il commento e gran parte è data alla mistica bhākta. Nāmadev invece, che fu di Jñāneśvar contemporaneo ed amico sebbene di casta inferiore, continua la tradizione degli abhaṅg. Nei suoi versi egli canta l'onnipresenza divina, l'immanenza di Dio in tutte le cose che non solo sono in lui, ma sono lui stesso nel suo infinito dispiegarsi e manifestarsi.

Questi poeti si succedono in lunga serie e come modulazione di uno stesso tema essi mai si stancano di cantare il divino ardore che li anima per Govinda; poesia dunque che potrebbe sembrare monotona perché gli argomenti sono sempre gli stessi, eppure non è perché la sincerità della fede dà a ciascun poema un suo carattere particolare, una sua individualità d'espressione e d'immagini come è sempre nella letteratura che nasce da una passione forte e sincera. Il devoto era quasi sempre poeta e la vita di questi poeti è quasi sempre vita di estasi e di abbandoni mistici: sicché opera di poesia era pure raccontare le loro estasi e i loro entusiasmi che furono infatti cantati da Mahīpati (sec. XVIII) in una lunga serie di opere fra cui conviene segnalare il Bhāktavijaya e il Bhāktalīlāmṛta che sono una collana delle figure più notevoli della mistica e della poesia marāṭha. Fra tutti i poeti eccelle Tukārām (1608-1649), il quale fu un vero menestrello di Dio e che la leggenda favoleggia sia stato rapito in cielo da Viṣṇu: la sua devozione si esprimeva quasi per necessità in poesia, sicché negli ultimi anni della sua vita pare non riuscisse a parlare altro che in versi. Versi tutti dedicati a cantar la gloria, lo splendore e la potenza di Viṣṇu e i rapimenti che la sua visione e la sua immaginata presenza provocavano nell'animo del poeta. Non c'è dubbio che con Tukārām la poesia marāṭha tocca i suoi fastigi.

Bibl.: Alcuni dei poeti Marāṭha sono oggi accessibili nelle accurate traduzioni dell'Abbott nella raccolta The poet-saints of Maharashtra, nella quale sono già usciti Tukārām (biografia di Mahīpati) Eknāth, Bhanudas, ecc.

Letteratura hindī. - Sotto questo nome si comprende una vasta letteratura fiorita nell'India del nord nel periodo medievale e scritta in due dialetti alquanto diversi, quello orientale e quello occidentale. Quest'ultimo, dopo il grande fiorire delle scuole bhākta, prese il sopravvento e si chiamò brajbhākhā dal paese di Braj, vicino a Mathurā, che la leggenda celebra come il luogo dove avvennero gli amori di Kriṣṇa e Rādhā e dalla cui contrada erano usciti i primi cantori kriṣṇaiti. Anche nella letteratura hindī predomina dunque il motivo religioso: in hindī non solo hanno cantato i devoti di Kriṣṇa, ma si sono espressi e si esprimono ancora le grandi figure dell'ascetismo indiano, i siddha, nei quali l'estasi e la violenza della passione religiosa si esprimono quasi sempre in nobilissimi versi. Gli autori di queste poesie mistiche non appartengono alle classi alte, ma alle più basse; alcuni anzi erano addirittura degl'intoccabili: ciò spiega quel vivissimo senso che li pervade dell'universalità dell'esperienza religiosa, e quella certezza che Dio è in tutti presente ed a tutti accessibile, purché l'animo nostro a lui s'apra con piena fiducia.

Altro carattere di questa letteratura è il tentativo di avvicinare l'islamismo all'induismo, traverso una forma purificata e meno convenzionale: la prossimità delle due religioni, che vivevano spesso in uno stato di continua ostilità, aveva determinato naturalmente negli spiriti più sensibili una tendenza a trascendere la forma, per trovare nell'intima e immediata comunione con Dio il superamento delle convenzioni rituali, o delle sottigliezze teologiche. Sotto la pluralità dei nomi si nasconde un solo Dio, che è appunto quello che bisogna sentire nel profondo dell'anima. Con diverse variazioni, questo è l'argomento principale cantato dai poeti della scuola di Kabīr e dei suoi imitatori.

Kabīr (sec. XV), musulmano di nascita, tessitore di professione, canta appunto Iddio nella sua forma essenziale, oltre quegli attributi e qualificazioni che diventano argomento di disputa per gli uomini: Iddio è sentito, non discusso, la teologia ripudiata, la sincerità e veemenza della fede si traducono in immagini nuove e ispirano uno stile personale e possente.

Dal contrasto fra bigotteria musulmana e cerimonialismo indiano germinavano invece i motivi ideali che guidavano la vita e l'opera di Nānāk (1469-1538), il quale tentò di avvicinare le due religioni insistendo su quegli elementi che affermassero l'immediata comunione dell'uomo con Dio: condannò l'idolatria, ripudiò il sistema delle caste, ma accettò la trinità hindu: sicché alla sua formazione spirituale cooperarono la religione hindu in cui era nato e quella musulmana. L'opera sua consiste di canti da lui recitati in pubblico per edificazione della gente e inseriti poi in quella raccolta che si chiama Grantha e che costituisce la bibbia dei Sikh: poesia semplice, senza artifici, di una certa primitiva robustezza scritta in brajbhākhā con molto influsso del dialetto pañjabī. Influsso rājasthānī è invece sentito nei canti di Dādu (morto nel 1603) il quale continua l'ispirazione di Kabīr; con minor vigoria, ma con grande umana tenerezza. Il Dio senza attributi (che dà appunto il nome a questa scuola detta Nirguṇa), è cantato qui con profonda commozione che qualche volta ricorda quella delle sette bhākta.

La tradizione puramente bhākta, espressione della scuola kriṣṇaita, ispira una ricca letteratura, la quale effonde nella musicalità del verso i mistici ardori di una folla di devoti esultanti e giubilanti sui simbolici amori di Kriṣṇa e Rādhā. Mirabhaī (1ª parte del sec. XV), figlia e moglie di principi, porta in questa poesia tutto il suo femminile abbandono mentre il cieco cantore Sūrdās non solo tradusse il Bhāgavatapurāṇa nella lingua del popolo, ma compose una raccolta di inni e canti, il Sūr Sāgar, che suscitò grande entusiasmo nelle radunanze dei devoti raccolti a cantare l'amore celeste. In mezzo a queste comunità sorrette da una stessa intensissima fede nacquero grandi figure che le folle adoravano come incarnazioni divine: la leggenda sorse intorno a queste persone che in lunga successione di maestri e discepoli sembravano quasi tramandarsi la parola divina. Nacque cosl la Bhāktamālā, una raccolta di leggende e biografie leggendarie la cui più celebre redazione è quella di Nabhadās scritta anch'essa in brajbhākhā e destinata ad avere, in successivi rifacimenti e adattamenti in altri dialetti, grande popolarità in tutta l'India.

All'infuori di questa poesia mistica e bhākta conviene ricordare la Padumavatī del musulmano Mālik Muhammad Jaisī (metà del XVI sec.), una specie di romanzo a fondo storico e con molti elementi leggendarî e allegorici.

In hindī orientale è invece scritto il più popolare poema della letteratura indiana medievale, vale a dire il Rām-carit-mānas cioè "il lago delle imprese di Rāma" conosciuto anche come il Tulsīkṝt-Rāmāyana, o semplicemente il Tulsī Rāmāyan, dal nome del suo autore Tulsī (Tulasī) Dās (1532-1624). Non è una traduzione del poema di Vālmiki, ma un nuovo e originale rifacimento, basato su molte fonti e nel quale l'elemento epico vero e proprio cede il posto al lirismo di una fede profonda che in Rāma vede non più l'eroe, ma il padre soccorrevole e amoroso. La musicalità dei ritmi, l'afflato mistico che lo pervade, la naturalezza e sincerità delle scene descritte, nelle quali Tulsī Dās dimentica gli schemi e le regole della retorica che vincolano i poemi sanscritici per usare solo la libera ispirazione della sua fantasia, hanno fatto del Rāmcarit-mānas il poema più popolare e letto di tutta l'India. Il poema è scritto in caupāī alternato con dohā, uno stile la cui invenzione è attribuita dalla tradizione a Kabīr.

Sul dialetto hindī occidentale è basato l'hindōstānī parlato intorno a Delhi e poco alla volta arricchitosi di elementi persiani e turchi: nato originariamente fra il popolo o i soldati (urdū deriva dal turco ordu "campo") si diffuse lentamente dividendosi poi in due correnti distinte: l'una conosciuta come hindōstānī o urdū nella quale l'elemento persiano è prevalente e si adoperano i caratteri persiani: l'altra detta hindī e adottata dagl'hindu, che si serve di caratteri detti devanagari. L'hindōstānī ha raggiunto ai nostri giorni grande nobiltà e dignità di stile per opera di Mohammed Jqbal il quale pur imitando i modelli arabi e persiani ha creato una poesia squisita nella forma e di delicata ispirazione lirica.

Bibl.: Oltre il cenno nell'opera già citata di M. Winternitz, v. Keay, A history of Hindi-literature, Calcutta 1933. I canti di Kābīr sono stati tradotti da Tagore (edizione italiana Laterza). Sui poeti della scuola Nirguna Kabir, ecc., veggasi Basthwal, The Nirguna School of Hindi Poetry, Benares 1937. La migliore traduzione di Tulsī Dās è quella di F. S. Growse, Allahabad 1922; J. M. Macfie, The Ramayan of Tulsi Das, Edimburgo 1930.

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