Induismo

Enciclopedia delle scienze sociali (1994)

Induismo

Jan C. Heesterman

Introduzione

'Induismo' è un termine moderno e per di più di origine straniera (britannica). Esso deriva dal nome del fiume Indo che gli antichi Persiani attribuivano alla satrapia che occupava la parte nordoccidentale del subcontinente dell'Asia meridionale. Esteso poi all'intero subcontinente, tale nome rimase in uso nel Medio Oriente (nella forma araba al-Hind) per diffondersi poi in Occidente come designazione geografica ed etnografica priva di uno specifico significato religioso. All'inizio del XIX secolo il termine induismo servì a designare il complesso di credenze e pratiche religiose (o presunte tali) della vasta massa di popolazione che non risultava né musulmana né appartenente ad altre religioni. Decisivo fu l'uso ufficiale del termine a partire dagli anni trenta del secolo scorso. Per scopi amministrativi e giurisdizionali il governo angloindiano - come tutte le moderne forme burocratiche di governo - aveva bisogno di una griglia di categorie completa ed esauriente che consentisse alle autorità il controllo burocratico della società. In questo modo l'induismo divenne una religione a sé stante, distinta e indipendente da altre religioni.

Prontamente accettato dagli Indiani come concetto unitario in grado di evidenziare l'unità religiosa, culturale e in definitiva nazionale del paese, l'induismo venne riconosciuto verso la fine dell'Ottocento come una religione universale, e come tale fece il suo ingresso sulla scena internazionale allora appena definita. Fu in occasione dell'Esposizione mondiale di Chicago (1893) e del suo 'Parlamento delle religioni' che l'induismo, eloquentemente rappresentato dal pensatore, organizzatore e propagandista religioso indiano Vivekānanda, ottenne il riconoscimento internazionale come religione universale.

Definizione dell'induismo

I tentativi di definire l'induismo si arenano di fronte alla sua duplice natura: da un lato l'induismo si propone come un sistema religioso distinto e unitario, dall'altro si configura come una varietà sconcertante di pratiche e usanze che per mancanza di una spiegazione migliore vengono etichettate come religiose (ossia irriducibili). Ovviamente sono proprio queste pratiche e usanze a rivestire interesse per la burocrazia e per l'amministrazione della legge e dell'ordine, ed è a questo interesse che si devono le importanti raccolte di dati di questo tipo nei dizionari geografici e nelle pubblicazioni relative ai censimenti decennali (a partire dal 1881). Per questo motivo l'induismo viene descritto nella maggior parte dei casi come un conglomerato eterogeneo se non incoerente di dottrine scritturali, credenze non scritturali, culti, pratiche e modi di vita. A complicare ulteriormente il problema della definizione concorrono alcune norme legislative in base alle quali "anche dopo essersi convertito al cristianesimo un hindu resta tale sul piano sia sociale che spirituale" (v. Derrett, 1958, p. 49). Sebbene affermazioni di questo tipo presuppongano l'esistenza di una certa unità interna, è chiaro tuttavia che i confini esterni dell'induismo sono nel migliore dei casi estremamente permeabili e dilatabili. Più problematico invece è stabilire su cosa si fondi tale unità interna. A prescindere dalla varietà di usanze e pratiche locali o regionali (in sé non sorprendente), le differenze cultuali e dottrinali tra le varie 'tradizioni' o sette e le loro scritture sono tali che è pressoché impossibile ridurle all'unità di fondo che ci si attende in una religione che si propone come entità distinta e separata.

Dato l'estremo polimorfismo che caratterizza l'induismo, la tolleranza viene considerata una delle sue principali caratteristiche. Tuttavia è stato osservato che è forse inappropriato definire 'tolleranza' la tendenza ampiamente attestata a integrare elementi di altre tradizioni o sette e di religioni estranee relegandole a un livello inferiore, meno avanzato rispetto alla verità suprema propugnata dalla propria tradizione religiosa. Così, ad esempio, i fedeli del dio Viṣṇu considerano Śiva un suo devoto e servitore, e viceversa (v. Hacker, 1978, pp. 480 s.). Paul Hacker sviluppa il concetto di 'inclusivismo' per definire l'atteggiamento tipicamente indiano nei confronti delle altre tradizioni religiose; lo stesso concetto viene ripreso da Gerhard Oberhammer (v., 1983, pp. 11-29), per il quale l'inclusivismo rappresenta un'apertura essenziale che mira a sviluppare e a rielaborare ulteriormente la formulazione della verità religiosa trascendente (ibid., pp. 93-113). È da notare l'esistenza di una forma di 'inclusivismo' anche in direzione opposta: i principi rajput del XVII e del XVIII secolo, ad esempio, tendevano a considerare il proprio signore, il sovrano dell'impero Moghūl, come una manifestazione dell'ideale re divino Rāma, a sua volta incarnazione (avatāra) del dio Viṣṇu (v. Ziegler, 1978, p. 235; v. Dumont, A structural..., 1959, pp. 82-86).

Esiste tuttavia un criterio classico per stabilire l'unità dell'induismo o almeno per fissare un confine formale esterno: il riconoscimento del Veda, noto anche come śruti ('ascolto', 'audizione' del verbo trascendente del Veda), quale unica fonte valida della verità suprema. La 'tradizione' (smṛti, 'memoria', 'ricordanza') si fonda sulla śruti oppure è in via di principio contenuta in essa.

Tuttavia il contenuto del Veda, che si occupa principalmente del rituale sacro śrauta (aggettivo dal sostantivo śruti), resta in larga misura ignoto alla popolazione e non trova posto nella pratica religiosa induista, fatta eccezione per alcune comunità di brahmani specializzati (come i Nambudiri del Kerala, o i Diksitar del tempio di Cidambaram), che conservano il rituale vedico accanto al culto e alle cerimonie religiose induiste e separato da essi. Come ha affermato Louis Renou (v., 1965), il Veda si può paragonare a un idolo dinanzi al quale ci si leva il cappello passando, senza prestargli ulteriore attenzione. Non è chiaro, quindi, in che modo il riconoscimento puramente nominale del Veda possa fungere da elemento di discrimine che distingue l'induismo dalle altre religioni. Il richiamo al Veda sembra esser stato diretto principalmente contro i seguaci della dottrina materialista (Cārvāka o Lokāyata), nonché contro i buddhisti e i jainisti che rigettavano esplicitamente il Veda. I seguaci di queste eterodossie sono paragonati a figli degeneri che rinnegano i propri genitori: essi appartengono ancora alla famiglia, pur avendo commesso l'errore di abbandonarla.

Di fatto il criterio vedico, anche nella sua forma puramente nominale, perde ogni valore di fronte alla pluralità e al richiamo delle numerose tradizioni che non attribuiscono particolare importanza al Veda, senza per questo collocarsi al di fuori del vedismo. Il Veda non stabilisce alcun confine esterno rigido e stabile. All'interno della variegata compagine dell'induismo si è posto inoltre il problema del carattere autoritativo delle diverse tradizioni scritturali. Il filosofo indiano del IX secolo Jayanta ha espresso con una metafora quella che appare una convinzione diffusa: così come le acque del Gange confluiscono nell'oceano, allo stesso modo gli insegnamenti delle varie tradizioni (āgama) e 'vie' (mārga) conducono al bene supremo (śreya). Vi sono naturalmente alcune condizioni: gli insegnamenti devono essere riconosciuti come validi (il che non significa osservati rigorosamente) da un gran numero di persone; devono essere accettati da molti dotti (śiṣṭa); non devono essere invenzioni recenti e non devono essere dettati dall'avidità, dall'odio e da analoghi sentimenti terreni; infine, non devono causare scandalo tra la gente (v. Hacker, 1978, p. 481). Si tratta in larga misura di condizioni puramente pragmatiche, come ci si aspetterebbe da consiglieri di Stato brahmani. Il criterio decisivo, comunque, è l'assenza di motivi terreni e l'interesse esclusivo per il bene supremo.

Queste condizioni non stabiliscono confini netti, anzi evitano di farlo. Il discrimine rilevante non è tra l'induismo e altre religioni, come implicherebbe l'idea di una religione distinta e separata, o tra āgama e mārga ortodossi ed eterodossi, bensì tra un ordine terreno permeato dalla differenziazione e dal conflitto da un lato, e l'unità trascendente della verità suprema dall'altro. Più che da una qualsiasi definizione, l'essenza dell'induismo è espressa da questa distinzione fondamentale. Qui ci imbattiamo nell'istituzione tipicamente indiana della rinuncia al mondo. L'induismo è caratterizzato dalla giustapposizione di due sfere incompatibili: l'ordine terreno della società e la sfera ultraterrena ed extrasociale dell'asceta o 'rinunziatario', che abbandona il mondo per cercare la verità suprema e redentrice. Riprendendo la felice espressione di Louis Dumont, si può affermare che "il segreto dell'induismo è il dialogo tra l'uomo-nel-mondo e l'asceta" (v. Dumont, Le renoncement..., 1959).

L'eredità del vedismo

Per vedismo si intende il sistema razionale e altamente speculativo dei riti sacrificali śrauta, quale è codificato nei testi in prosa tardo vedici, che assieme al Ṛgveda - che contiene gli inni destinati ad accompagnare le azioni cerimoniali del sacerdote - costituisce la śruti (rivelazione). Sebbene il Veda sia considerato il canone che incarna la verità trascendente e quindi il criterio dell'ortodossia, esso non costituisce una religione globale ma solo un sistema di riti. Le complicate prescrizioni dei testi vedici sono rilevanti solo per l'esecuzione dei sacrifici del tipo śrauta, ma anche coloro che riconoscono l'autorità trascendente non sono tenuti a eseguire tali sacrifici. La pratica effettiva dei riti śrauta è lasciata alla decisione individuale. Il vedismo non è un relitto dell'antica religione indo-aria (sebbene abbia conservato molti elementi di essa, come attestano le analogie tra il Veda e l'Avesta che sembrano indicare una fonte comune anteriore a entrambi), ma un nuovo, specifico sviluppo che si distacca dal suo contesto indiano, 'hindu', ossia da "un induismo che sebbene a noi noto per inferenza, deve essere esistito in epoca vedica e probabilmente assai prima" (v. Renou, 1953, p. 3). Sotto questo aspetto il vedismo e il suo canone ritualistico sono analoghi alle tradizioni per altri versi diverse del buddhismo e del jainismo. In realtà il vedismo all'origine costituì una rottura altrettanto innovativa quanto queste eterodossie, e probabilmente risale grosso modo alla stessa epoca (verso la metà del primo millennio a.C.).

Al centro del vedismo vi è l'istituzione del sacrificio (yajña). Il ritualismo tardo vedico, comunque, ha introdotto considerevoli cambiamenti nei riti sacrificali. In origine impresa collettiva mirata a ottenere e a redistribuire periodicamente i 'beni della vita' e della morte (in forma diretta e tangibile: cibo e bestiame, onore e posizione sociale come compensazioni per la perdita della vita e della proprietà), tale rituale era permeato di tensione e conflittualità, simbolizzate in diverse forme di competizione (corse di carri, gioco ai dadi, tiro alla fune e, soprattutto, tenzoni verbali e indovinelli cosmici). In breve, il sacrificio costituiva il centro sia sacro che socioeconomico in un mondo fortemente competitivo, dominato dalla scarsità delle risorse. Il rito stesso era una competizione dall'esito aperto ("ai sacrifici di chi gli dei risponderanno, ai sacrifici di chi non risponderanno?" si legge in un testo). Chi aveva dato e perso tutto nel sacrificio doveva cimentarsi e recuperare al turno successivo partecipando come concorrente alle reciproche gare sacrificali organizzate dagli altri. Il sacrificio assumeva quindi il carattere di una crisi ciclica imperniata sulla redistribuzione dei 'beni della vita'. Ciò indica anche che il mondo vedico era in via di principio un mondo instabile, periodicamente destabilizzato nel suo centro focale, l'arena sacrificale.Fu a questo punto che intervenne la reazione dei ritualisti vedici. Per porre fine alla insicurezza destabilizzante della cerimonia sacrificale, essi esclusero la figura del rivale, abolendo così la competizione periodica (v. Heesterman, 1985, pp. 95-107). Restava dunque un singolo sacrificatore, che assieme ai sacerdoti (gli ospiti e rivali di un tempo) diventava l'unico e indiscusso signore dell'arena sacrificale. Il ruolo dei partecipanti al rito nel determinare il corso e l'esito della cerimonia fu rimpiazzato da rigide regole ritualistiche. In altri termini, il sacrificio si trasformò in ritualismo.

L'innovazione introdotta dai ritualisti vedici fu di grande importanza. L'esclusione di partners rivali e la conseguente individualizzazione del sacrificio allontanarono quest'ultimo dalla vita sociale collocandolo in un mondo a parte, trascendente la società terrena. Rimosso dalla sua posizione chiave di collegamento tra vita e morte, il sacrificio era ora al di sopra delle vicende terrene. Da ciò ebbe origine la successiva teoria secondo cui la śruti ritualistica è eterna e non umana (nitya, apauruṣeya). In questo modo si creò una frattura tra sacro e trascendente. La sacralità del nesso vita-morte venne relegata alla sfera terrena e perse il suo valore supremo e legittimante in favore della trascendenza. Questa trovò la sua formulazione nel verbo ultraterreno della śruti vedica, che prescriveva un sacrificio non più legato alla società reale (allo stesso modo le eterodossie trovarono la formulazione della trascendenza nella parola del Buddha o dei Jina e i materialisti nella struttura meccanicistica dell'universo). Colui che compie i sacrifici śrauta prende temporaneamente congedo dalla società per sottomettersi alla norma trascendente del ritualismo, prefigurando così l'asceta o 'rinunziatario'.Il vedismo però non si fermava qui. La totalità dell'universo (rielaborato ritualisticamente) veniva ricompresa nel Sé del sacrificatore (ātman), identificato con il brahman, l'occulta forza coesiva che tiene insieme l'universo. Il ritualismo vedico condusse direttamente alla dottrina delle Upaniṣad più antiche, secondo cui l'uomo trova la salvazione allorché comprende la verità redentrice dell'intima connessione e unità del cosmo (il brahman) nel proprio Sé, al di là della società dominata dal conflitto. Per far ciò egli deve abbandonare la società e rinunciare a tutte le relazioni terrene.

L'elemento essenziale del vedismo non è il ritualismo in sé, ma la frattura che esso operò tra il conflitto e il flusso dinamico che caratterizzano il mondo terreno da un lato e l'unità statica del trascendente dall'altro. Ciò spiega anche perché la suprema verità redentrice non può che essere considerata unica, laddove la diversità delle 'vie' che conducono a essa è in ultimo irrilevante. L'originalità del vedismo risiede nel fatto che l'uomo può accedere alla trascendenza grazie ai propri sforzi, sottomettendosi a una rigorosa disciplina ultramondana come 'sacrificatore' o come 'rinunziatario'. Il vedismo, insomma, istituì il modello di una 'duplice via' che chiama l'uomo a unire in se stesso e da se stesso le esigenze tra loro incompatibili del mondo e della trascendenza. In questo senso l'induismo è effettivamente, come afferma Louis Dumont, un 'dialogo' tra il mondo e la rinunzia ascetica. Va aggiunto peraltro che tale dialogo si risolve in una contraddizione insanabile tra le due sfere: l'evoluzione dell'induismo è la storia dei vari modi in cui è stata affrontata questa contraddizione. Nell'apertura di tale 'dialogo' improntato alla contraddizione, che in ultima istanza non può escludere le eterodossie o addirittura altre religioni, risiedono la forza dinamica e l'unità dell'induismo.

I testi canonici

Prima di esaminare i testi o gruppi di testi principali dell'induismo, è opportuno premettere alcune osservazioni. In primo luogo la varietà di credenze e pratiche religiose comporta l'esistenza di una letteratura altrettanto multiforme, senza che vi sia un testo o un gruppo di testi che contengano i principî fondamentali dell'induismo. Esistono invece diversi gruppi o categorie di testi, per lo più anonimi, che di norma si proclamano frutto di rivelazione divina. Essi sono stati rielaborati e integrati nel corso di lunghi periodi di tempo, durante i quali si sono influenzati reciprocamente e hanno mutuato l'uno dall'altro diversi elementi. In secondo luogo ciò rende praticamente impossibile stabilire una cronologia precisa: le date attribuite ai testi coprono periodi di uno o più secoli. Poiché si ritiene che nelle Scritture sia contenuta la verità ultima e intemporale, la tradizione non attribuisce particolare importanza all'epoca e al luogo d'origine dei testi.Le Scritture più importanti - almeno per quanto riguarda l'autorità assoluta a esse attribuita - sono i quattro Veda che formano il corpus definitivo della śruti. La struttura interna di tale corpus segue la divisione in quattro gruppi di sacerdoti che partecipano ai riti śrauta, ognuno dei quali ha il suo proprio Veda (Ṛgveda, Yajurveda, Sāmaveda, Atharvaveda). A questa struttura quadripartita si aggiunge una diversa stratificazione che percorre tutti e quattro i Veda: le raccolte di inni (Sāṃhitā), i testi in prosa (Brāhmaṇa), gli Āraṇyaka o 'libri delle selve' (che contengono riti speciali, in parte funebri) e le Upaniṣad antiche. Dal punto di vista formale i Sūtra, collezioni di brevissimi aforismi relativi alle norme del rituale inseriti nei quattro Veda, non rientrano nell'ambito della śruti, o rivelazione, ma in quello della sṃrti, o tradizione. Come abbiamo già accennato il Veda è lontano dalla vita religiosa quotidiana. Tuttavia attraverso il rituale domestico (gṛhya), che segue il modello del sistema śrauta, la sapienza vedica entra nella pratica religiosa quotidiana, specialmente nei riti mattutini e serali e nelle cerimonie che accompagnano i momenti fondamentali della vita (v. Smith, 1985).

Un'importanza più diretta per le pratiche e le credenze religiose nonché per le nozioni e gli ideali che guidano la vita sociale hanno i poemi epici, i Purāṇa e la letteratura del dharma. Nel loro insieme essi costituiscono la smṛti che, per quanto autoritativa, è nettamente distinta dalla śruti vedica. Vi sono poi i testi tantrici, nonché una ricca e varia letteratura delle diverse sette, e infine i sei sistemi filosofici, i cosiddetti darśana o 'visioni'. L'elemento che accomuna la smṛti e le altre categorie di scritture è l'orientamento soteriologico: tutti questi testi hanno lo scopo di indicare la via alla salvezza attraverso la verità unica e suprema, la sola che porta alla redenzione.

Dei due poemi epici il Mahābhārata è di gran lunga il più esteso (raggiunge i 100.000 distici). Basato su composizioni di bardi risalenti all'epoca vedica, il poema ebbe la sua prima stesura probabilmente nel III secolo a.C. Nei cinque secoli successivi l'opera venne costantemente rimaneggiata e integrata con altre parti narrative nonché con insegnamenti filosofici e religiosi (specialmente nel XII e XIII dei diciotto libri che la compongono). Il nucleo principale del poema narra la lotta tra i due gruppi di cugini Kuruidi e Panduidi. Il Mahābhārata contiene inoltre la Bhagavadgītā ('canto del beato'), inserita nel VI libro.Il secondo poema, il Rāmāyaṇa, più breve e omogeneo (per estensione è circa un quarto del Mahābhārata), pressappoco contemporaneo del primo, narra la vicenda del re Rāma (in seguito deificato) e della sua ricerca della moglie Sītā, rapita dal demone Rāvaṇa. Come re ideale di origine divina e manifestazione (avatāra) del dio Viṣṇu, Rāma divenne oggetto di culto. Comune ai due poemi è lo schema narrativo basato sui motivi del conflitto, della perdita, dell'esilio nella foresta, del recupero, della rivincita e del trionfo finale, che ricorda il ciclo pre-śrauta della competizione sacrificale e i suoi pericoli.

I Purāṇa (il termine in sanscrito significa 'antico') tradizionalmente diciotto di numero, e simili ai poemi epici (soprattutto al Mahābhārata) per lingua e contenuti, sono raccolte enciclopediche di materiali tradizionali concernenti la cosmogonia, la cosmologia, la mitologia, le genealogie dinastiche nonché la legge e le usanze. Nella forma in cui ci sono pervenuti i Purāṇa risalgono alla seconda metà del primo millennio d.C. In essi vediamo inoltre emergere in primo piano le grandi divinità dell'induismo, Viṣṇu e Śiva.

L'estesa letteratura del dharma, che comprende brevi sūtra appartenenti alle scuole tardo vediche del ritualismo (specialmente quelle dello Yajurveda) seguiti dai Dharmaśāstra, commentari e digesti, ha come oggetto le norme brahmaniche della retta condotta (anche se viene esplicitamente riconosciuto il valore normativo delle consuetudini locali). Sebbene le norme giuridiche in senso stretto siano solo uno degli svariati temi trattati dalla letteratura del dharma, allo sviluppo e all'influenza di quest'ultima contribuirono notevolmente le corti reali e i loro consiglieri e giureconsulti brahmani, sui quali fecero affidamento anche i governanti musulmani e i loro successori britannici.

La speculazione teologica e la sua elaborazione ritualistica sull'unità divina, sul macrocosmo e sul microcosmo costituito dal corpo umano costituiscono l'oggetto dei testi tantrici. In questo senso essi rappresentano una controparte del pensiero ritualistico tardo vedico, dal quale mutuano termini e concetti usandoli peraltro in un contesto differente. A seconda della divinità centrale del testo, che è anche fonte dei suoi insegnamenti, le scritture tantriche sono classificate come Saṃhitā viṣṇuite, Āgama śivaite o Tantra. Il periodo di composizione di tali testi coincide pressappoco con quello dei Purāṇa. Nonostante il loro carattere esoterico, i testi tantrici sembrano più vicini delle altre scritture alla realtà dell'esperienza religiosa induista.

All'altro estremo dello spettro vi sono i sistemi scolastici di speculazione filosofica, noti come i sei Darśana ortodossi. I Darśana sono ordinati in tre coppie: il Sāṅkhya - un sistema dualistico che postula una pluralità di monadi individuali (puruṣa) e una singola sostanza dinamica (prakṛṭi) che si manifesta periodicamente - e lo Yoga, una sistematizzazione di estese tecniche di concentrazione psicosomatiche mirate alla liberazione del proprio Sé; il Nyāya ('norma', 'regola') - una dottrina soteriologica basata sull'epistemologia in cui ha un organico e compiuto sviluppo la parte logica - e il Vayśeṣika, sistema che comprende una filosofia atomistica della natura e una teoria delle categorie logiche; la Mīmāṃsā ('ricerca', 'indagine') - un'analisi sistematica delle regole del rituale come modello del dharma, collegata alla filosofia del linguaggio - e il Vedānta ('fine del Veda'), elaborazione sistematica degli insegnamenti delle Upaniṣad.Una prima sistematizzazione (che ebbe luogo in date incerte entro la metà del primo millennio d.C.), si ebbe con i sūtra fondamentali dei Darśana, accompagnati da commentari e subcommentari successivi. Specialmente la scuola monistica del Vedānta ha prodotto una letteratura particolarmente imponente. La forma classica dei Darśana è già pienamente sviluppata verso l'800 d.C.In generale, il corpus scritturale sanscrito dell'induismo è già interamente formato negli ultimi secoli del primo millennio d.C.

La sanscritizzazione

In relazione ai testi canonici sanscriti si parla comunemente di 'grande tradizione' - quella dei brahmani colti delle città, dei templi o delle corti - contrapposta alle 'piccole tradizioni' della massa della popolazione, per lo più rurale, che viveva in piccole comunità e usava i dialetti e le relative forme letterarie. Questo modello presuppone l'esistenza di un processo graduale attraverso il quale la 'piccola tradizione' si trasforma in 'grande tradizione', oppure viene integrata o rimpiazzata da quest'ultima (su tale teoria in generale v. Redfield, 1955; sull'India in particolare v. Raghavan, 1955, e Singer, 1959). Nel caso dell'India e dell'induismo questo processo è noto come 'sanscritizzazione' (v. Srinivas, 1952). Il modello basato sulla dicotomia grande tradizione - piccola tradizione, però, si limita a porre il problema in termini sociologici senza peraltro risolverlo. Anche se lo si intende come un continuum, tale modello non può spiegare la costante compenetrazione a tutti i livelli e la sconcertante ambivalenza che ne deriva (v. Shulman, 1984, pp. 104-109 e 138-141).

Più che di un processo, si tratta di una struttura contrassegnata da una ambivalenza e da una tensione crescenti.Il divario tra la norma scritturale e la realtà sociale, o tra la cultura letteraria 'alta' e la cultura popolare, è un fenomeno generalizzato. Nel caso dell'India, però, tale divario è particolarmente acuito dalla incompatibilità che sussiste in via di principio tra l'ordine terreno della società reale e la trascendenza della rinunzia ascetica. È quest'ultima a costituire la verità assoluta e può quindi aspirare alla legittimazione. In questa situazione la lingua sanscrita ('perfetta') è segno di autorità ultraterrena e di validità universale, e ciò induce a postulare una netta dicotomia tra cultura sanscrita e cultura popolare. Nel tentativo di superare tale dicotomia si è sostenuto che i due livelli si basano su un medesimo schema relazionale e sono pertanto omogenei (v. Dumont e Pocock, 1957); ciò tuttavia non elimina la loro sostanziale diversità.

Esiste effettivamente una differenza di fondo, ma non si tratta di una differenza di livelli socioculturali. Mentre le 'piccole tradizioni' sono coltivate nelle 'piccole comunità', non esiste alcuna grande comunità in cui vivere la 'grande tradizione'. Anche il brahmano, il portatore della grande tradizione, vive nelle piccole comunità. In linea di principio la 'grande tradizione' sanscrita non può essere 'vissuta'. Poiché il suo orientamento ascetico comporta una rottura con tutte le relazioni su cui si basa la società terrena, essa rifugge dal riprodurre, sia pure a un livello superiore, la rete di relazioni su cui si basa la società reale. Esiste pertanto una tensione insanabile tra la 'grande' e la 'piccola' tradizione.

A seconda della situazione tale tensione può assumere la forma di una opposizione e di un conflitto tra livelli socioculturali diversi, tra élite colta e 'popolo' locale. Fondamentalmente, però, essa pervade tutti i livelli, ed è altrettanto rilevante per la grande tradizione sanscrita - che deve tener conto della propria controparte e deve per così dire 'riciclarla' - quanto lo è per la 'piccola tradizione' e la sua comunità - che aspirano all'autorità trascendente offerta dalle scritture.In sintesi, siamo ancora una volta in presenza del dialogo tra 'mondo' e rinunzia ascetica.

Il dharma

La nozione centrale dell'induismo è quella di dharma. Derivato dalla radice dhṛ, 'sostenere', 'mantenere', il termine può essere reso con 'ordine universale'. Applicato alla vita umana, esso designa più propriamente la giusta condotta in armonia con l'ordine universale e differenziata a seconda della propria condizione di vita. Così ad esempio è dovere del guerriero kṣatriya combattere e uccidere, come afferma esplicitamente un famoso passaggio della Bhagavadgītā. Analogamente, la condotta appropriata differisce per ciascuno dei quattro classici āśrama o stadi di vita: quello di brahmacārin, ossia di allievo che apprende il Veda sotto la guida di un maestro o guru; quello di gṛhastha, ossia di capofamiglia e padrone di casa; quello di vānaprastha, o di eremita che vive nelle foreste, e infine la condizione di saṃnyāsin, o 'rinunziatario'. I testi parlano così di varṇāśramadharma, condotta appropriata al proprio varṇa ('casta') e al proprio stadio di vita. Si ritiene inoltre che il dharma si deteriori nel corso delle quattro successive ere cosmiche, e che sia diverso in ogni era, incentrandosi di volta in volta sull'austerità, sulla conoscenza, sul sacrificio e sul dono (v. Lingat, 1962). Così, sebbene il concetto di dharma faccia pensare a un ordine unitario del mondo, esso in realtà si scinde in norme di condotta distinte. Ciò è tanto più rilevante in quanto il dharma, per essere universale, deve comprendere sia la vita terrena che la vita ascetica. Si è spesso affermato, e ciò non sorprende, che il dharma è elusivo, quasi inafferrabile. "Il dharma e l'adharma [il suo opposto] non vanno in giro dicendo: eccoci!" (v. Bühler, 1965, p. 71).

Il carattere problematico della nozione di dharma emerge quando si considerano le sue fonti riconosciute. In primo luogo vi è la śruti vedica, che si incentra sui riti sacrificali trascendenti e quindi non offre alcuna guida per le faccende terrene; si ha poi la tradizione scritturale o smṛti, e infine l'esempio della vita e della condotta (ācāra) dei saggi e dei giusti (sat- o śiṣṭācāra). Poiché il sat o śiṣṭa è colui che possiede una conoscenza approfondita della śruti vedica, il cerchio si chiude e quest'ultima si riconferma ancora una volta come fonte primaria del dharma. Questo legame tuttavia è chiaramente un costrutto teorico, e i commentatori devono ammettere che il dharma scritturale e le usanze consolidate della comunità possono entrare in conflitto. Si afferma addirittura che si dovrebbe evitare di dare scandalo aderendo a norme del dharma contrarie alla consuetudine della propria comunità, e si consiglia al sovrano di rispettare le usanze delle comunità locali anche quando queste contrastano con i precetti del dharma (v. Lingat, 1967, pp. 218-229).

In pratica il legame tra dharma scritturale e sadācāra attraverso il valore trascendentale del disinteresse per la sfera terrena consente e legittima il polimorfismo altrimenti sconcertante che caratterizza l'induismo in generale. Tale polimorfismo però non va inteso solo come espressione di una flessibilità opportunistica: si tratta piuttosto di quella stessa tensione dinamica e insanabile tra l'impulso trascendente e le esigenze della realtà sociale che, come abbiamo visto, è al centro della 'sanscritizzazione' (v. cap. 5). Il dharma scritturale, che invoca l'autorità trascendente della śruti, non viene sminuito né tanto meno annullato da usanze divergenti. La sua validità trascende l'ordine terreno, e in questo senso si tratta di una legge, "proposta ma non imposta" (v. Lingat, 1962).

Mentre il dharma riguarda essenzialmente la condotta motivata in senso religioso che tende verso il trascendente, gli interessi puramente terreni rientrano nella sfera dell'artha (l'utile, la ricchezza, il potere) e del kāma (l'amore sul piano sia sessuale che affettivo), ognuno con le proprie Scritture teoretiche (śāstra). Viene riconosciuto esplicitamente, tuttavia, che i precetti del dharma, in via di principio poco vantaggiosi sul piano pratico, devono trovare sostegno in una attività terrena. Non può sussistere una separazione totale tra dharma, artha e kāma, che vengono così raggruppati insieme come trivarga ('triade') dei fini e degli interessi della vita umana, mentre i loro śāstra, specialmente il Dharmaśāstra e l'Arthaśāstra si sovrappongono (il Kāmaśāstra è associato in particolare alla teoria letteraria). Perpendicolare al trivarga è la quarta finalità, quella del mokṣa. Mentre le altre tre, incluso il dharma, si riferiscono alla vita terrena, il mokṣa ('liberazione', 'redenzione') si svincola totalmente da essa rivolgendosi esclusivamente al trascendente. È questa l'unica finalità del saṃnyāsin o 'rinunziatario', al di là del trivarga.

In questo contesto assumono particolare importanza i concetti di karman e di saṃsāra. Basato sull'idea di una solidarietà fondamentale della vita come flusso perpetuo (pravṛtti), il concetto di saṃsāra si riferisce più specificamente all'inevitabilità della rinascita (punarjanma) dopo un periodo trascorso nell'aldilà con gli dei o gli antenati. Ciò significa che l'aldilà forma un continuum con la sfera terrena. Gli dei, gli spiriti e gli antenati non sono esseri trascendenti, bensì parte del mondo del saṃsāra. Da questo punto di vista l'immortalità degli dei non costituisce una differenza sostanziale, se non in quanto li esclude dalla redenzione definitiva del mokṣa.In sé le nozioni di saṃsāra e di rinascita non sono originali né specificamente indiane. Ciò che conferisce loro un carattere tipicamente indiano è il collegamento con la nozione di karman, l'elemento che determina la qualità della rinascita di ogni individuo. Il termine karman ('azione') nei testi vedici del rituale è riferito al sacrificio, l'azione per eccellenza.

Nel contesto del sacrificio originario come istituzione centrale della redistribuzione periodica, basata sulla competizione, dei 'beni della vita', il karman sacrificale era un'attività eminentemente sociale che determinava la vita dei partecipanti e della comunità nel suo complesso. Il sacrificatore dipendeva dagli altri per recuperare le ricchezze spese in doni e sacrifici, in virtù della norma di reciprocità, nelle feste organizzate come 'rivalsa' dai suoi ospiti di un tempo. Il karman, allora, originariamente riguardava la competizione, lo scambio e l'interdipendenza. L'individualizzazione e la desocializzazione del sacrificio tuttavia posero fine allo scambio ciclico (realizzando così il proprio fine). Non essendovi più nessuno col quale scambiare il karman, non restava che scambiarlo con se stessi in una incessante successione di rinascite determinate dal proprio precedente karman. Così come l'azione sacrificale era intesa come una rinascita 'attraverso il sacrificio', allo stesso modo il karman di ogni individuo ne determina la prossima rinascita. Ora però non vi è più alcuna possibilità di recupero: l'uomo può redimersi solo ponendo fine all'inesorabile meccanismo del karman e l'unica via per riuscirvi è quella di rinunziare a tutte le attività terrene. È questa la 'liberazione' (mokṣa), che costituisce lo scopo esclusivo della disciplina del saṃnyāsin (v. Heesterman, 1985, pp. 34 ss.).

In questa prospettiva il dharma assume una posizione ambivalente. Il suo esclusivo interesse per l''invisibile' e il requisito del disinteresse per il mondo terreno evidenziano il suo orientamento trascendente. D'altra parte, però, l''invisibile' metafisico si riferisce al cielo (svarga), dal quale si è destinati a far ritorno, ed è quindi parte del saṃsāra. In contrasto con il fine del mokṣa, il dharma non mira alla rinunzia totale, ma riafferma l'incompatibilità tra mondo e trascendenza, tra processo (pravṛtti) e stasi (nivṛtti).

Un esempio significativo è il controverso problema della non violenza (ahiṃsā) e del vegetarianismo. Il punto cruciale non sembra essere l'uccisione in sé e per sé, ma il vincolo di obbligazione e di reciprocità creato dallo scambio di cibo e sacralizzato dall'uccisione dell'animale. L'invitato che accetta di cibarsi della carne dell'animale prende su di sé l'onere dell'uccisione, e in questo modo 'purifica' il cibo per il suo ospite, a condizione che quest'ultimo ricambi il favore quando sarà giunto il momento della 'rivalsa' (v. Heesterman, 1966). L'individualizzazione ritualistica del sacrificio rende questo punto particolarmente critico, perché il ritualismo esclude una controparte cui trasferire l'onere dell'uccisione. Ciò rese inevitabile la norma che vieta il consumo di carne e prescrive l'ahiṃsā (v. Schmidt, 1968; v. Heesterman, 1984); tale norma però contraddice la śruti, che approva il sacrificio di animali. I sacrifici śrauta quindi, al pari del dharma, sono 'una legge proposta ma non imposta', e chi vi aderisce dovrebbe seguire i suoi precetti allo stesso modo in cui segue quelli del dharma, ossia per pura obbedienza disinteressata alla norma del rituale.

Ancora più significativo è il fatto che i precetti della non violenza e del vegetarianismo riguardano una società che di solito non è esente dalla violenza, che pratica sacrifici animali (sebbene non del tipo śrauta) e si ciba di carne. La risposta a questo enigma è illuminante: cibarsi di carne è pravṛtti, ossia fa parte del processo terreno, ma l'astensione è nivṛtti e, come si afferma nel Codice di Manu, frutta una "grande ricompensa". Ciò ripropone il problema centrale del dharma, che deve conciliare due sfere tra loro incompatibili, quella pravṛtti, delle relazioni, dello scambio e dell'interdipendenza, e la sua negazione attraverso i precetti della pura contemplazione o nivṛtti. .

Il mondo divino

Concetti quali politeismo e monoteismo sarebbero di scarso aiuto per comprendere la religione induista. In essa è l'uomo ad assumere una posizione centrale, in quanto spetta a lui superare lo iato tra pravṛtti e nivṛtti. Ciò emerge già con chiarezza nel pensiero ritualistico tardo vedico, in cui il sacrificatore è il legame vivente tra le due sfere incompatibili. Gli dei sono ridotti a meri nomi che devono essere pronunciati per distinguere i vari sacrifici, ma che hanno lo stesso status degli altri elementi del rituale. È il rito come tale a rivestire un'importanza primaria, ed è l'uomo a compierlo. Il meta-ritualismo delle Upaniṣad portò alle estreme conseguenze questa concezione identificando il Sé (ātman) con il brahman.

L'induismo è caratterizzato senza dubbio da una pletora di divinità, genii loci, spiriti, antenati e altre entità cui occorre offrire cibo, dimora e cure appropriate: in altre parole un culto, al fine di controllare il loro potere di interferire con le vicende umane e di ottenere dei benefici. Così lo spirito dei defunti (preta) vaga incessantemente senza trovare quiete, portando con sé l'imprevedibile sacralità della morte e della sventura. Alla fine del periodo di lutto all'anima vagante viene offerto il primo pasto a base di riso (piṇḍa) e di acqua, e alla fine le si assegna un posto e un culto tra gli avi o 'padri' (pitṛ). Da questo momento il potere sacrale del defunto è indirizzato a beneficio della sua progenie. In questo modo il mondo degli dei e degli spiriti si sovrappone a quello umano, in quanto entrambi sono parte del saṃsāra. Gli dei ovviamente hanno più potere degli uomini, ma non differiscono sostanzialmente dai potenti umani quali re e notabili: sono, per così dire, uomini in formato gigante.

Tra la moltitudine di dei e spiriti emergono le grandi divinità panindiane o 'sanscrite' Śiva e Viṣṇu. È una questione controversa se Brahma, il brahman deificato, in una certa epoca (pressappoco all'inizio dell'era cristiana) abbia assunto nell'India settentrionale una posizione analoga (v. Hacker, 1978, pp. 476478). Non vi sono dubbi, comunque, sulla primaria importanza di Śiva e Viṣṇu a partire dagli ultimi secoli dell'era precristiana.Un ruolo di rilievo, sia come consorte della divinità principale sia autonomamente, ha anche la Grande Dea, nota sotto vari nomi (Pārvatī, 'figlia dei monti', Kālī, 'la nera', Durgā, 'l'inaccessibile', o semplicemente Devī, la dea - che era anche il titolo delle regine -, e la consorte di Viṣṇu, Lakṣmī, 'la fortunata'). Nella setta tantrica dello śaktismo essa è la divinità dominante in qualità di tremenda incarnazione dell'energia cosmica o śakti. La Grande Dea non può essere equiparata senz'altro a una Magna Mater, in quanto la sua energia cosmica, sia creativa che distruttiva, non deriva dalla maternità. In generale le divinità femminili note come 'dee madri' appaiono piuttosto 'madri mancate' o femmine che hanno patito una fatale sventura (ad esempio la sposa il cui uomo viene chiamato in guerra mentre si svolgono i riti matrimoniali e cade in battaglia, o la satī, 'sposa virtuosa, devota', che si fa bruciare assieme al marito defunto sulla pira sacrificale).

Mentre l'importanza della Grande Dea non sembra richiedere una spiegazione particolare dal punto di vista dei testi vedici o della religione popolare non vedica, il rilievo assunto da Śiva e da Viṣṇu rispetto agli altri dei non è altrettanto agevole da spiegare. È chiaro comunque che Śiva per molti aspetti è una versione successiva del terribile dio vedico Rudra, che abita nelle foreste e si accompagna a una banda di guerrieri. Analogamente Śiva dimora sui monti dove, asceta selvaggio, danza la sua estatica danza cosmica. Al pari di Rudra, conosciuto anche come Īśāna, 'signore', Śiva è l'Īśvāra, appellativo che ha lo stesso significato. Il suo emblema è il fallo (liṅga) montato su uno zoccolo che rappresenta l'organo femminile (yoni). Viṣṇu, o Bhagavat (l''Eminente'), invece, risiede nel mondo ordinato ed è associato all'axis mundi.Nei testi tardo vedici egli è identificato con l'istituzione centrale del sacrificio. Mentre Śiva si colloca al di fuori della comunità, Viṣṇu si interessa direttamente al mondo umano, come attestano in particolare i suoi avatāra ('discese') nel mondo sotto varie spoglie per ripristinare il dharma.

Gli avatāra più popolari di Viṣṇu sono il bambino, giovane pastore e guerriero Kṛṣṇa e il re divino Rāma. Mentre quest'ultimo, eroe del poema epico Rāmāyana, ispira un'austera devozione in quanto rappresenta il sovrano universale che agisce con giustizia, la variegata e composita figura di Kṛṣṇa offre numerose aperture verso forme di immaginazione e di culto fortemente emozionali. Come bimbo tenero e scatenato suscita le affettuose cure dei suoi devoti, mentre come giovane mandriano (gopāla) che seduce le pastorelle (gopī) è oggetto di culto erotico in quanto i devoti si identificano con queste ultime. Nel Mahābhārata Kṛṣṇa è guerriero e re, oltre che auriga e bardo (sūta) dell'eroe Panduide Arjuna. In quest'ultimo ruolo egli si presenta come il maestoso signore dell'universo allorché istruisce Arjuna sui suoi doveri di guerriero imponendogli di uccidere i nemici, anche se parenti stretti, per compiere il suo dharma disinteressatamente, e gli insegna a offrire le azioni richieste con cieca devozione, perché questa è l'unica via verso la salvazione. Nella tradizione śivaitica Kṛṣṇa può essere paragonato al dio tamulico Murugan.

Ciò che distingue Śiva, la Grande Dea e Viṣṇu, nonché gli avatāra di quest'ultimo, da dei e spiriti minori (che abitano l'universo del saṃsāra) è il fatto che essi sono al tempo stesso immanenti - in quanto si manifestano sotto spoglie umane e prendono dimora nel devoto prediletto - e trascendenti. Essi sono di casa in entrambe le sfere. Analogamente, questi dei sono spesso considerati il tramite fra il mondo ordinato e quello selvaggio (Śiva è connesso al primo attraverso il suo matrimonio o la sua śakti; Viṣṇu attraverso gli avatāra e la sua associazione con l'axis mundi; Rāma viene esiliato nelle foreste da cui ritorna trionfatore; Kṛṣṇa, per molti versi affine alla figura del briccone, è collegato in vari modi alla sfera immanente nei suoi ruoli di mandriano, di seduttore e di cantore-poeta). Questi dei costituiscono un tramite tra i due mondi opposti e incompatibili.

Il culto

Sebbene il sacrificio animale - non però del tipo vedico - sia praticato regolarmente, soprattutto in occasione delle celebrazioni di Durgā nell'India settentrionale e nel Deccan, la forma fondamentale del culto è la pūjā incruenta praticata sia in pubblico nei templi che in privato nelle case. Il modello cui essa si ispira è quello dell'accoglienza riservata a un ospite prestigioso che viene lavato e abbigliato, onorato con un banchetto festivo, intrattenuto e fatto riposare. Particolare importanza riveste il cibo offerto alla divinità, che in seguito viene consumato dai devoti come prasāda, ossia grazia del dio. Mentre il ritualismo tardo vedico si incentrava sul sacrificio offerto nel fuoco e limitava al massimo il pasto sacrificale, la pūjā esalta il valore del cibo e del pasto. Il sacrificio offerto nel fuoco tuttavia viene conservato ed è noto come homa ('versamento nel fuoco'), ma non fa parte della pūjā. In base allo schema generale di quest'ultima, il dio non è considerato costantemente presente nella sua immagine (mūrti) o nel suo simbolo (ad esempio il liṅga), ma viene fatto discendere (come un ospite) per vivificarli.

Di estrema importanza per il culto e la vita religiosa in generale è il sentimento della bhakti (dalla radice sanscrita bhaj che significava anticamente 'partecipare a', 'sentirsi uno con', 'appartenere'), intesa come rapporto affettivo esclusivo e personale con la divinità (in particolare Viṣṇu e i suoi avatāra Kṛṣṇa e Rāma). La bhakti è la via salvifica indicata da Kṛṣṇa - assieme all'adempimento disinteressato del proprio dharma - nella Bhagavadgītā, la cui popolarità è attestata dal gran numero di commentari. Un altro testo fondamentale è il Bhagavata Purāṇa, che sviluppa le leggende su Kṛṣṇa. Per il suo sostrato filosofico la nozione di bhakti si fonda in larga misura su alcune dottrine teistiche del Vedānta (in particolare il monismo 'differenziato': viśiṣṭādvaita), e ha influenzato notevolmente la danza e la musica oltreché la letteratura sia sanscrita (si pensi al famoso poema del VII secolo Gītagovinda, che narra in forma lirica l'amore, la separazione e il ricongiungimento del dio-pastore Kṛṣṇa e della pastorella Rādhā) che dialettale. In quest'ultimo caso le liriche devozionali dei poeti e dei cantori tamulici detti Ālvār - dodici di numero secondo la tradizione - hanno esercitato una notevole influenza formativa (VI-IX secolo). Nell'India settentrionale la rielaborazione in hindi antico del Rāmāyāna ad opera del poeta Tulsī Dās (Rām-caritmanas, XVI secolo) ha avuto un'influenza preponderante come poema bhaktico in cui si esalta Rāma, nonostante il culto ampiamento diffuso di Kṛṣṇa. Una menzione particolare meritano i poemi spesso caratterizzati da un colorito vigore espressivo di Kabīr (XVI secolo), il quale rigetta ogni culto formale ed esteriore. Sia i musulmani che gli induisti lo annoverano tra gli esponenti della propria cultura, mentre i Sikh, il cui libro sacro - il Granth - include alcuni versi attribuiti a Kābir, lo considerano il maestro del proprio guru Nānak. Dalla bhakti si è sviluppato un semplice culto congregazionalista, basato su inni religiosi (Kīrtana) cantati dai devoti, che non ha bisogno di strutture speciali come i templi. Tale culto trova espressione anche nelle rappresentazioni della storia di Rāma o Kṛṣṇa che hanno luogo in occasione di alcune feste popolari (līlā).In sintesi, la religiosità induista è permeata dalla bhakti al punto che questa nozione coincide in pratica con tutto l'ambito religioso. Essa consente all'uomo, diviso tra le esigenze della società terrena e l'impulso a trascendere quest'ultima, a trasferire questa sua difficile condizione alla divinità, che è nel contempo immanente e trascendente e indica così la via verso la salvezza senza che il devoto debba compiere il drastico passo di rinunciare al mondo.

Un'altra componente essenziale della religione induista è il tantrismo. Il termine tantra, derivato dalla tecnica della tessitura, significa 'trama, ordito'. Nella teoria ritualistica vedica esso designa la 'cornice' rituale comune ai sacrifici dello stesso tipo, mentre in seguito assume il significato generale di 'libro, testo'. Come indica già il significato generale del termine tantra, il tantrismo come forma particolare di religione tende a eludere una definizione precisa. Esso inoltre ha influenzato in misura notevole anche il buddhismo (specialmente il Vajrayāna, o 'Veicolo di Diamante') e il jainismo. L'uso e l'etimologia del termine suggeriscono due conclusioni: in primo luogo il tantrismo si basa su una serie di testi sacri, nonostante sia sottolineata la necessità di una spiegazione orale autoritativa; in secondo luogo questi testi sono prevalentemente di tipo ritualistico. Si è affermato spesso che il fulcro del tantrismo è il culto della śakti, il principio cosmico femminile, e che di conseguenza i testi śaktici sono "i tantra per eccellenza" (v. Gupta e altri, 1979). Secondo alcuni però tale concezione è riduttiva in quanto fa coincidere il tantrismo con lo śaktismo (v. Brunner, 1981, p. 140).

Il tantrismo si presenta come una via salvifica - il sādhana o 'realizzazione' della divinità trascendente nel proprio Sé - basata su una minuziosa corrispondenza tra il microcosmo del corpo umano e il macrocosmo dell'universo, corrispondenza espressa anche visivamente nell'uso rituale di diagrammi (yantra, maṇḍala).

Al pari della bhakti, il tantrismo si basa sulla dottrina teistica del Vedānta. La via per la realizzazione del trascendente, tuttavia, è un elaborato ritualismo che governa sia la pūjā sia gli esercizi yoga. In entrambi i casi l'attenzione è focalizzata sul corpo umano, che è anche strumento della realizzazione del trascendente. Esso è visto come un sistema cosmico-fisiologico di centri nervosi (cakra) e arterie o canali (nāḍi). Il processo yogico mira a risvegliare l'energia vitale (kuṇḍalīnī), situata alla base della colonna vertebrale e nei genitali e a spingerla verso l'alto attraverso i cakra e i nāḍi. Una importante caratteristica del rituale tantrico è il complesso simbolismo attribuito alla parola, che comporta un ampio uso di formule (mantra), di fonemi (bīja, 'seme', che richiama un analogo uso negli inni vedici) e di simboli dell'alfabeto sanscrito, oltreché del simbolismo dei numeri (presente anche nel Sāmaveda). C'è da osservare infine che il ritualismo tantrico attribuisce particolare importanza al rigoroso controllo attraverso cerimonie di iniziazione graduali (dīkṣā) sotto la guida di un maestro qualificato (guru, ācārya).

È chiaro, per quanto difficile da dimostrare nei singoli aspetti, che il tantrismo - al pari del vedismo - deve molto ad antiche pratiche magiche e cultuali nonché a riti orgiastici e a inversioni rituali (coincidentia oppositorum: 'il bene è il male', o in termini tantrici lo yoga è bhoga, 'godimento', in specie di piaceri illeciti). Il punto essenziale, tuttavia, è il carattere razionale, sistematico-speculativo del tantrismo e il fatto che esso si basi su scritture normative: detto in altri termini, il suo carattere 'sanscrito' (v. cap. 5). Come tale esso è diventato un veicolo privilegiato del pensiero e delle pratiche religiose indiane anche al di fuori dell'India, in particolare nel Sudest asiatico, dove ha dato origine a un imponente corpus letterario, principalmente in giavanese antico, e ha fortemente influenzato la cultura, la scultura e l'architettura monumentale di corte. L'influsso del tantrismo è evidente ancor oggi nella cultura giavanese.Si può affermare che il tantrismo con le sue connotazioni razionalistiche e la bhakti con le sue connotazioni emozionali - apparentemente opposti ma in pratica interrelati - costituiscono nel loro insieme la forma e il contenuto della religione induista.

Le istituzioni

L'induismo vive nelle sue sette. La setta si presenta tipicamente in una duplice forma: quella del gruppo composto dal maestro e dai suoi allievi (il fondatore di solito è un saṃnyāsin), che vive secondo la disciplina della setta e predica la propria particolare via alla salvezza, e quella, in continuo mutamento, dei seguaci laici, che sostengono materialmente l'ordine saṃnyāsico. L'esempio più antico di tale forma di organizzazione settaria è quello dell'ordine monastico buddhista (sangha) e dei suoi adepti laici (upāsaka). L'ordine saṃnyāsico, specialmente nel caso dei devoti di Śiva, può assumere a volte la forma di una confraternita militante di guerrieri consacrati, che richiama la banda di guerrieri cui si accompagnava anticamente Rudra-Śiva. Così i Sikh ('discepoli') nel XVII secolo si trasformarono da setta religiosa in un ordine militare caratterizzato da un proprio ethos guerriero.

Nel caso di sette fortemente organizzate, come ad esempio i Liṅgāyat o Vīraśaiva, il centro (o rete di centri) è il monastero (maṭha), che fruisce dei contributi e delle donazioni dei seguaci laici. A seconda dell'entità - a volte considerevole - dei beni temporali, il capo del monastero associa all'incontrovertibile autorità spirituale un potere temporale. Queste istituzioni riccamente sovvenzionate costituivano senza dubbio elementi chiave che il sovrano, detentore del potere temporale, non poteva trascurare. Si sviluppò così la tendenza, attestata dalle iscrizioni, a favorire questa o quella setta a prescindere dal credo personale del sovrano.Il capo della setta o guru gode di un prestigio straordinario. In genere un saṃnyāsin, egli detiene un'autorità trascendente che non dipende dalla sua carica sacerdotale ma è legata esclusivamente alla sua persona. Il tantrismo rafforza ulteriormente la posizione del guru o ācārya in quanto la divinità viene concepita come immanente alla sua persona in virtù della consacrazione. Egli è il legame vivente tra il mondo e la trascendenza. Senza troppo esagerare, si può affermare che l'induismo può fare a meno dei suoi dei finché vi è il guru.

Il monastero o maṭha è collegato di solito a un tempio (mandira, devālaya: v. Reiniche, 1985, pp. 92-99), o, viceversa, il guru e i suoi discepoli trovano ospitalità in un tempio a essi congeniale, che provvede alle loro necessità e alla cui fama essi dal canto loro contribuiscono con la propria spiritualità e dottrina.In India i templi sono molto numerosi e di svariati tipi: si va dal singolo liṅga montato sulla yoni, che contrassegna un luogo sacro, ai semplici santuari della famiglia o del villaggio sino agli imponenti edifici in pietra dedicati alle divinità 'sanscrite' panindiane. La struttura centrale del tempio è una costruzione a forma di torre che rappresenta la montagna centrale e contiene una cella simile a una grotta in cui è installata l'immagine del dio (mūrti) o il liṅga di Śiva. Diversamente dall'organizzazione monocefala del maṭha, il tempio non ha un unico capo, o piuttosto la divinità è il suo capo assoluto, simile per molti versi al sovrano nel suo palazzo (donde la definizione giuridica angloindiana del dio come proprietario del tempio nonché delle sue terre e altri possedimenti). La gestione del tempio è affidata a un consiglio (devasthāna). Con i suoi beni temporali che provvedono alle pūjā quotidiane e alle feste periodiche, l'organizzazione del tempio è un'impresa complessa che assolve una pluralità di funzioni e richiede molteplici attività. Il tempio riunisce così un gran numero di persone cui sono attribuiti varie mansioni e diritti (donatori, sacerdoti, musicisti, danzatori, cuochi, fiorai, contadini e mandriani che curano le terre e il bestiame del tempio). Il tempio quindi può essere visto come un'arena in cui i titolari di diritti cooperano nel processo di redistribuzione della ricchezza del tempio sotto la silenziosa autorità della divinità immanente e trascendente a un tempo, la cui 'grazia' (prasāda) - ossia il cibo a essa offerto - costituisce il canale principale della redistribuzione (v. Stein, 1960).

Di minore importanza, ed erosa dalla legislazione sulla proprietà fondiaria nonché dalla diversificazione socioeconomica, è l'istituzione un tempo assai diffusa nota come brahmadeya: un gruppo di brahmani insediati in un villaggio, che ricevevano la quota delle entrate di quest'ultimo destinata al sovrano. Oltre a essere responsabili della gestione delle terre del villaggio, questi brahmani formavano un nucleo di sapienza scritturale 'sanscrita'.Un cenno a parte meritano anche i centri di pellegrinaggio (tīrha, 'guado'), ancora poco studiati. Questi sono stati - e sono tuttora - importanti veicoli di propagazione dell'induismo 'sanscrito'. La loro importanza sembra essere cresciuta se non altro in termini di numero di pellegrini e di diffusione del culto (o della particolare varietà di culto propria di un determinato centro), mentre sono sorti nuovi luoghi di pellegrinaggio (v. Burghart, 1985).

Le caste

L'istituzione più nota dell'induismo è il sistema castale, che secondo molti è addirittura l'elemento che definisce l'induismo stesso. Basato sull'opposizione complementare di puro e impuro, il sistema castale è connesso alla religione nella misura in cui il puro rappresenta ciò che afferma la vita e l'impuro le 'scorie' dei processi della vita, ossia la morte e la decadenza. Puro e impuro di conseguenza sono collegati al nesso sacro di vita e morte e come tali costituiscono il fulcro della religione. Ciò ha indotto Louis Dumont a considerare la coppia asimmetrica puro-impuro come il principio di una gerarchia di tipo assiologico che impronta l'induismo e diventa il criterio di strutturazione della società induista. In questa concezione la gerarchia fondata sull'opposizione puro-impuro è il valore onnicomprensivo che fornisce al sistema castale un incontrovertibile fondamento religioso (v. Dumont, 1967, cap. 2). L'hindu è l'homo hierarchicus che dà il titolo all'importante saggio di Dumont.

Sebbene questa interpretazione di tipo assiologico dei rapporti di casta sia senza dubbio illuminante e spieghi il dinamismo e l'instabilità della società castale induista, essa tuttavia trascura l'istituzione della rinuncia al mondo che mira alla liberazione dai vincoli relazionali e mette quindi in discussione quel presunto valore centrale e onnicomprensivo.Mentre il singolo termine 'casta' (dal portoghese casta, 'razza, tipo') suggerisce l'idea di una istituzione unitaria e internamente coerente, la tradizione indiana conosce almeno due termini: jāti ('nascita', 'genus') e varṇa ('colore'), di cui l'ultimo è quello preferito nelle Scritture. I due termini sono in larga misura utilizzati come sinonimi, ma la loro differenza emerge in rapporto alla questione delle caste miste, risultato di unioni matrimoniali tra varṇa diversi (varṇasaṃkara, 'confusione dei varṇa') vietate dalle Scritture del dharma. Le caste miste - che di norma non dovrebbero esistere - sono dette jāti. Mentre il termine varṇa si riferisce alla norma dharmica della separazione, il concetto di jāti ha la connotazione dello scambio e dell'interdipendenza. Mentre la jāti è relazionale, il varṇa è sostanziale. Si ritrova qui la dicotomia tra pravṛtti e nivṛtti - tra il processo dinamico del mondo e la stasi assoluta - che caratterizza il dharma. In questa prospettiva l'istituzione della casta non ha quel carattere unitario che le si attribuisce, ma è imperniata sulla scissione interna tra le relazioni che formano la società e il concetto normativo di varṇa che le vieta e in questo modo rifiuta di fatto la società. Le relazioni gerarchiche del puro e dell'impuro sono trascese da una purezza sostanziale, indipendente da ogni relazione. In ultima istanza le relazioni sono svalutate, ma là dove le relazioni - l'essenza della gerarchia - vengono svalutate, la gerarchia viene meno come valore supremo. Le relazioni, e soprattutto le relazioni gerarchiche del puro e dell'impuro, sono investite di sacralità, ma tale sacralità risulta in ultimo invalidata in quanto viene trascesa dall'assoluto a-relazionale che sfugge a ogni delimitazione.Il problema che ciò pone si manifesta nell'ambigua posizione del brahmano. La sua purità dovrebbe essere sostanziale, ma egli deve vivere in un mondo relazionale in cui tale purità dipende dall'impurità di altri quali lavandai, barbieri, spazzini. L'unica soluzione è quella di negare all'attività del lavandaio il suo valore: egli pulisce gli abiti ma non li purifica. D'altro canto un indumento sporco che il brahmano stesso immerge nell'acqua è puro anche se resta sporco come prima. Relazioni e transazioni possono essere liberamente intraprese finché sono prive di valore, ossia non determinano complementarità e interdipendenza. Di conseguenza le transazioni commerciali occasionali non sono contaminanti. È interessante notare a questo riguardo che per i teorici della Mīmāṃsā le offerte sacrificali (daḳsiṇā) ai sacerdoti brahmani non sono un dono (il che creerebbe un rapporto duraturo di obbligazione e reciprocità), bensì una sorta di ricompensa per servizi resi, una transazione incidentale e priva di valore (su questa interpretazione dell'offerta sacrificale come ricompensa v. Malamoud, 1976, pp. 179-183).

Analogamente il rapporto del brahmano col potere secolare è ambiguo al punto da essere contraddittorio. Come indica il caso delle offerte sacrificali, infatti, non dovrebbero sussistere relazioni di natura duratura e vincolante. Il sovrano, tuttavia, il rappresentante del mondo relazionale, ha bisogno dell'autorità trascendente del brahmano, e questi a sua volta ha bisogno del supporto materiale del sovrano. Ma accettando la generosità del re il brahmano diventa dipendente da lui perdendo il suo status trascendente, mentre il re che cerca di legare a sé il brahmano si ritrova con un guscio vuoto privo del valore fondamentale che era lo scopo del suo gesto. Le Scritture del dharma affermano esplicitamente sia la necessità di una cooperazione tra re e brahmano, sia l'esigenza che il brahmano stia lontano dal re, ma non offrono una soluzione al problema (v. Heesterman, 1985, pp. 154 ss.).Come abbiamo già accennato, nel corso del XIX secolo il sistema castale offrì ai governanti quella griglia stabile di categorie sociali di cui essi avevano bisogno. Soprattutto mediante i censimenti decennali effettuati a partire dal 1880, le caste assunsero il carattere di entità chiuse e separate. Detto in altri termini, la jāti acquisì i caratteri della separatezza e della rigidità normative del varṇa teorico. Poiché il governo basava la sua azione e la distribuzione di benefici sulla griglia ufficiale, le caste acquisirono una nuova rigidezza oltreché un significato politico. Sebbene la casta sia stata dichiarata illegale dalla Costituzione, vi sono almeno due modi in cui essa continua ad avere un'importanza ufficiale: come 'discriminazione positiva' (delle caste non privilegiate) e come forma legalmente inoppugnabile di 'associazione volontaria' (per migliorare le condizioni dei membri di una determinata casta). La casta inoltre è un elemento importante nei calcoli politici ed elettorali; si è sviluppato così il fenomeno del cosiddetto 'castismo', ossia la trasformazione delle distinzioni di casta in una contrapposizione di gruppi particolaristici.In pratica, tuttavia, la casta dimostra una flessibilità e una fluidità che ne smentiscono la presunta rigidità e ne attestano la tradizionale vitalità interazionale. In definitiva l'importanza della casta, come quella del dharma, non sta nella certezza di un sistema chiuso ma nel carattere aperto del suo problema di fondo - il contrasto tra l'ordine ultraterreno del varṇa basato sulla separazione da un lato e, dall'altro, la fluidità terrena dell'interazione jāti - che ammette risposte sempre diverse, mai definitive.

L'induismo moderno

Sebbene le incursioni islamiche dalla Persia e dall'Asia centrale, a partire dal X secolo, e la fondazione del sultanato di Delhi (1206) fossero fatali per i grandi templi dell'India settentrionale, non ebbero però effetti negativi sullo sviluppo dell'induismo. Al contrario, a partire dal XIII secolo si osserva un incremento dell'attività delle sette, specialmente del culto bhaktico. È una questione controversa se, come si ritiene di solito, questa attività costituisse una difesa contro l'Islam oppure se - come sembra più probabile - fosse l'effetto di una nuova generale fioritura determinata dall'integrazione dell'India nell'ecumene indo-islamica che si andava formando intorno all'Oceano Indiano (v. Wink, 1990). In ogni caso, l'impressione generale è quella di uno sviluppo dell'induismo, per certi versi anche per impulso dell'Islam (specialmente per quanto riguarda i contatti tra le sette induiste e gli ordini sufici). I sovrani musulmani inoltre, specialmente gli imperatori Moghul (a partire dal 1555 d.C.), tendevano al pari dei loro predecessori induisti a favorire varie sette religiose, incluse quelle induiste (v. Goswamy e Grewal, 1969).

Una nuova, diversa situazione si venne a creare con l'insediamento e la crescente influenza del governo angloindiano a partire dalla fine del XVIII secolo. Poiché si trattava di un governo di tipo diverso - impersonale, razionale-burocratico - esso richiedeva una risposta diversa rispetto al precedente regime. La prima reazione prese la forma di un movimento riformista tra i funzionari di governo e i professionisti hindu della classe media ed ebbe come centro Calcutta - sino al 1912 capitale dell'India britannica. Qui Ram Mohan Roy fondò nel 1828 il Brāhma Samāj per diffondere un credo monoteistico che affermava l'autorità delle Upaniṣad. Più importante per diffusione e numero di aderenti fu l'Ārya Samāj (ancora attivo). Fondato nel 1875 da Dayanand Sarasvati e con basi nell'India settentrionale e nel Punjab, questo movimento mirava a una rinascita della religione vedica (e si interessò pertanto attivamente alla filologia vedica), ed era caratterizzato da una spiccata componente nazionalistica. Sempre a Calcutta venne fondata la Missione Rāmakṛṣṇa, che prendeva il nome da un asceta che aveva fatto proseliti tra gli intellettuali di Calcutta - tra cui il fondatore della Missione, noto col suo nome di iniziazione Svami Vivekananda. Il credo vedantico da lui propugnato costituisce anche la base del neoinduismo come religione universale (v. Hacker, 1978, pp. 580-608).

Gli interessi principali di questi movimenti erano in primo luogo una riforma culturale e sociale (ad esempio la possibilità di seconde nozze per le vedove, la limitazione della dote, la diffusione di un livello medio di istruzione inglese, l'abolizione degli intoccabili, il culto aniconico) e in secondo luogo il nazionalismo e il rifiuto delle influenze occidentali in favore di atteggiamenti tradizionalisti, e infine una concezione del (neo)induismo vedantico come religione universale capace di accogliere in sé altre religioni. Quest'ultimo tema di una sostanziale unità costituì il fulcro dell'attività politica del Mahātmā Gandhi (1869-1948), in cui ebbe un ruolo essenziale la sua autorità di saṃnyāsin. La rivendicazione dell'unità nazionale e la lotta per la liberazione erano permeate in lui di valori ascetici. Le spettacolari azioni di non cooperazione e di disobbedienza civile intendevano essere in realtà una rinunzia in massa al mondo, e di conseguenza non potevano che avere vita breve. Queste azioni tuttavia diedero una nuova impronta all'ideale trascendente riportandolo - periodicamente - al livello terreno della politica moderna.In retrospettiva, lo scopo reale dei movimenti di riforma era quello di sviluppare un discorso capace di presentare gli interessi e le aspirazioni dell'India in modo convincente agli occhi delle autorità anglo-indiane e metropolitane nonché del pubblico internazionale. In questo, più che negli intenti di riforma, questi movimenti ebbero pieno successo.

L'aspetto più importante della modernizzazione introdotta dal regime angloindiano e da quello locale autonomo che lo seguì può essere individuato in unaconcezione sostanzialistica della religione e della società. A ciò l'induismo deve sia il proprio nome che lo status di religione distinta, per quanto definita in modo impreciso. Tale orientamento sostanzialistico è evidente anche nelle sette e nelle istituzioni religiose, in cui la dimensione religiosa tende a essere nettamente distinta dagli interessi terreni (v. Pocock, 1973, capp. 6 e 7). La concezione sostanzialistica rafforza le norme scritturali, e in questo senso si è affermato che modernizzazione e sanscritizzazione vanno di pari passo. Di fatto, le norme delle scritture sanscrite rifiutano la dimensione relazionale in favore di quella sostanziale. L'elemento di novità apportato dalla modernizzazione, tuttavia, è stato l'accento posto unilateralmente sulla norma sostanzialistica calata dal suo empireo trascendente nella realtà terrena.In questo modo però la flessibilità, le sovrapposizioni e la fluidità di confini lasciarono il posto a una rigida separazione tra le diverse comunità. Mentre il vecchio regime era in grado di scongiurare la minaccia dei conflitti scismatici radicali servendosi dell'intrinseca flessibilità dei confini tra le varie comunità, la politica governativa moderna non può fare altrettanto. Ciò rese quasi inevitabile il dramma della divisione dal Pakistan nel 1947, e continua a causare l'esplosione di violenti conflitti tra comunità. Tuttavia la linea di discrimine essenziale resta quella interna: il futuro dell'induismo è legato a questo dilemma aperto tra un mondo relazionale e il sostanzialismo ascetico.

(V. anche Casta).

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