INDUSTRIA

Enciclopedia Italiana (1933)

INDUSTRIA (lat. industria)

Francesco COPPOLA D'ANNA
George MONTANDON
Ugo Enrico PAOLI
Carlo RODANO
Gino OLIVETTI
Giuseppe Menotti DE FRANCESCO
Mario ROTONDI

Sta a significare propriamente l'abilità o la diligenza posta nell'eseguire una cosa qualsiasi, non quindi l'azione svolta, né il risultato conseguito, ma la qualità dell'azione medesima. Ma tale significato astratto può ritenersi ormai in gran parte scomparso dall'uso, intendendosi invece per industria una certa specie, più o meno bene determinata, di attività concreta. È però tutt'altro che facile dare una definizione dell'industria in questa seconda accezione, e ciò per il fatto che il processo evolutivo attraverso il quale si viene gradatamente fissando e precisando il significato di essa, è lontano ancora dall'essere concluso.

Conviene osservare che gli scrittori di economia si mantengono generalmente fedeli all'accezione generica per cui industria è essenzialmente ogni "attività produttiva". Gli scrittori più antichi assimilavano addirittura l'industria al lavoro usando presso che indifferentemente i due termini e solo escludendo dal concetto di industria il lavoro intellettuale e l'esercizio delle professioni liberali: esclusione che si spiega per via della tradizionale distinzione istituita fra arti liberali e arti illiberali, e anche per il fatto che l'esercizio professionale dà luogo soltanto alla prestazione di servizî e non alla creazione di beni materiali, gli unici che, secondo i concetti allora prevalenti, potessero effettivamente considerarsi beni economici.

Successivamente il concetto d'industria si è venuto un po' meglio precisando, nel senso che esso implica non soltanto l'impiego del lavoro umano, ma altresì l'impiego, a scopo produttivo, del capitale e degli elementi forniti dalla natura. Allo stato delle cose, e senza entrare in disquisizioni necessariamente molto sottili, può dirsi che la dottrina economica designa in massima col nome di industria l'esercizio di ogni attività che ha per iscopo la produzione di beni economici conglobando insieme tutte le specie di attività produttive, escluso sempre l'esercizio delle professioni liberali.

Ma, come abbiamo detto sopra, un'accezione così lata non risponde alle necessità pratiche e alla sempre maggiore specificazione dell'attività economica. Nel comune linguaggio s'intende oggi, innanzi tutto, per industria quella particolare branca dell'attività produttiva che consiste nella trasformazione, fisica o chimica, dei prodotti naturali: sono pertanto comprese nel comune appellativo d'industria, da un lato le lavorazioni che adattano i prodotti naturali ai bisogni dell'uomo mediante semplici modificazioni del loro stato fisico (industria manifatturiera), dall'altro quelle che li trasformano chimicamente dando luogo alla formazione di nuovi prodotti (industrie chimiche). Ne rimangono escluse l'agricoltura, il commercio, l'attività bancaria. Continuano, viceversa, in pratica, a essere qualificate come industrie, benché non comprese nel concetto sopra indicato, l'esercizio di miniere e cave, il taglio di boschi, la pesca, e, sebbene meno frequentemente, anche i trasporti.

D'altro canto, una distinzione si viene effettuando gradatamente fra industria propriamente detta e artigianato, richiedendosi per la prima un certo grado di organizzazione e attrezzatura tecnica. Il criterio discretivo è ancora però molto vago.

Etnografia.

Le attività "industriali" vengono qui considerate dal punto di vista sociale insieme alle particolarità dei mestieri che ad esse concorrono; l'industria viene quindi a comprendere la produzione, la trasformazione e la consumazione delle materie, occupando così tutto il dominio dell'economia sociale. Lo studio delle tecniche seguite per rendere utili queste materie è chiamato tecnologia.

Nello sviluppo dell'industria possiamo distinguere tre grandi fasi. Nella prima ogni uomo o ogni famiglia fabbrica da sé ciò di cui ha bisogno e l'industria è un'operazione della famiglia. Nella seconda essa, sebbene praticata ancora generalmente in casa, non si limita alle esigenze della famiglia e diventa un'occupazione più regolare: è la forma comune delle industrie domestiche. Nel terzo periodo la produzione viene fatta su vasta scala e si ha una specializzazione dei prodotti e dei rispettivi fabbricanti. Tale specializzazione si riscontra però in parte anche nel secondo e perfino nel primo periodo: già presso le popolazioni primitive si hanno forme diverse di ripartizione del lavoro e prima di tutto una ripartizione riguardo al sesso nelle seguenti diverse forme: a) mentre l'uomo caccia, la donna si occupa dell'industria domestica, oppure, mentre l'uomo si dedica all'industria, la donna si occupa della coltivazione del suolo; b) l'uomo e la donna si dedicano a industrie diverse, e cioè l'uomo a quelle utili direttamente a lui, come la fabbricazione delle armi, la costruzione di abitazioni, di canotti, la lavorazione del legno, la conciatura delle pelli, mentre i mestieri femminili sono generalmente quelli che presentano maggior utilità per la donna e cioè l'intrecciatura, la ceramica, la pittura; c) l'uomo e la donna si occupano della stessa industria, l'uno fabbrica, per es., il telaio, l'altra tesse, oppure l'uomo fa gli oggetti di tipo più fine, la donna gli stessi oggetti ma di tipo più corrente. Si rileva inoltre un'altra forma di specializzazione, che sembra molto antica se non originaria, per la quale un dato lavoro diviene l'occupazione esclusiva di certi gruppi d'individui, fatto che forse risale al fenomeno biologico della ineguaglianza di attitudini. Può avvenire che un solo mestiere sia specializzato mentre tutti gli altri sono esercitati da ciascuno, come è il caso della metallurgia nell'Africa orientale e fra i Kondo. Altre volte la specializzazione avviene unicamente per oggetti di maggior valore artistico. La specializzazione può essere assai accentuata. Nella regione dell'Uganda, p. es., vi sono tre categorie di lavoratori del legno: una fabbrica canotti, un'altra mastelli e ciotole, la terza, di origine più recente, si dedica alla costruzione di mobili diversi, letti, sedie, ecc. Nella Penisola della Gazzella, nella Nuova Bretagna (Melanesia), soltanto poche famiglie hanno il diritto della raccolta delle conchiglie e della loro lavorazione per ridurle a moneta. Tali limitazioni fanno pensare che si tratti di una specializzazione praticata non solamente nell'interesse dell'industria, ma anche in seguito a considerazioni di natura animistica. La specializzazione industriale può dipendere inoltre dall'ambiente geografico, o meglio dalle risorse di questo ambiente. Avviene però che anche se questo non presenta risorse speciali, porta egualmente a lungo andare a una distribuzione d'industrie perfettamente distinte. In alcuni arcipelaghi del Pacifico, p. es., gli abitanti di ciascuna isola si dedicano a una sola industria, utile agli abitanti di tutte le altre isole del gruppo (Nuove Ebridi). Si giunge così alla specializzazione industriale delle tribù e dei clan dovuta a cause di ordine diverso. Il fatto che in alcune regioni una particolare industria non può essere praticata che durante una data stagione e non mantiene quindi chi la pratica, può essere stato la causa del disprezzo che alcune popolazioni nutrono per certe professioni. Presso le popolazioni primitive, specialmente in Africa, si può dire che l'artigiano non è mai considerato alla stessa stregua dei suoi compaesani, ma è ritenuto talvolta superiore, talvolta inferiore. La spiegazione più plausibile di questo fenomeno è di ordine storico-razziale (Schurtz). Infatti presso le popolazioni nelle quali l'artigiano appartiene a un gruppo soggiogato esso viene disprezzato qualunque sia la sua industria; la popolazione soggiogata esercita tutti i mestieri mentre i vincitori sono solamente guerrieri, dignitarî e proprietarî (Africa e in particolare il Sudan). Quando invece l'artigiano non appartiene a un gruppo conquistato, la sua industria, specialmente se si tratta di metallurgia, è tenuta in onore (Congo, Africa meridionale). Tale stima o disprezzo per coloro che si dedicano alle industrie portò alla formazione di caste più o meno rigide. A questo proposito va ricordata la confraternita degli orefici ascianti le cui donne appartenevano a tutti i membri della confraternita. Un individuo abile nel suo mestiere teneva naturalmente a trasmettere la sua abilità a chi egli voleva favorire, anzi la considerazione nella quale erano tenute alcune industrie favorì o rese necessaria questa trasmissione ereditaria. Talvolta i mestieri che si trasmettono in eredità sono i meno comuni: la specializzazione ereditaria può portare a forti inconvenienti quando si estinguano le famiglie che praticano quelle date industrie. Così nelle isole del distretto di Torres, estintasi la famiglia incaricata di costruire i canotti di un sol pezzo, gli abitanti dovettero acquistare dalle popolazioni della Nuova Guinea le imbarcazioni che erano loro necessarie (Haddon). È naturale quindi domandarsi se la perdita completa di alcune industrie, quale per esempio la ceramica, subita da popolazioni che, come gli Ainu, la praticavano in passato, non sia dovuta a una causa simile.

Il desiderio di assicurarsi il privilegio di una data industria portò a ricorrere alla magia: le pratiche magiche si osservano più spiccatamente nella metallurgia, nella costruzione delle abitazioni e specialmente delle case di riunione (Nuova Guinea); meno frequentemente invece nei mestieri comuni come l'intrecciatura, la ceramica e la tessitura. I prodotti della fabbricazione vengono dagl'indigeni ritenuti in questo caso animati: così il totem di un clan dell'isola di Yap (Caroline) è, p. es., una corda di fibre di cocco dalla quale si ritiene discenda il clan. Tanta è la parte rappresentata dalla magia nell'industria dei primitivi che questi talvolta nell'insegnare ai loro apprendisti dànno più importanza ad alcune mosse magiche fatte con la mano durante il lavoro che non alla tecnica del mestiere stesso. La specializzazione permette inoltre all'individuo di maggior abilità di produrre, nel campo della sua attività industriale, oggetti sempre più fini che acquistano un valore artistico e che portano alla creazione di stili locali oppure, per estensione, generali.

Fra artigiano e consumatore possiamo distinguere quattro forme di rapporto: 1) l'artigiano lavora presso il consumatore con materiale fornito da questo: vi rientra il lavoro reciproco che si osserva specialmente per la costruzione delle dimore; 2) l'artigiano lavora nella propria casa con materiale fornito dal consumatore: forma meno frequente fra le popolazioni primitive; 3) l'artigiano lavora in casa sua con materiale proprio. In questo caso il pagamento vien fatto sia in moneta del paese, sia in natura, sia con una contro-prestazione di lavoro. Presso gli Ewé della costa del Dahomey e del Togo, p. es., il consumatore che richiede un oggetto di metallo, coltiva il campo del fabbro mentre questi gli lavora l'oggetto (Spieth); 4) gli artigiani si riuniscono in locali appositi dove ognuno fornisce il proprio lavoro alla comunità, a una organizzazione o a un padrone. Questa forma è sviluppata specialmente nell'ambito delle civiltà moderne sebbene esistessero già delle officine fin dal Paleolitico superiore e particolarmente dal Solutreano. Ora, mentre nelle tre prime forme l'artigiano non lavora generalmente che a seconda delle richieste che ha, nella quarta esso costituisce delle riserve dei suoi prodotti industriali, da esitare nell'avvenire.

Si riteneva in passato che l'industria fosse apparsa soltanto allorché l'uomo ebbe raggiunto una certa stabilità, cioè dopo che egli si era dedicato alla forma più primitiva di coltivazione del suolo. Riferendoci così alla successione dei cicli culturali (v. culturali, cicli) dovremmo attribuire il sorgere dell'industria al ciclo delle due classi, durante il quale si è sviluppata la coltivazione con la zappa. Ma è evidente che già nel ciclo del bumerang, p. es., la fabbricazione delicata di questo strumento non era alla portata di tutti: nella preistoria europea si è constatata l'esistenza di vere officine di "taglio" dell'epoca solutréana e indubbiamente già nell'epoca chelléana chi era più abile nel taglio dei "coups-de-poing" ne fabbricava più degli altri. I fatti osservati mostrano un'analogia fra il Paleolitico superiore, dall'Aurignaciano al Magdaleniano, e l'attuale ciclo culturale del totem. Infatti durante il Paleolitico superiore si ha la specializzazione dell'industria, il lavoro in officine, la pratica dell'arte e lo stabilirsi del commercio; così nel ciclo patriarcale del totem dei primitivi attuali queste manifestazioni si stabiliscono su vasta scala, in opposizione sia ai cicli culturali più primitivi, sia ai cicli contemporanei matriarcale delle coltivazioni con la zappa (ciclo delle due classi) e patriarcale della pastorizia. La maggior parte delle industrie del ciclo del totem sono in mano dell'uomo mentre la donna si occupa principalmente dell'intrecciatura: i mestieri essenzialmente femminili, cioè la ceramica e l'intrecciatura, non sono ancora apparsi nel ciclo del totem più che non lo siano nel Paleolitico superiore. Questo ciclo del totem vede per contro una fioritura dell'industria maschile delle armi e specialmente di quelle a punta, adoperate nei combattimenti corpo a corpo (v. armi; culturali, cicli). Nell'antico Egitto, ove si aveva un forte influsso della cultura totemica, le industrie erano a tal punto in mano dell'uomo, che anche la tessitura era a lui affidata. Nell'India, dove pure la cultura è prevalentemente totemica, la formazione delle caste professionali è dovuta all'isolamento sempre più profondo dei clan totemici che si dedicavano ognuno a un'industria diversa. Le caste inferiori sono quelle che hanno avuto origine anteriormente alla dominazione ariana: cacciatori, mendicanti, musici, zingari, spazzini, filatori e tessitori; le caste industriali superiori sono quelle che hanno attinenze con la metallurgia e hanno origine post-ariana.

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Storia dell'industria.

Antichità classica. - Nozioni generali. - Tutte le industrie che fiorirono nell'antichità partono dall'industria domestica (nell'antico Egitto anche dall'industria esercitata dal tempio; v. sotto). Via via che le industrie si staccano dall'economia domestica, la casa va perdendo l'indipendenza economica e insieme quel carattere di azienda complessa che essa ha invece quando produce tutto ciò che consuma e che le serve. Di pari passo l'industria, che per l'isolamento delle altre attività domestiche si specializza, perfeziona i suoi mezzi e migliora i prodotti. Questo procedimento passa per varie fasi e si presenta, a seconda dei tempi e dei luoghi, più o meno evoluto. In genere, però, si può dire che l'industria specializzata non raggiunge mai, rispetto all'attività domestica, quell'autonomia che ha nei tempi moderni. La casa in qualsiasi periodo dell'età antica produceva per le sue esigenze cose e servizî che oggi sono oggetto esclusivo o quasi d'industria extra-domestica, compresa la maggior parte di quelli che oggi, dopo esser passati attraverso l'industria privata, sono divenuti servizî pubblici gestiti direttamente o indirettamente dallo stato o da enti pubblici: servizî di trasporto di cose e di persone; istruzione dei figli; illuminazione; servizio di posta; servizio di estinzione d'incendî. Questi servizî, affidati in massima parte all'attività domestica, complicavano l'organizzazione delle famiglie più agiate. Le famiglie più povere o ne facevano a meno o se li potevano permettere in misura molto ridotta e imperfetta.

Dell'origine domestica dell'industria antica rimangono tracce interessanti anche quando l'industria, come attività tecnica, si è staccata dalla casa. Se, infatti, si fa eccezione per l'industria mineraria in ogni tempo e per l'industria agricola o le grandi imprese (bonifiche, acquedotti, costruzioni) presso i Romani, l'organizzazione industriale, specie la manifatturiera, anche in luoghi, come la Grecia classica, dove accanto alle maestranze schiavistiche concorre alla produzione un fiorente artigianato libero, rimane sempre legata all'ordinamento domestico. Ciò che i Greci chiamano officina, ἐργαστήριον, va inteso come un complesso di schiavi specializzati, che lavorano in casa del padrone. Nelle case dei ricchi industriali greci vi erano stanze destinate al lavoro degli schiavi, i quali, sebbene occupati nella produzione dei manufatti, partecipavano della vita della famiglia, dove prendevano i pasti e dormivano in apposite camerate. Così, anche presso i Romani gli schiavi che attendevano alla fiorentissima industria dei mattoni o dei vasi di coccio, ovvero della concia delle pelli, facevano parte della familia rustica, la quale aveva, sì, un'organizzazione distinta dalla familia urbana convivente col padrone, ma comprendeva anche uomini addetti a una produzione diversa da quella agricola e che, per essere superiore alle strette esigenze della fattoria, sarebbe oggi affidata a uno stabilimento industriale, separato.

Nell'antichità non vi erano vaste organizzazioni: mancava quindi la possibilità di una larga intesa fra i lavoratori. Fra i Greci il pericolo di un accordo degli schiavi contro i liberi, sebbene visto e denunciato dagli scrittori, non fu mai serio e concreto, nonostante la sproporzione numerica fra liberi e schiavi. Dove, come avveniva spesso fra i Romani, la natura dell'industria (miniere, bonifiche, grosse aziende agricole) richiedeva un numero considerevole di schiavi, si toglieva in anticipo la possibilità dell'accordo e della ribellione con l'imporre una disciplina durissima; tanto che i padroni più umani consideravano il lavoro in tali condizioni come una pena. Né con ciò si evitavano sempre le rivolte, che a intervalli scoppiarono e furono soffocate nel sangue.

Tra gli antichi che non ebbero macchine né così potenti né cosi perfette come le nostre, criterio per la distribuzione del lavoro era la capacità individuale dell'operaio. Questo dà ragione del singolare carattere che ha l'industria antica in quanto tende a formare gruppi chiusi di lavoratori specializzati. Anche nella Grecia classica la composizione delle maestranze servili può durare immutata per anni: sappiamo, per esempio, di un ἐργαστήριον di venti schiavi fabbricanti di letti ereditato da Demostene. Questa tendenza che notiamo fra i Greci nelle maestranze servili si riscontra anche fra gli artigiani liberi del mondo romano. Anzi, nel basso impero essa ispira le dure disposizioni legislative che legano l'artigiano alla sua arte: e con lui i figli, che sono obbligati a seguir l'arte paterna, e talvolta le figlie, le quali non possono sposare che un artigiano del genere del padre. L'attività artigiana diviene forzatamente ereditaria. E in massima si può dire che la differenza fra grande industria e artigianato nell'antichità riposi quasi esclusivamente sulla differenza di numero fra i lavoratori impiegati. Ecco perché la grande industria non soffocò mai l'artigianato: il lavoro schiavistico tendeva - e in modo pericoloso nella Roma imperiale - a ridurre il costo del lavoro dell'artigiano, ma non a eliminarne la funzione. Anzi, nella Grecia classica era frequente il caso dello schiavo che, invece di far parte di una maestranza, lavorava come un artigiano libero pagando un canone al padrone (ἀποϕορά) e vivendo separato con la sua donna e la sua prole. Il popolino ateniese dei secoli V e IV ci appare formato soprattutto di artigiani.

Prodotti industriali. - I prodotti dell'industria antica differiscono dai moderni per essere di più lenta fabbricazione, meno omogenei e tipici, relativamente più cari. La produzione è meglio adeguata al consumo: si hanno notizie di crisi industriali e commerciali causate da fatti politici (stato di guerra, perdita d'influenza politica e quindi eeonomica su terre aperte all'importazione di uno stato), ma non di crisi gravi prodotte da sproporzionato rapporto fra la produzione e il consumo.

Altra differenza fra il prodotto industriale antico e il moderno è che nell'antichità non si ebbe un'arte industriale distinta dall'arte per l'arte. Opere d'arte che oggi si ammirano, come fibbie, ceramiche, armi, ciste, bracieri, hanno servito a uno scopo pratico, sono stati oggetti di uso comune. Di un'arte industriale, se mai, si può parlare nel senso che capolavori divenuti famosi, statue, fregi, pitture parietali, davano origine a una tradizione, offrendo spunti e motivi a una grossa schiera di artisti minori, i quali riproducevano quasi meccanicamente forme e soggetti di opere celebri; piuttosto che un'arte diversa, l'arte industriale è un'appendice della grande arte, delle cui briciole si nutre e di cui è spesso l'unica trasmettitrice.

L'industria in Grecia. - Fra le primitive popolazioni che, sparse in villaggi sul suolo della Grecia, vivevano soprattutto dei prodotti del suolo e delle greggi, alle limitate esigenze della famiglia pensava la famiglia stessa con la produzione domestica. Saranno avvenuti scambî, specialmente nella forma del dono, che è mezzo di permuta primitivo e resistente, vivo anche oggi fra tribù selvagge; ovvero incursioni e razzie a scopo di rifornimento fra villaggi vicini non pacificati. Uno sviluppo anche rudimentale d'industria extra-domestica, che non sia il prodotto di qualche particolare abilità individuale, va escluso.

Nel mondo eroico descritto da Omero e in quello rivelato dagli scavi di Tirinto e di Micene, la famiglia del re, vivente nel sontuoso e complesso palazzo, costituisce il centro economico della città che vi si raccoglie intorno. Numerosi schiavi hanno cura delle greggi e lavorano il terreno; l'attività manifatturiera è rappresentata da un artigianato libero e girovago che si ferma dovunque l'opera sua è richiesta, per un tempo più o meno lungo. Questi artigiani lavorano per una mercede in cui è compreso il mantenimento: la materia prima è fornita dal datore di lavoro: i più importanti sono il χαλκεύς lavoratore di metalli, in un senso molto esteso che va dal fabbro al gioielliere), il τέκτων (falegname, costruttore di mobili, muratore) lo σκυτοτόμος (calzolaio, lavoratore di cuoio); e poi pescatori, vasai, costruttori di navi. Certi oggetti che sono prodotti di un'arte industriale più raffinata erano forniti dal commercio che la tradizione vuole esercitato dai Fenici.

Nei secoli VII e VI si ebbe in tutta la Grecia un notevole sviluppo economico, particolarmente nelle città dell'Asia Minore; e fu favorito dall'uso del coniar la moneta, introdotto dai Lidî nel sec. VII e presto seguito da altre città asiatiche (Focea, Mileto, Samo) e nel secolo seguente da Egina, Calcide, Corinto e Atene. L'attività che più attesta questo risveglio economico è l'attività commerciale: ma si ebbe anche un'importante produzione industriale. I prodotti di Mileto (stoffe preziose, ceramiche) si diffondevano non solo nelle colonie milesie, ma anche nei più lontani mercati (Italia). A Focea, città di arditissimi navigatori, si costruirono le prime navi da guerra (Herodot., I, 163). Chio produceva ed esportava ceramiche, coppe cesellate, letti di lusso, vini rinomati. Samo, soprattutto nell'età di Policrate, richiamò nell'isola i più abili artigiani del tempo. La lavorazione degli oggetti di metallo e delle ceramiche, industrie particolarmente care ai Greci, fioriva a Corinto - che costituisce in questo tempo il primo centro industriale della Grecia europea - nonché a Egina e a Calcide.

Come di ogni altra attività, così anche dell'industria e del commercio, il centro più importante nei secoli V e IV è Atene. Il movimento commerciale ha senza dubbio la prevalenza; ma fioriscono anche numerose industrie, che occupano come artigiani la maggior parte dei teti, e dànno possibilità ai capitalisti, in massima parte meteci, d'investire una parte del denaro comprando e facendo lavorare abili schiavi operai: si fabbricano armi, lampade, letti; si concia il cuoio che i mercanti portano soprattutto dai lontani scali del Ponto; si lavora la pietra, il rame, l'avorio; si fanno oggetti di oreficeria, si tessono e si tingono stoffe, si confezionano abiti e calzature. Ricchissima è la produzione delle ceramiche, che viene esportata sin dove giunge il commercio greco. La produzione dei manufatti attici, oltre che all'esportazione, serve al consumo locale che, non ostante il modesto tenore medio della vita ateniese, è considerevole a causa della numerosa popolazione. Poco informati siamo sulla produzione industriale degli altri centri commerciali di quest'età, come Siracusa, Marsiglia (sbocco naturale delle ricchezze minerarie della Gallia), le città della Magna Grecia; Cirene è rinomata per la produzione del silfio, per l'industria della ceramica e per gli allevamenti equini e ovini.

Il fatto caratteristico dell'età ellenistica, lo spostamento dei principali centri dell'attività greca sulle coste del Mediterraneo sud-orientale e in Egitto, si rivela in uno dei suoi aspetti più essenziali nell'importanza economica raggiunta da Alessandria e da Rodi. Fattore principale di ricchezza è anche qui il commercio; Alessandria, in particolare, è il luogo in cui confluiscono i prodotti ricchissimi dell'India e delle regioni africane più interne; ma anche l'industria è rigogliosa. I prodotti dell'Egitto, papiro, tessuti di lino, oreficerie, oggetti di vetro finemente lavorato, servono all'uso locale e a una larga esportazione; sotto i Tolomei anche la birra (v.), che prima era un prodotto domestico, diviene oggetto di un'industria importante. La lenta decadenza di Atene e di Corinto non impedisce che il commercio e le industrie loro conservino una certa importanza. Nelle città dell'Asia Minore, specialmente a Efeso e a Smirne, si nota un grande risveglio economico e un forte aumento di popolazione, dovuto in massima parte all'intensificato commercio: ma anche l'industria, che in quelle città ha antica tradizione, è fiorente: Efeso produce marmo, metalli, lana lavorata, tappeti, unguenti, oggetti preziosi; Smirne è rinomata per l'industria mineraria (creta verde, cerussa) e per la porpora. Nell'età romana l'isola di Delo diviene centro di primissima importanza come emporio di merci, in maggior parte di transito, e di schiavi: ma vi fioriscono anche le industrie (minerali, unguenti, allevamenti di galli). I vasa Deliaca diventano celebri e ricercati come i famosi vasa Corinthia.

Industria romana. - Il Lazio fu soprattutto terra di agricoltori; nei secoli VIII e VII, quando già il commercio greco importava fra le popolazioni italiche della costa vasi, profumi, unguenti, le genti latine rimasero lontane da quei contatti commerciali. Ma durante il secolo VI l'influsso (o il dominio) degli Etruschi provocò anche nel Lazio un risveglio economico. I primi tempi della repubblica segnano, invece, un abbassamento culturale del Lazio e un ristagno nel suo sviluppo economico. Più tardi, l'aumentata penetrazione commerciale dei popoli costieri e i nuovi rapporti che furono effetto della conquista dell'Etruria e della Campania, provocarono per riflesso anche nel Lazio una produzione industriale indigena: l'importazione di vasi campani e di bronzi etruschi vi fece sorgere l'industria della ceramica e quella del bronzo di cui fu rinomato centro la città latina di Preneste (specchi di bronzo incisi, fibule, ciste).

La conquista dell'Italia da parte di Roma non soffocò la produzione delle città assoggettate; i prodotti varî dell'industria italica confluivano a Roma come nel loro maggior mercato; e con la merce, a volte, anche gli artisti, dando origine a un'industria locale.

Allargandosi la conquista di Roma, l'aumento della popolazione, il raffinamento del lusso, la costruzione di grandi opere pubbliche e private diedero incremento a molte industrie che rispondevano alle esigenze del consumo di Roma e dell'Italia. Ma l'esportazione fu sempre molto limitata tranne che per l'industria del bronzo, i cui prodotti si son trovati nei centri più lontani, e anche per industrie meno importanti, ma solo in regioni di basso livello economico prima che la conquista romana, innalzandone il grado di civiltà, rendesse possibile il sorgere d'industrie locali. Certo è che l'imperialismo romano non fu imperialismo industriale. I Romani sfruttavano i territorî soggetti con le gabelle, con il reddito dei pubblici uffici, importanti o modesti, ma non imponendo sistematicamente la penetrazione delle loro merci. La classe dirigente disprezzava l'industria e la mercatura; l'industria agricola era la sola cui fossero dediti anche gli appartenenti all'ordine senatorio, che vi impiegavano quasi esclusivamente mano servile, l'unica, del resto, che la legge permettesse loro. Una grande industria manifatturiera come la moderna, con una produzione pletorica e un estesissimo campo d'irradiazione delle merci, nel mondo romano non vi fu mai. Fiorì invece la piccola industria, pur restando ai margini del movimento dell'alta finanza che era organizzata soprattutto per le speculazioni bancarie e di appalto. Nei centri più operosi è tutto un pullulare di piccole industrie. Pompei è costellata di bottegucce e di modesti stabilimenti industriali; un aspetto simile dovevano avere in Roma i quartieri popolari. Questa piccola industria italica produce una merce che serve agli usi della vita quotidiana e alle diffuse esigenze del lusso: tessuti, ceramiche, lampade di argilla, oggetti domestici di vetro, lavori di oreficeria. Di gran lunga più considerevole è il prodotto di quelle industrie che forniscono il materiale necessario alle opere pubbliche (templi, acquedotti, terme) o a importanti imprese private, come la costruzione di grandi isolati di case. Si tratta anche in questi casi di una produzione industriale legata al consumo indigeno; ma la sua importanza è pari alla grandiosità delle opere che venivano eseguite. Appartengono a questo ramo dell'industria romana e italica le fornaci di mattoni, la lavorazione del piombo (tubi per le condutture, lastroni di piombo per rivestire l'interno dei collettori di acque), della pietra e del marmo.

Centri d'industria italica. - Di questa industria il centro più importante è Roma; considerevole è la sua produzione in tutti i rami dell'industria: essa ha poi un primato assoluto nella fabbricazione di oggetti di lusso, specie oggetti di metallo prezioso, gioielli, coppe cesellate. L'alto tenore della vita che si vive in una grande metropoli ne fa la capitale della moda e la produttrice incontrastata degli oggetti di lusso. Per ragioni evidenti anche l'industria edilizia e le industrie a quella connesse vi sono incomparabilmente più sviluppate che altrove. Ma anche fuori di Roma l'Italia possedeva notevoli centri industriali. A Como, Sulmona, Salerno, Pozzuoli fioriva l'industria del ferro, che le miniere dell'Elba fornivano in abbondanza. Nella Campania, terra operosa, vi erano fabbriche di bronzi (Capua), e di vasi di terracotta (Pozzuoli, Ischia, Cuma), di vetro (Cuma, Sorrento, Pompei). La Puglia produceva lana ricercatissima (Taranto, Canosa) e possedeva celebri tintorie. Anche nell'Italia settentrionale vi erano centri industriali. A Bergamo si fabbricavano oggetti di bronzo, a Modena embrici, a Pola anfore. Ad Aquileia, centro commerciale attivissimo, erano sviluppate l'industria tessile, quelle del vetro, dell'ambra. Nell'Italia settentrionale vi erano anche molte fra le più celebri lanerie (Pollenza, Istria, Padova, Parma), tintorie (Aquileia, Pollenza), fabbriche di tessuti di lino. Centri d'industria navale erano Ostia, Ravenna e Genova.

Industria provinciale nell'età romana. - Il fatto sopra rilevato che l'egemonia politica di Roma non impose un'egemonia industriale ebbe come conseguenza il mirabile sviluppo delle industrie nelle provincie conquistate. All'intensa produzione di queste industrie Roma contribuiva sia facilitando coi numerosi contatti, resi possibili dal suo impero, i perfezionamenti tecnici delle industrie, sia agevolando con la pace sui mari e con le migliorate comunicazioni terrestri il commercio fra paesi lontani, sia offrendo con l'esigenza delle forniture militari e con l'immenso consumo delle metropoli uno sbocco larghissimo alle merci di tutti i paesi. L'Oriente (Egitto, Siria, Asia Minore) inviava a Roma merci molto ricercate, dalla seta della Cina all'acciaio dell'Asia Minore, dalle porpore della Siria ai cristallami e ai papiri dell'Egitto. Ma anche nelle provincie dell'Occidente e del Nord le industrie erano molto sviluppate e, con quelle orientali, facevano una grave, spesso vittoriosa, concorrenza ai prodotti delle industrie italiche. Marziale, spagnolo, vanta l'acciaio ben temprato, le molli lane e il succulento garum [v.) dei suoi paesi: e sappiamo che non è vanto infondato; la Gallia, ricca di minerali, si afferma nell'arte del bronzo e nella lavorazione dei metalli preziosi, nella fabbricazione di vasi d'argilla a rilievo (vasa sigillata); diffuse dovunque sono le sue calzature (gallicae), i prodotti della sua industria laniera, stoffe, mantelli, materasse; i tipi della carrozzeria gallica diventano usuali in Roma. Il Norico produceva ottime armi, la regione del Reno vasa sigillata, la Batavia oggetti di toletta. A tutte queste merci si apriva un centro di consumo insaziabile, un mercato gigantesco, Roma.

Organizzazione interna dell'industria antica. - Non appare che vi fosse in Grecia una classe d'industriali interamente assorbita dagli affari della propria azienda. I proprietarî di officine, in Atene per la maggior parte meteci, sono capitalisti che cercano un utile impiego al loro denaro non meno nelle speculazioni marittime e bancarie che nello sfruttamento del lavoro servile. Nelle aziende più piccole è il padrone stesso che lavora con qualche operaio, ed è, in fondo, un artigiano che dispone dei capitali necessarî per comprar la materia prima e provvedersi di schiavi (comprati o noleggiati) o di garzoni liberi. Quando il proprietario di una officina non se ne occupa direttamente, incarica uno schiavo di fiducia o un liberto (ἐπιστάτης, ἡγεμών) di sorvegliare e di dirigere i lavoranti; in tal caso il capo dell'azienda è questo ἐπιστάτης, il quale ne percepisce gli utili, corrispondendo al proprietario, che fornisce capitale e materia prima, una somma fissa.

L'uso di corrispondere all'operaio una mercede giornaliera è tardo; nei tempi antichi si remunerava l'operaio nutrendolo e dandogli il diritto di trattenere una parte della materia prima che gli era fornita. Ma già nei secoli V e IV la mercede in denaro, sebbene non si affermi mai in modo esclusivo, appare la forma normale di compenso sia di artigiani liberi, sia di schiavi (soprattutto nel caso di schiavi noleggiati). Alcuni documenti epigrafici ci dànno l'ammontare di queste mercedi, che sulla fine del secolo V sono di una dramma giornaliera tanto per i liberi quanto per gli schiavi, nei secoli IV e III sono notevolmente maggiori, ma subiscono tuttavia assai forti oscillazioni.

La grande produzione industriale di Roma coincide con la fortissima importazione di schiavi in Italia; la concorrenza della mano servile impacciò l'attività e l'iniziativa dell'artigianato libero, costringendo i proletarî a una vita parassitaria a spese dello stato. Sebbene vi siano sicuri indizî che l'artigianato libero non fu mai assolutamente eliminato, certo è che gli schiavi, i quali nei primi tempi della repubblica erano domestici addetti ai servizî di casa, quando il loro numero crebbe divennero in massima parte operai. Questi schiavi operai, quando lavoravano nella famiglia del proprietario erano divisi in squadre (collegia, classes, decuriae), sotto la direzione di un praepositus. Un'organizzazione simile si suppone vi fosse nelle industrie indipendenti dalla famiglia. Il lavoro doveva essere distribuito secondo l'abilità: è probabile che schiavi e artigiani liberi occupati nelle industrie passassero nell'apprendimento dell'arte attraverso varî gradi: le epigrafi menzionano magistri e discentes. Un modo usuale di sfruttamento del lavoro di schiavi, o proprî o noleggiati, era l'appalto di lavori da parte di un impresario (redemptor).

Non si crederà che il lavoro fosse sempre ben fatto, come porterebbero a supporre le venerande rovine di Roma; né che accanto ad appaltatori abili e coscienziosi non vi fossero gl'improvvisati e i negligenti: sappiamo di un architetto che non sapeva fare star diritte le colonne e di accollatarî, che per il modo tumultuario delle costruzioni causavano infortunî dove gli operai trovavano la morte.

Gli operai, liberi e schiavi che fossero, lavorano per una mercede fissata liberamente, a cottimo o a giornata. Solamente Diocleziano stabilì alcune tariffe. Quanto alla giornata di lavoro, essa durava sinché il sole era nel cielo; generalmente si fissava un minimo di lavoro obbligatorio per l'operaio.

Monopolî statali delle industrie nell'antichità. - Lo stato che più largamente applicò il sistema della monopolizzazione delle industrie, procurandosi per tal modo forti entrate, è il regno di Egitto sotto i Tolomei. Nel periodo pregreco il principal fattore economico dell'industria egiziana è il tempio; il quale, con un'economia domestica in grande stile, dapprima copre solo le necessità del consumo e col tempo estende la produzione in modo da soddisfare le richieste di una larga clientela, esercitando specialmente l'industria dell'olio, delle tessiture, sembra anche del papiro. La bontà dei prodotti, effetto della vastità dell'organizzazione del lavoro industriale da parte del tempio, rendeva difficile la concorrenza dei privati e faceva sì che il tempio egiziano, durante i governi nazionali, esercitasse di fatto un monopolio industriale. I Tolomei, istituendo delle manifatture di stato, volsero a profitto dell'erario regio quelli che erano già i profitti del tempio e imposero di diritto il monopolio di quelle industrie coi seguenti mezzi: 1) obbligando i produttori indigeni a vendere la materia prima solo agli appaltatori del monopolio; 2) fissando il prezzo del prodotto; 3) vietando l'importazione del prodotto straniero; 4) assicurando alla cassa dello stato, mediante il contratto con gli appaltatori e con una tassa di consumo, una forte percentuale sul prezzo di vendita al minuto. Questo sistema di monopolio sembra fosse applicato in pieno solo sulla produzione dell'olio. Dei tessuti di lino (ὀϑόνια), specie dei più fini (βύσσινα ὀϑόνια), lo stato lasciava che i templi continuassero come nell'età antecedente la fabbricazione, con l'obbligo però di vendere al re, a un prezzo fissato d'impero, tutto il . pmdotto, tolto quel tanto che serviva al culto. Soggette al monopolio erano anche le industrie della lana, del papiro, degli unguenti. Il monopolio dell'industria della birra (v.), invece, veniva esercitato indirettamente; lo stato sottoponeva l'esercizio dell'industria privata all'obbligo di ottenerne la concessione riservandosi il rifornimento della materia prima.

Dai documenti, nel complesso insufficienti, dell'età romana, si ricava che il sistema del monopolio esercitato per mezzo di concessioni, che i Tolomei avevano introdotto per la birra, ebbe larghissima applicazione nell'ordinamento finanziario dell'Egitto sotto i Romani. Nelle altre provincie e in Italia l'impero romano usò limitatamente del monopolio: officine di stato si ebbero solo per la zecca - e la ragione è ovvia - e nell'industria della porpora. Una forma intermedia si riscontra nelle officine di armi (fabricae) del basso impero. Lo stato prescrive e controlla il lavoro dell'officina; disciplina la composizione interna delle corporazioni che fabbricano armi, e la condizione personale degli operai; di regola fornisce anche la materia prima; in modo, però, che il rapporto economico fondamentale fra lo stato e le corporazioni sia quale suol essere fra acquirente e fornitore; nei limiti del controllo dello stato, la fabbrica è tecnicamente ed economicamente autonoma. Lo stato non è il proprietario o il capo dell'azienda: ne è l'esclusivo cliente.

Medioevo. - Con la decadenza dell'impero romano, nell'Europa occidentale, anche per cause monetarie, si tornò a forme più primitive di organizzazione della produzione.

Dal secolo di Augusto in poi era andata manifestandosi una deficienza di metalli preziosi, che si accentuò dopo Costantino per il trapasso di forti quantità di essi in Oriente, e ancor più dopo le invasioni barbariche, per la chiusura delle miniere notissime di argento della Spagna.

Essa toccò il massimo verso l'800: in quell'epoca, secondo lo Jacob, lo stock di metalli preziosi era ridotto a un undicesimo di quello dei tempi di Augusto. Contemporaneamente, i trasporti diventavano sempre più difficili e malsicuri. Così, sebbene gli scambî non cessassero mai del tutto (v. commercio) si ritornò all'economia domestica anche in quei rami di produzione che avevano raggiunto forme più progredite. Le donne filavano e tessevano per la famiglia, gli uomini conciavano i cuoi, ciascuno cercava di fabbricare da sé i necessarî strumenti di lavoro. Solo a rari intervalli falegnami, fabbri e calderai ambulanti visitavano fattorie e villaggi per lavorare presso i consumatori stessi, spesso anche col loro aiuto. L'energia necessaria per la lavorazione era sempre fornita dall'uomo e dagli animali domestici, e solo in piccola parte dalle cadute di acqua.

Accanto all'economia domestica, nei dominî dei più potenti signori feudali e dei monasteri, si aveva la cosiddetta economia curtense: la classe dominante provvedeva ai proprî bisogni (più che altro, all'alimentazione e al vestiario) col lavoro dei dipendenti; in certi casi con prestazione d'opera o con cessione gratuita di manufatti da parte di contadini; in altri casi col lavoro di servi specializzati, talvolta riuniti in veri e proprî laboratorî. Così, per es., nel öiràz dei re normanni a Palermo si fabbricavano tessuti di seta. Simile organizzazione serviva gruppi abbastanza numerosi e poteva anche consentire una certa specializzazione dei lavoratori (v. curtense, sistema).

In contrasto con questo regresso dell'Occidente, la vita economica continuava a fiorire nell'impero romano d'Oriente. In Egitto si producevano ancora vetro e papiri, in Siria tela di lino, tessuti tinti di porpora e vetri. Vi era sorta anche l'industria dei tessuti di seta: la seta greggia, dapprima importata dalla Cina, dal tempo di Giustiniano era prodotta anche entro i confini dell'impero. La conquista araba danneggiò dapprima quest'attività, determinando, fra l'altro, anche la rottura dei rapporti con Costantinopoli e con le provincie dipendenti; ma presto furono gli stessi conquistatori a far rifiorire la produzione dalla Persia all'Egitto e alla Spagna e a stabilire attivi rapporti commerciali con la Cina, con l'India e poi con l'impero bizantino. Furono i commercianti levantini (siriaci, greci, ebrei) ad avere per lungo tempo in mano tale commercio, e solo verso il sec. X a essi andarono a mano a mano sostituendosi mercanti dell'Occidente, specialmente italiani, che si recavano direttamente a fare i loro acquisti nel Levante (v. commercio). Il commercio si limitava alle merci di lusso, che sole potevano affrontare il costo enorme dei trasporti e consentire al mercante sufficienti profitti. Esso provvedeva soprattutto al consumo dei sovrani, dei grandi signori feudali e della Chiesa la quale, per i bisogni del culto, acquistava vesti splendide, arazzi, coperte, tappeti, pietre preziose, profumi.

A partire dall'epoca dei Carolingi, in Occidente ricominciarono a formarsi lentamente le condizioni propizie al rifiorire della produzione e allo sviluppo dell'economia a base monetaria. Le miniere spagnole riaperte dagli Arabi e quelle della Germania e dell'Ungheria fornivano di nuovo argento e oro. E se questi metalli preziosi passavano in Oriente in pagamento di merci, una parte tornò in Occidente (e specialmente in Italia) per effetto della fondazione di stabilimenti commerciali nel Levante da parte delle repubbliche marittime italiane e della conquista e dei saccheggi compiuti sui territorî dell'impero bizantino.

Nei secoli XI e XII si andarono anche realizzando importantissimi progressi tecnici: così, l'uso dell'energia idraulica per l'insufflazione dell'aria rese possibile la creazione dell'alto forno (v. ferro). Contemporaneamente s'introducevano in Occidente industrie già stabilite in Oriente, come quella della carta (v.); ma soprattutto si sviluppò l'industria tessile ed ebbe importanza non piccola quella delle armi e delle armature. Alcune città medievali, come Firenze, Venezia, Milano, Bruges, Anversa, precorsero con la loro organizzazione i paesi industriali dell'evo moderno.

Nel Medioevo le industrie erano esercitate da artigiani riuniti in corporazioni (v. arti; corporazione). Ma, per la debolezza stessa degli stati dell'epoca, queste corporazioni non erano sempre in grado di esercitare effettivamente il monopolio al quale pretendevano. Per lo stato arretrato della tecnica e il grande dispendio di lavoro e di tempo che l'organizzazione artigiana portava con sé, il costo de" a lavorazione risultava elevato e il guadagno netto molto modesto. Si aggiunga che sebbene la distinzione dei gradi in seno alla corporazione fosse molto netta e molto difficile e lento l'avanzamento dall'uno all'altro, non c'erano che piccole differenze per quanto riguardava il guadagno; così, per es., un maestro muratore, secondo i calcoli del Rogers non guadagnava che il 20% più del semplice compagno.

Il distacco fra il costo di produzione nella bottega dell'artigiano e il prezzo di vendita al consumatore ultimo era forte: 20 panni bianchi comprati a Cadice per 256 fiorini, erano venduti sul mercato di Firenze per 295 fiorini. Inoltre, è da tener presente che fortissima era la differenza fra il prezzo della materia prima al luogo d'origine e quello al quale l'artigiano poteva comprarla: per esempio, 100 libbre di lana, comprate in Inghilterra per 10 ½ fiorini, erano rivendute a Firenze, nella quantità netta corrispondente (2/3 del lordo), per 38-44 fiorini.

Questi forti distacchi erano giustificati dall'elevatissimo costo dei trasporti, dalla piccolezza delle vendite dei mercanti e dall'estrema lentezza del giro del loro capitale. Per es., il viaggio delle galere veneziane in Fiandra si compieva in media nello spazio di un anno. Il Sombart ritiene che, dedotte le spese vive del viaggio, i mercanti nomalmente guadagnassero, anche tenendo conto di simili altissimi margini, soltanto di che mantenere modestamente la loro famiglia.

La più cospicua industria medievale, fra quelle organizzate per la vendita sui mercati lontani, era l'industria della lana (v.). Sviluppatasi in Fiandra e in Italia, attingeva la materia prima in Catalogna e principalmente in Inghilterra, dove essa finì col trasferirsi. I re d'Inghilterra favorirono l'immigrazione di artigiani forestieri e già al principio del sec. XIV Edoardo III aveva creato nuclei di esperti artigiani. Verso la fine dello stesso secolo, grossolani tessuti di lana del Lancashire già si vendevano in Spagna, Portogallo e Francia. L'industria del cotone (v.), in Europa ancora ai suoi inizî, si limitò per secoli a produrre fustagni misti, con ordito di lino e trama di cotone. Essa fioriva già dal sec. XII in Italia e in Spagna, con materia prima fornita principalmente dalla Sicilia e dal Levante. Si sviluppò anche nella Germania meridionale, utilizzando cotone levantino importato da Venezia. L'industiia della seta alla fine del Medioevo era diventata una tipica industria italiana. In un'industria molto diversa, quella delle armi e delle armature, eccellevano Bordeaux e Milano che, ricordata fin dalla fine del sec. XIII come uno dei centri più attivi, nel sec. XIV acquistò la supremazia (v. armi, IV, p. 489). La produzione della ghisa, cominciata, a quel che sembra, alla fine del sec. XIV nella regione renana, verso il 1400 aveva raggiunto un notevole sviluppo in Germania e nelle regioni nordorientali della Francia (v. ferro).

Per lo sviluppo dell'industria nel Medioevo è interessante mettere in rilievo, benché sia discutibile la loro efficacia pratica, le dottrine della Chiesa che riguardavano l'attività economica e cioè, oltre a quelle sull'interesse, le idee sul giusto prezzo e il guadagno onesto, che corrispondevano del resto alle condizioni della società medievale ed erano diffuse dai predicatori e dai confessori tra le classi dirigenti e quelle lavoratrici.

I moralisti medievali ritenevano che cercare la ricchezza come fine a sé stessa non fosse altro che avarizia e perciò peccato mortale. Le idee dei canonisti e dei teologi trovarono la loro precisa formulazione in S. Tommaso, il quale diceva lecito commerciare per procurarsi il necessario per vivere, ma turpe commerciare per guadagno, se il guadagno non era destinato a qualche fine onesto come, p. es., sostentare la propria famiglia o sovvenire i poveri.

Le parole di S. Tommaso vanno messe in rapporto con le idee dei pensatori medievali, i quali insegnavano che Dio ha disposto gli uomini in ordini sociali diversi, a ciascuno dei quali è stato assegnato un particolare lavoro e un appropriato tenor di vita. Era giusto e onesto soltanto il guadagno necessario per mantenere il tenor di vita del proprio stato sociale: stato che era molto più nettamente e rigidamente definito che non nell'epoca moderna. In tal modo era facile determinare il giusto prezzo delle merci: bastava - secondo le parole di un canonista - che il venditore calcolasse di quanto aveva bisogno per vivere secondo il proprio rango.

Si tentava pertanto, di disciplinare l'attività economica con questi criterî, perché, secondo le idee dominanti, i prezzi dovevano essere regolati dalla legge morale e non dal giuoco della domanda e dell'offerta: è questa la ragione dell'ostilità alla libera concorrenza, che anch'essa è caratteristica dell'epoca. In sostanza, non si riteneva lecito che le classi meno abbienti elevassero il proprio tenor di vita e neppure che gl'imprenditori realizzassero profitti. L'applicazione pratica di queste idee avrebbe limitato la produzione a quel tanto che era necessario per mantenere la popolazione a un tenor di vita costante: essa avrebbe dovuto svilupparsi solo quando la popolazione cresceva, contrarsi quando questa diminuiva.

In realtà, anche nella società medievale la ricchezza cresceva, ma cresceva assai lentamente e lo sviluppo dell'industria era per conseguenza anch'esso molto lento.

Secoli XVI-XVII. - Il principio dell'evo moderno segna il diffondersi nella vita economica di uno spirito affatto opposto a quello del Medioevo: spirito d'uomini insofferenti del proprio stato, desiderosi di migliorare la propria vita materiale più che di conformarsi agl'ideali religiosi, pronti a sopportare sacrifici e rischi per penetrare in gruppi sociali più potenti. Ma va notato che simili uomini non erano mancati neanche nel Medioevo all'epoca delle scoperte geografiche, la minoranza che aveva portato questo spirito nella produzione e nel commercio trovò condizioni più favorevoli al proprio sviluppo, dipendenti in parte dallo sfruttamento di nuovi paesi d'oltremare e dalla formazione di grandi stati.

Fra queste condizioni favorevoli, la più importante è l'aumento della disponibilità di metalli preziosi. A tale aumento contribuirono lo sfruttamento, a partire dalla seconda metà del sec. XV, di nuovi giacimenti d'oro e d'argento in Germania e in Austria; le conquiste dei Portoghesi in Oriente e nei paesi auriferi dell'Africa; il saccheggio del Messico e del Perù da parte degli Spagnoli. Ma il maggior apporto fu dato dallo sfruttamento delle miniere di argento del Messico e del Perù col nuovo processo di amalgamazione, che utilizzava il mercurio della Spagna.

La produzione dell'argento toccò il massimo fra il 1600 e il 1620; quella dell'oro continuò ad aumentare per tutto il sec. XVII. I metalli preziosi americani, giunti dapprima in Spagna, e qui fermati anche da divieti di esportazione, vi determinarono un'inflazione monetaria, tanto più che essi andavano nelle mani dell'aristocrazia ed erano destinati al consumo. Dal 1519 (data dei primi arrivi dal Messico) al 1596 i prezzi in Spagna salirono al quintuplo; i salarî crebbero con ritardo fino al 1588 ma poi, diminuita la quantità di metalli preziosi che rimaneva in paese, si fermarono a un livello elevato rispetto a quello dei prezzi; questo fatto mise la produzione spagnola in condizioni di svantaggio di fronte a quella dei paesi dove l'inflazione non si era verificata. Perciò i metalli preziosi americani cominciarono a passare, in pagamento di merci, e il movimento fu accelerato dai pirati, dalla Spagna alla Francia e all'Inghilterra. Anche in questi ultimi paesi i prezzi salirono, però più tardi e in misura minore: in Francia, alla fine del sec. XVI, erano due volte e mezza quelli del principio del secolo; in Inghilterra il rialzo cominciò nel 1550-60 e continuò fino al 1650 quasi ininterrottamente, mentre, invece, nel periodo 1600-1620 si ebbe un ribasso sia in Francia che in Spagna. Ma sia in Francia sia in Inghilterra l'aumento dei salarî - e, perciò, anche quello dei costi di produzione - non fu così forte né così rapido come era stato in Spagna. In Inghilterra i salarî reali, che da due secoli salivano malgrado l'aumento della popolazione, si abbassarono nella prima metà del sec. XVI e, dopo un breve rialzo nei primi anni del regno di Elisabetta, tornarono ad abbassarsi rapidamente, toccando il minimo sotto Giacomo I. Perciò J. M. Keynes calcola che gli imprenditori poterono realizzare larghi profitti in Spagna dal 1520 al 1590; in Inghilterra dal 1550 al 1650; in Francia dal 1530 al 1700, tuttavia con una depressione dal 1600 al 1625: questo spiegherebbe le differenze verificatesi nella situazione e nello sviluppo economico dei tre paesi.

Lo sviluppo dell'industria e l'organizzazione capitalistica di essa cominciarono, infatti, alla fine del Medioevo in Italia, in Fiandra, in Francia, nella Germania meridionale e in Spagna; più tardi in Inghilterra. Ma in Italia, in Spagna e in Germania lo sviluppo rallentò o si arrestò verso il 1550, mentre si accelerava in Inghilterra e in Francia; verso il 1600 cominciò, egualmente vigoroso, in Olanda. In Francia e in Olanda toccò il massimo nella seconda metà del sec. XVII, poi si ebbe un regresso; in Inghilterra, invece, continuò ininterrotto.

La religione dei paesi dove lo sviluppo fu maggiore e il fatto che gli ugonotti ebbero una parte di prim'ordine in quello della Francia ha portato alcuni ad attribuire ai protestanti particolari attitudini agli affari. Altri ritengono, invece, che la superiorità dimostrata dagli eretici dipendesse soltanto dall'essersi anche i più abili di loro dedicati all'industria e al commercio, perché era questa la via per la quale era meno ostacolata l'ascesa di chi non apparteneva alla religione dominante. Di questa opinione si mostrava fin dal Seicento sir W. Petty, il quale notava che in Francia prevalevano negli affari gli ugonotti, in Irlanda i cattolici, in Portogallo gli ebrei, nell'impero turco i cristiani e gli ebrei, nell'India musulmana gl'Indù.

Nei primi secoli dell'evo moderno l'industria continuò a svilupparsi con le vecchie forme organizzative del Medioevo. Se in alcuni rami si rafforzò l'organizzazione capitalistica, in altri si ebbe sempre la produzione diretta da parte dei consumatori e l'artigianato conservò la sua posizione dominante. Si tentò anzi di rafforzarlo e di estenderlo alle campagne. Era avvenuto, infatti, che gli artigiani delle zone rurali, liberi da vincoli e favoriti indirettamente dalla regolamentazione cittadina, si trovassero in una posizione economica privilegiata. D'altra parte, il loro numero cresceva, sia per la mancanza di limitazione al reclutamento degli apprendisti, sia per la minore difficoltà e durata dell'apprendistato, sia perché si trasferivano dalle città nelle campagne alcuni maestri e, soprattutto, quegli elementi delle classi cittadine più povere, che le corporazioni rifiutavano di ammettere nel proprio seno. La politica statale dei primi secoli dell'evo moderno è contraddistinta appunto dalla tendenza a regolare meglio il lavoro e le corporazioni e la loro distribuzione fra città e campagne.

L'esempio forse più notevole di questa politica ci è offerto dall'Inghilterra. Sotto il regno di Elisabetta (nel 1562 e nel 1596) furono unificate e completate le leggi sul lavoro, nel cosiddetto Statute of Artificers. Esso mirava, da una parte, a proteggere le città e i loro artigiani; dall'altra, ad assicurare la mano d'opera all'agricoltura. Prescriveva che tutti i contratti d'impiego avessero durata non minore di un anno; che i lavoratori, senza un certificato rilasciato dall'ultimo padrone, non potessero uscire dai confini della propria parrocchia né ottenere un nuovo impiego; che l'apprendistato fosse obbligatorio e non durasse meno di sette anni; inoltre, faceva obbligo a tutti i lavoratori industriali di compiere lavori agricoli, specialmente all'epoca dei raccolti. Rinunciando all'antico uso (risalente a Riccardo II) di porre ai salarî limiti massimi valevoli per tutto il regno, lo Statuto ne affidava la determinazione ai locali giudici di pace, sotto la sorveglianza dell'autorità centrale. Per tutto il resto, invece, sostituiva norme uniformi per tutto il regno alle antiche regolamentazioni municipali del lavoro.

Nell'insieme, il codice era ispirato alla vecchia idea di assicurare la stabilità delle condizioni sociali. Appunto per questo si cerca di frenare le migrazioni degli operai, mentre altre leggi punivano severamente il vagabondaggio e altre ancora - importantissime - provvedevano al soccorso dei poveri. Era sempre il vecchio spirito medievale, che si manifestava anche con le pressioni del governo sugl'industriali e sui commercianti perché la produzione non fosse ridotta quando si riducevano le vendite: così, p. es., nel 1622-23, mentre l'industria tessile traversava una depressione, il Consiglio privato invitava gl'imprenditori a dar lavoro come nelle annate buone e si continuava nella vecchia pratica di Londra, di assicurare grani a prezzi ridotti alle classi lavoratrici. Però lo Statuto non imponeva regole troppo rigide e, a differenza delle vecchie leggi, non ostacolava lo sviluppo dell'organizzazione capitalistica. Così, p. es., non limitava il numero degli apprendisti che ciascun industriale tessile poteva assumere, ma soltanto stabiliva un certo rapporto fra il numero degli apprendisti e quello degli operai qualificati.

Queste leggi valsero ad arrestare l'esodo degli operai dalle città, anche perché consentivano il reclutamento degli apprendisti nelle classi povere, che fino allora ne erano state escluse. L'apprendistato di 7 anni divenne la regola generale. Le disposizioni del codice elisabettiano riguardanti i salarî sembra siano cadute in desuetudine dopo il regno di Carlo II; alcune parti dello Statute of Artificers, sebbene poco rispettate, rimasero formalmente in vigore fino al principio del sec. XIX.

In Francia, Enrico III, con un'ordinanza del 1581, estese a tutto il regno il regime delle corporazioni, facendo obbligo di crearle dove non esistevano, e nello stesso tempo cercando di reprimerne gli abusi, e ponendole sotto il controllo del re. Insieme, però, obbligava ogni maestro a pagare, prima di prestare giuramento, un'imposta che variava da i a 3 scudi nei villaggi, da 10 a 30 nelle città. Quest'ordinanza fu poco osservata e anzi gli abusi andarono aggravandosi.

Enrico IV la fece rivivere con altra ordinanza del 1597, che non ebbe maggiore efficacia per quanto riguardava gli abusi, ma fece crescere il numero delle corporazioni. Tuttavia, resistendo a molte persecuzioni,alcuni artigiani continuarono a sottrarsi alla disciplina di queste, lavorando clandestinamente in piccoli laboratorî e a domicilio. Inoltre, sfuggivano di diritto alle corporazioni gli artigiani dei sobborghi di Parigi, che dipendevano da signori ecclesiastici, e anche gli "operai al seguito della Corte", che lavoravano anche per il pubblico.

L'intervento regio era determinato anche da ragioni fiscali, che erano chiare nell'ordinanza del 1581 e si manifestavano ancor meglio con la creazione di uffici di controllori, di giurati, ecc., che erano messi in vendita, oppure concessi in pagamento di debiti del re e, poco a poco, si moltiplicarono fino a diventare un flagello dell'industria. Nella seconda metà del regno di Luigi XIV la fiscalità si fece più forte. Un editto del 1681 sostituì i giurati eletti, incaricati di far rispettare gli statuti, con giurati ereditarî. Le corporazioni comprarono questi e altri uffici, man mano che il re li andava creando, contraendo a questo fine debiti che contribuirono alla loro rovina.

Dopo aver sottoposto a una più stretta disciplina le corporazioni, la politica economica dei grandi stati moderni mirò a regolare non meno strettamente l'industria capitalistica.

Questa tendenza si manifestò specialmente nei re d'Inghilterra, da Elisabetta agli Stuart. Essi crearono monopolî industriali, che si distinguevano da quelli commerciali, comuni prima d'allora, per il loro carattere capitalistico e perché erano estesi a tutto lo stato. Si tentò d'istituire simili monopolî anche nelle industrie esistenti da vecchia data, ma il tentativo, oltreché nelle industrie minerarie (stagno, carbon fossile), riuscì specialmente in quelle altre che erano state introdotte da poco nel regno: allume, sale, vetro, sapone, filo di ferro. Per es., il monopolio del vetro ebbe origine da un brevetto per la fabbricazione dei bicchieri, concesso nel 1574 all'italiano Versalini e passato, nel 1615, all'ammiraglio sir Robert Mansell, il quale s'impegnò a pagare alla Corona 1000 sterline l'anno e a usare carbon fossile invece di legna; nel 1619 egli iniziò l'impianto di fabbriche a Newcastle. In seguito riuscì a far proibire l'importazione degli oggetti di vetro esteri e, con il pretesto della protezione dei boschi, anche l'uso della legna, che era l'unico combustibile usato dai suoi concorrenti nazionali. In tal modo il brevetto fu trasformato in un monopolio, che fu abolito nel 1642 in seguito a proteste per la cattiva qualità e l'alto prezzo del prodotto.

Sebbene la concessione di questi monopolî fosse ufficialmente giustificata con i vantaggi che i consumatori e il paese avrebbero potuto trarne, spesso il vero movente era d'indole finanziaria. Giacomo I, nel revocare certe concessioni di Elisabetta, dichiarava che questa le aveva fatte cedendo all'importunità di suoi servitori e per rimunerare costoro senza aggravio del proprio patrimonio. Al tempo di Carlo I, dame e gentiluomini della casa reale chiesero e ottennero simili concessioni: il re stesso tentò d'organizzare a proprio beneficio il monopolio della vendita degli spilli. Ma il popolo inglese mostrò un'irreducibile ostilità; il parlamento combatté i monopolî e ne prese argomento per energici attacchi alla Corona. Dopo lunghe agitazioni essi furono a uno a uno aboliti nel corso del sec. XVII.

L'invenzione della stampa con i caratteri mobili fece sorgere, fin dall'inizio dell'evo moderno, un'industria la quale applicava i metodi che, alcuni secoli più tardi, sono stati chiamati di produzione in massa. È quasi superfluo accennare agli effetti profondi che essa ebbe sulla vita dell'Europa; appunto in grazia dell'abbassamento del costo, che è caratteristico di questi metodi.

Ma nelle altre industrie i progressi tecnici furono poco numerosi e di non grande importanza: per i primi secoli dell'evo moderno la tecnica restò sostanzialmente quella del Medioevo. Non si utilizzavano nuove sorgenti di forza motrice; le macchine operatrici erano sempre rare e - dal torchio tipografico alle nuove invenzioni, come la macchina da calze o il telaio da nastri - adatte alla piccola industria più che alla grande. Questa mancanza di progresso si spiega anche con la generale ostilità alle macchine; perché, a parte il timore che esse fornissero prodotti di cattiva qualità, l'opinione pubblica dei secoli XVI e XVII era contraria a qualunque trovato che, permettendo di compiere lo stesso lavoro meglio e a buon mercato, minacciasse di togliere il pane di bocca a lavoratori manuali. I governanti, pur incoraggiando l'introduzione d'industrie nuove, erano guidati dagli stessi sentimenti per quanto riguardava il progresso delle vecchie industrie. In Inghilterra, per es., Elisabetta rifiutò di favorire una delle più importanti invenzioni dell'epoca, la macchina da calze di W. Lee, dicendo di non voler danneggiare la povera gente; Edoardo VI e Carlo I proibirono delle macchine per la rifinitura dei tessuti; Giacomo I proibì una macchina per la fabbricazione degli aghi.

Se la tecnica rimaneva in queste condizioni, in altri campi si realizzavano progressi che dovevano poi rivelarsi importantissimi per l'ulteriore sviluppo dell'industria. Sorgevano delle casse di giro - come il Banco di Rialto nel 1587 (trasformato dopo il 1619 nel Banco del giro in Venezia), la Banca di Amsterdam nel 1609, il Banco di Norîmberga nel 1621, la Banca di Amburgo nel 1629 - le quali, al pari del Banco di S. Giorgio dopo la sua ricostituzione nel 1586, malgrado i divieti degli statuti cominciavano a consentire prestiti allo scoperto. In Inghilterra, verso la metà del Seicento, parecchi orefici si trasformarono in banchieri. E mentre si modificavano le vecchie forme di organizzazione giuridico-economica delle imprese industriali, se ne creavano di nuove.

Nell'antichità e nel Medioevo le aziende industriali (al pari di quelle commerciali) avevano stretto carattere personale. Non esistevano che forme primitive di società: p. es., un gruppo di artigiani gestiva una miniera, un molino oppure una salina mettendo in comune il proprio lavoro e prendendo una parte nella proprietà; oppure si formavano società occasionali, p. es. nelle carovane terrestri o nei convogli marittimi. Ma né la società né l'azienda si concepivano come qualcosa di distinto dalla persona dei soci. Avevano valore giuridico solo quegl'impegni che erano stati assunti dai soci personalmente e appunto per questo si chiedeva che tutti sottoscrivessero con i proprî nomi oppure che, firmando uno solo, fossero specificati i nomi degli altri obbligati. In queste condizioni, l'azienda cessava di esistere se i proprietarî morivano senza figli oppure se costoro abbandonavano l'industria. Così pure anticamente l'imprenditore e il capitalista erano quasi sempre una stessa persona sebbene, in certi casi, conferissero denaro oppure merci all'azienda degl'individui che non lavoravano in essa (v. commenda). Il rapporto di mutuo fra commendante e commendatario fin dal Medioevo si trasformò in una società senza efficacia per gli estranei e senza patrimonio distinto la quale, alla sua volta, si trasformò in una società che aveva efficacia anche verso i terzi. La trasformazione accennata s'iniziò in Italia dopo il sec. XV e trovò la sua codificazione nell'ordinanza francese del 1673 che tratta della Société en commandite accanto alla Société générale.

Alla fine del Medioevo si cominciò a riconoscere l'esistenza d'un patrimonio sociale distinto da quello dei soci. A ciò contribuì anche la diffusione dell'uso della contabilità, e specialmente l'introduzione della partita doppia, che sembra sia stata usata per la prima volta in Italia nella semnda metà del sec. XIV e fu poi completata con l'introduzione del conto capitale (che si trova nel libro di Andrea Barbarigo, del 1430-40). Così sorse il concetto di azienda, superiore agl'individui, alla quale si diede un particolare nome commerciale: la ditta o firma, e diventarono sempre più numerose le società in nome collettivo fra estranei, con ditta sociale e responsabilità solidale di tutti i soci, le quali nel sec. XVII costituivano la forma più comune di società commerciale, tanto in Italia quanto in Inghilterra, in Olanda e in Francia. Nel sec. XVI sorsero le prime società per azioni.

Il capitalismo s'iniziò nell'industria anche con una forma di finanziamento e di controllo della produzione che è comune a tutti i paesi, ma soltanto in tedesco ha un nome particolare: quello di Verlag. Il capitalista presta all'artigianato una somma di denaro, oppure viveri, materie prime, strumenti di lavoro; come compenso esige un interesse in denaro, oppure una parte del prodotto; in certi casi obbliga l'artigianato a lavorare esclusivamente per lui; in altri va più in là e assume la direzione della produzione. Per es., un tessitore dà in pegno il telaio e ne conserva l'uso obbligandosi a lavorare per il creditore. I primi esempî di Verlag si ebbero nell'industria mineraria, nella quale il produttore artigiano aveva spesso bisogno di finanziamenti per la discontinuità stessa della produzione. Nel sec. XVI il Verlag ebbe grande importanza nell'industria mineraria della Boemia e della Slesia: nel 1527 i Fugger erano interessati in questo modo a 142 miniere nel Tirolo e nell'Alto Adige. Lo si trova pure nell'industria siderurgica, nelle fonderie di metalli, nelle stamperie, ecc. Ma era specialmente diffuso nell'industria tessile, nella quale il finanziatore era diventato imprenditore e dava lavoro ai tessitori nelle loro abitazioni. Così nell'industria della lana a Firenze, come più tardi in Spagna e in Inghilterra; nell'industria della seta a Venezia, a Genova e a Lione; nell'industria del lino, in quella delle calze, ecc. Lo stesso tipo di contratto si estese in un'industria casalinga come quella della filatura: fino dal sec. XVII i commercianti mandavano in giro per le campagne degli agenti che distribuivano la materia prima e ritiravano i filati. In certe industrie poco progredite un'organizzazione simile si osserva anche attualmente.

Come era rimasta stazionaria la tecnica, così le industrie più importanti rimasero quelle stesse del Medioevo e cioè le tessili.

Alla metà del Seicento l'industria della lana aveva una posizione preminente fra quelle dell'Inghilterra ed era sviluppata anche in Francia; le Fiandre avevano del tutto perduto il loro primato. Nell'industria della seta primeggiava l'Italia (che ebbe filande a macchina molto prima degli altri paesi); l'industria, però, fioriva anche in Francia, dove era stata introdotta da Italiani e protetta dal governo. L'industria del lino diffusa in tutta Europa come industria domestica e prospera nei Paesi Bassi, si era sviluppata in Irlanda. L'industria del cotone, ancora ai primi passi, era stata introdotta in Inghilterra e già nel 1601 si parlava di fustagni tessuti nel Lancashire con lino scozzese e cotone del Levante; l'America ormai aveva un posto di prim'ordine mme fornitrice della materia prima.

Al principio dell'evo moderno aveva compiuto radicali progressi l'industria mineraria: nel 1560 si erano usate per la prima volta le pompe per l'eduzione dell'acqua. Insieme con lo sfruttamento dei giacimenti di minerali metallici (ferro, piombo, rame, stagno, zinco, argento) si era molto sviluppato quello delle miniere di carbon fossile. In Inghilterra quest'ultima industria, della quale si ha notizia fin dal 1213, era esercitata da capitalisti e nel 1660 produceva circa 2.000.000 tonn. di carbone. Gli alti forni si erano diffusi nell'Europa centrale, in Francia, in Inghilterra e in Svezia e la siderurgia cominciava a essere esercitata come grande industria: p. es., la Compagnie des mines et fonderies de Languedoc nel Seicento impiegava 1800 operai.

L'industria del vetro già prospera a Venezia, nel Cinquecento era stata introdotta in Francia dove, alla fine del Seicento, si cominciarono a fabbricare anche gli specchi.

L'industria ceramica che anch'essa aveva avuto la sua fioritura in Italia, era stata introdotta in Germania, in Inghilterra e in Francia, dove si era arrivati a produrre la porcellana tenera. L'arte della stampa era diffusa in tutti i paesi d'Europa e dava le magnifiche edizioni dei Manuzio, degli Estienne e degli Elzevier. A partire dal Cinquecento erano sorte molte industrie minori, p. es. quella delle calze e quella della cioccolata.

Come si è visto, dall'inizio dell'evo moderno la produzione industriale dell'Europa si era continuamente sviluppata. Tutta l'Europa occidentale vi partecipava e i diversi paesi dovevano accontentarsi di primati particolari. Sir W. Petty, nel Seicento, notava l'eccellenza dei tessuti di lana inglesi, delle sete italiane, della carta francese, degli oggetti di ferro di Liegi. Ma la posizione dominante, che negli ultimi secoli del Medioevo era tenuta dall'Italia e dalle Fiandre, era passata all'Olanda per il commercio, alla Francia e poi all'Inghilterra per l'industria.

In Francia lo sviluppo dell'industria era stato oggetto di lunghe cure dello stato il quale, oltre alla protezione indiretta, aveva creato esso stesso delle fabbriche e aiutato quelle che, sotto il nome di "manifatture reali", andavano fondando i privati. Gli ultimi Valois avevano incoraggiato l'introduzione d'industrie nuove, posto dazî d'importazione sulle merci estere, scoraggiato l'esportazione delle materie prime. Molti, però, dissentivano da questa politica: è caratteristica la divergenza d'idee fra Enrico IV e Sully a proposito della seta: il re sosteneva che la Francia aveva interesse a produrre le seterie, che comprava all'estero in ragione di 4 milioni l'anno; il suo grande collaboratore ribatteva che le fabbriche di seterie avrebbero corrotto i Francesi senza arricchire la Francia e che incoraggiare la coltivazione del gelso a scapito di quella dei grani era un voler rovesciare l'ordine della natura. Il Colbert riprese con maggior vigore la politica dei Valois e di Enrico IV, mirando a trasformare la Francia in un paese industriale, che si arricchisse esportando prodotti finiti e importando materie prime e metalli preziosi. Non tutti i suoi provvedimenti ebbero effetti felici: per es., il divieto agli Olandesi di comprare zucchero grezzo dalle Antille francesi non valse a fare sviluppare in Francia l'industria della raffinazione e danneggiò le piantagioni delle Antille. La protezione doganale imposta con le tariffe del 1664 e del 1667 e la contemporanea riduzione delle dogane interne furono, invece, utili alle industrie francesi.

Nel 1685 la revoca dell'editto di Nantes spinse più di mezzo milione di Ugonotti a emigrare in Inghilterra, portandovi la tecnica e l'esperienza industriale. Appunto in quegli anni ebbe inizio la decadenza dell'industria francese, e sebbene vi concorressero quelle stesse cause monetarie che ne avevano favorito lo sviluppo nel primo periodo dell'amministrazione del Colbert, la coincidenza ha un chiaro significato. In Inghilterra si svilupparono alcune delle industrie originariamente francesi, come quella del vetro e degli oggetti di metallo; più tardi, grazie al carbon fossile, i loro prodotti cominciarono a essere esportati con profitto anche in Francia. Negli ultimi anni del regno di Luigi XIV la situazione economica della Francia non ispirava che lamenti e cominciava la reazione contro il protezionismo colbertiano.

Ma, anche quando l'industria era più prospera, essa non arrivava a occupare tutti gli uomini atti al lavoro, il cui numero cresceva per effetto dell'aumento di popolazione che nel sec. XVII aveva cominciato a verificarsi in alcuni paesi d'Europa. Le classi lavoratrici vivevano nella miseria, i mendicanti erano sempre in numero enorme e la morte per fame e per stenti tutt'altro che eccezionale.

Per dare un'idea delle condizioni dell'epoca, basteranno poche cifre. A Troyes nel 1482, su 18.000 abitanti, si contavano 3000 mendicanti. Nel 1578 gli scabini di Amiens riferivano che 5 o 6000 lavoratori erano ridotti all'elemosina e nutriti dagli abitanti agiati. Alla fine del secolo, l'Estoile riferiva che a Parigi più di 600 persone al mese morivano di fame e di stenti all'Hôtel-Dieu. Anche al tempo del Colbert si parlava della miseria orribile del popolo di Parigi. Nel 1694 il vescovo di Montauban scriveva che nella sua diocesi morivano 450 persone il giorno per mancanza di nutrimento. In Scozia alla fine del sec. XVII si calcolava che vi fossero 200.000 vagabondi atti al lavoro. In Inghilterra, nel secolo XVII, il numero dei mendicanti crebbe rapidamente: Gregory King calcolava che un quarto della popolazione ricevesse soccorsi. Perfino l'Olanda nel sec. XVII formicolava di mendicanti.

Tuttavia si lamentava spesso la difficoltà di trovare operai: fenomeno che solo in apparenza contrastava con le indiscutibili prove della miseria del popolo. Esso si spiega anche con la difficoltà degli spostamenti da un luogo all'altro; ma senza dubbio - e lo si vedrà più oltre - era effetto di scarsa disposizione a lavori faticosi e male rimunerati quali erano quelli dell'industria. Della pigrizia dei lavoratori si ha un indizio anche nella loro opposizione alla riduzione del numero dei giorni festivi. I contemporanei ne parlavano aspramente. "Voleno inanze stentare e morire di fame che lavorare per bon mercato e guadagnare la spesa" scrive, nel Cinquecento, Iacopino Bianchi nelle sue cronache modenesi. "Ils préfèrent emplir les cabarets", scrive il Colbert. Nel 1552, durante il breve rifiorire dell'industria in Spagna, le Cortes lamentano la mancanza di lavoratori.

Gli stati si proposero di educare il popolo al lavoro comminando, fra l'altro, gravi pene contro i mendicanti che rifiutavano di lavorare. Così si fece in Inghilterra dopo la pestilenza del 1348; poi anche in Spagna e in Francia. In molti casi bastava essere nullatenenti per essere soggetti all'obbligo di lavorare. Le leggi elisabettiane che provvidero al soccorso dei poveri sancirono questo obbligo. Si istituirono case di lavoro: nel 1539 sorse a Genova l'Albergo dei poveri, nel 1582 l'Albergo di carità a Torino; nel 1576 i laboratorî pubblici a Parigi; nel 1575 si fece obbligo d'istituirli in Inghilterra, dove, però, la prima Work house sorse più di un secolo dopo. In Francia, con numerosi editti (il più importante dei quali è del 1662), furono istituiti gli Hôpitaux généraux: "siccome l'abbondanza viene sempre dal lavoro e la miseria dall'ozio", la cura principale "dev'essere di rinchiudere i poveri e dar loro un'occupazione per guadagnarsi la vita", scriveva il Colbert nel 1667 al sindaco e agli scabini di Auxerre.

Si cercò anche di assicurare la mano d'opera all'industria con le varie leggi che regolavano i contratti di lavoro e, fra l'altro, imponevano a questi un minimo di durata, vietavano ai lavoratori di lasciare un lavoro incompiuto e di licenziarsi prima di essere sostituiti. Erano vietati gli scioperi. Non occorre ricordare che, per determinati lavori pubblici, era sempre obbligatoria la prestazione di lavoro da parte degli abitanti del luogo.

Siccome la tecnica era sempre un segreto degli artigiani e degli operai specializzati, gli stati che volevano far sorgere nuove industrie cercavano in tutti i modi (come si è già accennato) di attirarli, strappandoli agli altri stati. Nello stesso tempo proibivano severamente l'emigrazione di quelli che già possedevano. Così, la repubblica di Venezia confiscava i beni dei lavoratori del vetro che lasciavano la patria; in Francia un editto del 1669 comminò la stessa pena per quei sudditi che si stabilivano all'estero; nel 1682, in vista dell'emigrazione dei protestanti, si decretò che gli operai che uscivano dal regno fossero puniti con l'invio alle galere e anche con la morte; in Inghilterra, sotto Giorgio I e Giorgio II si puniva anche chi induceva o tentava di persuadere a emigrare gli operai delle principali industrie, e già nel 1666 si proibiva l'esportazione di arnesi da lavoro e di macchine.

La politica d'incoraggiamento alle industrie, che i grandi stati moderni seguirono in questo periodo, era ispirata soprattutto da preoccupazioni belliche. Le industrie, oltre a far vivere uomini capaci, all'occorrenza, di essere incorporati negli eserciti, dovevano procurare al paese il denaro con cui condurre una guerra. E, per quanto riguardava quest'ultimo problema, se nel Medioevo le città, fin dal sec. XIII, avevano tentato d'impedire l'esportazione di oro e di argento, al principio del sec. XVII si diffuse una nuova dottrina economica, per effetto delle proteste dei commercianti contro simili proibizioni. Questa nuova dottrina, secondo la quale lo stato non doveva lasciare che la bilancia commerciale si regolasse da sé, bensì cercare di modificarla, incoraggiando le esportazioni e scoraggiando le importazioni, con dazî, premi e regolamentazioni, era il mercantilismo.

Secolo XVIII. - Nel Settecento l'industria continuò a svilupparsi in tutta l'Europa, favorita dal miglioramento dei trasporti, dall'aumento delle esportazioni nei mercati dell'America e dell'Africa, dallo sviluppo del capitalismo e dell'organizzazione del credito, dalle migliorate condizioni monetarie.

In tutti gli stati europei si costruirono strade carrozzabili e canali navigabili: le prime specialmente in Francia, i secondi specialmente in Inghilterra. Le flotte mercantili si svilupparono: quella inglese, dalle 261.000 tonn. di portata complessiva che aveva nel 1701, salì a 1.053.000 nel 1788. Per conseguenza, il costo dei trasporti scese - secondo i calcoli del Sombart - a circa la metà di quello che era stato nel sec. XV. Contemporaneamente si organizzavano meglio le assicurazioni che davano luogo a un'importantissima attività.

In seguito alla scoperta dei campi auriferi brasiliani, era cresciuta la produzione dell'oro, che toccò il massimo nel 1764; mentre questa declinava (per poi sparire completamente al principio del sec. XIX), tornava a crescere quella dell'argento che, nel decennio 1801-1810, fu più che doppia di quella che era stata nel periodo più felice del Seicento (1600-1620). Fondata nel 1694 la Banca d'Inghilterra, cominciò a essere usata su vasta scala la carta-moneta e se in Francia il Law ne abusò, in Scozia, usata con prudenza, essa dimostrò la sua grandissima utilità. Si andarono, così, creando e rafforzando a poco a poco quelle banche, di emissione e insieme di deposito, che finanziarono commercio e industria. Al principio del secolo in Francia furono create le prime accomandite per azioni (una di queste fu la ditta Law e C.) e divennero più numerose le società per azioni, sempre differenti, però, dalle moderne anonime: l'intervento personale degli azionisti era molto frequente e si riteneva pericoloso che la loro responsabilità fosse limitata al valore nominale delle azioni. Al principio del Settecento la possibilità di servirsi di queste azioni per quello che ora si direbbe un giuoco di borsa e il vecchio amore per le avventure d'oltremare furono sfruttati senza misura e così si ebbero il caso della Compagnia del Mare del Sud (South Sea Bubble) e altri affari speculativi in Inghilterra, il caso Law in Francia; sia gli uni sia l'altro chiusisi, nel 1720, con una crisi finanziaria.

Se l'esito disastroso di queste speculazioni influì sfavorevolmente sullo sviluppo dell'organizzazione creditizia, il commercio con le colonie d'America, con l'Africa, con l'India e con la Cina diede luogo a un'attività sempre più importante. Mentre dall'India cominciava a delinearsi una minaccia per l'industria europea, l'America e l'Africa occidentale offrivano dei buoni mercati per i suoi prodotti. Si sviluppò così un commercio nel quale gl'Inglesi presero una posizione dominante. Ebbe particolare importanza quello triangolare, di schiavi e di cotone, fra l'Inghilterra, l'Africa e l'America, che consentì larghissimi profitti e stimolò lo sviluppo dell'industria manifatturiera inglese. Le navi portavano in Africa tessuti di cotone e altre merci inglesi che barattavano con schiavi; andavano poi nelle isole delle Indie Occidentali oppure nei porti del continente americano a vendere gli schiavi e comprare cotone sodo e altri prodotti delle piantagioni e tornavano con questi in Inghilterra. Ciascuno dei tre scambî lasciava un margine; più di tutti, il cosiddetto "passaggio intermedio" e cioè la tratta dei negri della quale solo più tardi il paese doveva sentire vergogna. La ricchezza di Liverpool, Bristol e Glasgow - che, insieme con Londra, erano i principali porti di armamento delle navi che esercitavano la tratta - ebbe un rapido incremento con lo sviluppo delle piantagioni americane.

L'Inghilterra per tutto il Settecento continuò a progredire sia nell'industria sia nel commercio; in Francia si ebbe un'espansione a partire dal 1715; fra la metà e la fine del secolo s'iniziò il progresso economico dell'Italia settentrionale e di alcuni stati della Germania. L'Olanda, invece, conservò, senza molto migliorarla, la prosperità raggiunta nel Seicento.

Nell'industria della lana ormai l'Inghilterra non aveva rivali. Da paese esportatore della materia prima, era diventato largamente importatore; specialmente di lane fini dalla Spagna (importazione avviata fin dal sec. XII), ma anche di lane irlandesi e tedesche. Questa industria, però, ormai si era sviluppata in molti altri paesi d'Europa. L'industria della seta, prospera in Francia, assumeva sempre maggiore importanza in Italia: nel solo Piemonte, p. es., il numero dei suoi operai, che era di circa 6000 nel 1708, saliva a 16.000 nel 1787. Le fabbriche e le macchine italiane continuavano a servire da modello: p. es., la macchina dell'inglese sir T. Lombe (1718) era copiata da un modello italiano. E mentre l'industria del lino conservava la sua importanza e andava meglio organizzandosi in tutti i paesi d'Europa - alimentando anche una esportazione nelle colonie americane - quella del cotone si sviluppava rapidamente in Inghilterra. Ma, per l'inferiorità dei filati, non riusciva a imitare quei tessuti finissimi che venivano dall'India e dai quali il governo la protesse, nel 1701 e nel 1721, anche con il proibirne l'uso. Perfino i negri dell'Africa preferivano le cotonate indiane ai tessuti inglesi, misti di lino e cotone. A partire dalla fine del Seicento andò sviluppandosi e divenne un'importante industria quella della stampa dei tessuti, che si compiva con un laborioso processo a mano. Le sue sedi principali, oltre all'Olanda, erano l'Alsazia, la Svizzera, Augsburg.

Le industrie tessili, però, si avviavano a essere superate dalle minerarie. La produzione del carbon fossile crebbe sempre più in Inghilterra e acquistò una notevole importanza in Francia.

L'industria siderurgica per tutta la prima metà del sec. XVIII continuò a impiegare il carbone di legna come unico combustibile; perciò essa era confinata alle regioni boscose, che cominciavano a farsi rare. L'Inghilterra alla metà del secolo non produceva che 17.000 tonn. di ferro ed era costretta a importarne dalla Svezia; nel 1696-97 aveva abolito la protezione doganale sul ferro irlandese, per incoraggiare quell'industria che infatti si sviluppò a spese delle foreste dell'isola.

Nell'industria del vetro prese il primo posto la Boemia; mentre in Francia fioriva la fabbricazione degli specchi. Nel 1710 in Sassonia si arrivò a produrre, per la prima volta in Europa, la porcellana dura di tipo cinese. Presto sorsero molte grandi fabbriche, per la maggior parte statali: Capodimonte nel 1740, Berlino nel 1750, Sèvres nel 1756, Copenaghen nel 1772. In Inghilterra, per merito di J. Wegdwood, e grazie alla bellezza dei prodotti, si sviluppò l'industria della terraglia. In seguito all'invenzione d'un nuovo processo più economico, cominciò ad assumere importanza la fabbricazione dell'acido solforico: nel 1736 sorse la fabbrica Ward a Richmond. Ma l'aumento della produzione e l'impianto di nuove fabbriche non fu limitato alle industrie accennate; si può dire che nel Settecento tutte, quale più quale meno, parteciparono al movimento.

La piccola industria e l'artigianato fornivano ancora la maggior parte della produzione; esistevano, però, anche delle grandi fabbriche, specialmente nell'industria tessile. Per es., in Francia, in uno stabilimento dei fratelli van Robais, erano occupati 1692 operai; nel 1770 la manifattura di lana di Linz ne aveva 1000 nelle proprie fabbriche, e, complessivamente, dava lavoro a 25.990 persone; nel 1700 una manifattura scozzese occupava 1400 persone; la Manifattura reale di tappeti di Tournay nel 1783 ne occupava 800. In queste fabbriche, oltre a operai pagati alla giornata secondo l'uso moderno, se ne trovavano - per es., nell'industria della carta - di quelli che abitavano nello stabilimento, ricevendo dal padrone anche il nutrimento, ed erano sottoposti a una disciplina da caserma. Nelle miniere della Svezia, dell'Alta Slesia e della Scozia e nelle manifatture della Boemia, della Moravia e della Russia lavoravano, per tutto il sec. XVIII, anche dei servi. Gli operai liberi erano sottoposti, del resto, a una disciplina poco meno dura di quella dei servi, e non potevano sottrarvisi neanche nelle ore che passavano fuori dello stabilimento. Il lavoro durava, di regola, dall'alba al tramonto. Gli scioperi, sempre limitati e di breve durata, anche in Francia e alla vigilia della Rivoluzione si chiudevano con facili vittorie padronali. I tentativi degli operai di associarsi per ottenere il miglioramento dei patti di lavoro, erano energicamente combattuti sia dai padroni sia dai governi. Nel Settecento l'organizzazione corporativa medievale era in piena decadenza: gli artigiani cominciavano a trasformarsi in salariati degl'imprenditori capitalisti. Le corporazioni, irrigidite nei vecchi statuti, avevano perduto la forza di far rispettare i loro privilegi ed erano sempre più considerate un ostacolo al progresso. In Francia furono formalmente abolite nel 1776; revocato subito dopo il provvedimento per effetto della caduta del Turgot, vissero di vita stentata finché la Rivoluzione le abolì definitivamente.

Industriali e commercianti, che pure chiedevano all'operaio un'attività sfibrante, lavoravano poco e avevano come ideale la vita comoda. Lo stesso B. Franklin, il quale coniò la frase: "Il tempo è denaro", assegnava al lavoro solo sei ore su ventiquattro. Nel 1779 uno scrittore lamentava che in Francia si lavorasse solo due ore il giorno. Si continuava, come nel Medioevo, a dipingere l'uomo d'affari modello come un uomo serio, dignitoso e senza fretta: a lode di quelli di Lione si osservava che camminavano con calma. Oltre ai numerosi giorni festivi, lunghe vacanze - estive o invernali, secondo il paese e il ramo di affari - riposavano da questo moderatissimo lavoro. Anche in Inghilterra l'ideale era quello di ritirarsi dagli affari appena accumulato un patrimonio sufficiente, comprare una tenuta e diventare un gentiluomo campagnolo.

Si aveva di mira quasi esclusivamente la clientela ricca e si faceva poco o nulla per incoraggiare il consumo delle classi meno abbienti. Quello che dominava era sempre il principio medievale del forte distacco fra prezzo di vendita e costo; si disapprovavano i ribassi volontarî e ci si rassegnava alla riduzione delle vendite, purché i prezzi rimanessero largamente rimunerativi. "Piccoli affari con grossi utili", era la massima della Compagnia olandese delle Indie Orientali che, per tradurla in pratica, bruciava i raccolti troppo ricchi e spiantava gli alberi di spezie.

La tecnica era rimasta sostanzialmente quella dell'artigianato. Gl'interessati cercavano di tenerla segreta, mentre gli spiriti più illuminati dell'epoca si sforzavano di divulgarla: l'Encyclopédie pubblicò molti processi di fabbricazione.

La grande fabbrica del Settecento - a differenza di quella moderna, i cui direttori devono essere anzitutto dei buoni tecnici - raramente era qualcosa di meglio che la riunione, sotto un medesimo imprenditore, di artigiani che lavoravano come ciascuno di loro avrebbe fatto nella propria casa. Si riteneva che le principali funzioni della direzione fossero quelle disciplinari; alla fine del secolo s'indicava, come uno dei principali vantaggi della fabbrica, rispetto al lavoro a domicilio, quello di poter meglio impedire le sottrazioni di materia prima.

Un aspetto importantissimo delle condizioni nelle quali si trovava l'Europa con la vecchia organizzazione industriale è la miseria delle classi lavoratrici, che si rileva chiaramente da tutti gli scritti dei contemporanei e sulla quale abbiamo anche dati precisi. Come notava il Marshall, la storia popolare non valuta a sufficienza le privazioni che i lavoratori erano costretti a subire in quell'epoca. Si è visto quanto diffusa e profonda fosse la povertà di queste classi al principio dell'evo moderno; nel sec. XVIII, malgrado l'aumento della ricchezza europea, le loro condizioni non erano migliorate neanche nei paesi più ricchi; secondo alcuni osservatori erano, anzi, peggiorate. Nel 1707, il Vauban nota che il popolo è molto meno numeroso per le guerre, le malattie e il rincaro dei viveri; molti sono morti di fame, molti altri sono ridotti alla mendicità. Nel 1740, il vescovo di Clermont scrive al card. Fleury che il suo popolo vive in una spaventosa miseria e per sei mesi all'anno gli manca il pane d'orzo e d'avena, che è il suo solo nutrimento. Negli stati ecclesiastici della Germania si calcola che, per ogni 1000 abitanti, ci siano 260 mendicanti i quali, pure, non mancano nei vicini stati protestanti. Nel 1743, su 8500 famiglie di un circondario del Piemonte, 3162 ricevono soccorsi.

La disoccupazione era un fenomeno ordinario: se mancassero altre prove, lo si potrebbe dedurre da quel che si poteva osservare, anche in tempi recenti, nei paesi dove l'industria moderna non era ancora arrivata. Per es., verso il 1880 A. Marshall constatava che gli artigiani di Palermo avevano raramente tanto lavoro quanto gli operai dell'East End di Londra nei tempi più magri; quasi nessuno, aggiungeva, avrebbe potuto essere qualificato disoccupato nel senso moderno della parola, perché nessuno aveva un lavoro abituale. Le stesse condizioni si osservano, attualmente, nella Cina. Anche nei momenti di maggiore attività, l'industria non era in grado di occupare tutta la mano d'opera disponibile. E, sebbene fossero rare le crisi mondiali di tipo di quelle del sec. XX, erano frequentissime quelle particolari delle singole industrie. Per es., l'industria lionese della seta ne traversò negli anni 1665, 1690, 1701, 1715, 1725, 1733, 1750, 1756, 1766, 1771, 1784, 1787. Le cause erano diverse: guerre, concorrenza piemontese, lutti di corte (per Filippo II, per Luigi XIV, per il re di Polonia, per il Delfino), cambiamenti di moda: quando Maria Antonietta affettava semplicità nel vestire, la gente elegante non comprava stoffe di seta.

Ma nel Settecento, come già nei secoli precedenti, la disoccupazione e la miseria erano generalmente attribuite a poca volontà di lavorare. Questa opinione non era certo infondata: gli operai, oppressi dal lavoro eccessivo, amavano prolungare il riposo domenicale fino al lunedì e anche al martedì: Vauban calcola che lavorassero effettivamente solo 180 giorni l'anno. Tuttavia le idee che anche gli spiriti più illuminati dell'epoca manifestavano a questo riguardo riescono sorprendenti e ripugnanti per chi conosce il mondo industriale moderno. Voltaire trova sbagliata l'idea che un gran numero di mendicanti sia indizio di scarso progresso; al contrario - egli scrive - Parigi, che è la città più civile del mondo, è anche quella dove maggiormente abbondano i mendicanti: sono parassiti che si attaccano alla ricchezza; dalle più lontane regioni del regno i fannulloni accorrono a Parigi per taglieggiare l'opulenza e la bontà. Era ancora fortissima l'idea medievale che le classi inferiori dovessero vivere con la massima parsimonia: il padre di Mirabeau, nel suo Ami des hommes, deplora che gli operai più fortunati, come gli orefici, spendano molto per la tavola; l'abate Galiani aggiunge che l'operaio "consuma e dissipa" tutto quello che guadagna; A. Young lamenta l'imprevidenza degli operai inglesi. Ancor più sorprendenti sono i rimedî che venivano proposti. Il Locke nel 1697 lamentava che i ragazzi degli operai fossero mantenuti nell'ozio fino a 12 o 14 anni, sicché il loro lavoro andava perduto per la società ed erano di peso per i contribuenti; proponeva di abituarli al lavoro fin dall'infanzia, mettendoli a 3 anni in apposite scuole. D. Defoe ammira l'attività dei Fiamminghi, fra i quali era raro che un fanciullo non cominciasse a guadagnarsi il pane all'età di cinque anni.

Era diffusa la convinzione che la povertà e i bassi salarî fossero lo sprone essenziale dell'industria. A. Young espresse questa teoria nella sua forma più brutale, scrivendo che, all'infuori degli idioti, tutti sanno che le classi basse debbono essere mantenute nella povertà, altrimenti non saranno mai industriose. In queste affermazioni c'era certamente del vero. Appunto perché non pensava di poter elevare permanentemente il proprio tenore di vita, la maggior parte dei lavoratori del Settecento non credeva di dover lavorare più di quanto era strettamente necessario per soddisfare ai bisogni immediati e soltanto a quelli più elementari. Questo modo di vedere sussiste ancora nell'Asia e in alcune delle più arretrate regioni d'Europa. Quando gli si aumenta il salario, l'operaio che ragiona a questo modo lavora meno di prima.

La disoccupazione del sec. XVIII si spiega con lo stato arretrato della tecnica e con il grande aumento della popolazione dell'Europa, dovuto anche al fatto che non vi era stata quasi nessuna epidemia e che le guerre non erano così frequenti né così lunghe come nei secoli precedenti. D'altra parte, per la scarsa utilizzazione della forza motrice meccanica e la mancanza di macchine operatrici, la lavorazione esigeva una quantità di lavoro umano molto maggiore che non attualmente. Perciò il consumo dei prodotti industriali era limitato a ristrette classi privilegiate ed era un vero e proprio consumo di lusso: è naturale che i poveri fossero consigliati ad astenersene, come se ne erano sempre astenuti. E così, sebbene rimanessero inutilizzate quelle grandi riserve di lavoro che erano costituite dagli uomini disoccupati e da quelli occupati discontinuamente, mancava lo stimolo a utilizzarle per la produzione di merci destinate al consumo delle classi lavoratrici stesse. La produzione cresceva, forse più rapidamente della popolazione, ma certo non tanto da consentire un forte miglioramento del tenore di vita medio e della ricchezza individuale. Fino al sec. XVIII, infatti, quasi tutte le volte che un'industria si sviluppa in un nuovo paese, generalmente si osserva che declina dove prima prosperava.

Il Sombart osserva che nel Settecento c'erano già indizî d'una fine della civiltà europea. La ricchezza accumulata fino allora dall'Europa aveva la sua origine nello sfruttamento senza scrupolo dei popoli stranieri, ma questo sfruttamento aveva dei limiti che stavano per essere raggiunti: le terre erano per la maggior parte devastate, gli uomini quasi distrutti: ancora un paio di generazioni e l'Africa non avrebbe potuto più fornire schiavi. Andavano rapidamente scomparendo le foreste europee, mentre il legno era quasi l'unico combustibile e per le costruzioni - sia civili sia meccaniche - aveva un'importanza paragonabile a quella che ha attualmente il ferro. La fine delle foreste destava già tali preoccupazioni che gl'Inglesi, per risparmiare le proprie, avevano favorito lo sviluppo dell'industria siderurgica irlandese e progettavano di fare altrettanto nelle colonie americane. Era questo uno dei primi indizî della possibilità che l'attività industriale si trasferisse in altri continenti.

Ma non era da escludere che, anche per altre ragioni, l'Europa venisse a trovarsi nelle condizioni nelle quali si era trovata la Spagna alla fine del Cinquecento e cioè che, pur conservando la supremazia politica, fosse battuta dai popoli dell'Oriente sul terreno industriale. Se dei radicali progressi non fossero intervenuti, questi erano, infatti, in grado di esercitare una concorrenza vittoriosa. La Cina e il Giappone (che anche per l'organizzazione corporativa presentavano delle sorprendenti analogie con l'Europa dei primi secoli dell'evo moderno) e l'India avevano una tecnica eguale a quella dell'Europa; in certi rami anche superiore. I tessuti di cotone indiani, le porcellane cinesi, i mobili laccati giapponesi, per la loro maggiore finezza e bellezza erano preferiti nella stessa Europa e anche in Africa i commercianti europei erano costretti a fornirli a preferenza di quelli del proprio paese. Vero è che in Oriente si acquistavano, e a caro prezzo, merci europee; ma poche, e più che altro per curiosità. Quando l'imperatore della Cina, rifiutando di stipulare un trattato di commercio con l'Inghilterra, nel 1793 scriveva a Giorgio III che il suo impero non aveva bisogno d'importare le manifatture dei barbari stranieri perché aveva di tutto in grande abbondanza entro i proprî confini, affermava cosa sostanzialmente vera.

Rivoluzione industriale e sec. XIX. - Mentre la maggior parte delle industrie del sec. XVIII continuava a svolgersi secondo le vecchie linee, alcune di esse furono radicalmente trasformate da una serie di progressi tecnici, che diedero un netto vantaggio alle grandi fabbriche degl'imprenditori capitalisti. La trasformazione, che successivamente si estese a quasi tutte le altre industrie, ha ricevuto il nome di rivoluzione industriale. Ordinariamente si indica la prima metà del sec. XIX come data di chiusura di questo movimento; ma gl'importantissimi progressi tecnici realizzati nel sec. XX e i nuovi orientamenti industriali e sociali che hanno determinato giustificano, forse, l'opinione che esso sia ancora in atto, e, anzi, ben lontano dalla fine.

La rivoluzione industriale ebbe inizio nell'industria tessile e, sebbene vi contribuissero inventori di altri paesi, ebbe il maggior sviluppo in Inghilterra. Fra il 1730 e il 1785 cinque grandi inventori: J. Kay, J. Hargreaves, R. Arkwright, S. Crompton, E. Cartwright, trasformarono completamente la tecnica della filatura e della tessitura, creando nuove macchine operatrici mosse da forza motrice meccanica, le quali, oltre a produrre a minor costo, consentivano anche di ottenere quei filati finissimi, che fino allora erano stati la specialità degli artigiani dell'India. Poco dopo, nel 1792, l'americano E. Whitney inventò il saw-gin, che rese economicamente conveniente l'estensione della coltivazione del cotone a fibra corta degli Stati Uniti. Un'altra grande invenzione (il cui principio doveva poi trovare applicazione in numerosissime altre industrie, affatto diverse dalla tessile) si dovette al francese J. M. Jacquard.

Contemporaneamente si trovò modo di utilizzare una forza motrice che, a differenza di quella idraulica, non limitava l'impianto della fabbrica a poche località, spesso lontane dai centri dove era più abbondante la mano d'opera. T. Savery nel 1698 e T. Newcomen nel 1705 avevano creato la macchina a vapore: poco efficiente e capace soltanto di moto alternativo. J. Watt con il condensatore separato, brevettato nel 1769, e con il manovellismo di spinta rotativa, vi apportò perfezionamenti radicali, rendendola atta a fornire moto rotativo e, perciò, a muovere tutte le macchine operatrici. La macchina a vapore fu dapprima applicata alle pompe per l'eduzione dell'acqua delle miniere e così permise, fra l'altro, l'aumento fortissimo della produzione del carbon fossile. Grazie all'introduzione fortunata dell'uso del carbon fossile negli alti forni, dovuta ad A. Darby, a partire dal 1760 ebbe un grande sviluppo l'industria siderurgica, che fu ulteriormente stimolata, nel 1790, dall'applicazione della macchina a vapore alle macchine soffianti degli alti forni. Nel 1779 fu inaugurato il primo ponte di ghisa, quello sulla Severn. Nel 1783, H. Cort inventò il puddellaggio. La produzione della ghisa in Inghilterra, che nel 1720 era di 25.000 tonn., salì a 68.000 nel 1788, a 1.347.000 tonn. nel 1830. Nel 1800 l'Inghilterra produceva 10.000.000 di tonn. di carbon fossile; nel 1845 oltre 34.000.000; la Francia nel 1847 ne produceva 5.000.000.

La macchina a vapore fu poi applicata ai mezzi di trasporto. Nel 1819 la prima macchina a vapore traversò l'Atlantico; nel 1825 la locomotiva di Stephenson percorse la ferrovia Stockton-Darlington. Per l'abbassamento del costo, che ne seguì, il trasporto delle merci povere poté compiersi economicamente anche per terra e questo permise, fra l'altro, d'impiantare lontano dai porti e dai canali navigabili quelle fabbriche che avevano bisogno di grandi quantità di carbon fossile e di materie prime. Non solo, ma le maggiori economie si realizzarono proprio nel caso del trasporto di grandi quantità di merci a grande distanza che, fino al sec. XIX, era stato possibile solo per qualche merce indispensabile, come i grani. La nave a vapore e la ferrovia allargarono smisuratamente i confini dei territorî dai quali l'Europa traeva i prodotti del suolo e delle miniere, necessarî alla sua vita e al suo sviluppo, e le permisero di procurarsi a buon mercato grani, legname, fibre tessili nei paesi d'oltremare e, per conseguenza, di utilizzare nell'industria una parte sempre maggiore della propria mano d'opera. L'Europa, così, pur continuando a impoverirsi di boschi e d'altre risorse naturali, non ne soffriva nessun danno immediato e anzi era in condizione di usarne con maggiore larghezza.

Prima della rivoluzione industriale non esistevano macchine utensili per lavorare i metalli con una certa precisione e si può dire che non esistesse un'industria meccanica. Le antiche macchine - e anche quelle tessili degl'inventori sopra ricordati - erano di legno e costruite a mano, non di rado da quelli stessi che dovevano usarle. Ma i cilindri delle motrici a vapore di J. Watt dovevano essere lavorati con precisione. Il problema fu risolto da J. Wilkinson. Alla fine del Settecento e nei primi dell'Ottocento, J. Bramah, H. Maudslay, R. Roberts e altri perfezionarono il tornio e le altre macchine utensili esistenti e ne crearono di nuove. Questi stessi uomini organizzarono le prime officine meccaniche inglesi, al pari di J. Watt e di M. Boulton che, insieme con i loro figli, impiantarono la famosa fonderia e officina meccanica di Soho presso Birmingham (inaugurata nel 1796). Le macchine cominciarono a esser costruite normalmente di materiale metallico (per la massima parte ghisa e ferro), lavorandone le parti per mezzo di altre macchine. Nel 1820 l'industria meccanica cominciò a essere importante per l'Inghilterra. Intorno al 1800 era stata preconizzata in Europa la costruzione in serie di pezzi intercambiabili; ma la prima applicazione di questa idea è attribuita all'inventore del saw-gin, l'americano E. Whitney, il quale (secondo quanto riferiva nel 1807 un viaggiatore inglese) fabbricando a macchina e in grande quantità moschetti per il suo governo, per ogni pezzo aveva una forma e l'esattezza della finitura era tale che ogni pezzo di ciascun moschetto poteva essere adattato a tutte le parti di un altro qualunque. A poco a poco questo metodo si perfezionò e si estese. Prima della metà dell'Ottocento le fabbriche d'armi americane usavano, per fabbricare le diverse parti d'un fucile, 100 macchine diverse, parecchie delle quali automatiche. Negli Stati Uniti si crearono macchine per fabbricare denti di carda, chiodi, viti, bulloni, lime, catene; destò meraviglia una che fabbricava spilli in un unico pezzo e li metteva automaticamente nella carta. Ma una delle più sorprendenti applicazioni del metodo fu, per i contemporanei, la fabbricazione di orologi da tavolo e quella di orologi da tasca, intraprese rispettivamente verso il 1840 e una decina d'anni dopo. Le ruote e gl'ingranaggi erano fabbricati con macchine automatiche così precise che quest'industria, malgrado il maggior costo della mano d'opera americana, poté sostenere la concorrenza estera anche per il prezzo ed - entro certi limiti - anche per la precisione del prodotto. In Inghilterra, seguendo una via aperta dal Maudslay e dal Roberts, dal 1833 al 1847 J. Whitworth, con nuovi mezzi tecnici, realizzò la normalizzazione delle viti.

La rivoluzione industriale fu completata da altre invenzioni. Nel 1791 N. Leblanc creò la grande industria della soda col processo che porta il suo nome e che fu introdotto dal Muspratt in Inghilterra nel 1823. Mentre il francese Ph. Lebon compiva con successo degli esperimenti, nel 1798 W. Murdoch, uno dei direttori dello stabilimento di Soho della ditta Boulton e Watt, v'installava l'illuminazione a gas; nel 1807 s'illuminava con questo mezzo una delle più importanti vie di Londra e nasceva una nuova importantissima industria.

Sarebbe troppo lungo accennare agl'innumerevoli progressi tecnici realizzati nel sec. XIX e nel XX, per i quali si rimanda agli articoli che riguardano le singole industrie. Ricordiamo soltanto, per la loro immensa importanza, il sorgere della grande industria chimica organica e lo sviluppo dell'elettrotecnica.

La rivoluzione industriale portò l'Inghilterra al primo posto per quanto riguarda lo sviluppo economico. L'industria cotoniera, la quale con la lavorazione a mano aveva avuto bisogno di forti misure protettive, una volta adottate le macchine si sviluppò rapidamente sulla base di imprese capitalistiche e diventò la prima del mondo. L'aumento di produzione fu enorme: nel 1812 un filatore poteva compiere il lavoro fatto da 200 prima dell'invenzione della gianetta. Ma ancor più sorprendente del ribasso del costo fu il miglioramento della qualità, che permise all'Inghilterra di coronare la propria vittoria schiacciando la concorrenza indiana sui mercati stessi dell'India. Il governo inglese tentò di conservare al paese il monopolio della nuova tecnica, facendo rispettare i vecchi divieti d'esportazione delle macchine, che furono abrogati solo nel 1843. Con la trasformazione tecnica, le maestranze poterono essere reclutate anche fuori del vecchio artigianato e uomini nuovi si fecero industriali. Molti di essi accumularono rapidamente delle fortune. Fra questi fu uno degli inventori sopra ricordati, il barbiere Arkwright: uomo ignorante e presuntuoso, a detta di J. Watt, e mal visto dalla maggioranza ma che, tuttavia, dimostrò grande talento, sia nel completare e rendere pratiche invenzioni altrui, sia nel creare e far prosperare le più grandi e meglio organizzate fabbriche di tutta l'industria. Alla sua morte lasciò mezzo milione di sterline. Un altro industriale fortunato fu il socialista R. Owen. Parecchi altri vennero su dalle file degli operai cotonieri stessi. Erano uomini rozzi, ma energici e capaci di organizzare e di dirigere, che le banche finanziavano nella loro ascesa; quasi tutti continuavano a vivere semplicemente, spesso risparmiando e investendo nell'industria tutto il proprio reddito netto. Poche delle vecchie famiglie d'industriali ebbero la forza di resistere a simile concorrenza. Ma gli artigiani danneggiati reagirono violentemente, anche distruggendo le macchine. Nel 1779, esasperati perché non trovavano lavoro mentre le fabbriche ne avevano, si sollevarono e devastarono gli stabilimenti di Arkwright e quelli di altre ditte.

Le guerre napoleoniche stimolarono lo sviluppo di tutti i rami della nuova industria inglese, anche per il grande consumo che facevano gli eserciti. Il basso costo permise di superare le barriere doganali e facilitò il contrabbando al blocco napoleonico; contemporaneamente permise all'Inghilterra di trovare nuovi mercati, oltre che nell'India, nell'America Settentrionale e Meridionale e nell'Asia Minore. La ricchezza nazionale crebbe tanto, che la nazione poté sostenere una pressione fiscale, quale fino allora non si era mai avuta. A questo sviluppo contribuirono anche cause monetarie, e cioè la moderata inflazione (paragonabile a quella avutasi negli Stati Uniti fra il 1914 e il 1919) che consentì larghi profitti agl'imprenditori e li spinse ad accelerare la trasformazione dell'industria. In Francia, invece, la moneta, dopo la rapidissima svalutazione sotto i governi rivoluzionarî, era stata stabilizzata da Napoleone su base aurea. Gl'Inglesi credevano che la pace, con la riapertura dei mercati del continente, avrebbe determinato un grande aumento della loro prosperità; ma tale speranza fu subito delusa: l'aumento delle esportazioni compensò appena la domanda per le forniture militari, che era venuta a mancare. Nel 1815 e nel 1816 si ebbe, così, una crisi che presenta sorprendenti analogie con quella del 1920 per quanto riguarda le difficoltà di collocamento dei soldati e dei marinai congedati, e ancor più con quella del 1930-33. Gruppi di disoccupati sfilarono per le strade, distruggendo le macchine e chiedendo pane e lavoro. Finita questa crisi, si ebbe un periodo d'espansione, che culminò nella grande attività del 1824-25, stimolata anche dalle esagerate speranze di sviluppo del commercio con gli stati dell'America latina, allora liberatisi dalla Spagna. Si contarono non meno di 624 iniziative di costituzione di nuove società, 245 delle quali furono effettivamente costituite; ma nel 1827 ne sopravvivevano solo 127, le cui azioni, complessivamente, erano quotate sterline 9.300.000, contro 15.200.000 di valore nominale. Si costituì, p. es., una società per produrre burro a Buenos Aires e solo dopo che furono superate le gravissime difficoltà dell'organizzazione si scoprì che i consumatori preferivano l'olio. Si spedirono stufe nei tropici e pattini di Sheffield in paesi dove non si formava mai ghiaccio. Nel 1825-1826 si ebbe una nuova e violentissima crisi, che anch'essa ricorda l'attuale, anche perché molti ne trassero argomento per preconizzare la prossima fine della nuova organizzazione industriale e finanziaria. Frattanto in Francia e negli altri stati del continente si aveva uno sviluppo molto più lento e modesto, ma senza scosse; per lo meno finché, dopo il grande sviluppo del regno di Luigi Filippo, scoppiò la crisi mondiale del 1847-48. Le rivoluzioni dell'America spagnola avevano portato a una fortissima contrazione della produzione dei metalli preziosi, che ebbe una ripresa in seguito alla scoperta dell'oro in California nel 1848 e in Australia nel 1851.

Alla metà dell'Ottocento, dopo il trionfo del libero scambio, la supremazia mondiale per l'industria, il commercio e la finanza spettava all'Inghilterra. Tuttavia l'agricoltura continuava a tenere il primo posto nell'economia del paese; le società anonime erano ancora rare nell'industria inglese e le grandi aziende non predominavano: fuorché nell'industria cotoniera, il numero medio di salariati impiegato dalle imprese normali era bassissimo. La supremazia tecnica della Gran Bretagna non si estendeva a tutta l'industria manifatturiera. Gli Stati Uniti, che fino dai primi anni del secolo avevano cominciato a creare quella produzione in serie e con macchine automatiche che doveva poi distinguerli, stavano prendendo il primo posto in alcune industrie alle quali era stato più facile adattare quei metodi, e anche in quelle di macchine agricole (come le mietitrici), di macchine per la filatura della lana, ecc. Dalla Francia e dalla Svizzera, anche prima della riforma doganale, s'importavano in Inghilterra alcuni articoli che vincevano quelli nazionali perché più belli, o più conformi all'ultima moda, o più accuratamente lavorati. La Germania, invece, era rimasta indietro quanto a sviluppo economico finché, nel 1852, la lega doganale (Zollverein) si estese a quasi tutto il paese.

Dopo la guerra del 1870, mentre la Francia si rimetteva con calma al lavoro e le sue industrie ricominciavano a svilupparsi, la Germania, dopo un periodo d'attività e d'ottimismo determinato sia dalla vittoria sia dall'indennità francese, nel 1873 precipitava in una crisi. Questa crisi si estese subito a tutto il mondo e durò fino al 1879-80. Essa coincise con la diminuzione della produzione dell'oro e con il passaggio di alcuni grandi stati alla base aurea che accentuò la scarsezza di quel metallo. Nel decennio 1880-90 l'Inghilterra era ancora la prima nazione industriale del mondo; ma siccome lo sviluppo delle industrie ormai era un fenomeno comune a tutti i paesi, cominciava a riuscirle difficile mantenere ulteriormente quella posizione, quasi di monopolio, che aveva tenuto per un secolo. D'altra parte nelle industrie inglesi apparivano già i segni di uno spirito conservatore. L'industria tedesca, aiutata e promossa dalle banche, stava per prendere il primo posto in Europa, mentre gli Stati Uniti, grazie anche alle immense disponibilità di materie prime e all'immigrazione, si avviavano a diventare, nel sec. XX, la prima nazione industriale del mondo.

La rivoluzione industriale ha avuto profondi riflessi nelle condizioni dei lavoratori. Quali fossero queste condizioni al principio del sec. XIX è facile dedurlo dal fatto che parvero scandalose le riforme di R. Owen, le quali si limitavano alla riduzione della giornata di lavoro da 17 a 10 ore, al rifiuto d'impiegare ragazzi al disotto dei 10 anni e alla soppressione delle multe. E J. B. Say, nel 1815, trovava che in Inghilterra un operaio guadagnava solo i tre quarti, qualche volta appena la metà di quanto era necessario per mantenere sé e la famiglia. L'orario di lavoro delle grandi fabbriche non era più lungo di quello cui l'artigiano si sobbarcava quando lavorava a cottimo nella propria casa; era però richiesto con continuità e con una disciplina che lo rendeva più duro. Ma il maggior male stava nell'impiego delle donne e, specialmente, dei fanciulli. Nell'artigianato era una vecchia consuetudine far lavorare i fanciulli, e i racconti dei contemporanei mostrano che anche i parenti li trattavano crudelmente. Tuttavia i metodi usati dalle fabbriche per costringerli a lavorare quando erano stanchi destavano l'indignazione degl'Inglesi. Per di più il loro reclutamento dava luogo a scandali: erano generalmente ragazzi poveri, ceduti dalle autorità locali con contratti che quasi li riducevano a schiavi. In un giornale del 1784 si leggeva l'avviso: "Da affittare il lavoro di 260 ragazzi"; una parrocchia londinese, nel contratto con un fabbricante del Lancashire, stipulava che per ogni venti ragazzi sani se ne accettasse uno idiota. Vi furono agitazioni che sboccarono in una campagna per una giornata lavorativa più breve. Grazie specialmente a lord Ashley, con successive leggi del 1833, del 1842 e del 1847 fu limitato il lavoro delle donne e dei fanciulli e imposta la giomata di 10 ore. Fuori d'Inghilterra, il progresso in questo senso fu più lento. Ancora nel 1835 il nervo di bue per frustare i ragazzi figurava fra gli strumenti di lavoro dei filatori della Normandia.

In Inghilterra i tentativi di creare leghe di resistenza fra gli operai furono energicamente combattuti con il "Combination Act" del 1799, modificato nel 1800. Queste leggi non impedirono del tutto il sorgere di società semi-segrete e nel 1824 furono abrogate. Nel 1825 una nuova legge definì i poteri delle Trade Unions, in modo da render difficile che agissero efficacemente. Nelle rivendicazioni degli operai si manifestava il desiderio di ripristinare, sotto nuove forme, quelle garanzie - non disgiunte da vincoli al progresso - delle quali gli artigiani avevano goduto con la vecchia organizzazione corporativa. E, mentre il laissez faire cominciava a trionfare, i precursori del socialismo portavano fra gl'intellettuali uno spirito di reazione, non solo alla grande industria, ma ai principî stessi della rivoluzione industriale. S. de Sismondi, p. es., pensava che lo stato dovesse frenare lo sviluppo della produzione e la moltiplicazione troppo rapida delle invenzioni. Quando gli operai inglesi, ottenuto nel 1867 il diritto di voto, poterono sviluppare le Trade Unions e, attraverso di queste, strappare agl'industriali una larga parte dei profitti che l'Inghilterra traeva dalla sua posizione nell'industria mondiale, si ebbe una completa rivoluzione nelle condizioni materiali di quelle classi lavoratrici. Dopo il 1880, i visitatori stranieri constatavano con stupore che in Inghilterra erano state superate le più ardite speranze dei filantropi della generazione precedente. Contemporaneamente cominciava a tradursi in pratica quella resistenza all'applicazione di nuove macchine perfezionate e di nuovi metodi di lavoro, che doveva rallentare l'ulteriore sviluppo dell'industria inglese.

L'industria contemporanea. - Grandezza delle aziende produttrici. - Attualmente, per uno stesso ramo d'industria, si osservano insieme grandi, medie e piccole imprese capitalistiche, artigianato e perfino piccola produzione domestica per consumo diretto. Siccome, per ogni determinata industria, data l'ampiezza del mercato e le condizioni dei trasporti, è ben determinato il tipo e la grandezza dell'azienda che produce al minimo costo, sembrerebbe naturale che in ogni singolo paese per ciascuna industria vi fossero aziende produttrici di un solo tipo. Generalmente, invece, tutti o quasi tutti i diversi tipi coesistono sullo stesso mercato e in concorrenza fra loro, senza che nessuno riesca a sostituirsi rapidamente agli altri.

Le ragioni di questa apparente anomalia sono diverse. Anzitutto la grande fabbrica di tipo moderno ha un costo di produzione molto elevato quando è costretta a limitare la produzione a una frazione soltanto della massima di cui è capace; perché l'impianto di simili fabbriche richiede un forte investimento di capitali, tanto maggiore quanto maggiore è l'impiego di macchine e di forza motrice, che sono ordinariamente i principali fattori della riduzione del costo. Gli ammortamenti e gl'interessi su questi capitali, insieme con una parte notevole delle spese d'esercizio, costituiscono una spesa fissa, indipendente dal volume della produzione. E perciò una fabbrica, impiantata in vista d'una produzione molto maggiore di quella che riesce a collocare, a parità di condizioni non riesce a spostare i concorrenti meno efficienti, appunto perché in quel momento si trova ad avere un costo di produzione superiore al loro. È questo il principale ostacolo che le grandi fabbriche incontrano nella fase dell'avviamento e che può essere superato solo in circostanze eccezionali come, per es., quando il consumo cresce improvvisamente, oppure quando l'azienda produttrice è in qualche modo sorretta dall'esterno. Inoltre ciascun produttore, entro determinati limiti di prezzo, preferisce la merce d'un determinato produttore e, generalmente, preferisce comprarla da un determinato rivenditore. I commercianti, perciò, assicurano una clientela anche ad aziende che hanno un costo di produzione superiore a quello dei concorrenti purché, beninteso, la differenza non sia eccessiva.

D'altra parte, anche se impone una spesa di lavoro enormemente maggiore di quella che si avrebbe in un'azienda industriale bene organizzata, la produzione domestica per il consumo diretto diventa conveniente quando il consumatore non ha mezzi per comprare la merce sul mercato e non trova chi glieli fornisca come compenso al suo lavoro. Perciò, questa forma primitiva di produzione sopravvive ancora e può accadere che vi si ritorni da forme più evolute.

Produzione in serie, produzione continua, produzione in massa. - Gran parte dell'industria moderna è caratterizzata dalla produzione in massa.

Nella lavorazione a mano, tutte le volte che si ha una domanda costante per forti quantità di un prodotto sempre eguale, l'operaio può aumentare fortemente la propria produzione se ripete continuamente le stesse operazioni, sia perché può facilitare il lavoro con l'impiego di speciali attrezzi, sia perché acquista in esso una particolare destrezza. L'aumento di destrezza è massimo quando ciascun operaio si limita a compiere una sola operazione. Perciò la divisione del lavoro, tutte le volte che il consumo è stato sufficiente a consentirla, ha portato a forti diminuzioni del costo di produzione e queste, alla loro volta, hanno stimolato ulteriori aumenti di consumo. Fin dal 1776 Adamo Smith l'additava come la più importante causa dell'aumento della produttività del lavoro e citava l'esempio della fabbricazione degli spilli: se le 18 operazioni nelle quali si divideva erano compiute da 10 operai diversi, la produzione equivaleva a 4800 spilli il giorno ed a testa, mentre forse - commentava lo Smith - un operaio non specializzato e che lavorasse da solo non sarebbe riuscito a farne dieci. Questo famoso esempio mostra una forma primitiva di quelle che oggi si chiamano lavorazioni in serie e produzione in massa; una forma rudimentale delle quali è costituita dall'antichissima fabbricazione dei mattoni. Questo tipo di lavorazione si è sviluppato largamente fin da quando i mercati si allargarono, in seguito alla creazione di mezzi di trasporto a buon mercato, all'aumento della ricchezza e al conseguente elevamento del tenore di vita.

Ma, quando un lavoro è ridotto a operazioni elementari, che debbono essere ripetute senza modificazioni per un numero grandissimo di volte, non è difficile creare macchine capaci di compierlo perfettamente. Per quanto riguarda l'industria meccanica, l'introduzione della lavorazione in serie nel senso moderno fu resa possibile da un'innovazione importantissima: la normalizzazione (standardizzazione) dei singoli pezzi d'ogni macchina e dall'uso di costruirli con limiti di tolleranza così stretti, che ciascuno può essere sostituito, senza aggiustarlo, a un altro pezzo qualunque della stessa serie. È questa la cosiddetta intercambiabilità, la cui prima applicazione è attribuita, come si è detto, ad E. Whitney. La creazione di macchine automatiche e semi-automatiche ha permesso di applicarla a sempre nuovi prodotti.

Per una classe d'industrie molto differenti dalle meccaniche sono stati creati processi che con la lavorazione in serie hanno comune soltanto la divisione in molte operazioni elementari, ciascuna delle quali è compiuta da una macchina apposita. Il più notevole esempio è dato dall'alta macinazione del grano.

In alcune industrie, nelle quali non è stato possibile eliminare completamente il lavoro manuale, si è trovato modo di accelerarlo facendo passare meccanicamente l'oggetto da lavorare dinnanzi a operai ciascuno dei quali compie un'operazione soltanto ed è ridotto, in certo modo, a una macchina intelligente. Si risparmia così anche sulle spese del trasporto a braccia nell'interno degli stabilimenti che, con una diversa organizzazione, assorbono in parte il tempo degli operai qualificati e, in ogni modo, contribuiscono all'elevazione del costo di produzione. I trasportatori continui hanno permesso di applicare questo metodo dapprima nei macelli di Chicago, poi nel montaggio delle automobili e di altre macchine.

Nei molini e in tutte quelle industrie che trattano materiali in piccoli pezzi, oppure in polvere, si trasporta meccanicamente il prodotto da una macchina a quella che compie l'operazione successiva, sicché è possibile costruire impianti completamente automatici a lavorazione continua. Nelle industrie chimiche (nelle quali, generalmente, la lavorazione non è continua, né automatica) e limitatamente ai liquidi, servono a un simile scopo le tubazioni e le pompe.

Organizzazione scientifica. - Già Watt e Boulton, in quell'officina meccanica di Soho che servì per tanti rispetti da modello, si erano preoccupati di ridurre al minimo ogni lavoro non strettamente necessario. Intorno al 1900, F. W. Taylor - che in alcune osservazioni era stato precorso, alla metà dell'Ottocento, da Ch. Babbage - studiando, con l'aiuto del cronometro, il modo in cui gli operai eseguivano determinati lavori, trovò che alcuni movimenti abituali erano superflui e altri potevano essere compiuti con minore dispendio d'energia; sicché sarebbe stato possibile accelerare moltissimo il lavoro modificandone razionalmente i particolari. Il metodo Taylor, togliendolo agli operai, affidava a dirigenti specializzati il diritto di prescrivere nei suoi particolari il modo d'eseguire ogni singola operazione. Per opera del Taylor e d'altri sorse così la cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro.

Limiti alla grandezza delle aziende produttrici. - Come si è accennato, non sempre il costo di produzione s'abbassa con il crescere della grandezza della fabbrica; perché il minimo costo si ha quando s'impiegano determinate macchine operatrici, che sono disegnate per una certa produzione oraria e non di più. Per ogni tecnica particolare, le macchine e gli apparecchi esistenti sul mercato determinano, perciò, la grandezza dell'impianto che produce al minimo costo. Fino a tanto che nuove macchine e nuovi processi non vengono creati, se un'azienda ha bisogno di una produzione maggiore essa non fa, in sostanza, che raggruppare in un solo stabilimento dei gruppi di macchine i quali, impiantati ciascuno in uno stabilimento diverso, non lavorerebbero con minore efficienza. Con la riunione in unico stabilimento si realizzano delle economie sulle spese generali e su altri elementi del costo, ma può darsi che esse siano compensate dalle maggiori spese di trasporto sia della materia prima sia del prodotto finito. Il fatto che le motrici a vapore dànno forza più a buon mercato quando l'impianto è più grande un tempo favoriva le grandi fabbriche; ma l'avvento dell'energia elettrica ormai ha molto limitato questo vantaggio. Bisogna ricordare inoltre che le spese di vendita del prodotto finito crescono fortemente quando la produzione supera un certo limite e non va dimenticato che si osserva lo stesso fenomeno quando un'azienda richiede una percentuale troppo alta della materia prima disponibile su un dato mercato: sebbene, al disotto di questo limite, si possa comprare a prezzi più bassi quando si comprano partite più grosse.

Il desiderio di realizzare le economie proprie della produzione su più vasta scala e alcuni vantaggi delle grandissime aziende per quanto riguarda il finanziamento - e, entro certi limiti, anche il commercio - ha spinto a raggruppare in unica mano più aziende che mettono sul mercato lo stesso prodotto. Sono queste le così dette combinazioni orizzontali, le quali, talvolta, arrivano quasi a monopolizzare un ramo d'industria. Per sfruttare gli stessi vantaggi finanziarî e con la speranza di realizzare altre economie, si sono unite in unica mano anche aziende delle quali l'una dà prodotti che vengono ulteriormente trasformati nelle fabbriche dell'altra. È questa la cosiddetta integrazione verticale. La concentrazione della fabbricazione negli stabilimenti che producono a minor costo e dei servizî in un solo gruppo di uffici costituisce il nocciolo della così detta razionalizzazione.

Vendita e propaganda. - Il fatto già accennato, della preferenza di ciascun consumatore per una determinata marca spinge gl'industriali a sostenere grandi spese per educare il pubblico ad accordare tale preferenza alla propria merce, con un'opera di propaganda che ha come forma principale la réclame, ordinariamente diretta a tutti i possibili consumatori di un mercato, oppure a determinate classi di consumatori. Insieme con questa, in tempi recenti sono state applicate - specialmente dagli Americani - altre forme di persuasione, per le quali il possibile cliente è trattato individualmente, per mezzo di agenti oppure per corrispondenza. Questi ultimi metodi, in sostanza, riprendono le vecchie forme di propaganda del commercio più antico; però con metodi simili a quelli della lavorazione in serie. Per es., spesso l'agente non fa che ripetere frasi belle e fatte, che la sua ditta ha riunite in un manuale, dopo uno studio paziente di tutti gli argomenti capaci di convincere il cliente e di tutte le obiezioni che egli suol fare; spesso la corrispondenza è costituita da una serie di lettere che vengono spedite a determinati intervalli, ecc. Una simile meccanizzazione non è gradita e perciò si cerca di coprirla dando alle conversazioni e alle lettere carattere individuale. In parte vi si riesce con metodi ingegnosi: vi sono, per es., macchine che scrivono l'indirizzo in testa a una circolare in modo che sembri trattarsi di una lettera tutta dattilografata.

Per merci normalizzate e prodotte in massa, simili servizî di vendita si sono molto sviluppati negli ultimi anni, prima della crisi mondiale, trasferendo alla borghesia parte di quel lavoro che la produzione in massa tendeva a togliere alle classi operaie. Il loro costo, che tende a crescere fortemente quando il mercato si avvicina alla saturazione, neutralizza in parte le economie della lavorazione più moderna. A ogni modo questi metodi di propaganda contribuiscono fortemente allo sviluppo dell'industria, nel suo complesso.

Una delle più importanti caratteristiche dell'industria moderna è, infatti, che essa non si limita alle merci e ai servizî già richiesti dal consumatore, ma ne fornisce in quantità anche di quelli che fino a poco prima non erano richiesti e cerca di creare continuamente il desiderio di nuovi consumi e di trasformare tali desiderî in bisogni. Sorgono così continuamente industrie nuove e, in tempi normali, si accresce la capacità produttiva di quelle vecchie per soddisfare ai bisogni dei popoli meno progrediti. È appunto questo sviluppo continuo che - fino a qualche anno fa - ha consentito all'industria di dare nuovamente lavoro a quelle masse operaie che rimanevano disoccupate per il progresso della tecnica e l'estensione dell'uso della forza motrice.

Imprenditori e imprese. - Con la diffusione delle società anonime, dell'organizzazione del credito e dei mercati dei titoli, l'imprenditore si è andato sempre più disgiungendo dal capitalista. In molti casi, ormai, esso è l'uomo al quale, da una parte, i risparmiatori affidano i proprî capitali con varie forme e finzioni legali e che, dall'altra parte, gestisce l'industria. E sebbene nominalmente egli sia subordinato a quelli che, secondo la legge, sono i proprietarî dell'azienda (e cioè, in un'anonima, agli azionisti), in pratica egli è considerato sempre più il vero padrone dell'azienda.

La forma più rappresentativa d'impresa industriale moderna è la società anonima. Essa si è diffusa perché offre grandissimi vantaggi, specialmente per quel che riguarda la raccolta del capitale necessario, che può essere fornito anche da piccoli risparmiatori, con titoli facilmente commerciabili e che, perciò, consentono anche d'investire il denaro per brevi periodi.

Per queste vie l'azienda industriale moderna va acquistando una personalità propria, indipendente da quella dei capitalisti e degli imprenditori che la fondano e la dirigono. Con il crescere della grandezza delle imprese, del numero degl'impiegati e dei salariati e della ricchezza netta che esse lasciano nel paese, con il crescere anche della separazione fra capitalista e imprenditore e con il perfezionarsi della separazione dei rischi, la continuazione dell'esercizio e anche lo sviluppo delle aziende industriali sono sempre meno danneggiati dal fatto che l'imprenditore oppure i capitalisti perdono parzialmente o totalmente il proprio capitale. Con le antiche aziende individuali, tale perdita significava la morte dell'azienda. Ormai, invece, sono numerose le aziende, il capitale investito nelle quali è andato perduto non una, ma parecchie volte e che, ciò nonostante, hanno continuato a vivere con l'apporto di nuovo capitale. Ciò dipende, in parte, dal fatto che la capacità di guadagno di un'azienda dissestata spesso si valuta con prudenza eccessiva; simile speranza alletta molti a rilevarla e continuarne l'esercizio.

Ma, ormai, va diventando sempre più frequente il caso in cui il nuovo capitale è fornito, senza fini di lucro, da enti pubblici. Simili interventi non mirano a salvare gl'imprenditori (che, generalmente, vengono sostituiti) e neppure i capitalisti e i finanziatori in genere, ma mirano a conservare al paese il reddito di lavoro degli operai e degl'impiegati dell'impresa e quelli delle altre imprese che a essa forniscono merci o servizî.

Riflessi del progresso industriale sulle condizioni della società moderna. - Come si è visto, finché la tecnica fu quella dell'artigianato, l'industria mirava a una ristretta clientela ricca. Tale clientela non accoglierebbe volentieri i prodotti della moderna lavorazione in massa e, in ogni modo, non potrebbe assorbirli tutti. Gl'industriali, perciò, sono stati costretti a ricercare la clientela delle frazioni meno agiate della borghesia e di quelle stesse classi lavoratrici che, un tempo, erano fra le più povere della società. E, mentre l'aumento della ricchezza consentiva d'estendere gli antichi servizî pubblici (come l'illuminazione stradale) e di trasformare in pubblici altri che, un tempo, erano pagati esclusivamente dall'utente (come i trasporti ferroviarî), di questi servizî si sono fatte godere con crescente larghezza le classi meno abbienti appunto perché, con i metodi della grande industria moderna, una grande estensione dei servizî stessi si realizza con un aumento relativamente piccolo della spesa. Sono gli stessi imprenditori capitalisti che, nel proprio interesse (e, talvolta, senza rendersene conto), premono perché il tenore di vita delle classi meno abbienti sia elevato. Perciò il povero delle grandi città moderne gode di comodi che mancavano ai più ricchi signori dell'Europa medievale.

La causa principale dell'enorme aumento, sia della produzione sia del benessere individuale, verificatosi negli ultimi 150 anni, è certamente la sostituzione della forza motrice meccanica a quella dell'uomo. Nel 1926 si calcolava che, mentre gli abitanti degli Stati Uniti erano 110 milioni, la potenza meccanica della quale disponevano equivaleva a quella di 2100 milioni di schiavi. In sostanza, il progresso dell'industria si compendia nell'utilizzazione sempre crescente dell'energia e delle risorse naturali. Le macchine non sono che gli strumenti di questa utilizzazione. È naturale che i popoli moderni non lavorino più come si usava in Inghilterra nel primo periodo della rivoluzione industriale; che dopo la guerra mondiale la giornata di lavoro sia stata ridotta a 8 ore; che i disoccupati siano mantenuti a spese dello stato; che lo sport assorba una parte crescente del tempo e delle energie di tutte le classi sociali, compensando la diminuzione di esercizio fisico che è conseguenza appunto del maggior impiego di forza motrice meccanica.

Tuttavia la sostituzione delle macchine all'uomo non si compie senza scosse. Dall'inizio della rivoluzione industriale, la meccanizzazione di un'industria ha tolto lavoro a operai che, solo con il tempo e dopo sofferenze non lievi, hanno trovato impiego per il sorgere di nuove industrie e per lo sviluppo delle vecchie. Questo continuo riassorbimento dei disoccupati ha mascherato il fenomeno, che però negli ultimi anni è apparso più vistoso e meno facilmente compensabile per la rapidità stessa con la quale si è estesa la meccanizzazione. Si è posto, in sostanza, il problema fondamentale, della distribuzione di merci e di servizî che è facile produrre con poco lavoro e che i ricchi non bastano a consumare mentre le altre classi non trovano i mezzi per pagarli appunto perché la loro opera non è abbastanza richiesta nella produzione.

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Per l'età omerica: G. Finsler, Homer, I, Lipsia 1913, p. 123 segg. Per l'età attica: A. Boeckh, Staatshaushaltung der Athener, 3ª ed., Berlino 1886 (trad. ital., in Bibl. di storia econ. diretta da V. Pareto, I, 1, Roma 1903, p. 107 segg.); U. E. Paoli, Studî di diritto attico, I: Il prestito marittimo, Firenze 1931. Per l'età ellenistica: Reil, Beiträge zur Kenntniss des Gewerbes im hellenist. Ägypten, Berna-Lipsia 1913.

Per l'industria nel mondo romano: H. Gummerus, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., IX, col. 1439 segg.; T. Frank, An economic history of Rome, 2ª ed., Baltimora 1927 (trad. ital. di B. Lavagnini, Firenze 1924); M. Rostovtzeff, The social and economic history of the Roman Empire, Oxford 1926 (trad. ital., Firenze 1932). Sui rapporti fra lo stato romano e l'industria manifatturiera: A. W. Persson, Staat u. Manufaktur in röm. Reiche, Lund 1923.

Sulle corporazioni artigiane nell'antichità: E. Ziebarth, Das griechische Vereinswesen, Lipsia 1896; A. Waltzing, Étude historique sur les corporations professionnelles chez les Romains, Lovanio 1895-1902; F. Poland, Geschichte des Griechischen Vereinswesen, Lipsia 1909; M. San Nicolò, Aegyptisches Vereinswesen zur Zeit der Ptolemäer und Römer, Monaco 1915; A. Stöckle, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., suppl. IV, col. 155 segg.

Per la tecnica delle industrie antiche è fondamentale: H. Blümmer, Technol. u. Terminol. der Gewerbe u. Künste bei Griechen und Römern, Lipsia 1884.

Dal Medioevo al sec. XIX: G. D'Avenel, Histoire économiques de la proprieté, des salaires, des denrées et de tous les prix... depuis l'an 1200 jusqu'en l'an 1800, Parigi 1894-1926; E. Levasseur, Histoire des classes ouvrières et de l'industrie en France avant 1789, 2ª ed., Parigi 1901; id., Histoire... depuis 1789, Parigi 1904; W. Ashley, An Introduction to English Economic History and Theory, 4ª ed., Londra 1906; W. Cunningham, The Growth of English Industry and Commerce in Modern Times, 6ª ed., Cambridge 1915-21; V. Clark, History of Manufactures in the United States, I, Washington 1916; II, ivi 1929; W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, Monaco 1928; C. Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea (1750-1850), Perugia-Venezia 1929-30, voll. 2; J. H. Clapham, An Economic History of Modern Britain, I, The Early Railway Age, 1820-1850, 2ª ed., Cambridge 1930; II, Free Trade and Steel, 1850-1886, Cambridge 1932; J. H. Clapham, The Economic Development of France and Germany, 1815-1914, 2ª ed., Cambridge 1923.

Origini e sviluppo della grande industria in Italia.

L'industria alla seconda metà del sec. XVIII. - Si è detto più sopra come la seconda metà del sec. XVIII rappresentasse per l'Inghilterra, e in misura minore per la Francia, il periodo delle prime grandi realizzazioni nel campo della nuova civiltà industriale. In Italia, nello stesso periodo, per diversi fattori, fra cui ha principale importanza l'elemento politico, la situazione non si presenta così progredita, ma manifesta lo stesso i primi segni di rinnovamento economico.

I varî rami industriali sono più retaggio e tradizione dei secoli XIV e XV che espressione di nuove forze. Ma intanto essi sono usciti dal quadro della vecchia organizzazione. Al puro regime dell'artigianato, si sono andati sostituendo sempre più largamente il rapporto di Verlag e la fabbrica discentrata, e talvolta anche la fabbrica accentrata. Molte industrie, fra le tessili specialmente, si sono diffuse nelle campagne: donne, uomini e ragazzi alternano il lavoro dei campi con il lavoro industriale e si sottraggono, per ciò stesso, a ogni rigido regolamento della produzione. Le corporazioni o decadono di fatto o sono addirittura abolite legalmente. Così Leopoldo I le sopprime, nel 1770, in Toscana; Giuseppe II le sfronda, fra il 1773 e il 1787, in Lombardia. Non mancano del resto, anche in Italia, principi illuminati che, con le loro riforme, aiutano il rinnovamento economico. Maria Teresa e Giuseppe II in Lombardia, Carlo Emanuele III in Piemonte, Leopoldo I in Toscana, Carlo III e Ferdinando II a Napoli, migliorano sensibilmente le condizioni economiche dei loro regni. E spesso promuovono direttamente attività industriali, come Carlo III a Napoli che aiutò le industrie dei pannilana, delle seterie, delle cotonate, delle ceramiche, e Carlo Emanuele III in Piemonte che favorì la creazione (1752) della Compagnia reale del Piemonte per le opere e i negozî di seta.

Se non si notarono nel periodo più decisivi miglioramenti, ciò fu dovuto, oltre che all'estrema suddivisione politica, che angustiava le industrie e gli scambî, a quella scarsezza di capitali e di mezzi che era andata manifestandosi dall'epoca della maggiore espansione economica delle regioni italiane e a cui le successive dominazioni, le guerre e le confische non posero certo rimedio.

Geograficamente le zone industriali d'Italia sono alla seconda metà del sec. XVIII ben limitate: comprendono tutta l'Italia settentrionale, con Bologna e Genova; la Toscana; Napoli con Torre Annunziata e altri paesi del circondario. L'industria più diffusa in queste zone, nel Piemonte soprattutto, è quella della seta, specialmente nelle prime fasi di lavorazione, dalla produzione del bozzolo alla produzione dell'organzino. Essa esporta largamente su tutti i mercati europei e anche in quelli del Levante. È praticata soprattutto nelle campagne da contadini, ma non manca qualche esempio di grossa manifattura. Alcune filande di Ivrea contano fino a 150-200 operai. Una fabbrica di tessuti di seta, fondata a Milano nel 1765, impiega alcuni anni dopo 225 operai. L'industria non ha però ancora attrezzatura meccanica, se si eccettuano le macchine idrauliche, del resto già in uso da alcuni secoli.

Dopo quella della seta viene, in ordine d'importanza, l'industria della lana. Essa ha sviluppo notevole nel Veneto (Vicenza, Bassano, Feltre, ecc.), poi in Lombardia (Bergamo, Como), dove si fabbricano i tessuti più fini (Como), in Piemonte, in Toscana (Prato, ecc.). Anche in questa industria, diffusa per le campagne, non mancano esempî di grosse manifatture. Una fabbrica di Schio riunisce alcune centinaia di operai. Una fabbrica di stoffe di lana fini di Como, fondata nel 1756, conta verso la fine del secolo un migliaio di operai. Una fabbrica di tessuti di Pinerolo conta 22 telai e 355 operai. Uno stabilimento per la tessitura di cammellotti, fondato nel 1783, conta 38 telai e 268 lavoranti.

L'industria del cotone è ai primi timidi inizî. È poco curata nelle campagne, e questa circostanza le consentirà di svilupparsi, su basi meccaniche, più rapidamente di ogni altra industria, così com'era avvenuto in Inghilterra. A Pisa soltanto essa è largamente praticata e occupa 2500 persone. A Milano essa conta due grandi stabilimenti: uno fondato nel 1782, per la stampa di indiano e che impiegava oltre 200 persone; e un altro che produceva filati e tessuti con circa 300 lavoranti.

Le industrie del lino e della canapa sono molto più diffuse dell'industria cotoniera, specialmente in Lombardia (Crema e Cremona) e nelle Marche (Pesaro e Ancona).

Molto minore importanza hanno le altre industrie. Si contano in Lombardia (Brescia, Bergamo, Como) e in Piemonte (Savoia, Aosta), molte miniere di ferro, alcune decine di alti forni per la ghisa, e alcune centinaia di fucine per la lavorazione del ferro e dell'acciaio. Anche Ròsina (Arezzo) e Pistoia lavorano il ferro. Sono anche celebri le fabbriche d'armi di Brescia e Lumezzane, che esportano ogni anno migliaia di fucili; nonché le officine per la fabbricazione di coltelli, forbici e chincaglierie di Bagolino (Brescia) e Scarperia (Mugello). Le cartiere genovesi e quelle di Colle di Val d'Elsa in Toscana hanno fiorente attività. Le porcellane della fabbrica di Doccia e di Capodimonte sono altamente apprezzate. Ma si tratta, più che altro, di nuclei isolati, che poca importanza rivestono nel complesso dell'attività economica del periodo considerato.

Dal 1800 all'unificazione nazionale. - Questo periodo ricco di drammatiche vicende politiche ha esercitato sensibili e contrastanti influenze sullo sviluppo dell'industria.

Il dominio napoleonico, assoggettando l'economia italiana alle necessità di sviluppo dell'economia francese, non favorì certo l'industria, e anzi talvolta aspramente l'ostacolò; tuttavia con l'abolire le barriere interne e i dazî doganali, con l'accrescere le unità territoriali e con il sopprimere antiquate leggi commerciali, contribuì all'affermarsi di quello spirito d'iniziativa, di cui si erano avuti segni manifesti nel secolo precedente. La stessa imposizione tributaria, colpendo principalmente la ricchezza della vecchia aristocrazia, e riversando il gettito nel paese, sia con le ordinazioni per l'esercito, sia sotto forma di stipendî e di erogazioni per lavori pubblici, contribuì a creare capitali d'investimento. Né il blocco continentale ebbe solo effetti negativi: spesso consentì all'industria italiana di soppiantare i prodotti già forniti dall'Inghilterra.

Assolutamente negativa fu invece l'opera dei governi nei primi anni della restaurazione. Si rimisero intanto in vigore le barriere doganali fra stato e stato, e si colpirono talora con dazî d'entrata le stesse materie prime che servivano all'industria. Nel Regno di Sardegna, la tariffa moderatamente protezionista, introdotta nel 1815, venne elevata una prima volta nel 1818 e quindi nel 1823; negli Stati pontifici, la tariffa del 1815 subì varî ritocchi, culminati nella tariffa del 1824, che segna una serie di rialzi nei diritti sulle lane, sulle sete, sul cotone, sul ferro. Il Lombardo-Veneto, se entrò a far parte d'una grande unità territoriale, vide tuttavia sorgere le elevatissime barriere daziarie interne, e com'era stato sacrificato alle necessità dell'economia francese, fu ora sacrificato alle necessità dell'economia austriaca. Anche nel Regno di Napoli furono promulgate, nel 1823 e nel 1824, tariffe doganali protezioniste, fra le più elevate d'Italia; si vollero anche instaurare barriere daziarie fra la Sicilia e il continente e fu persino protetta la capitale dalla concorrenza delle provincie; inoltre si tornò a voler regolare le manifatture, a restaurare gli obblighi di maestranza e le autorizzazioni governative. Solo in Toscana il ritorno dei Lorena non portò ad alcuna accentuata attività reazionaria.

Migliori condizioni si manifestarono quasi dappertutto in Italia dopo il 1830. Nel Regno di Sardegna l'assunzione al trono di Carlo Alberto iniziò un periodo d'importanti riforme: si migliorarono strade e canali e si costruirono ferrovie (nel 1859 raggiungevano gli 800 km.), vennero aboliti i divieti d' esportazione e parecchi divieti d'importazione, e venne iniziata una politica commerciale liberista che culminò nella tariffa del 9 giugno 1851; fu decretato lo scioglimento delle corporazioni. Nel Lombardo-Veneto l'Austria provvide a eliminare le barriere doganali fra le due regioni e fra queste e il Tirolo; abolì inoltre i dazî di transito e alcuni altri dazî d'importazione su materie prime occorrenti all'industria; costruì ferrovie, se non con il ritmo del Piemonte, in misura superiore ad altri stati italiani (nel 1859 raggiungevano i 200 km.). La Toscana fornisce in quest'epoca l'esempio del più libero sistema doganale europeo: nessuna restrizione è posta ai commerci, e, nonostante la piccolezza del territorio, il paese è sempre più fiorente. Anche nel Regno delle due Sicilie si nota un più ampio respiro: furono aboliti i regolamenti sulle corporazioni, istituito il commercio libero fra la Sicilia e il continente, ribassati sensibilmente i dazî d'entrata su ben 110 articoli; fu autorizzata la Cassa di sconto a fornire capitali ai manifatturieri; si ebbe cura delle comunicazioni specialmente marittime. Rimane ancora estraneo a ogni movimento rinnovatore, nel campo economico, lo Stato pontificio, nel quale manca del resto, eccezione fatta per alcuni centri manifatturieri dell'Emilia, ogni accenno alla grande industria.

Come nel precedente periodo, anche in questo le industrie che più hanno rilievo e progrediscono, sia pure fra crisi gravissime, sono le tessili. E in esse, e specialmente nell'industria cotoniera, si manifesta la prima evoluzione verso il sistema della grande industria.

L'industria della seta, eminentemente esportatrice, colpita dal divieto d'importazione in Russia e dal blocco continentale, durante il periodo napoleonico, dal ripristino nel 1814 dell'editto piemontese del 1751 che vietava l'esportazione della seta greggia, dall'arrivo, verso il 1830, del prodotto dal Bengala e dalla Cina sul mercato londinese, solo dopo quest'epoca si avviò alla ripresa. Al 1853, P. Maestri calcolava la produzione di seta tratta in kg. 900.000 per il Piemonte, kg. 1.400.000 per la Lombardia, kg. 700.000 per il Veneto. L'industria registrava anche qualche progresso tecnico. Nel ramo trattura l'impiego del vapore per il riscaldamento delle bacinelle, in cui vanno sciolti i bozzoli, in sostituzione del fuoco diretto, sperimentato a Torino fin dal 1807, applicato praticamente verso il 1815, venne via via estendendosi e alla metà del secolo le filande a vapore erano in discreto numero, specialmente a Pavia e Como, e nel Pratese. Nel 1841 fu introdotta anche in questo ramo a opera dei fratelli Kramer una macchina per filare direttamente la seta tratta dal bozzolo. Nel ramo torcitura i progressi verso la metà del secolo erano ancora più sensibili e la lavorazione ormai sovente si compiva in opifici di discrete dimensioni, con 100-200 operai. Si era lamentata per lungo tempo l'assenza dei mezzi per la lavorazione meccanica dei cascami; ma nel 1853 sorse a Milano una prima fabbrica, che presto raggiunse i 2000 fusi, e qualche anno dopo a Bergamo una seconda. Nel 1844 si aprì anche a Milano il primo stabilimento per la stagionatura delle sete. Nel ramo tessitura la concentrazione è meno accentuata: malgrado la creazione di grandi stabilimenti specie nel Milanese (i telai Jacquard apparsi fin dal 1819-20 a Milano cominciarono a essere fabbricati in apposita officina nel 1824), molta produzione di tessuti si otteneva ancora nelle campagne, da contadini che possedevano due o tre telai al massimo.

Mentre nell'industria della seta il Piemonte aveva ceduto terreno alla Lombardia, nell'industria laniera avviene il contrario. La lavorazione acquista prevalentemente importanza in Piemonte e nel Veneto, e decade un po' nei vecchi centri di Bergamo, Brescia e Como. Il Biellese diventa il grande centro di questa industria: nel 1817 sorse a Croce Mosso il primo grande stabilimento di lavorazione meccanica; alcuni decennî dopo si contano nel Biellese altri stabilimenti d'una certa importanza e nel 1854 sorge a Borgosesia una fabbrica per la lavorazione della lana pettinata. Nel Veneto, venne introdotta nel 1817-18 la filatura meccanica e l'esempio fu ben presto seguito da altri. Molto meno accentuati furono i progressi della tessitura, e gl'impianti di telai Jacquard.

Ma l'industria che più d'ogni altra si avviò a una completa trasformazione tecnico-economica fu l'industria del cotone, specialmente nel ramo filatura. Alcune fonti dànno per il 1845 nel Regno sardo 50-70 filature con un complesso di 100.000 fusi e per il 1855, nella Lombardia, 123.000 fusi. La prima filatura meccanica sorse a Intra nel 1808. Nel 1812 e nel 1819 furono fondati rispettivamente a Gallarate e a Vorano opifici meccanici forniti di gianette. Nel 1823 entrarono in funzione a Solbiate i filatoi semi-automatici. In Piemonte assurse a importanza la manifattura di Annecy e Pont, che nel 1845 contava 22 mila fusi. Nelle vicinanze di Pinerolo una filatura contava 12 mila fusi. Nel ramo tessitura l'organizzazione industriale era al solito meno progredita e i telai Jacquard si diffondevano lentamente. È interessante, nell'industria cotoniera, lo sviluppo di un'organizzazione commerciale italiana per l'importazione della materia prima.

Le industrie del lino e della canapa rimangono molto indietro, in questo periodo, alle altre industrie tessili. Nel 1845 in Lombardia si costruirono due grandi stabilimenti per la filatura del lino: l'uno a Cassano d'Adda nel Milanese e l'altro a Villa d'Almè nel Bergamasco. In Piemonte, iniziative del 1842 fallirono per varie cause e le due industrie si conservarono ancora per qualche decennio industrie prettamente rurali.

Nelle industrie diverse dalle tessili gli sviluppi produttivi e i miglioramenti tecnici non furono molto rilevanti. L'industria siderurgica segnò qualche progresso nel Piemonte (Aostano), con l'introduzione dei metodi inglesi di puddellaggio, ma rimase stazionaria in Lombardia (Bresciano e Bergamasco) sacrificata come fu all'industria carinziana e istriana. L'industria meccanica ebbe incremento con il progredire delle costruzioni ferroviarie; ma i primi stabilimenti d'una certa importanza sorsero solo fra il 1845 e il 1846, uno a Milano e l'altro a Sampierdarena. Progressi registrarono l'industria della carta, dei cuoi, e l'industria vetraria. Sorsero inoltre una fabbrica di candele e saponi in Piemonte, una fabbrica di ceramiche e alcuni zuccherifici, poi fusisi insieme, in Lombardia.

Un cenno speciale merita l'industria del Regno delle due Sicilie in questo periodo in discreto sviluppo. Il permesso, di nuovo consentito nel 1824, della libera esportazione della seta grezza incoraggia le piantagioni di gelsi e l'allevamento del baco da seta. Verso il 1835 si producono circa 1.200.000 libbre (kg. 400.000) di seta grezza: produzione che può stare alla pari con quella piemontese e lombarda. Tanto la filatura quanto la tessitura restano però generalmente alla fase dell'industria domestica. Fanno eccezione le seterie fabbricate a Reggio, a Catanzaro, a Monteleone (Calabria), a Matera (Lucania) le quali eguagliavano quelle francesi e andavano anche all'estero. Ma soprattutto di fama universale erano i rasi, i velluti, le stoffe operate del grandioso stabilimento di S. Leucio (presso Caserta). Fortemente protetta, la vecchia industria domestica delle stoffe di lana era risorta; le piccole fabbriche erano tornate numerose, ma la maggior parte degli articoli prodotti era di qualità ordinaria. La filatura e la tessitura del lino e della canapa costituivano un'attività quasi esclusivamente rurale e femminile. Vi si dedicavano ben 100.000 tessitrici e 60.000 telai; si filava del lino e della canapa anche nelle grandi fabbriche di cotone per mescolarlo a quest'ultimo nella confezione delle tele di cotone, che ne riuscivano migliorate; né mancavano grandi stabilimenti per il solo lino. L'industria del cotone era risorta dopo la terribile crisi, che l'aveva travolta dopo il 1814. E, insieme con le piccole fabbriche, ne erano nate di maggiori, specie in Campania (Piedimonte d'Alife, Scafati, Castellammare, Cava, Salerno), anche con capitali svizzeri e tedeschi. Con provvedimenti doganali il governo incoraggiò l'industria della carta e sorsero cartiere moderne a S. Maria della Forma (presso Isola del Liri), a Carnello presso Sora, a Picinisco (Frosinone), a S. Elia (Aquila) e altrove. Discreto sviluppo registrano inoltre l'industria del vetro, della ceramica, la chimica, l'industria dei guanti e anche quella delle costruzioni navali.

Anche la Sicilia aveva segnato dopo la Restaurazione un certo progresso nel campo industriale. La seta e il cotone si lavoravano in generale a mano; ma nelle città principali - a Trapani, a Palermo, a Messina - erano sorte grandi filande, e fabbriche di tessuti. A Catania la tessitura del cotone era condotta per intero a mano, ma la città contava ben 4000 telai; l'organizzazione del lavoro poggiava su basi capitalistiche; gli artigiani e, in genere, i lavoranti dipendevano da intraprenditori che fornivano loro la materia prima e il telaio. Le concerie siciliane davano un prodotto migliore di quello del continente. L'isola vantava anche una notevole industria peschereccia, che impegnava parecchie migliaia di persone e parecchie centinaia di battelli, né si limitava al pesce minuto, ma comprendeva la pesca del tonno, del pesce spada e del corallo, che i Siciliani della costa occidentale andavano a cercare fino in Africa - in Algeria - e fornivano poi a manifatturieri e a mercanti, i quali lo lavoravano e preparavano per l'esportazione. L'isola, inoltre, aveva cominciato a fornire al mondo lo zolfo.

I primi anni dell'unificazione. - Un concetto di quello che era l'Italia in fatto di industrie al momento dell'unificazione, ci è fornito dal primo censimento demografico e dall'esposizione nazionale di Firenze, che si effettuarono nel 1861.

Il censimento mostra che su 21,8 milioni di persone censite, 3,1 milioni erano addetti alle manifatture, e fra essi le donne figuravano in proporzione superiore agli uomini (1,7 milioni). In queste cifre però l'attività artigiana e domestica rappresentava una percentuale assai elevata dell'attività industriale e l'industria italiana nel complesso e non ostante i progressi realizzati appariva ancora scarsamente dotata degli impianti e macchinarî che caratterizzano la grande industria.

I dati dell'esposizione in Firenze mostrano ancor meglio siffatta caratteristica. Si ebbero oltre 3000 espositori, rappresentanti ogni ramo dell'attività industriale, ma poco numerose erano le mostre d'imprese industriali importanti, mentre figuravano largamente prodotti lavorati da singoli espositori. E questi singoli espositori solo testimoniavano di una forza viva e di una grande attitudine a produrre che, nelle mutate condizioni politiche, dovevano dare i loro frutti.

I primi anni dell'unificazione non furono facili per l'industria. La tariffa sarda del 9 giugno 1851 fu senza modifiche estesa alle altre provincie e nel luglio 1859 entrò in vigore in Lombardia, nell'ottobre 1859 in Toscana e nell'Emilia, nel settembre 1860 nelle provincie del Napoletano, nell'ottobre 1860 nelle Marche e nell'Umbria, e nel gennaio 1861 in Sicilia. La relazione Ellena sull'inchiesta industriale per la revisione delle tariffe doganali mise in evidenza come la repentina introduzione della tariffa sarda nelle altre regioni fosse causa di disagi e perdite, essendo mancato il tempo necessario ai nuovi orientamenti.

Per attenuare gl'inconvenienti dell'unificazione doganale vennero modificati alcuni dazî, come ad esempio quelli sui filati e sui tessuti. Le difficoltà tuttavia perdurarono date le differenze grandissime di forze economiche, di ordinamenti industriali, di vitalità di commerci fra l'una e l'altra regione. D'altra parte, difficoltà non meno gravi derivarono dalle esigenze finanziarie del nuovo stato, il quale, con gli allettamenti che offriva ai capitali disponibili con l'emissione di prestiti, distoglieva il risparmio dal campo propriamente produttivo; dal difettoso ordinamento del credito; dalla guerra del 1866; dalle continue variazioni temute o minacciate o effettuate nei rapporti tra il fisco e le aziende industriali, dalla grave misura del dazio-consumo, sovente applicato con criterî errati.

L'introduzione del corso forzoso (1866) ebbe qualche effetto sulla situazione industriale e l'industria serica e cotoniera che avevano molto sofferto nel periodo precedente segnarono un sensibile miglioramento. Nell'industria serica, specialmente, mentre scemava il numero delle filande con bacinelle a sistema antico, aumentava via via quello delle filande con bacinelle a vapore. Un buon avviamento prendevano inoltre l'industria estrattiva, a eccezione di quella del ferro, che segnava un regresso, e le industrie chimiche. Ma si trattò di un movimento di modeste proporzioni.

In complesso, nel periodo dal 1861 al 1870 l'industria italiana non ebbe uno sviluppo degno di particolare rilievo. E la proclamazione di Roma a capitale d'Italia trova ancora l'economia del paese fondata essenzialmente sull'agricoltura.

Periodo 1871-1880. - Sulle condizioni dell'industria italiana nel decennio 1871-1880 notizie interessanti vengono fornite dall'inchiesta compiuta per preparare la riforma delle tariffe doganali e il rinnovamento dei trattati di commercio, di cui era prossima la scadenza. L'inchiesta, decretata nel maggio 1870, fu condotta da un comitato presieduto dapprima da A. Scialoja e poi da L. Luzzatti. I risultati a cui pervenne, sottoposti al parlamento nel luglio 1877 con la presentazione del trattato di commercio con la Francia, misero in evidenza varie circostanze che erano d'ostacolo all'incremento dell'attività industriale. Si lamentavano la scarsezza di capitali nazionali, congiunta all'elevato livello del saggio d'interesse, la deficienza di persone preparate a dirigere i grandi stabilimenti industriali, l'insufficienza di mano d'opera specializzata, la molteplicità e gravezza delle imposte, l'elevato costo dei trasporti ferroviarî, gli ordinamenti soverchiamente restrittivi in materia di proprietà industriale. La relazione Luzzatti richiamò inoltre l'attenzione sugl'impedimenti di carattere doganale che ostacolavano lo sviluppo dell'industria italiana, principalmente la tassazione delle materie prime, l'imperfetta classificazione di talune merci in conseguenza di che si favoriva la fabbricazione dei prodotti grossolani deprimendo quella dei prodotti fini, l'esistenza di dazî stabiliti sul valore delle mercanzie. A conclusioni pressoché identiche pervenne l'Ellena illustrando le sue Notizie statistiche sovra alcune industrie (Roma 1878), che si riferivano all'anno 1876. Entrambi i documenti concordano nel riscontrare parziali compensi a siffatte condizioni d'inferiorità, e segnatamente l'abbondanza di carbone bianco e di mano d'opera.

Nonostante queste molteplici difficoltà la grande industria continuò a progredire, soprattutto in quelle regioni settentrionali che già da tempo avevano un orientamento industriale. Fu caratteristico in tal periodo l'intervento di capitale estero, allettato dalle prospettive che si aprivano in Italia. Molti rami se ne avvalsero, come l'industria dei trasporti che attinse a capitale belga, l'industria meccanica che attinse a capitale tedesco, la mineraria che attinse a capitale francese, la stessa industria dei vini che si avvalse, in qualche regione, di capitale inglese. Fu anche sintomatica del periodo la formazione d'una classe industriale che, accanto ai pochi provenienti dagli alti ceti, contò moltissimi venuti su dai più umili posti. Qualche artigiano cercò con i suoi risparmî di trasformare l'antico laboratorio in un'officina più moderna; qualche dirigente tentò per conto suo le sorti dell'industria; qualche operaio più abile e intelligente approfittò di ciò che aveva appreso nella sua vita di lavoro per applicarlo a un'azienda sua. E il movimento si estese e rassodò, attraverso grandi sforzi di volontà.

La nuova classe industriale si formò essa stessa i suoi collaboratori: tecnici, impiegati, maestranze, la scuola non essendo ancora preparata al compito della formazione professionale. Non esistendo una conveniente organizzazione bancaria e creditizia, essa si procurò inoltre direttamente i mezzi finanziarî necessarî alla sua attività, ricorrendo ai ristretti circoli della famiglia o degli amici. La classe industriale fece, infine, i primi timidi tentativi per cercare sbocchi all'estero. Il movimento si svolse dapprima senza aiuti governativi. E solo con il 30 maggio 1878 entrò in vigore la nuova tariffa doganale, che introdusse un regime di moderata protezione a favore della produzione nazionale e le assicurò un meno aspro cammino.

Nel periodo 1871-80, in varî rami d'industria si verificano sensibili progressi: l'industria dei derivati del latte diventa esportatrice nel 1870 e verso il 1880 introduce le prime scrematrici meccaniche. Nel 1870 ha inizio la produzione industriale delle acque gassate. Nel 1875 sorsero il primo stabilimento di conserve alimentari e la prima fabbrica di oleomargarina, nel 1876 il primo impianto frigorifero. Sorge inoltre l'industria dei surrogati del caffè e si hanno i primi tentativi, sia pure economicamente non fortunati, di produzione dello zucchero di barbabietola. Nell'industria serica appaiono gli stabilimenti per la selezione del seme bachi; i telai meccanici cominciano ad avere uno sviluppo ancora modesto ma promettente, e si tenta, sebbene senza fortuna, la filatura dei cascami. L'industria del lino inizia un periodo di rapido sviluppo. L'industria cotoniera accentua la propria attività. Né le industrie tessili specializzate restano immobili, ché nel 1873 s'installano le prime macchine per il ricamo, e nelle industrie dei cappelli s'introduce la lavorazione meccanica. L'industria mineraria aumenta la propria produzione. L'industria del marmo attende specialmente a curare e perfezionare gli allacciamenti ferroviarî e i metodi d'imbarco. Nell'industria siderurgica infierisce la crisi dovuta alla concorrenza estera e si svolge un processo di trasformazione che porta come conseguenza la chiusura di numerosi stabilimenti. L'industria del vetro vede sorgere le prime fabbriche per la produzione delle bottiglie. L'industria chimica inizia la produzione dei superfosfati e quella dei colori minerali e delle vernici. Nel 1872 sorge a Milano la prima fabbrica di gomma, alla quale si aggiunse pochi anni dopo un reparto per la produzione dei conduttori elettrici isolati. L'industria cartaria trasforma la sua attrezzatura meccanica, e già nel 1876 ha più che raddoppiata la produzione e gettate le basi del suo fiorente avvenire. Molte altre industrie registrano la data del primo grande impianto: così l'industria degli occhiali (1877), dei giocattoli (1878), dei pettini di celluloide (1880) e via dicendo.

È in sostanza il tempo in cui si gettano le basi della trasformazione della vecchia industria e dell'artigianato nell'industria moderna. Le citate statistiche dell'Ellena segnalano in ordine d'importanza per numero di operai le industrie della seta (200.393), del cotone (52.363), della lana (24.576), della carta (17.312), dei tabacchi (15.654), del lino e della canapa (11.037), delle concerie di pelli (10.734), mentre tutte le altre sono sotto i 10.000 operai; per impiego di forza motrice l'industria della carta (13.980 HP), del cotone (12.838), della seta (10.902), della lana (7591), del lino e della canapa (2954), l'estrazione d'olio dai semi (1066) e le altre tutte sotto i mille cavalli vapore. Restano fuori del quadro le miniere per le quali venivano segnalati circa 47.000 operai, la metallurgia con circa 12.000, le industrie meccaniche con 15.000 in cifra approssimativa e i prodotti chimici per i quali l'Ellena non dà che poche notizie. In complesso la rilevazione accertò 382.131 operai, con maggioranza di donne e fanciulli. Aggiungendo le industrie che erano rimaste fuori del campo dell'inchiesta, si perviene a un totale generale di 460.000 operai in cifra tonda (non comprese le industrie chimiche). Anche ammettendo le grandi lacune d'una rilevazione difficile e non completa, i risultati raggiunti giustificavano tuttavia l'osservazione dell'Ellena che nel paese i mestieri impiegavano maggior numero di braccia che le vere fabbriche. Questa situazione andò in seguito modificandosi per effetto dell'industrializzazione.

Periodo 1881-1903. - Nel 1881 l'esposizione delle industrie nazionali, promossa dalla Camera di commercio di Milano, servì ad accertare i progressi conseguiti dall'epoca dell'esposizione di Firenze. In complesso la mostra attestò che l'industria italiana non era rimasta inerte, ma aveva lavorato in molti campi e spesso con proficui risultati, seppure con ritmo inferiore a quello di altri paesi più progrediti.

Ben presto però circostanze inerenti al mutamento della congiuntura internazionale determinarono una fase d'arresto nel movimento. Incominciò a manifestarsi, sia per cause monetarie, sia per eccesso di produzione, il fenomeno del ribasso dei prezzi dei prodotti agricoli. Le sofferenze dell'agricoltura si ripercossero sulle condizioni delle industrie manufattrici. Fu impegnata un'aspra battaglia di prezzi, e si mirò a eliminare le industrie meno efficienti. Alle cause generali si aggiunsero anche le ripercussioni della terribile crisi agricola seguita alla rottura dei rapporti commerciali con la Francia. E gli anni dal 1887 al 1895 furono fra i più difficili che l'economia del paese ricordi.

La tariffa del 1887, introducendo dazî protettivi per moltissimi rami dell'industria, aprì però il campo a molte iniziative e, sia pure con minore intensità, a molte innovazioni industriali e tecniche.

Nelle industrie alimentari continua lo sviluppo della produzione dei derivati del latte. Verso il 1890 la lavorazione tende a industrializzarsi, anche per effetto del sorgere di numerose cooperative. Nel 1888 comincia e si estende rapidamente la produzione industriale dello zucchero. Nell'industria della seta prosegue la sostituzione delle bacinelle a vapore a quelle a fuoco diretto, e dei telai meccanici a quelli a mano. L'industria del cotone continua nelle sue innovazioni, e così anche l'industria dei ricami a macchina. Si crea inoltre, su basi industriali, la lavorazione dei pizzi a macchina. Le industrie del lino e della canapa rimangono stazionarie. Nell'industria mineraria sono in aumento le produzioni dei combustibili fossili, dello zinco, del rame, delle piriti di ferro, mentre hanno un andamento oscillante le produzioni di zolfo, piombo, ferro, mercurio. La metallurgia consolida i suoi impianti tecnicamente perfezionati e ne installa di nuovi (Terni, Ponte San Martino, Fonderia milanese di acciaio, Siderurgica di Savona, ecc.), ma lotta contro le difficoltà di vendita, e nel 1890 diminuisce la produzione. L'industria del marmo sviluppa la sua tecnica con l'introduzione del filo elicoidale (1893), delle corone diamantate e delle pulegge penetranti (1897). L'industria meccanica triplica la sua mano d'opera e compie notevoli installazioni.

L'industria elettrica, che fino al 1896 si era specialmente applicata ai piccoli impianti autonomi, vede sorgere in quell'anno l'impianto di Paderno d'Adda, primo dei grandi impianti di trasporto di energia moderni, al quale seguirono numerosi altri. E intanto cominciavano a fiorire le industrie accessorie. La prima fabbrica di lampadine è del 1883, e fu seguita da altre.

Nel campo delle industrie chimiche nel 1892 s'iniziò la fabbricazione dell'ossigeno, nel 1894 fu impiantato il più importante stabilimento per la produzione dell'estratto di castagno per concia; ancora nel 1894 ebbe inizio la produzione di solfato di rame su scala industriale. Le fabbriche di perfosfati aumentarono in un ventennio da 2 a 46.

Nel 1887 sorse la prima fabbrica di pipe di radica industrialmente attrezzata. Nel 1890 ebbe inizio l'esportazione degli strumenti musicali a plettro, ecc., ecc.

La statistica industriale del 1903 segnala questi progressi e registra 1.275.109 operai impiegati nelle industrie, contro meno di 500 mila nel 1876. Anche tenendo largo conto della maggiore incompletezza della prima rilevazione, si scorge un forte progresso dell'industria rispetto ai mestieri. In tutte le industrie le imprese sono aumentate di numero eccetto in quelle per la fabbricazione dello spirito (da 5579 a 3275), per la lavorazione della seta (da 3829 a 2162), per la concia delle pelli (da 1316 a 1174), per la fabbricazione della carta (da 521 a 405) e dei cappelli (da 520 a 504); in tutte le industrie è aumentato il numero degli addetti, eccetto che per la fabbricazione dello spirito (da 10.118 a 8674) e per la lavorazione della seta (da 200.393 a 191.654); infine in tutte senza eccezione è aumentato l'impiego di forza motrice. In complesso si nota un contrasto fra la diminuzione pur assai modesta (8%) del numero delle imprese da un lato e l'aumento del numero degli addetti (39%), nonché quello assai più considerevole della forza motrice impiegata, espresso dal numero di cavalli dinamici sviluppato dai motori originarî (248%). E la statistica industriale conferma i risultati dei censimenti della popolazione per quanto riguarda la composizione della massa operaia. Altri elementi che indicano lo sviluppo industriale sono le produzioni minerarie, le importazioni di ghisa in pani, di rottami di ferro e di acciaio, di ferro greggio e di acciaio, di caldaie e macchine. Risulta attestato che nel periodo in esame, più che la prima lavorazione del ferro e dell'acciaio, andava sviluppandosi la seconda lavorazione di essi; e che l'industria meccanica, per quanto progredita e sviluppata, non riuscì a tener dietro alla richiesta di macchine e di motori, vivacissima per effetto delle grandi trasformazioni industriali in corso. Anche le importazioni di carbon fossile crebbero, passando da circa 2 milioni di tonn. nel 1881 a più di 5 milioni e mezzo nel 1903, e così pure quelle di petrolio e suoi derivati, che passarono da 595 mila a 682 mila quintali, quelìe di cotone da 484.000 quintali nel 1885 a 1.541.646 nel 1903, di altri vegetali filamentosi da 81.142 a più di 262 mila, della lana e suoi cascami da 95 mila a 153 mila e più.

Notevoli progressi si registrano anche nella formazione dei dirigenti e delle maestranze. Valenti giovani, usciti da scuole superiori italiane, sono chiamati a dirigere miniere, fabbriche, ecc., subentrando così via via agli elementi stranieri nella direzione tecnica della produzione manifatturiera italiana. La diffusione delle scuole d'arti e mestieri, talune con carattere specialmente acconcio alla tradizione di certe industrie in determinati centri di popolazione, servì a costituire in Italia una maestranza che alle buone qualità naturali proprie dell'operaio italiano aggiunge un'educazione tecnica conveniente.

Periodo 1903-1913. - Il periodo che precede la guerra mondiale vede il rapido sviluppo e la definitiva affermazione dell'industria italiana come grande industria. L'andamento progressivo coincide con una fase di diffusa prosperità e di generale ascesa dell'economia mondiale. L'industria acquista sempre maggiore importanza nel sistema economico nazionale e le basi della sua attività continuamente si allargano.

Nelle industrie alimentari degno di nota è l'incremento dell'industria saccarifera, dell'industria dei formaggi, delle conserve alimentari, del cioccolato e delle paste alimentari. L'industria del freddo aumenta i suoi impianti sino a 150 nel 1912. Nel campo delle industrie tessili l'industria del cotone ebbe uno sviluppo rapido e brillante, passando fia il 1900 e il 1913 da 1.879.129 a 4.582.000 fusi e da 78.306 a 133.600 telai. Il periodo di maggiore incremento dell'industria si ebbe fra il 1903 e il 1908, a cui seguì, negli anni precedenti la guerra, una sensibile crisi di sovraproduzione. Le industrie del lino e della canapa si affermarono con la costruzione fra il 1900 e il 1910 di nuovi grandiosi impianti, ma soggiacquero poi, anch'esse, a una crisi di sovraproduzione, in connessione con le condizioni del mercato mondiale. L'industria serica, in sviluppo costante per quanto riguarda la tessitura, la lavorazione dei cascami e la tintura, si trovava in grandi difficoltà per quanto riguarda la trattura i cui prodotti erano soggetti alla concorrenza sempre crescente del Giappone. Nondimeno essa continuò ad avere grandissima importanza nella vita economica nazionale. L'industria della lana presenta, a sua volta, aumenti notevoli, così nella filatura dei cardati come in quella dei pettinati e nella tessitura, tanto che allo scoppio della guerra si calcolava disponesse di 380 mila fusi da pettinato, 270 mila da cardato e più di 14 mila telai. Le industrie tessili accessorie e quelle dell'abbigliamento segnano un movimento analogo. Sorge e si sviluppa con non comune rapidità affermandosi subito nel campo dell'esportazione l'industria dei bottoni di frutta. Sorgono inoltre nel 1908 i primi impianti dell'industria della seta artificiale. Straordinariamente prospera è l'industria dei cappelli di feltro, specie del cappello molle di feltro di pelo, largamente esportato in ogni paese. Progrediscono, seppure con ritmo più lento, le fabbricazioni di ventagli, di ombrelli, di berretti che alimentano correnti non trascurabili d'esportazione. Migliorano le industrie di confezione di cravatte, di biancheria, di abiti.

L'industria mineraria non segnala fatti importanti, se si fa eccezione per l'industria zolfifera che, dopo la grande ripresa del 1900, si trovò a dover affrontare la concorrenza americana. L'estrazione di minerali di ferro, zinco, piombo rimase stazionaria o manifestò la tendenza a diminuire, mentre uno sviluppo sensibile si ebbe per il mercurio, i combustibili fossili, le piriti di ferro, il bitume e l'asfalto, la grafite. Per i prodotti delle cave, l'aumento fu generale e, mentre l'industria del marmo trovava ragioni di sviluppo nella crescente possibilità d'esportazione, quella di altre materie era favorita dallo sviluppo dei lavori edilizî e delle opere pubbliche specialmente intensi in questo periodo.

L'industria siderurgica si distingue per l'intenso sviluppo degli alti forni a coke per la produzione della ghisa direttamente dal minerale (1900-1910). Si sostituisce poi via via la produzione del ferro omogeneo, cioè dell'acciaio dolce, al ferro da rimpasto che costituiva prima il prodotto caratteristico. L'industria passò in complesso da una produzione di ferro e d'acciaio di 301 mila tonn. nel 1900 a una di 989 mila nel 1913. I progressi della meccanica furono cospicui, specialmente nel campo dei motori d'ogni genere e anche delle macchine agrarie, di quelle per le industrie tessili, del materiale ferroviario, degli strumenti scientifici, mentre nelle automobili si vantava un vero primato per le macchine di peso medio e di qualità superiore. L'industria elettrica continuava nel suo cammino ascensionale.

Le industrie ceramiche e vetrarie progredivano. Notevoli aumenti segnano le produzioni di calce idraulica (da 417 a 597 mila tonn. fra il 1903 e il 1911), di cemento (da 288 a 979 mila tonn.), di laterizî (da quasi 3,8 milioni a 6,6 milioni di tonn.) che si ottengono ormai in grandi stabilimenti modernamente organizzati. Uno sviluppo intenso si nota nella produzione di vetri soffiati e di bottiglie. Minore è lo sviluppo della produzione del vetro e dei cristalli in lastre, a eccezione della produzione di lastre gettate, mirabilmente organizzata. Stazionaria risulta la lavorazione di vetri artistici, smalti, conterie.

Splendido sviluppo ebbe l'industria della gomma elastica e della guttaperca, che in pochi anni si affermava in tutta la serie delle possibili lavorazioni, alimentando una corrente d'esportazione considerevole, espandendosi con fabbriche succursali all'estero, portando le introduzioni di materia greggia da 6 mila quintali nel 1903 a più di 26 mila nel 1913.

L'industria della concia delle pelli continuava la sua trasformazione tecnica e quella delle calzature introduceva intorno al 1906 il macchinario perfezionato americano, che le dava più tardi il mezzo di affermarsi brillantemente. La valigeria introduceva verso il 1903 la lavorazione della fibra vulcanizzata.

Nell'industria della carta fra il 1903 e il 1913 si raddoppia l'impiego di forza motrice, e aumentano di numero e di potenzialità le macchine, specialmente le continue. Cresce in proporzione la produzione di carta, specialmente di quella a macchina, e si avviano esportazioni notevoli di carta bianca, di carta da sigarette e di carta da imballaggio.

In questo periodo sorgono in Italia varî rami dell'industria chimica: nel 1903 ebbe inizio la fabbricazione della soda caustica, nel 1905 quella dell'ossigeno, dell'aria liquida con il metodo Linde e quella della calciocianamide (Piano d'Orte); nel 1911 quella dell'acido citrico. Si può dire che anche l'inizio della produzione del solfuro di sodio avesse luogo in questi anni (1902). Intanto nuovi rami si consolidavano, come quelli della produzione di olî e grassi vegetali e del solfato di rame, e antiche industrie si trasformavano con metodi e attrezzatura moderna, come l'industria saponiera, e altri ancora cercavano faticosamente un assestamento della loro situazione economica compromessa dalla sovraproduzione, come le industrie dei perfosfati e quella dell'alcool. In complesso la situazione e le vicende delle industrie chimiche nel periodo in esame ci mostrano una rielaborazione profonda in cui a sviluppi considerevoli - per es., nella fabbricazione dell'acido solforico, passata da poco più di 263 mila tonn. nel 1903 a circa 645 mila nel 1913; dei perfosfati, salita in quell'ultimo anno a ben 120 mila tonn.; della calciocianamide, passata da piccole quantità a 15.000 tonn. nel 1913 - si contrappongono difficoltà quali quelle che accompagnavano l'industria dei sali di potassa, e lacune assolute come quella della produzione delle materie coloranti sintetiche completamente importate dall'estero e che avevano fatto sparire la nostra vecchia produzione di estratti coloranti.

I fatti riassunti si rispecchiano nei risultati del censimento industriale del 1911, anno nel quale può considerarsi, per quasi tutte le forme di attività industriale, raggiunta la vetta dello sviluppo antebellico. Se tali risultati si comparano a quelli della statistica del 1903, è facile scorgere il grande progresso raggiunto, pur tenendo conto delle differenze fra un censimento e una rilevazione per questionario e pur considerando che la statistica del 1903 era limitata alle imprese occupanti non meno di 6 operai che facevano uso di motori meccanici, mentre il censimento del 1911 fu esteso a tutte quelle esercitate da almeno 2 persone, compreso il proprietario. Le 117.341 imprese con 1.275.109 operai registrate nel 1903 sono passate a 243.926 con 2.304.438 operai nel 1911 (con un aumento rispettivo del 107 e del 90%), mentre la proporzione fra il numero di persone occupate in professioni industriali rilevate dal censimento della popolazione e quello di addetti alle industrie, rilevate dal censimento industriale, è salita al 46%. Questo rapporto pone in evidenza l'incremento dell'attività delle imprese industrialmente organizzate e dell'importanza sempre maggiore che esse acquistano nei confronti con l'attività delle piccole imprese artigiane.

Periodo 1914-1927. - La guerra mondiale e gli avvenimenti che seguirono hanno esercitato un'influenza profonda sulle vicende dell'industria italiana. Lo scoppio della guerra colse l'industria in un momento assai delicato, dopo cioè un periodo d'intenso sviluppo, al quale stava già succedendo per varî rami uno squilibrio fra produzione e consumo. Sennonché la crescente richiesta d'ogni specie di prodotti e manufatti da parte dei paesi belligeranti fu stimolo all'attività produttiva, e alla fine del 1914 le principali industrie avevano già ritrovato una base d'equilibrio, mentre perdurava la depressione per quelle che, come la serica, subirono perdite più gravi nel repentino tracollo dei prezzi. Dall'entrata in guerra dell'Italia l'industria assorbe, a prezzi crescenti, la totalità della mano d'opera valida, e ricorre largamente al lavoro delle donne, dei ragazzi e anche dei contadini.

Fra le industrie che prima ancora della partecipazione dell'Italia al conflitto ebbero più vigoroso impulso, sono da ricordare la meccanica, la laniera, la cotoniera, opportunamente favorite da larghe eccezioni ai divieti d'esportazione formulati con il decreto 1° agosto 1914, e ben presto sollecitate dalle ingenti ordinazioni di prodotti per la preparazione militare, terrestre e marittima. All'entrata in guerra esse hanno quindi già in gran parte compiuto il loro adattamento economico e tecnico ai nuovi bisogni e alla nuova congiuntura.

Nel campo minerario, per rimediare alla deficienza di combustibile fossile, l'estrazione dei combustibili nazionali venne intensificata e fortemente accresciuta. Così pure l'estrazione di minerali di ferro.

Grande impulso ebbero le industrie metallurgiche e specialmente la siderurgica, il cui sforzo fu non soltanto diretto ad aumentare la produzione, ma anche a farvi contribuire il più possibile le risorse nazionali. Del pari ebbe sviluppo l'industria chimica diretta alla produzione degli esplosivi. Molte industrie si svilupparono per provvedere a consumi non bellici o non esclusivamente bellici, per i quali erano venuti meno i rifornimenti dall'estero. In certo senso rientra in questo gruppo l'industria elettrica, il cui rapido sviluppo fu senza dubbio favorito dalle difficoltà di rifornimento dei combustibili fossili. L'industria chimica aumentò enormemente la produzione d'ogni specie di acidi e ne perfezionò i procedimenti: diede incremento nel 1918 alla fabbricazione della soda caustica, sviluppò grandemente gl'impianti per la produzione dell'ossigeno e dell'idrogeno, intraprese la produzione di colori organici sintetici e dei relativi prodotti intermedî, quella di olî essenziali sintetici, la produzione dello zinco con metodi elettrolitici. La stessa industria estese la produzione dei medicinali e studiò con ogni mezzo di attivare i processi di estrazione dell'azoto dall'atmosfera.

Negli anni di guerra si hanno anche i maggiori progressi dell'industria del freddo, di quella della birra, delle mole abrasive artificiali (iniziatasi nel 1914-15), delle lampadine elettriche, della margarina, del tabacco e via dicendo.

Alcune industrie, invece, ebbero dalla guerra danni assai forti (marmo, cotone, lino, canapa, iuta, perfosfati, bottoni, pastifici, grafiche, ecc.), mentre altre, pur in mezzo a grandi difficoltà, riuscirono a mantenersi e in certa misura anche a svilupparsi (seta, carta, derivati del latte, ecc.).

La cessazione delle ostilità si ripercosse sulle industrie e quelle che più erano state avvantaggiate dalla speciale produzione bellica, furono anche le più colpite: le industrie mineraria e siderurgica, specialmente. Ma anche le industrie che non si trovavano in tale condizione subirono gli effetti del disorientamento della vita economica. E la situazione ben presto si aggravò per la sopravvenuta crisi politica e sociale, e quel complesso di fenomeni disgregatori che ebbe una clamorosa manifestazione con l'occupazione delle fabbriche. Si può dire che con il 1922 si tocchi il fondo d'una situazione che sembrò minacciare l'esistenza stessa dell'organismo economico italiano.

La vittoria del fascismo e l'ascesa di Mussolini al potere modificarono radicalmente la situazione interna, facendo rinascere la sicurezza e la fiducia necessarie per lo svolgimento dell'attività economica. Il regolamento dei rapporti fra capitale e lavoro e la politica economica, diretta a eliminare gl'impacci e le bardature di guerra, valsero a stimolare le iniziative industriali e a dare impulso notevole alla produzione; e gli anni dal 1923 al 1927 sono contrassegnati appunto da un rifiorire di spirito d'iniziativa industriale.

La ripresa e il nuovo sviluppo furono più sensibili in taluni rami (seta artificiale, materie plastiche quali celluloide e bachelite, tessitura serica, siderurgia, gomma, alcuni rami dell'industria meccanica, della chimica e delle alimentari) che in altri (miniere, zucchero, trattura della seta, cotone, ecc.). Alcune industrie, come l'elettrica, hanno sempre mantenuto il loro cammino ascensionale. Altre ancora, fortunatamente non molte, hanno continuato a dibattersi in difficoltà causate dalla sovraproduzione o da altre circostanze sfavorevoli (zolfo, combustibili fossili, paste alimentari, birra, cappelli di paglia, ecc.).

Con la rivalutazione e la successiva stabilizzazione della lira il ritmo d'espansione dell'industria italiana venne naturalmente a perdere quel tanto di artificiale che poteva derivare dal processo inflazionistico del credito; s'iniziò un periodo di revisione, di cui furono particolare espressione un lavoro intenso di selezione produttiva e di riordinamento delle aziende.

Il censimento industriale del 15 ottobre 1927, effettuato quando siffatto processo di riassestamento era appena avviato, coglie l'industria italiana in un momento di rispondenza relativamente adeguata fra attività produttiva, potenza degl'impianti, e maestranze occupate. Esso offre per la prima volta in Italia un quadro completo dell'attività industriale, sia con riguardo alla distribuzione territoriale, sia rispetto al numero degli esercizî e degli addetti e all'impiego della forza motrice, ed è utile qui particolarmente riassumerlo.

Quanto a numero di operai hanno il primo posto le industrie tessili con 642.654 operai, cui seguono i trasporti eon 516.050, le industrie del vestiario e abbigliamento con 491.978, le meccaniche con 478.896, le alimentari e affini con 343.081, le costruzioni con 331.386, le industrie del legno con 286.115, la lavorazione dei minerali non metallici con 171.922, le industrie siderurgiche e metallurgiche con 122.519, le chimiche con 99.549, le miniere e cave con 98.778, i servizî igienici, sanitarî e di pulizia urbana con 95.497, quelli di distribuzione di forza, luce, ecc., con 61.872 e via proseguendo con più basse cifre: poligrafiche, pelli, carta, ecc. Per quanto concerne la potenza dei motori idraulici, termici, ecc., la cui forza viene direttamente usata o trasformata in energia elettrica, tengono naturalmente il primo posto le industrie di distribuzione di forza motrice, luce, ecc., con 3.716.049 HP, cui seguono i trasporti con 380.026, le alimentari con 295.782, le tessili con 266.850, le siderurgiche e metallurgiche con 229.831, le chimiche con 203.195, le miniere e cave con 78.113, le meccaniche con 67.603, la carta con 60.905 e via dicendo. Da motori elettrici sono specialmente servite le industrie tessili (455.955 HP), le siderurgiche e metallurgiche (407.943), le meccaniche (352.151), le alimentari e affini (296.552), i trasporti (168.717), le costruzioni (167.162), le chimiche (140.254), il legno e affini (109.960), le poligrafiche (72.978), le miniere (68.913) e così via.

La massa degli addetti è rappresentata da 4.002.931 di persone in complesso, delle quali 2.993.048 maschi e 1.009.883 femmine. Di questo totale 838.310 (20,9%) sono proprietarî, conduttori o gerenti fra i quali non è possibile distinguere gli artigiani dai veri e proprî industriali, 40.517 (1%) personale direttivo, 50.167 (3,8%) personale amministrativo, 34.793 (0,9%) personale tecnico, 32.923 (0,8%) personale di vendita, 2.906.201 (72,6%) operai.

Nelle maestranze la proporzione degli uomini, 2.040.185, e delle donne, 866.016, è rispettivamente del 70,2 e del 29,8, fatto eguale a 100 il totale. Fra le industrie a mano d'opera specialmente femminile, le industrie tessili occupano 474.307 donne contro 141.544 uomini e quelle del vestiario e abbigliamento 155.911 donne contro 108.341 uomini. Queste due industrie, che hanno poco più del 30% del totale d'operai d'ambo i sessi, comprendono il 72,7% del numero totale di donne occupate nell'industria. Un'alta proporzione di donne si ha anche nelle industrie connesse con l'agricoltura (17.067 uomini, contro 15.279 donne), delle pelli, cuoi, pelo, penne (23.801 contro 17.610), della carta (21.589 contro 19.121), proporzioni più modeste nelle chimiche, nelle poligrafiche, nelle alimentari e giù giù sino alle minime proporzioni delle industrie dei trasporti, delle costruzioni e dei minerali non metallici, della meccanica, delle siderurgiche e cave e delle industrie del legno.

La divisione degli opifici censiti, secondo il numero di persone addettevi, mette in evidenza le percentuali che seguono:

Per quanto si riferisce alla distribuzione territoriale delle diverse classi d'industrie, risulta che per il complesso delle industrie e in quanto riguarda il numero degli addetti, il massimo è dato dalla Lombardia, con 1.046.616 addetti (26,1%), e dal Piemonte con 549.046 (13,7%), cui seguono il Veneto con 331.209 (8,3%), la Toscana con 328.199 (8,1%), l'Emilia con 248.974 (6,2%), la Liguria con 225.706 (5,6%), la Campania con 221.664 (5,5%), la Sicilia con 212.946 (5,3%), il Lazio con 179.149 (4,5%), le Puglie con 132.208 (3,3%), la Venezia Giulia con 113.344 (2,8%), la Calabria con 84.692 (2,2%), le Marche con 80.393 (2,1%), l'Abruzzo e il Molise con 66.508 (1,7%), la Sardegna con 60.091 (1,5%), la Venezia Tridentina con 54.215 (1,4%), l'Umbria con 48.585 (1,2%), la Lucania con 19.386 (0,5%). Per la forza motrice è ancora prima la Lombardia (2.074.034 HP.), cui seguono: Piemonte (1.841.654), Campania (694.967), Toscana (635.254), Liguria (528.171), Veneto (495.727), Emilia (442.324), Lazio (349.879), Umbria (304.381), ecc.

Nella relazione generale sono state messe in evidenza alcune interessanti risultanze complessive del censimento. Circa la distribuzione geografica è risultato che la produzione industriale si concentra nell'Italia settentrionale e più specialmente nelle regioni lombarda e veneta, ed è a preferenza localizzata nei centri urbani; che ove si considerino soltanto gli esercizî che impiegano forza motrice, la concentrazione appare maggiore, poiché nell'Italia settentrionale hanno sede più di due terzi di tali esercizî con circa tre quarti del personale addettovi; che l'intensità con la quale si manifesta il fenomeno della produzione industriale, decresce rapidamente da nord a sud. Nei riguardi della composizione tecnologica dell'industria è risultato che le classi nelle quali prevalgono gli esercizî di maggiori dimensioni, che impiegano personale numeroso e molta forza motrice, sono quelle delle industrie tessili, siderurgiche e metallurgiche, chimiche, della carta, delle miniere e cave, dei trasporti e comunicazioni; quelle che per ciascun addetto impiegano un maggior numero di HP., sono le siderurgiche e metallurgiche, i trasporti e comunicazioni e le chimiche, a prescindere, naturalmente, dalla classe della distribuzione di forza motrice, lum, acqua, ecc.; e che, dal punto di vista geografico, le industrie citate, le industrie alimentari e affini e quelle della pesca sono tra le più importanti nel Mezzogiorno e nelle isole, l'industria mineraria nell'Italia centrale e insulare.

Per quanto si riferisce alle dimensioni degli esercizî industriali è risultato che i piccoli esercizî si riscontrano con massima frequenza in quelle categorie (sarti, calzolai, falegnami, ebanisti, fabbri, ecc.) nelle quali predomina l'artigianato e nelle quali prevale il lavoro manuale; che la grande industria è propria delle classi dell'industria siderurgica e metallurgica, meccanica, tessile, chimica, dei trasporti e comunicazioni, delle miniere e cave, nelle quali si rilevano anche molti esercizî giganteschi con oltre 1000 addetti; che le categorie industriali nelle quali la produzione presenta un massimo di concentrazione in esercizî di enormi dimensioni, sono quelle dei cantieri di costruzioni navali, delle fabbriche di automobili, di caucciù, guttaperca e derivati, della produzione e tessitura della seta artificiale e delle varie industrie metallurgiche e siderurgiche; che negli esercizî giganteschi la forza motrice normalmente in funzione è generata in massima parte da motori elettrici, e che in questi esercizî la media di HP. per ogni addetto, specialmente nell'industria siderurgica e metallurgica, è più elevata di quella riscontrata nel complesso degli esercizî con motore, per modo che nella grande siderurgia si ottiene una combinazione più vantaggiosa dei due fattori di produzione: forza motrice e lavoro umano.

Il periodo della crisi mondiale. - Nel periodo che prende inizio dalla stabilizzazione della lira, le condizioni dell'industria sono state prevalentemente influenzate dalla crisi economica mondiale. Quando essa scoppiò, l'industria era appena uscita dal laborioso assestamento in cui si era impegnata per adeguarsi alla nuova base monetaria. La ripresa era in corso, quando le ripercussioni della crisi portarono un rapido mutamento di tendenza iniziando un nuovo periodo di depressione economica. Gl'indici dell'attività industriale riflettono chiaramente lo sviluppo del fenomeno. A partire dall'ottobre 1929 essi sono infatti in stretta relazione con gli sviluppi della depressione mondiale.

L'industria italiana non ha risparmiato sforzi per reagire alle nuove e maggiori difficoltà sopraggiunte e per attenuare le ripercussioni della crisi, e ad agevolarla in questo compito ha molto contribuito lo spirito di collaborazione che la disciplina corporativa ha instaurato nella vita economica del paese. Indici della tenace resistenza sono la modesta contrazione del volume delle esportazioni industriali e le percentuali relativamente basse di contrazione dell'attività della mano d'opera.

Sforzi notevoli sono stati fatti sia per migliorare la qualità dei prodotti, sia per ridurne i costi, sia infine per aumentare la quota già elevatissima della partecipazione al rifornimento del paese, in sostituzione del prodotto estero. Nel perseguire siffatto intento, l'industria italiana ha procurato in ogni modo di contemperare le necessità dell'organizzazione aziendale e della riduzione dei costi, con la necessità di evitare, o di contenere nella più stretta misura, tanto le riduzioni salariali, quanto i licenziamenti delle maestranze. Essa ha mirato inoltre a rinsaldare l'attrezzamento industriale del paese, sia attraverso una valorizzazione delle medie e piccole industrie, che hanno rivelato in complesso una vitalità e una resistenza alla crisi forse più grande di quella delle maggiori e salde imprese industriali, e sia attraverso l'applicazione di processi di razionalizzazione, peraltro adattati alle particolari esigenze del mercato del lavoro nazionale.

L'industrializzazione dell'Italia. - Le risultanze del censimento del 1927 attestano che l'Italia ha consolidato la posizione di grande paese industriale riconosciutale dal trattato di Versailles. Siffatta posizione è stata raggiunta nonostante le condizioni di ambiente per varî aspetti poco favorevoli allo sviluppo della grande industria. Come si è visto, ancora nel 1880 l'Italia era soltanto agli inizî del proprio sviluppo industriale, mentre la rivoluzione economica inglese, portata dal macchinismo, risale alla fine del secolo XVIII, e l'avvento della grande industria negli altri grandi stati europei ha preceduto di parecchi decennî il movimento industriale italiano. A ritardare il processo d'industrializzazione nazionale aveva, fra l'altro, contribuito l'indirizzo della politica economica dei primi governi dell'Italia unificata. Soltanto nel 1878, sotto la pressione della crisi che aveva colpito l'industria e l'agricoltura, tale indirizzo è stato modificato, e da allora si sono venute determinando le condizioni e i presupposti favorevoli al sorgere e allo svilupparsi dell'industria.

Il ciclo dell'industrializzazione, che ha segnato la trasformazione dell'economia italiana da prevalentemente agricola in economia mista agricolo-industriale, presenta tuttavia nelle sue fasi salienti evidenti analogie con i processi d'industrializzazione svoltisi precedentemente in altri paesi. Si vede, infatti, che la fase iniziale della formazione della grande industria italiana è stata largamente influenzata dalla graduale eliminazione della filatura e tessitura domestica ad opera delle grandi fabbriche sorte quasi sempre nei luoghi dove era già più diffusa questa forma di attività artigiana. Il processo si è svolto lentamente e faticosamente, e per quanto le sue origini risalgano alla caduta del sistema delle corporazioni, cioè alla fine del secolo XVIII, bisogna arrivare sin dopo il 1880 se si vuole assistere a un rapido sviluppo della grande industria tessile nazionale.

Contemporaneamente allo sviluppo dell'industria tessile si delineava la formazione della grande industria metallurgica e meccanica. Prima del 1880 l'industria metallurgica attraversò una grave crisi. I grandi progressi fatti all'estero nella produzione della ghisa con l'impianto di nuovi tipi di alti forni e l'adozione di nuovi processi tecnici di lavorazione, fra cui la sostituzione del coke al carbone di legna, avevano messo l'industria italiana in condizioni di assoluta inferiorità di fronte alla concorrenza straniera, determinandone il declino. Solo nel decennio 1880-1890 si registrano i primi sforzi della siderurgia italiana intesi a rinnovare i proprî impianti e vengono impiantati in Italia i forni Martin. Il periodo 1890-1900 è caratterizzato dal sorgere di nuovi grandi impianti moderni per la produzione dell'acciaio, e il decennio 1900-1910 è, a sua volta, caratterizzato dagl'impianti di forni potenti e di forni a coke per la produzione della ghisa direttamente dal minerale. L'aumento della produzione della ghisa è stato accompagnato dall'aumento della produzione dell'acciaio per mezzo dei forni Martin, e, a partire dal 1906, anche per mezzo di forni elettrici che utilizzano il cosiddetto carbone bianco nazionale. L'industria meccanica seguì lo sviluppo dell'industria metallurgica. Il suo progresso fu particolarmente intenso nel periodo 1903-1911, tanto da superare quello di tutte le altre industrie prese insieme. I due gruppi d'industrie metallurgica e meccanica furono così tra i primi a trovarsi in grado, allo scoppio della guerra mondiale, di produrre rapidamente a scopo bellico.

Anche l'industria chimica conseguì il suo primo importante sviluppo dopo il 1900, ed ebbe poi un impulso fortissimo dalla guerra, sia perché vennero allora improvvisamente a mancare all'Italia i larghi rifornimenti di materie chimiche di provenienza tedesca, sia perché si rese urgente affrontare e risolvere a ogni costo il problema della produzione all'interno dei prodotti chimici richiesti dalle esigenze belliche. Nel periodo postbellico le industrie chimiche italiane vennero gradualmente perfezionate e talune di esse subirono anche profonde trasformazioni per adattarsi alle esigenze della pace. Il decennio che va dal 1922 al 1931 rappresenta uno dei periodi più fecondi e più interessanti dell'esistenza di queste industrie. L'aumento della produzione è stato raggiunto anche attraverso la fabbricazione di una più estesa varietà di prodotti, grazie alla quale l'Italia si è resa quasi del tutto indipendente dalle industrie chimiche straniere ed è già in grado per alcuni prodotti, anche importanti, d'alimentare una discreta esportazione.

L'Italia si è portata così sul piano dei grandi paesi industriali, non solo per quanto riguarda le industrie tradizionali, ma specialmente in considerazione dello sviluppo conseguito dalle industrie più moderne (seta artificiale, costruzioni aeronautiche, navali, automobilistiche ed elettriche) tutte in grado di competere con l'industria straniera.

Esistono serie d'indici che mettono in evidenza la portata economica del processo d'industrializzazione svoltosi in Italia dopo l'unificazione. Una serie è data da J. Dessirier, in uno studio sulla produzione agricola e industriale dei principali paesi: è presa a base la produzione del 1913 e sono dati gli indici dal 1870 al 1927; dal 1927 in poi la serie è stata aggiornata dagli uffici economici della Confederazione generale fascista dell'industria italiana:

Pur tenendo presente che il calcolo è basato su un numero di prodotti ristretto, questi indici possono tuttavia considerarsi abbastanza rappresentativi del movimento d'industrializzazione verificatosi in Italia nel periodo considerato. Essi riflettono le flessioni che l'attività produttiva ha segnato nel periodo 1919-22 per effetto della crisi postbellica, e nel 1930 quale ripercussione della crisi mondiale.

Che cosa precisamente significhi per l'economia italiana la evoluzione che questi indici denunciano, è chiarito, fra l'altro, dall'andamento degli scambî di prodotti industriali con l'estero, che emerge dal prospetto seguente:

Imponente soprattutto è l'incremento registrato dalle esportazioni di prodotti industriali finiti. Nel 1876 esse rappresentavano appena l'8,3% del valore complessivo delle esportazioni italiane; nel 1931, esse ne costituivano il 41,9%. La percentuale più elevata (42,3%) è stata raggiunta nel 1929, anno in cui la crisi mondiale non si era ancora ripercossa sull'attività dell'industria italiana. Un andamento diverso è stato registrato, invece, dall'esportazione delle materie semilavorate per l'industria. Essa è sensibilmente diminuita come percentuale dell'esportazione complessiva, il che conferma i progressi dell'industria italiana. L'industria si è messa in grado di rifornire sempre più largamente dei suoi prodotti il mercato nazionale, come è fra l'altro provato dall'andamento dell'importazione dei prodotti finiti ove lo si metta in rapporto con l'incremento della popolazione e l'elevamento del suo tenore di vita. È da notare anche il completo capovolgimento della bilancia commerciale dei prodotti finiti, la quale da un deficit di 859 milioni è passata a un'eccedenza di 1800 milioni di lire attuali.

Non meno significativo è l'andamento delle importazioni di materie gregge per le industrie. Da un valore che corrisponde a 1148 milioni di lire attuali per il 1876 si è passati gradualmente a un massimo di oltre 8 miliardi (1929). La crisi mondiale ha arrestato l'incremento di queste importazioni, determinando anzi una forte contrazione nel valore di esse, che è sceso a 5679 milioni nel 1930 e a 3762 nel 1931. È da notare, però, che la diminuzione quantitativa è stata assai meno rilevante, la riduzione del valore essendo stata fortemente influenzata dalla diminuzione dei prezzi.

Altro indice dell'industrializzazione italiana è il consumo di combustibili fossili solidi e liquidi e d'energia elettrica, prevalentemente destinati a scopi industriali. Ragguagliato in tonnellate di carbone, siffatto consumo, che nel 1876 era pari a 1.561.688 tonnellate, è passato successivamente a tonn. 5.064.546 nel 1898, a tonn. 12.952.427 nel 1913, a tonn. 13.952.427 nel 1922, e a tonnellate 22.855.608 nel 1931.

Come in altri paesi, anche in Italia l'evoluzione dell'industria nazionale è stata profondamente influenzata dal moltiplicarsi delle società per azioni le quali, attraverso la suddivisione del rischio e il concentramento dei capitali necessarî alla valorizzazione dei progressi della tecnica e della scienza nel dominio della produzione, sono state il mezzo più rispondente per la formazione della grande industria. Nel 1876 il capitale delle società anonime industriali era pari a 1813 milioni di lire attuali, nel 1913 era salito a 11.275 milioni, nel 1922 a 29.173 milioni e nel 1931 a 39.794 milioni.

Il posto che l'industria italiana occupa nell'ambito dell'economia nazionale è inoltre chiarito dalla quota che il reddito industriale rappresenta in rapporto al reddito globale privato del paese. Secondo i calcoli più recenti, i redditi industriali ascendevano negli anni immediatamente precedenti alla crisi a circa 32 miliardi di lire. Il reddito globale privato essendo stato valutato negli stessi anni attorno ai 94 miliardi, l'attività industriale concorrerebbe alla sua formazione nella misura del 34%.

Il contributo che l'industria apporta alla vita economica della nazione è solo eguagliato da quello dell'agricoltura; un terzo circa del reddito privato italiano è, infatti, fornito dall'industria, un altro terzo dall'agricoltura e un terzo da tutte le altre forme di attività economica insieme prese.

È da notare a questo proposito che il reddito dell'industria è conseguito con mezzi relativamente modesti rispetto al complesso della ricchezza privata investita nella produzione. Lo prova il fatto che la grande e media industria, le quali, secondo le risultanze del censimento industriale, occupano oltre il 62% delle maestranze addette all'industria (cioè circa 2,5 milioni di operai sul totale complessivo di 4 milioni) e che accentrano tutta la produzione di massa, è formata da imprese che nella grandissima maggioranza hanno assunto la forma di società anonime, le quali rappresentano, come si è visto, un capitale nominale di circa 39,8 miliardi, mentre i mezzi capitalistici da esse investiti nella produzione si valutano complessivamente a 48 miliardi.

Ciò costituisce l'ottava parte circa della ricchezza privata nazionale, che le valutazioni del 1928 facevano ascendere a 475 miliardi e che oggi si aggirerà probabilmente sui 400 miliardi. Ancorché accresciuta di una congrua quota comprendente il valore dell'attrezzamento produttivo della piccola industria e dell'artigianato e delle imprese medie e grandi che non hanno assunto la forma di società anonima, la ricchezza privata investita nell'attività industriale resta sempre di gran lunga al disotto del valore attribuito anche soltanto ai terreni e al bestiame che costituiscono la base patrimoniale dell'agricoltura. Tale valore si faceva infatti ascendere nel 1928 a circa 182 miliardi, pari al 37% del valore complessivo della ricchezza privata italiana.

La maggiore produttività della ricchezza privata investita nella industria assume un'importanza notevole nei riguardi della formazione di nuove risorse capitalistiche, a cui il paese deve mirare per rafforzare le basi dell'economia italiana. L'elevato rendimento dell'attività industriale favorisce, infatti, in tempi normali l'incremento del risparmio, e mentre per un verso accresce le disponibilità di capitale nazionale occorrenti per l'ulteriore sviluppo della produzione, per un altro verso giova come incentivo all'afflusso di nuovi capitali all'industria. Tutto questo concorre a schiudere maggiori possibilità d'impiego alla mano d'opera nazionale, e presenta pertanto un evidente interesse ai fini dell'occupazione delle nuove unità che ogni anno vengono a ingrossare le falangi del lavoro italiano.

D'altra parte, nonostante gli enormi progressi realizzati negli ultimi 50 anni, l'Italia è ancora lontana dal limite di saturazione industriale a cui sono probabilmente gia arrivati i principali paesi esteri. La percentuale della popolazione addetta all'industria sul totale della popolazione attiva raggiunge infatti il 47% in Inghilterra, il 46% nel Belgio, il 44% in Svizzera, il 41% in Germania, il 39% nel Lussemburgo, il 38% in Olanda, il 36% in Cecoslovacchia, il 33% in Austria, il 31% in Svezia, il 30% in Francia e in Norvegia, il 27% in Danimarca, mentre non raggiunge in Italia (censimento del 1921) che il 24,6%.

Ciò induce a ritenere che vi siano ancora in Italia larghe possibilità di sviluppo industriale, la cui realizzazione è d'altro canto imposta dalle necessità di provvedere in misura sempre più larga alle esigenze del consumo nazionale, e di assicurare mezzi adeguati alla difesa del paese, nonché alla sua espansione economica e all'impiego della sua crescente popolazione.

Nella storia contemporanea i popoli che hanno manifestato una maggiore forza d'espansione e sono assurti a maggior potenza, sono proprio quelli che hanno dato maggiore impulso allo sviluppo industriale. D'altro canto, e malgrado gli ostacoli oggi frapposti agli scambî commerciali, riesce forse ancora meno difficile esportare il lavoro incorporato nelle merci anziché inviare all'estero la mano d'opera nazionale. Né è da trascurare che attraverso l'applicazione dei progressi e delle scoperte della scienza, l'industria ha la possibilità di modificare ulteriormente la situazione in cui si trova il paese di fronte all'estero nei riguardi dei rifornimenti di materie prime e di altri prodotti.

Profonda è stata, infine, l'influenza dell'industrializzazione nella evoluzione sociale del paese. Superate le prevenzioni e le ostilità manifestatesi nella prima fase del suo sviluppo, l'industria ha potuto portare nella vita nazionale nuovi fermenti di progresso. Considerando le manifestazioni e gli aspetti più caratteristici della civiltà contemporanea non si può prescindere infatti dalle condizioni determinate dall'attività industriale nella vita sociale dei popoli.

In effetti l'industrializzazione ha largamente contribuito a modificare le condizioni materiali dell'esistenza, creando più perfezionati e più rapidi mezzi di comunicazione, mettendo a disposizione dei popoli maggiore quantità di prodotti, estendendone in pari tempo i rispettivi mercati di consumo, ed elevando notevolmente il tenore di vita di estesi strati sociali. Sono altrettanti modi in cui si è concretato il progresso civile, che non sono stati senza influenza sulla formazione dell'ambiente sociale moderno, come pure sull'orientamento dell'istruzione e dell'educazione contemporanea. Nuove categorie sociali si sono costituite, nuove concezioni e nuove tendenze si sono manifestate. La capacità dell'industria di applicare all'attività produttiva i progressi scientifici e tecnici e di realizzarne rapidamente sul terreno economico i relativi vantaggi, ha in certo modo accelerato la trasformazione delle condizioni di vita dei paesi industriali, e sotto questo aspetto l'industrializzazione si è dimostrata a un tempo effetto e causa della rapida evoluzione economico-sociale del nostro tempo. Né si può escludere che fra le varie condizioni che hanno determinato il clima storico e la situazione sociale caratteristica, da cui doveva maturare e scaturire la soluzione corporativa del problema politico, sociale ed economico dell'era fascista, sia da ritenersi del tutto estraneo lo stato di cose creato dall'industrializzazione, la quale, come è noto, ha segnato in Italia maggiori progressi nella città che è stata la culla del fascismo.

V. tavv. XLIX e L.

Bibl.: Opere: C. Grossi, Aperçu sur le commerce, l'industrie, les arts et les manufactures du Piémont, Torino 1808; L. Bianchini, Delle finanze del regno di Napoli, III, Napoli 1835; L. Bianchini, Della storia economico-civile di Sicilia, II, Napoli 1845; G. Browning, Statistica della Toscana, di Lucca, degli Stati Pontifici e Lombardo-Veneto, Londra 1838; J. Goodwin, Progress of the two Sicilies under the Spanish Bourbons from the year 1734-35 to 1840, in Journal of the Statistical Society of London, V, Londra 1842; C. Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano 1844; P. Verri, Memorie storiche sulla economia pubblica dello stato di Milano, in Scritti varî, Firenze 1854; C. Correnti, L'Austria e la Lombardia (1847), in Scritti scelti, Roma 1891; G. Prato, La vita economica in Piemonte a mezzo il sec. XVIII, Torino 1908; G. Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848, Torino 1920; R. Ciasca, L'evoluzione economica della Lombardia dagli inizii del sec. XIX al 1860, in La Cassa di risparmio delle provincie lombarde nella evoluzione economica della Regione (1823-1923), Milano 1923; E. Tarle, Le blocus continental et le Royame d'Italie, Parigi 1928; P. Maestri, L'Italia economica nel 1867-68-69-70, Firenze 1868-1871; L. Luzzatti, L'inchiesta industriale e i trattati di commercio, Roma 1878; V. Ellena, La statistica di alcune industrie italiane, in Annali di statistica, serie 2ª, XIII, Roma 1880; S. Cognetti De Martiis, Cenno storico sull'industria italiana, Torino 1885; I. Sachs, L'Italie, ses finances et son développement économique depuis l'unification du royaume (1859-1884), Parigi 1885; G. Sensini, Le variazioni dello stato economico d'Italia nell'ultimo trentennio del sec. XIX, Roma 1904; L. Bonnefon Craponne, L'Italie au travail, Parigi 1916; P. Lanino, La civiltà italiana del lavoro dal 1870 al 1922, in Dizionario industriale italiano, Roma 1923; G. Luzzatto, L'evoluzione economica della Lombardia dal 1860 al 1922, in La Cassa di risparmio delle provincie lombarde nella evoluzione economica della Regione (1823-1923), Milano 1923; V. Porri, L'evoluzione economica italiana nell'ultimo cinquantennio, Torino 1926; Confederazione generale fascista dell'industria italiana, L'industria italiana, Roma 1929; E. Corbino, Annali dell'economia italiana, I (1861-1870), II (1871-1880), Napoli 1931; A. S. Benni, Lo sviluppo industriale dell'Italia fascista, in Lo Stato Mussoliniano, Roma 1930; R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Bari 1932; F. Coppola D'Anna, L'industrie italienne dans l'Après-guerre, in Revue économique internationale, 1932; F. Savorgnan, L'industria italiana dal punto di vista tecnologico ed economico secondo il censimento 1927, in Atti dell'I. N. A., IV, 1932.

Atti ufficiali: Atti della Commissione dell'inchiesta industriale, Roma 1872; Notizie statistiche sopra alcune industrie nel 1876, Roma 1878; Atti della Commissione d'inchiesta per la revisione della tariffa doganale: relazione del deputato V. Ellena sulla parte industriale, Roma 1887; Atti della Commissione Reale per le tariffe doganali, Roma 1892; Atti della Commissione per il regime economico doganale, voll. 18, Roma 1903; Direzione generale della statistica, Riassunto delle notizie sulle condizioni industriali del regno, I, Roma 1906; Atti della Comm. d'inchiesta per la tariffa doganale, Roma 1912; Atti della Comm. Reale per lo studio del regime econ. doganale e trattati di commercio, Roma 1920; Atti della Comm. di indagini sulle industrie, Roma 1924; Istituto Centrale di statistica del Regno d'Italia, Censimento degli esercizi industriali e commerciali al 15-10-1927, voll. 8; Relazione gen., I., Industria, Roma 1932.

Industria e legislazione; forme d'intervento dello stato.

L'industria è un fenomeno che interessa ampiamente il legislatore, il quale deve intervenire a regolare i molteplici rapporti che, direttamente e indirettamente, da quel fenomeno scaturiscono: rapporti in cui interessi individuali e interessi generali di altissimo rilievo s'intrecciano e si contrastano. L'industria forma così materia di diritto, dà luogo, secondo alcuni, a un ramo speciale e autonomo del diritto, il cosiddetto diritto industriale (v. sotto). Le forme di questo intervento del legislatore nel campo dell'industria sono diverse, in relazione alle varie finalità che si vogliono soddisfare; ma esse s'ispirano tutte, secondo l'odierna concezione economica del fenomeno, al principio fondamentale del rispetto della libertà individuale e dell'iniziativa privata; contemperato e armonizzato con le supreme esigenze dell'ordine sociale e dell'economia nazionale (par. II e VII Carta del lavoro). Soltanto nella Russia sovietica domina il principio opposto.

Ad assicurare l'armonia tra l'interesse individuale e quello generale della nazione, sicché l'iniziativa privata sia veramente lo strumento più efficace e più utile nell'interesse della collettività, provvede l'ordinamento corporativo della produzione, instaurato in Italia con la legge 3 aprile 1926, n. 563 e relative norme di attuazione 1° luglio 1926, n. 1130. Tale ordinamento abbraccia tutta l'attività produttiva nazionale, e quindi si applica all'industria, che di questa attività rappresenta uno dei rami più importanti, e certo il ramo più complesso e delicato. Si hanno quindi, nel campo dell'industria, tante associazioni sindacali di datori di lavoro e di lavoratori debitamente riconosciute, quante sono le diverse categorie degli uni e degli altri che si riscontrano in questo grande ramo della produzione. Queste associazioni di primo grado sono riunite in associazioni sindacali complesse o di grado superiore, quali le federazioni o unioni, le quali, a loro volta, fanno capo alle due federazioni nazionali fasciste degl'industriali, da un lato, e degl'impiegati e operai dell'industria dall'altro lato. Organo centrale di collegamento fra queste due grandi organizzazioni sindacali nazionali di grado superiore è la corporazione dell'industria, la quale costituisce l'organizzazione unitaria dei due fattori della produzione nel ramo industriale, ed è organo dell'amministrazione statale (non persona giuridica pubblica, come le associazioni sindacali di vario grado) posto alla dipendenza diretta del ministro delle Corporazioni. Questo è l'organo centrale dello stato, destinato a esercitare, secondo l'art. 1 del r. decr. 2 luglio 1926, n. 1131, tutte le funzioni di organizzazione, di coordinazione e di controllo affidate al governo dalla legge 3 aprile 1926 e dalle relative norme d'attuazione. Presso il Ministero delle corporazioni, poi, è istituito il Consiglio nazionale delle corporazioni (r. decr. 2 luglio 1926, n. 1131; r. decr. 14 luglio 1927, n. 1347; legge 20 marzo 1930, n. 206) che rappresenta gl'interessi unitarî dell'intera economia nazionale, rispetto alla quale compie funzioni di coordinamento e d'integrazione dei compiti esercitati, sia dalle associazioni sindacali, sia dagli organi corporativi. Una particolare sezione del consiglio è costituita per l'industria e l'artigianato, ed è divisa in due sottosezioni, una per l'industria e una per l'artigianato.

Correlativa in certo senso all'organizzazione corporativa centrale è quella locale. In ogni provincia vi è un Consiglio provinciale dell'economia corporativa diviso in sezioni, fra cui una speciale per l'industria, nonché un ufficio provinciale (legge 18 aprile 1926, n. 731; 16 giugno 1927, n. 1071; 18 giugno 1931, n. 875). Compito del consiglio è quello di svolgere un'azione diretta a coordinare, nell'ambito della provincia, le attribuzioni e funzioni delle varie associazioni sindacali, sia nel campo strettamente economico, sia in quello assistenziale; controllare gli uffici di collocamento esistenti; raccogliere e formire al governo gli elementi necessarî alla soluzione dei problemi economici e al loro miglioramento e sviluppo, ecc.

Avuto riguardo al principio della libera iniziativa privata, lo stato, in regime corporativo, garantisce: a) la scelta dell'industria e la determinazione del suo oggetto in conformità delle preferenze, delle vocazioni e delle possibilità di ciascuno; b) la piena autonomia nello stanziamento e nel trasferimento dell'organismo industriale; c) l'autodeterminazione nell'esercizio, e quindi, nella predisposizione dei mezzi e nella precisazione dei modi di produzione, nonché dei limiti di questa; d) l'autodeterminazione nello smercio dei beni prodotti e conseguentemente nella fissazione dei prezzi dei beni stessi.

Ma in relazione a ciascuno di questi quattro corollarî del principio di libertà lo stato interviene in forme diverse appunto in omaggio all'altro principio, quello dell'interesse nazionale. Converrà quindi esaminare singolarmente queste forme d'intervento statale.

a) La libera scelta dell'oggetto dell'industria è pienamente riconosciuta all'iniziativa privata, e l'intervento statale, in questo campo, è assolutamente eccezionale. Tale intervento assume la forma della proibizione preventiva solo rispetto a quelle materie che costituiscono oggetto di monopolio dello stato; in questi casi la libera intrapresa privata si arresta in considerazione di superiori interessi pubblici, specie di carattere fiscale; ma la proibizione non può che essere disposta dalla legge, e non si estende oltre i casi espressamente previsti.

Così, in Italia, sono inibite le industrie dell'estrazione, importazione e vendita del sale; della fabbricazione, importazione e spaccio dei tabacchi; della coniazione di monete; del lotto, ecc.; materie tutte oggetto di monopolio statale. Del pari è inibita l'industria delle pubbliche affissioni, dei trasporti funebri, dell'apertura ed esercizio di macelli e di mercati pubblici, nei comuni in cui le rispettive amministrazioni hanno al riguardo istituito monopolî, a termini della legge 25 marzo 1903, n. 103, e del testo unico 15 ottobre 1925, n. 2578.

b) Circa la libertà dell'impianto e del trasferimento dell'industria da luogo a luogo, l'intervento statale rispetto all'iniziativa privata si è esercitato, sino a oggi, più specialmente nell'interesse della sicurezza, dell'igiene e della sanità e incolumità pubblica, e non già per disciplinare la produzione, avuto riguardo alle condizioni generali economiche. Tale intervento rimane ancora e si attua, o per mezzo dell'obbligo della dichiarazione preventiva all'autorità amministrativa da parte dell'interessato, ovvero dell'ottenimento di apposita autorizzazione all'impianto o al trasferimento, accordata dalla pubblica amministrazione. L'autorizzazione amministrativa è la forma d'ingerenza statale quasi normale. Numerosi esempî sono contenuti nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773; p. esempio, agli articoli 28, 31, 46, 47, 68, 86, ecc. E la concessione dell'autorizzazione presuppone l'accertamento delle condizioni previste dalla norma giuridica per potersi far luogo alla rimozione del limite posto alla libera esplicazione dell'iniziativa privata. Eccezionale, invece, è l'altra forma d'intervento, consistente nella denunzia preventiva all'amministrazione pubblica. Un esempio di denunzia preventiva è quello relativo all'esercizio dell'industria di riparazione delle armi, per cui si esige l'avviso preventivo all'autorità locale di pubblica sicurezza (art. 33 testo unico 18 giugno 1931).

Per l'avvenire però, oltre che nell'interesse della sanità, della sicurezza e dell'incolumità pubblica, l'autorizzazione governativa per l'impianto di nuovi stabilimenti industriali e per l'ampliamento di quelli esistenti potrà essere richiesta anche allo scopo di adeguare l'attrezzatura industriale della nazione alle condizioni generali dell'economia. All'uopo un'apposita legge delega al governo la facoltà di provvedere, anche separatamente per singoli rami d'industria, con decreto reale, determinando le norme d'attuazione.

c) In relazione all'autonomia della volontà individuale quanto all'esercizio dell'industria, l'intervento statale assume le forme del controllo, dell'incoraggiamento, del consorzio obbligatorio e della gestione diretta (par. IX della Carta del lavoro e legge 16 giugno 1932, n. 834). È questo il campo più vasto delle limitazioni poste all'attività privata. Molta parte della cosiddetta legislazione sociale si riferisce precisamente ai rapporti che derivano dall'esercizio dell'industria.

Il controllo si esercita a scopi protettivi, sia degl'interessi individuali, sia degl'interessi collettivi, ed è generale e speciale: quello riguarda l'esercizio di ogni specie d'industria; questo si applica variamente a seconda che si tratta d'industria manifatturiera, estrattiva, agraria o commerciale.

Il controllo comprende: la sorveglianza relativa alla pemanenza delle condizioni volute per l'autorizzazione all'impianto e all'apertura; l'osservanza delle cautele necessarie a garantire la salute fisica dei lavoratori, specie per l'uso delle macchine e per l'igiene delle fabbriche; la durata del lavoro, l'ammissibilità delle donne e dei fanciulli al lavoro, il riposo settimanale, le ferie annuali retribuite, la protezione del salario e, in generale, la regolazione delle condizioni della prestazione d'opera e dell'intero rapporto di lavoro, dal suo sorgere al suo scioglimento, mediante i contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali di lavoratori e datori di lavoro, loro federazioni e confederazioni, sia direttamente, sia dietro intervento conciliativo degli organi superiori di collegamento (legge 3 aprile 1926; r. decr. 1° luglio, n. 1130; r. decr. 2 luglio 1926, n. 1131, sulla costituzione del Ministero delle corporazioni e legge 20 marzo 1930, n. 206), ovvero, in difetto di accordo, mediante l'intervento della Magistratura del lavoro (legge 3 aprile 1926 cit.; par. X Carta del lavoro). Tutto questo intervento dello stato, che culmina nel divieto di sciopero e di serrata, si estrinseca attraverso un complesso di limitazioni, rientranti in parte nella cosiddetta polizia industriale, limitazioni le quali sono obbligatorie e non derogabili da private convenzioni.

L'incoraggiamento, quale forma d'intervento statale nell'esercizio dell'industria, si attua attraverso manifestazioni diversissime, che si rapportano ai varî elementi della produzione, da quelli materiali a quelli personali. Si rapportano ai mezzi materiali le agevolazioni al credito, le sovvenzioni dirette, le esenzioni fiscali, i dazî protettivi, i premî all'esportazione, le facilitazioni alla cooperazione, i concorsi a premî, ecc. Si rapportano agli elementi personali tutte le forme di assistenza e di elevamento morale e intellettuale dei lavoratori.

Varie di queste forme di assistenza hanno carattere preventivo, come l'azione dello stato a favore dell'educazione professionale dei lavoratori, circa l'istituzione di uffici di collocamento (par. XXI e XXII della Carta del lavoro; art. 44, lett. b, delle norme per l'esecuzione della legge 3 aprile 1926); la prevenzione degl'infortunî sul lavoro (r. decreto 18 giugno 1899, nn. 230, 231, 232; 27 maggio 1900, n. 205; 7 maggio 1907, n. 209; 10 gennaio 1908, n. 152; 7 novembre 1920, n. 1691); l'igiene delle fabbriche (r. decr. 14 aprile 1927, n. 520); l'assicurazione obbligatoria contro l'invalidità e la vecchiaia (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3184); l'assicurazione contro la disoccupazione involontaria (r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3158 e regol. 7 dicembre 1924, n. 2270), contro la tubercolosi (r. decr.-legge 27 ottobre 1927, n. 2055; legge 20 maggio 1928, n. 1132, e regol. 7 giugno 1928, n. 1343) e contro gl'infortunî sul lavoro nelle industrie (testo unico 31 gennaio 1904, n. 51; decr. luogotenenziale 17 novembre 1918, n. 1825; decr.-legge 5 dicembre 1926, n. 2051) e nell'agricoltura (decr. luogotenenziale 23 agosto 1917, n. 1450; r. decr. 11 febbraio 1923, n. 432; r. decr. 15 ottobre 1925, n. 2050); l'assicurazione di maternità (testo unico 24 settembre 1923, n. 2157); l'assicurazione contro talune malattie professionali (r. decr.-legge 13 maggio 1929, n. 928), mentre si prepara l'assicurazione generale contro le malattie (par. XXVI Carta del lavoro). Altre forme di assistenza dei lavoratori hanno carattere riparativo: tali i sussidî, i ricoveri, le case di lavoro, i mezzi curativi della malaria, ecc.

Il consorzio obbligatorio, fra più esercenti uno stesso ramo d'attività economica, è una forma d'intervento statale, relativo all'esercizio dell'industria, più penetrante che non le altre due precedenti forme. La legge 16 giugno 1932, n. 834, dà facoltà al capo del governo di costituire tali consorzî, allo scopo di disciplinare la produzione verso un più razionale e organico assetto. Condizione necessaria per la loro costituzione è che essa sia richiesta da tanti interessati che rappresentino il 70% del numero complessivo delle imprese e il 70% della produzione media effettiva dell'ultimo triennio, ovvero, in mancanza del numero predetto d'imprese, rappresentino l'85% della produzione.

La gestione diretta è forma d'intervento dello stato assolutamente eccezionale. Essa presuppone la ricorrenza di gravi esigenze, determinate da interessi politici di notevole portata, e si giustifica con il principio sancito nei §§ I, II, VII e IX della Carta del lavoro, per cui, se all'iniziativa privata spetta l'organizzazione della produzione, tale organizzazione è però, nei suoi obiettivi unitarî, funzione d'interesse nazionale, onde la responsabilità dell'organizzatore d'impresa nell'esercizio dell'industria di fronte allo stato, e il diritto d'intervento di questo, sino a sostituirsi ai privati, nel caso che l'interesse nazionale, al quale sono subordinate le finalità singole della produzione, non sia efficacemente e utilmente soddisfatto dall'iniziativa privata.

d) In merito all'ultimo atteggiamento del principio della libertà individuale nella produzione in regime capitalistico, e cioè l'autodeterminazione dello smercio dei beni prodotti, l'intervento dello stato va considerato avuto riguardo ai rapporti degl'industriali fra loro, e degl'industriali con i consumatori. Nella prima serie di rapporti lo stato interviene per la tutela del nome industriale delle insegne, dei marchi, dei distintivi di fabbrica, ecc.; e, in genere, per difendere l'industria dai danni della concorrenza sleale. Nella seconda serie di rapporti, si comprendono i modi di repressione delle frodi nello spaccio dei prodotti, i servizî di verificazione dei pesi e misure, del saggio e marchio dei metalli preziosi, gl'interventi diretti e indiretti per la fissazione dei prezzi dei prodotti, e quindi i dazî, i calmieri, soltanto recentemente aboliti, l'apertura di spacci pubblici, le associazioni di consumo, ecc.

Queste sono, in sintesi, le varie forme d'intervento statale, nel campo dell'industria. Tale intervento, pur sempre in regime capitalistico, lungi dal ridursi, tende a svilupparsi sempre più, e la tendenza è così generale, così ampia e organica, da far pensare a una legge storica, che trova in queste manifestazioni il suo progressivo soddisfacimento.

Diritto industriale.

Possiamo definire il diritto industriale nella sua più generale accezione come il complesso delle norme giuridiche che disciplinano l'esercizio dell'attività industriale. Da questa ampia definizione, qualora si pensi alla fitta rete di rapporti che per effetto della divisione e specializzazione del lavoro s'istituisce fra l'imprenditore d'una grande impresa industriale e quanti in una o in un'altra forma entrino in rapporto con lui per rendere possibile questa sua attività, appare subito quale sia l'importanza del diritto industriale nel complesso d'una legislazione moderna. Ma il concetto di diritto industriale merita qualche ulteriore chiarimento per precisarne il contenuto e a delimitarne i rapporti con altre discipline.

Dal concetto stesso di norma giuridica già appare con evidenza come lo studio delle norme giuridiche disciplinanti l'attività industriale sia nettamente distinto dall'economia industriale, dall'organizzazione scientifica del lavoro, dalle singole svariate tecniche industriali da un lato, e dall'altro dalle norme etiche, religiose, ecc., in quanto pure si propongano d'indirizzare l'attività industriale.

Piuttosto gioverà specificare il carattere di questa disciplina per chiarire subito che la definizione data poc'anzi riferita al contenuto della presente trattazione peccherebbe per eccesso nei confronti dell'ambito che ordinariamente si assegna a tale studio.

Uno studio completo di tutte le norme giuridiche disciplinanti l'attività industriale dovrebbe infatti abbracciare il complesso delle norme stabilite dall'autorità dello stato, sia per porre dei limiti, nell'interesse della collettività, contro certe attività industriali ritenute nocive o contro certi metodi o sistemi d'esercizio dell'attività industriale che la legge vuole repressi nel pubblico interesse, o per disciplinare particolari categorie d'industrie (v. le svariate disposizioni della legge di pubblica sicurezza, della legge sanitaria, della legge comunale e provinciale, della legge sull'esercizio delle industrie farmaceutiche, ecc.) sia per armonizzare i contrastanti interessi di quanti in diverso modo partecipano all'esercizio della produzione industriale, di guisa che nessuno degl'interessi venga sacrificato, ma ognuno piuttosto equamente contemperato con la realizzazione d'ogni altro. In altre parole, la suesposta definizione del diritto industriale dovrebbe abbracciare tutte le norme di diritto privato e pubblico attinenti all'esercizio dell'industria. Se non che un'esposizione complessiva di tutte queste norme sarebbe sconsigliabile e ripugnante alle esigenze della tecnica scientifica. Infatti ogni scienza ha le sue esigenze e le sue proprie categorie e non sarebbe scientifico, sotto l'aspetto giuridico, l'accostare tutte le norme giuridiche di diversa natura disciplinanti una stessa attività, solo perché identico è il campo della loro applicazione.

Dal nostro punto di vista giuridico sono sostanzialmente e strutturalmente ben più diverse fra loro due norme, una di diritto privato e una di diritto pubblico, disciplinanti l'esercizio dell'attività industriale, di quanto non differisca una norma di diritto pubblico relativa all'esercizio dell'industria da una norma di diritto penale o elettorale, mentre le norme del diritto privato industriale sono strutturalmente assai più affini a tutte le altre norme di diritto privato disciplinanti le più svariate attività, che non lo siano alle norme di diritto pubblico disciplinanti, ma da un diverso punto di vista e con diverso scopo, la stessa attività industriale.

Se pertanto le nostre classificazioni e i confini delle diverse discipline giuridiche si devono porre piuttosto sulla base dei caratteri intrinseci delle norme prese in esame, che sulla base dell'identità o eterogeneità dell'attività materiale che le norme stesse mirano a disciplinare, occorre anzitutto distinguere un diritto industriale pubblico dal diritto industriale privato. Con questo si deve senz'altro ammettere l'esistenza d'un diritto privato industriale accanto a un diritto pubblico industriale, né si potrebbe convenire con U. Navarrini (Trattato teorico-pratico, Torino 1920, I, n. 33, p. 50) che attribuisce al diritto industriale carattere necessariamente pubblico.

Basta ricordare soltanto la profonda differenza che intercede fra il rapporto istituito su un piede di perfetta eguaglianza tra persone fisiche o giuridiche che agiscano come privati, e rapporti istituiti fra privato ed ente pubblico che agisca in quanto tale, o fra ente pubblico ed ente pubblico nell'esercizio di quell'attività che è loro propria.

Per questa profonda diversità strutturale fra le due categorie di rapporti, e quindi fra le due categorie di norme che le disciplinano, non sarebbe ammissibile una promiscua trattazione di esse né una loro sistemazione unitaria. È per questo che ordinariamente, parlando o trattando sistematicamente il diritto industriale, ci si riferisce al solo diritto industriale privato. Inutile dire che posta la contrapposizione tra rapporti di diritto pubblico e rapporti di diritto privato nei termini che si sono visti, senza cioè che ad essa corrisponda necessariamente una diversità di soggetti (potendo anche enti pubblici essere soggetti di rapporti privati e disciplinati dalle stesse norme che disciplinano gli ordinarî rapporti fra privati), appare subito come le norme del diritto privato industriale non si applichino necessariamente solo all'attività industriale esercitata da privati, ma possano applicarsi anche all'esercizio di attività industriali da parte di enti pubblici, il che è interessante rilevare in quanto che si sa già come spesso, massime in questi ultimi tempi, non manchino enti pubblici che esercitino anche attività industriale, nel qual caso naturalmente l'ente pubblico che agisca privatorum iure è sottoposto alle stesse norme che disciplinano la stessa attività quando sia esercitata da privati. Resta però, concepito il diritto industriale come diritto privato dell'industria, il compito di determinarne i rapporti con le altre branche del diritto privato.

Intendendo allora il diritto civile come diritto privato comune e il diritto commerciale come diritto speciale disciplinante l'esercizio di attività commerciale, parrebbe logico contrapporre senz'altro il diritto commerciale al diritto industriale, precisamente così come nel campo economico il commercio si contrappone all'industria. Se non che nulla è più pericoloso di questa estensione di categorie e classificazioni metagiuridiche al campo del diritto positivo. Nel caso nostro infatti noi possiamo senz'altro osservare come la contrapposizione economica dell'attività industriale, e quindi rientrante nei fenomeni della produzione della ricchezza, all'attività commerciale, e quindi rientrante nei fenomeni di circolazione della ricchezza, non sia affatto compatibile con l'ordinamento giuridico positivo, per il quale non esiste (a nulla approdarono infatti tutti i tentativi per determinarlo) un concetto unitario d'atto di commercio, ma solo la determinazione del carattere commerciale di attività svariate (art. 3 cod. di comm.), molte delle quali, dal punto di vista economico, non sarebbero commerciali affatto, mentre altre attività economicamente manifestantisi come intermediazione nella circolazione della ricchezza non sono affatto ritenute commerciali dalla legge (es.: mediazione in materia civile, la compera civile seguita da rivendita, ecc.).

Fra le attività che l'art. 3 del cod. di comm. reputa commerciali, troviamo precisamente anche quelle nelle quali si sostanzia l'esercizio dell'industria: si veda infatti, p. es., n. 1 "le compre di derrate o di merci per rivenderle.... dopo averle lavorate, ecc.", n. 6 "le imprese di somministrazione", n. 7 "le imprese di fabbriche o costruzioni", n. 8 "le imprese di manifattura", n. 9 "le imprese di spettacoli pubblici", n. 10 "le imprese editrici, tipografiche o librarie", n. 13 "le imprese dei trasporti di persone o di cose per terra o per acqua", n. 14 "la costruzione.... di navi", n. 21 "le imprese di commissioni, di agenzie, ecc.", mentre per il carattere esemplificativo riconosciuto all'enumerazione dell'art. 3 cod. di comm. la natura commerciale si deve riconoscere a molte altre attività tipicamente industriali eppur non enumerate esplicitamente.

In conclusione, bisogna riconoscere come nel diritto positivo italiano l'attività industriale sia considerata come una specie dell'attività commerciale. Il che vuol dire che dal punto di vista del diritto positivo italiano si deve affermare che il diritto industriale è parte del diritto commerciale, e cioè un diritto speciale entro il diritto commerciale, così come questo costituisce a sua volta un diritto speciale nei confronti del diritto privato comune (o civile).

Diversi furono i criterî sistematici adottati nell'esposizione del diritto industriale da quando questo ebbe trattazioni autonome. Nella dottrina francese le trattazioni della Législation industrielle si esauriscono nell'esposizione della legislazione sociale del lavoro. Fra tutte sembra preferibile una sistemazione che riproduca, avuto riguardo alla peculiarità della materia, la distinzione tradizionale in persone, cose e obbligazioni, comune a tutte le sistemazioni del diritto privato e talora a quelle stesse del diritto pubblico. Secondo questo sistema (Rotondi) la trattazione delle persone in particolare deve comprendere l'esposizione dei principî relativi alla capacità dei soggetti; quella delle cose, la teoria generale dell'azienda coi suoi attributi (avviamento) e segni distintivi (ditta, marchio) e dei suoi elementi corporali, mobili o immobili (stabilimento con l'insegna che lo contraddistingue), e incorporali (brevetti, disegni e modelli industriali); quella dei rapporti obbligatorî infine deve comprendere, oltre che la dottrina generale della concorrenza, indispensabile premessa, l'esposizione dei principî relativi alle limitazioni contrattuali alla concorrenza (clausole di concorrenza e sindacati industriali) e di quelli relativi alla concorrenza sleale.

La dottrina dei rapporti fra industriale e lavoratore è ormai autonoma sotto il titolo di diritto del lavoro.

Bibl.: F. Carnelutti, Studi di diritto industriale, Roma 1916; M. Rotondi, Trattato di diritto dell'industria, I, Padova 1930; II, 1931, e la bibl. ivi citata; I. La Lumia, Lezioni di diritto industriale, Padova 1932.

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