Industria

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Industria

Luciano Cafagna

Sommario: 1. Le nuove impostazioni teoriche dell'economia industriale. 2. Sviluppi scientifico-tecnologici e progresso industriale. 3. La globalizzazione dei mercati. 4. I modelli del capitalismo attuale. 5. Economie ‛di scala' ed economie ‛di scopo'. 6. Fattori di progresso e profili di negatività dei sistemi industriali.  7. La società postindustriale. □ Bibliografia.

1. Le nuove impostazioni teoriche dell'economia industriale

I problemi e le idee sviluppatisi intorno all'industria, all'industrialismo, all'industrializzazione, e alla loro stessa storia, hanno subito, nel corso degli ultimi anni, ampie e significative modificazioni. Di questi temi, che investono un aspetto centrale della modernità sotto un profilo che potremmo definire ‛reale', si occupano discipline diverse come l'economia (in particolare l'economia industriale - industrial economics o, negli Stati Uniti, industrial organization), la sociologia (in particolare la sociologia industriale), la storia (in particolare la storia economica), la storia dell'industria, la storia dell'impresa. In ciascuna di queste discipline vi sono stati importanti e vistosi progressi, che hanno normalmente fatto parlare, specialmente dagli anni settanta in poi, di ‛nuovo corso' delle discipline stesse, collegato all'accentuazione dei tecnicismi matematici e statistici ma anche, e soprattutto, a nuove impostazioni teoriche. La storiografia, ad esempio, considera oggi quella grande trasformazione passata alla storia col nome di ‛rivoluzione industriale' un fenomeno più gradualistico di quanto non abbia fatto in passato. Ma il più rimarchevole di tali movimenti innovativi è forse quello che concerne l'economia industriale, nell'ambito della quale si sono maggiormente ripercossi gli effetti di due grandi svolte avvenute nel mainstream (il percorso più seguito) della scienza economica, svolte che hanno sospinto temi e problemi di quella particolare disciplina in posizione centrale dentro questa scienza: la valorizzazione del modello di logica dell'impresa come fenomeno economico di scelta fra atti di mercato e atti di organizzazione, basato sulla teoria dei costi di transazione (dovuta a uno scritto del 1937 di Ronald Coase, premio Nobel soltanto nel 1991), e gli sviluppi della teoria della concorrenza e dei comportamenti dell'impresa sul mercato dovuti alla Scuola neoliberista di Chicago.

I temi e le linee di riflessione che hanno maggiormente influenzato negli ultimi anni la visione dell'industria - questo fenomeno centrale dell'economia, e non solo dell'economia, del mondo moderno - sono stati: a) la sempre più marcata importanza della ricerca nell'attività industriale e la formazione di una sorta di avanguardia nel progresso industriale, costituita dalle industrie ad alta tecnologia; b) l'informatizzazione telematica e le sue prospettive; c) la globalizzazione dei mercati; d) la percezione della non unilinearità delle forme socio-organizzative del capitalismo industriale e della possibilità, invece, di individuare modelli diversi in diverse aree del mondo, che aprano prospettive di scambi di esperienze nonché di sperimentazioni-trapianto; e) la più articolata e interattiva considerazione dei rapporti fra singole unità industriali, ed economiche in genere, sia fra loro (economie di rete), sia rispetto al contesto economico e istituzionale (affermazione dell'ottica dei costi di transazione nelle prospettive e nelle scelte di crescita dell'impresa); f) l'accentuazione del carattere decisivo del ‛capitale umano' tra i fattori strategici dello sviluppo industriale di un'economia; g) il prevalente trasferimento dall'area sociale all'area ambientale dei profili di negatività che hanno sempre accompagnato come un'ombra l'industrializzazione e lo sviluppo industriale.

Di questi argomenti si passeranno qui in rapida rassegna gli aspetti che sembrano avere avuto maggiore influenza sul modo più recente di considerare il fenomeno ‛industria' nella realtà contemporanea. Come sempre, la percezione degli elementi di una realtà in movimento si riflette, da un lato, in tentativi di proiezione ipotetica di sviluppi futuri e, dall'altro, in una riconsiderazione del passato maggiormente attenta ai fattori la cui rilevanza appare oggi accresciuta.

2. Sviluppi scientifico-tecnologici e progresso industriale

I tradizionali e convenzionali modi di generalizzazione classificatoria delle attività industriali (da non confondersi con l'articolata classificazione settoriale, a finalità statistiche e non) hanno sempre riflesso l'importanza che, nella visione economica e/o in quella socio-economica, si attribuiva a grandi fattori di distinzione: così la partizione classica fra grande e piccola industria, industria pesante e industria leggera (espressioni della ampiezza dello sforzo di accumulazione del capitale), fra industrie di base e non (indicative del grado di autonomia di un sistema industriale), fra industrie produttrici di beni strumentali e industrie produttrici di beni di consumo (intesa come chiave della dinamica della crescita di un sistema industriale), o, più recentemente, fra produzioni innovative e produzioni mature (sintomo di collocazione fra centro e periferia del sistema industriale), oppure fra produzioni per il mercato interno e produzioni per l'export (sintomo di posizione competitiva).

Crescente rilievo acquista invece oggi, nel quadro delle attività industriali, l'individuazione di un'area di ‛industrie ad alta tecnologia' (settori high-tech), distinte come tali per le loro particolari caratteristiche e per la loro funzione nella dinamica di un sistema industriale (e dei rapporti di questo con altri sistemi industriali territoriali), indipendentemente dallo specifico ramo di appartenenza settoriale, che può collocarsi nella chimica delle materie plastiche o nella chimica fine o in quella farmaceutica, nell'elettronica o nell'informatica, nelle apparecchiature e strumentazioni meccaniche di precisione e di impiego strettamente mirato - nell'ottica, nei materiali fotografici o nelle fibre ottiche, per fare solo qualche esempio - ma quasi sempre indicativo di una appartenenza a tre grandi regioni scientifiche a monte delle disparate tecnologie: la chimica, la meccanica e l'elettronica.

Gli sviluppi dell'informatica e delle telecomunicazioni in genere si sono in parte già tradotti, ma si stanno ancora traducendo, in profonde modificazioni tecnologiche della fisionomia stessa della produzione industriale, pressoché in tutta la gamma delle sue attività. La lentezza che, a un certo punto, sembrava caratterizzare la diffusione del fenomeno che venne definito come ‛automazione', rispetto alle promesse e alle estrapolazioni degli anni cinquanta e sessanta, appare oggi decisamente superata: nel contesto evolutivo attuale, infatti, le applicazioni interne al processo produttivo dell'unità industriale singolarmente considerata, con i connessi mutamenti fisionomici dei preesistenti settori industriali, entrano in conflitto dinamico con i mutamenti nelle condizioni di afflusso degli apporti esterni alla struttura esistente, con la nuova ondata di diversificazione della struttura industriale, con il potenziamento dell'area informatica e delle telecomunicazioni, un'area, quest'ultima, che a sua volta si articola in nuove e molteplici branche. Caratteristica di questo nuovo settore, insieme ‛traente' e pervasivo, è l'accentuata commistione e simbiosi fra il profilo della produzione di beni materiali (hardware) e il profilo della produzione di servizi (software), che tende, con un processo inondativo, a diffondersi in tutto il mondo della produzione. Rimarchevole è anche l'influenza della crescita assoluta e relativa di questo settore sui livelli occupazionali, che comporta da un lato drastici e massicci processi sostitutivi di mano d'opera con flussi informativi regolatori e, dall'altro, la creazione di nuove forme e opportunità di lavoro a qualificazione informatica e comunque di più elevate caratteristiche. Ed è pure rimarchevole la corrispondenza di questa evoluzione settoriale con profondi mutamenti sul versante dei consumi e delle modalità di consumo, che, particolarmente nelle fasce giovanili, vengono acquisendo sempre più marcate connotazioni elettroniche, informatiche, telecomunicazionali (dai più banali video games ai sofisticati collegamenti universali attraverso Internet): donde il fenomeno di una rivoluzione culturale nelle abitudini di consumo che sembra poter interagire positivamente con i paralleli adattamenti richiesti nelle qualificazioni occupazionali e produttive.

3. La globalizzazione dei mercati

La cornice di mercato nella quale il fenomeno dell'industrializzazione si è tradizionalmente affermato riceve oggi un'enfasi che tende ad assumere profili esclusivistici, e talora anche ideologici, a seguito della cosiddetta ‛globalizzazione'. Con questa espressione si intende la esplosiva caduta di diaframmi e barriere fra area e area che, pur in un quadro generale di crescente mondializzazione delle relazioni economiche, erano sopravvissuti o avevano teso a riformarsi continuamente - non solo nel XIX secolo ma anche, e con forza nuova, nel XX - sia come differenziazione rigida e insormontabile fra aree industrializzate e aree non industrializzate, sia come ostacoli agli scambi; questi ultimi agivano, da un lato, sul movimento delle merci e, dall'altro, su quelli che l'economia chiama tradizionalmente i ‛fattori della produzione' delle merci medesime: essenzialmente (se si esclude la terra, intesa in senso agricolo o geologico, per sua natura inamovibile) la forza lavoro e i capitali. L'esplosione cui qui si allude ha avuto, in questi anni, un'appariscente manifestazione nella caduta del muro di Berlino e della ‛cortina' che separava i paesi del cosiddetto ‛socialismo reale' dal mercato capitalistico. Ma la realtà del fenomeno non si limita a questo. Già prima era in atto, nel mondo occidentale (locuzione che, essendo diretta a distinguere l'intero resto del mondo dall'area socialista geograficamente collocata a est del sistema euro-americano, è in realtà spesso - ma non sempre - inclusiva dell'oriente asiatico non socialista), una pressione volta alla liberalizzazione degli scambi, sia in ampie aree regionali (come quella europea, attraverso il MEC, poi CEE, poi UE), sia nell'intera area a economia di mercato, attraverso i negoziati GATT. Ma l'emergere di una nuova grande regione industriale orientata all'esportazione nell'Estremo Oriente asiatico (i NIC, Newly Industrialized Countries, cioè le cosiddette ‛tigri', detti anche i ‛quattro piccoli dragoni': Singapore, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, ma, in parte, anche altri paesi di quell'area) e, soprattutto, lo sviluppo irrefrenabile dei mercati internazionali delle valute e dei capitali, seguito al crollo del sistema monetario internazionale basato sulla convertibilità del dollaro in oro (inizi anni settanta), hanno determinato, in crescendo, una situazione interamente nuova. La comparsa di produttori asiatici di beni, non solo tradizionali ma anche tecnologicamente avanzati, a costi comparativamente assai bassi - una vera ‛artiglieria di bassi prezzi', sia per i consumi finali che per quelli intermedi dell'industria - non solo ha modificato parzialmente l'ipotesi della vecchia teoria del ‛ciclo del prodotto' (secondo la quale, in paesi di recente industrializzazione si sarebbero localizzate essenzialmente produzioni mature tendenzialmente dismesse dai paesi di vecchia industrializzazione), ma non poteva non coinvolgere i mercati degli Stati Uniti e dell'Europa: questi ultimi si sono visti costretti ad aprirsi alle importazioni di forniture da quelle aree a vantaggiose condizioni, tentando al contempo di difendersi da un allargamento di quei canali attraverso i quali avrebbero potuto entrare produzioni finali o intermedie concorrenziali rispetto a produzioni europee o americane e non, o non solo, integrative e complementari a queste ultime. Al tempo stesso la forbice dei costi di lavoro fra paesi di vecchia e nuova industrializzazione ha attirato un vistoso trasferimento di investimenti. Anche l'Europa ex-comunista sembra, per le stesse ragioni, divenire attraente per siffatti trasferimenti.

Inoltre, e soprattutto, il sempre più rapido spostarsi dei capitali in forma liquida da dollaro a yen, a marco e viceversa, ha finito con l'avere un effetto di totale esposizione delle singole economie al mercato mondiale; infatti, l'intensificazione di tali spostamenti speculativi determina - in una corsa cumulativa, ampiamente anticipata sui primissimi indizi del maturare di situazioni reali - effetti di vortice sulle monete in forte apprezzamento e abbandoni improvvisi di monete più deboli. Si è formato così un immenso stock di capitale costituzionalmente estraneo all'investimento reale, ma tale da dettar legge, con i suoi movimenti, all'investimento reale stesso e a tutta l'economia reale, di cui peraltro questi movimenti riflettono, con sensibilità sismografica, i minimi sintomi di benessere o di malessere futuro: il che equivale a dire, in sintesi, che essi inducono nell'economia reale una radicale esposizione al rischio competitivo, cioè al mercato mondiale, di intensità prima sconosciuta; ma, al tempo stesso, un più complesso sovrapporsi, a cadenza quotidiana, del rischio (o vantaggio) del cambio al rischio competitivo incentrato sui costi reali. Il contesto al quale la singola impresa appartiene produce così effetti sulle sue possibilità competitive che sono indipendenti dalla situazione dei costi e ricavi reali. Il fenomeno è stato definito come ‛finanziarizzazione dell'economia'.

Tutto ciò ha provocato una improvvisa ricollocazione del mercato al centro delle discussioni di teoria economica e politica, nelle quali esso viene considerato una realtà resa non solo assolutamente imprescindibile dalla crescente globalizzazione, ma anche soggettivamente eleggibile (nel solco della più antica tradizione liberale) in quanto massimamente salutifera rispetto al progresso produttivo e al benessere del consumatore: esso rappresenta insomma un contesto raramente sostituibile (solo nei casi teoricamente provati di ‛fallimento del mercato') per il conseguimento di costi e prezzi minimizzati, del massimo vantaggio per il consumatore e per l'estendersi della produzione. Sono di conseguenza entrate in crisi tutte le vedute di tipo pianificatorio e dirigistico che, a partire dalla prima guerra mondiale, avevano tentato di imporre o suggerire l'impostazione programmata, per lo meno a medio periodo, dello sviluppo industriale, e alle quali già le forme impetuose e imprevedibili dell'evoluzione tecnologica - e delle conseguenze di questa su modi di produzione, esigenze di nuovi inputs produttivi, caratteristiche del lavoro e delle condizioni di offerta di quest'ultimo - avevano assestato un duro colpo.

4. I modelli del capitalismo attuale

Già in passato la storiografia economica aveva sottolineato, soprattutto con Alexander Gerschenkron, alcune differenze strutturali fra i sistemi industriali di più antica (first comers) e di più recente (late comers, late joiners) formazione. Il consolidamento di tali differenze ha portato alla definizione di diversi tipi o ‛modelli' di capitalismo, in un'ottica che appare generalmente orientata, su un piano metodologico, a negare ulteriormente la unilinearità delle vie di formazione e sviluppo dei sistemi industriali e, su un piano operativo, a esaminare le possibilità dello scambio, o trapianto, di esperienze, ovvero l'adozione, in paesi a diversa tradizione, di forme di relazione, interne alle imprese industriali o fra queste e l'area finanziaria, sperimentate e consolidatesi altrove. In tale nuova ottica, che riprende e approfondisce la tematica gerschenkroniana, vengono oggi distinti tre modelli di capitalismo. Il primo è il modello anglosassone, basato su imprese a capitale disperso e ad alta mobilità (public company), sulla sostanziale estraneità degli intermediari finanziari rispetto all'impresa industriale - la cui condotta sarebbe controllata sostanzialmente dalla borsa e dalla sensibilità di questa ai risultati gestionali - e su un mercato del lavoro caratterizzato da mobilità, flessibilità, astensione sindacale dalla gestione. Il secondo modello, quello renano, è invece tradizionalmente basato su imprese fortemente e direttamente controllate da banche e intermediari finanziari; esso è inoltre caratterizzato da un mercato del lavoro con sindacati propensi al cointeressamento gestionale (Mitbestimmung). Infine, il punto di riferimento del terzo modello, quello asiatico, è l'esperienza giapponese, con imprese controllate da grandi gruppi conglomerali (zaibatsu) e un sistema di relazioni industriali fra impresa e mano d'opera basato su una cultura del lavoro che tenderebbe a interiorizzare profondamente, ex ante, il principio di autorità e il principio di collaborazione sul lavoro, in modi non definibili secondo le tradizionali idee occidentali di gerarchia e subordinazione. Queste diversità sono oggi considerate come suscettibili di trasferimento applicativo in contesti diversi da quelli originari e, come tali, stanno dando luogo a interessanti sperimentazioni.

5. Economie ‛di scala' ed economie ‛di scopo'

Talune rigidità rivelate dalle imprese di grandi dimensioni, soprattutto nelle situazioni di particolare tensione nei rapporti di lavoro, nonché gli effetti di sparpagliamento imprenditoriale derivanti dallo straordinario accrescimento dell'articolazione delle produzioni finali, delle produzioni intermedie e delle stesse tecnologie, hanno determinato qualche ripensamento dei vantaggi rispettivi della grande e della piccola dimensione. In passato era parso largamente generalizzabile il vantaggio arrecato dalle grandi dimensioni (‛economie di scala', cui si è poi aggiunta, da parte degli economisti industriali, l'osservazione e lo studio delle ‛economie di scopo', realizzabili in determinate circostanze sulla base del reciproco vantaggio derivante da una pluralità di prodotti). Nuove esperienze hanno dimostrato che, in molte produzioni, può risultare preferibile l'impresa di piccole dimensioni.

Al di là degli entusiasmi e degli estremismi provocati dalla riscoperta dei vantaggi del ‛piccolo' (‛piccolo è bello', fortunato slogan al quale è stato però contrapposto l'altro, ‛grande è meglio'), le ricerche e le riflessioni si sono via via orientate piuttosto su due aspetti: da un lato, sulla logica delle modalità di crescita - interna o esterna - dell'impresa industriale, ossia sulla scelta che questa di continuo compie fra acquisizione sul mercato o produzione diretta interna o collegata degli inputs necessari alla propria produzione finale, in base al calcolo comparato dei costi interni e dei ‛costi di transazione' (i costi comportati dall'uso del mercato); dall'altro tali ricerche hanno focalizzato l'attenzione sui sempre più complessi sistemi di interrelazione che si sono venuti intrecciando, nella realtà economica, fra imprese diverse, sia nel territorio (crescente rilevanza del fenomeno dei distretti industriali), sia nei sistemi di fornitura, subfornitura e approvvigionamento, sia nel collegamento a sistemi distributivi. In tale ottica vengono sempre più studiate le strutture di rete (network).

6. Fattori di progresso e profili di negatività dei sistemi industriali

Una profonda rivoluzione è infine intervenuta, per effetto di tutti i dinamici mutamenti cui si è fatto cenno, nella gerarchia valutativa dei fattori che contribuiscono a determinare il progredire dei sistemi industriali. All'enfasi un tempo portata preferenzialmente, volta a volta, sulla grandezza del capitale e sulla cosiddetta ‛accumulazione', oppure, successivamente, sul ‛progresso tecnico' astrattamente inteso, si è venuta sostituendo - senza ovviamente che venisse annullata l'importanza degli altri fattori - l'attenzione per l'importanza determinante del ‛capitale umano', vale a dire per l'insieme delle articolate capacità umane necessarie all'efficace utilizzazione e al funzionamento delle risorse fornite dal capitale materiale e dalle tecnologie, sia sotto il profilo della stretta capacità d'uso delle tecniche che sotto il profilo delle attitudini organizzative. È stata così sottolineata con grande enfasi l'importanza del fattore istruzione, senza peraltro sottovalutare le variabili sulle quali è più difficile incidere in tempi brevi e medi, come la disponibilità delle culture storiche e delle abitudini sociali a sintonizzarsi più o meno agevolmente con la pratica del lavoro industriale.

Una preoccupazione nuova è venuta a sostituirsi a quelle che hanno dominato per quasi due secoli l'affermarsi dello industrialismo: esse concernevano essenzialmente i pesanti risvolti negativi dell'impiego delle risorse lavorative umane nel processo di industrializzazione, sia come condizioni immediate di lavoro, sia come condizioni di vita indotte dalla modestia dei redditi e dagli enormi agglomerati. L'accento sembra essersi radicalmente spostato sui danni e sui pericoli della devastazione ambientale che l'impetuosa e quasi ciclonica crescita dell'industrializzazione, della sua voracità di risorse materiali, delle sue abnormi manifestazioni sul territorio, delle sue tecnologie sporche e inquinanti, provoca e tende sempre più a provocare. Ciò induce a focalizzare l'attenzione sul fatto che le gigantesche ed eversive novità che emergono nella struttura produttiva a seguito della rivoluzione informatica e delle telecomunicazioni, e che sembrano indurvi sostanziali elementi di pulizia ambientale - ‛bianchi', come gergalmente si dice -, non producono ex abrupto drastiche riduzioni degli effetti inquinanti arrecati dalle precedenti ondate di industrializzazione, tuttora, peraltro, non sempre esaurite. In molti casi, anzi, l'effetto di spinta complessiva che il dinamismo introdotto dalle nuove tecnologie ha sull'economia finisce col ripercuotersi in sollecitazioni che amplificano non solo gli stessi settori tradizionali, o parte di essi, ma anche quelli a potenzialità inquinante. Donde la necessità - sempre più largamente riconosciuta nel mondo a ogni livello di autorità, anche se non simultaneamente tradotta in termini esecutivi (specie, ma non solo, nei paesi a ritardata e più faticosa industrializzazione) - di una speciale e distinta area di intervento pubblico per la salvaguardia ambientale, composta di regole e vincoli a tutela di questo essenziale e minacciato profilo del benessere collettivo.

7. La società postindustriale

L'insieme di questi mutamenti ha indotto a usare sempre più frequentemente l'espressione ‛società postindustriale' per definire le tendenze in atto e l'assetto dell'economia che tali tendenze potranno determinare in un futuro più o meno vicino. L'espressione ‛postindustriale' richiama, in pratica, il fenomeno di una forte accelerazione della vecchia ‛legge dei tre settori' di Colin Clark, secondo la quale la crescita economica recherebbe con sé un progressivo spostamento di quota della popolazione lavoratrice dal settore primario (agricoltura, industrie estrattive) verso il secondario (produzioni industriali di trasformazione) e, infine, dai primi due verso il terziario (servizi). Essa richiama altresì il fenomeno di una analoga accelerazione della vecchia legge di Fisher, secondo la quale la crescita economica recherebbe uno slittamento della composizione dei consumi dalla prevalenza agricolo-alimentare a una prevalenza di beni manifatturieri e industriali e di servizi. Ma si deve ribadire che questo fenomeno di ‛terziarizzazione' dell'economia non significa riduzione di ruolo, quanto piuttosto intensificazione di potenzialità del settore industriale stesso, il quale, interiorizzando e coinvolgendo servizi di alta qualità, intrisi di apporto scientifico, genera al proprio interno ritmi di incremento di produttività sempre più elevati.

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