Industria

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Industria

Mario Pianta

Le trasformazioni dell'economia hanno al centro il ruolo dell'i., che nei primi anni del 21° sec. è stata caratterizzata da processi di innovazione tecnologica, di internazionalizzazione della produzione e di diffusione delle attività industriali in numerosi Paesi in via di sviluppo. Nei Paesi più avanzati e in Italia tali processi hanno portato a una concentrazione del controllo di produzioni svolte su scala internazionale, a una forte crescita delle attività finanziarie, a una progressiva deindustrializzazione, con il calo dell'occupazione nel settore e la crescita del peso dei servizi.

L'industria e l'innovazione tecnologica

Il primo fenomeno che ha segnato l'i. è stato lo sviluppo e la diffusione di nuove tecnologie (in particolare, quelle dell'informazione e della comunicazione) che hanno ridotto i costi di trasporto e coordinamento, creato la possibilità di realizzare nuovi prodotti e reso possibile l'organizzazione della produzione internazionale. Il nuovo paradigma tecnologico basato sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione ha fatto emergere nuovi settori industriali (che sono strettamente connessi allo sviluppo di nuovi servizi) e ha diffuso in tutti i campi processi e prodotti tecnologicamente innovativi, grazie soprattutto all'elevata adattabilità delle applicazioni possibili, come pure alla forte riduzione dei costi e al miglioramento delle prestazioni. La produzione dei beni legati a nuove tecnologie è basata su un grande impegno di ricerca e di sviluppo nei settori dell'elettronica e dell'informatica - in cui dominano Stati Uniti, Giappone, Cina e altri Paesi asiatici - e delle telecomunicazioni, in cui rimane una presenza di alcune grandi imprese europee. L'Italia è dipendente dalle importazioni di una larghissima parte di questi beni. Il cambiamento tecnologico nell'i. è alimentato dalle spese di ricerca e sviluppo (il cui peso sul PIL va dal 3,5% di Svezia e Giappone all'1,1 dell'Italia) ed è accompagnato da molteplici progressi nella progettazione e dall'introduzione di nuovi macchinari. Tra il 1998 e il 2000 il 41% delle imprese europee dell'i. e dei servizi hanno introdotto innovazioni di prodotto e di processo (35% in Italia, con una prevalenza di nuovi processi), con l'obiettivo prevalente di accrescere, insieme alla capacità produttiva, la qualità e la gamma dei prodotti. Di queste, solo il 17% ha fatto domande di brevetto per tutelare le proprie innovazioni (European Commission-Eurostat 2004).

La diffusione dell'industria nel mondo e la produzione internazionale

L'i. resta concentrata nei Paesi più avanzati, i quali nel 2002 hanno realizzato quasi tre quarti della produzione mondiale, con un calo di appena cinque punti percentuali rispetto al 1990. La quota della produzione industriale mondiale realizzata dai Paesi in via di sviluppo è salita nello stesso periodo dal 16 al 23%, con una forte crescita in alcune nazioni asiatiche di nuova industrializzazione (Repubblica di Corea, Taiwan, Cina, Unione Indiana), mentre la quota dei Paesi in transizione si è dimezzata. Un calo della percentuale sul totale mondiale si è registrato sia per l'America Latina sia per l'Africa subsahariana (UNIDO 2005). In termini di esportazioni manifatturiere mondiali, i Paesi avanzati mantengono una quota vicina al 70%, mentre quelli in via di sviluppo arrivano al 27%. L'industrializzazione di diverse nazioni del Sud del mondo ha portato a una trasformazione delle loro esportazioni: la quota dell'i. manifatturiera è passata dal 20% circa dei primi anni Ottanta al 70% della fine degli anni Novanta.

Se si analizza l'evoluzione del peso che l'i. manifatturiera ha avuto sul PIL tra il 1980 e il 2000, emergono gli effetti di un diffuso processo di terziarizzazione delle economie: nei Paesi avanzati si è scesi dal 25 al 19% e in quelli in via di sviluppo si è registrato ugualmente un calo dal 25 al 23%; esso riflette la stabilità dell'Asia orientale (intorno al 27%), la crescita della Cina (dal 33% del 1990 al 35% del 2000) e il crollo dell'America Latina (dal 28% del 1980 al 18% del 2000), colpita da gravi crisi industriali. Nell'insieme, le distanze tra Paesi in termini di prodotto industriale pro capite e per addetto restano molto ampie, e soltanto un ristretto gruppo di Paesi asiatici si sta avvicinando alle posizioni di quelli industrializzati.

L'industrializzazione di economie emergenti riflette sia lo sviluppo di imprese locali sostenute dalle politiche nazionali sia la diffusione di imprese multinazionali, definite come società che controllano attività produttive in più nazioni, le cui attività restano prevalentemente concentrate nei Paesi di vecchia industrializzazione. In tutto il mondo le multinazionali sono circa 70 mila con una rete di circa 690 mila filiali all'estero (nel 1998 erano 53 mila, con 450 mila società controllate). Nel 2004 General Electric, Vodafone, Ford, General Motors, Bp, ExxonMobil, Shell, Toyota, Total e France Telecom risultano le dieci più grandi, in base al valore delle loro proprietà al di fuori delle loro nazioni d'origine. Telecom Italia è la prima impresa italiana, al 24° posto. Tra le prime cento del mondo, sono quattro le imprese multinazionali che hanno sede in Paesi in via di sviluppo. In tutti gli Stati sviluppati il rapporto tra il numero di imprese nazionali che controllano società estere e quelle che sono controllate da imprese estere è di uno a due; per i Paesi in via di sviluppo il rapporto è di quasi uno a trenta (UNCTAD 2005).

L'attività economica delle filiali in Stato estero delle multinazionali ha raggiunto nel 2004 i 18.700 miliardi di dollari di fatturato e quasi 4000 miliardi di valore aggiunto (dati circa raddoppiati in dieci anni); tali filiali hanno realizzato poco meno del 10% del prodotto lordo e un terzo delle esportazioni mondiali, fornendo occupazione per oltre 57 milioni di persone, contro i 24 milioni del 1990. L'intero sistema delle imprese multinazionali rappresenta quasi un quarto del prodotto lordo mondiale, considerando anche quello delle case madri.

La diffusione delle attività delle multinazionali avviene mediante gli investimenti diretti esteri (in entrata), che nel 2004 sono stati pari a 648 miliardi di dollari, in lieve ripresa dopo il crollo del 2001 (erano 1400 nel 2000) e la rapida crescita degli anni Novanta (erano 400 nella media 1993-1998). Il 59% degli investimenti esteri è diretto verso i Paesi più avanzati e solo il 36% verso quelli in via di sviluppo; i principali destinatari sono Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina. I principali Paesi di origine degli investimenti esteri sono ugualmente Stati Uniti e Gran Bretagna, seguiti dal Lussemburgo, dove hanno sede moltissime società finanziarie. Tuttavia, il 60% di questi investimenti esteri non è legato alla costruzione di nuove imprese, impianti e attrezzature: si tratta di fusioni e acquisizioni (che riguardano almeno il 10% delle azioni) di imprese già esistenti (UNCTAD 2005). Esse rispondono sia a strategie per la ricerca di un potere oligopolistico, consolidando le attività nei settori in cui le imprese hanno (o intendono costruire) vantaggi competitivi e un potere di mercato, sia a logiche finanziarie e speculative che portano a ristrutturazioni negli assetti proprietari.

Produttività e occupazione nell'industria

La dinamica della occupazione nell'i. riflette l'evoluzione della produzione descritta e la ricerca da parte delle imprese di aumenti di produttività e competitività internazionale. Tra il 1993 e il 2003 la produttività del lavoro (valore aggiunto per addetto) nel mondo è cresciuta dell'11%, con aumento del 75% in Asia orientale (Cina inclusa) e del 40% in Asia meridionale (Unione Indiana inclusa), mentre nei Paesi avanzati l'aumento è stato del 15% (ILO 2005). L'i. manifatturiera rappresenta il principale motore di questa crescita, stimolata anche dalla crescente concorrenza internazionale. Mentre nei Paesi di nuova industrializzazione la competitività si basa sui bassi salari e sull'assenza di protezioni sociali e tutela sindacale, in quelli avanzati le strategie delle imprese riguardano la competitività sia di prezzo, attraverso la riduzione dei costi unitari del lavoro e innovazioni di processo che sostituiscono l'impiego dell'uomo, sia tecnologica, attraverso innovazioni dei prodotti e miglioramento della loro qualità e varietà (per espandere i mercati, segmentare la domanda e renderla più rigida rispetto ai prezzi dei prodotti).

Nella maggior parte dei Paesi avanzati questa ricerca di competitività ha portato alla diminuzione del numero dei posti di lavoro nell'i., in particolare per le qualifiche inferiori, con effetti di contenimento dei salari. A tale riduzione ha contribuito un quadro macroeconomico di crescita modesta della domanda, ma soprattutto il cambiamento tecnologico e il trasferimento all'estero della produzione. In Europa gli effetti del cambiamento tecnologico sull'occupazione a livello dei settori industriali tendono a essere negativi: l'occupazione è calata di più nelle i. a maggiore intensità tecnologica e di meno in quelle in cui la domanda è cresciuta più in fretta e più consistenti sono le innovazioni di prodotto. In Italia l'orientamento verso innovazioni di processo è più marcato e gli effetti negativi sono risultati maggiori. Analoghi sono stati i risultati della produzione internazionale, che ha portato a un trasferimento di occupazione verso i Paesi dell'Est europeo e dell'Asia, mentre l'arrivo di imprese straniere in Europa e in Italia non ha portato a rilevanti effetti occupazionali netti. Entrambe queste tendenze hanno prodotto una perdita di posti di lavoro soprattutto nelle basse qualifiche, a fronte di modesti aumenti oppure di stabilità nelle occupazioni che richiedono competenze maggiori; inoltre, una parte importante dei nuovi posti consiste in attività a bassi salari e precarie condizioni di lavoro; ovunque si riscontra una minore forza contrattuale dei lavoratori, che sono minacciati tanto dal cambiamento tecnologico, quanto dall'internazionalizzazione della produzione. Tali processi hanno portato a una scarsa dinamica dei salari e a una crescente polarizzazione dei redditi. Poiché profitti e rendite finanziarie hanno registrato significativi aumenti, la quota dei salari nella distribuzione del reddito tende a diminuire, con l'effetto di accrescere le disuguaglianze interne ai Paesi. In quelli in via di sviluppo l'occupazione è ancora dominata dalla vasta presenza di attività economiche informali, di agricoltura e servizi tradizionali, e soltanto le nazioni che hanno avuto successo nei processi di industrializzazione (soprattutto in Asia) hanno registrato importanti aumenti dell'occupazione nell'i., con un livello salariale che tuttavia resta assai basso.

La struttura e i modelli organizzativi dell'industria

Dal punto di vista dei modelli organizzativi, l'i. presenta la coesistenza di diverse modalità produttive: dalle fabbriche più moderne basate sui principi del just-in-time e della produzione snella, alla sopravvivenza di modelli fordisti caratterizzati da un'elevata divisione del lavoro in grandi impianti; dall'elevata automazione di alcuni settori (come, per es., la produzione di microprocessori), alla valorizzazione delle competenze dei lavoratori e dei tecnici in campi in cui si lavora su progetti. Tale varietà si spiega considerando l'adattamento delle organizzazioni aziendali alle diverse caratteristiche delle produzioni: dove esistono forti economie di scala, restano grandi dimensioni di impresa; dove la differenziazione dei prodotti è elevata, si affermano forme di produzione snella; dove i processi produttivi ad alta intensità di capitale possono essere standardizzati e meccanizzati, si introduce l'automazione; dove la produzione continua a fondarsi sulle competenze versatili di tecnici e lavoratori (come, per es., nella produzione di macchinari), prevalgono attività di piccole dimensioni con una forte integrazione tra le funzioni.

Le soluzioni organizzative spesso vedono la coesistenza di un decentramento delle decisioni operative e di una riduzione dei livelli gerarchici all'interno delle singole unità produttive, con una crescente concentrazione delle decisioni strategiche in gruppi industriali e finanziari multinazionali di dimensioni sempre maggiori, che emergono da ricorrenti ondate di fusioni e acquisizioni.

La struttura per dimensioni dell'i. presenta la persistenza delle grandi imprese (che tuttavia hanno avuto una riduzione del loro peso in quasi tutti i Paesi) insieme a una crescente presenza di piccole e piccolissime imprese, tipiche del caso italiano, ma anche dei settori industriali emergenti. Alle strutture gerarchiche dei gruppi di imprese multinazionali esaminati si affiancano reti (spesso transnazionali) di imprese capaci di cooperare e integrare capacità e competenze, attraverso una molteplicità di accordi, joint ventures e attività comuni di ricerca, progettazione, produzione o marketing. Fattori nazionali e settoriali contribuiscono a spiegare tali differenze. Il modello delle grandi imprese come paradigma della produzione industriale si è ridimensionato dopo le crisi degli anni Settanta e sono diventati evidenti i vantaggi di flessibilità offerti dalla produzione in aziende di minori dimensioni, più specializzate e vicine ai diversi mercati.

I mercati dei prodotti industriali tuttavia restano caratterizzati dal potere oligopolistico dei gruppi maggiori, che presentano una combinazione di vantaggi tecnologici, grandi dimensioni produttive, vaste risorse finanziarie e capillari attività di marketing. Le acquisizioni e fusioni di imprese si sono sviluppate soprattutto in corrispondenza dei periodi di maggiore aumento delle quotazioni di borsa e della finanza speculativa che ne consentiva il finanziamento. La loro crescita è stata impetuosa fino al 2001 e, dopo la caduta delle borse che ne è seguita, soltanto nel 2005 se ne è registrata una ripresa significativa. La differenziazione dei prodotti e gli investimenti in marketing hanno accentuato in molti settori il potere di mercato delle maggiori imprese. Allo stesso tempo, la differenziazione dei beni ha reso possibile il moltiplicarsi di nicchie di mercato per le piccole e le medie imprese caratterizzate da competenze e produzioni specifiche e da un'elevata capacità di seguire e orientare la domanda dei consumatori.

L'industria italiana ed europea

L'i. italiana presenta una particolare fragilità con gravi processi di declino. Al censimento effettuato nel 2001 l'i. manifatturiera era costituita da 543 mila imprese (di cui 200 mila imprese individuali e 250 mila da 2 a 9 addetti), con 4 milioni e 900 mila addetti (di cui 4 milioni di lavoratori dipendenti). Rispetto al 1991 le imprese sono diminuite dell'1,7% (con un aumento soltanto delle imprese individuali) e gli addetti del 6,1%. Nel 2001 le imprese con oltre 250 addetti rappresentano meno di un quarto dell'occupazione totale e rispetto al 1991 hanno perso il 20% di occupati. Le riduzioni di occupazione più gravi si sono registrate nei settori tessile, abbi-gliamento, chimica, apparecchi per comunicazioni, autoveicoli, altri mezzi di trasporto, mentre gli addetti sono aumentati nei comparti gomma e plastica, prodotti in metallo, macchinari. In maniera più specifical'indice della produzione manifatturiera, pari a 100 nel 2000, è sceso a 95,9 nel 2004 (ISTAT 2005).

Prendendo in considerazione i 15 Paesi dell'Unione Europea prima dell'allargamento, si riscontra che la percentuale delle imprese con oltre 250 addetti è il doppio dell'Italia ed esse sono responsabili del 64% della produzione e del 46% dell'occupazione manifatturiera, contro il 43 e il 26% dell'Italia. Il valore aggiunto per addetto in queste imprese è più del doppio di quelle con meno di 20 addetti ed è del 50% superiore a quelle da 20 a 99 addetti. Anche se la presenza di distretti industriali con reti integrate di piccole imprese specializzate assicura in alcuni comparti elevate prestazioni economiche, la debolezza legata alle piccole dimensioni dell'i. italiana e al venir meno di molte grandi imprese nei settori più avanzati rimane un grave problema. A tutto ciò si affianca una specializzazione settoriale dominata dalle i. tradizionali. In Italia, nel 1996, la quota degli occupati nei settori del tessile e abbigliamento era quasi doppia della media europea, e risultava superiore anche nel settore dei macchinari e in quello del legno e carta. Era nettamente inferiore invece nei settori delle i. elettriche e degli autoveicoli. Con attività concentrate in settori dove più lenta è la dinamica della domanda e della produttività e più elevata l'esposizione alla concorrenza da parte dei Paesi di nuova industrializzazione, la quota di mercato dell'Italia sulle esportazioni mondiali è scesa dal 4,3% del 1992-1995 al 3,6% del 2002. Negli anni successivi la bilancia commerciale ha registrato deficit crescenti che sottolineano la debolezza e le incerte prospettive dell'i. italiana.

Le politiche per l'industria

L'affermarsi di politiche liberiste ha ridimensionato in quasi tutti i Paesi il ruolo degli Stati e delle politiche per l'industria. Si è affermata l'idea che i meccanismi di mercato, le decisioni delle imprese, le scelte del sistema finanziario e la politica della concorrenza fossero in grado da soli di assicurare efficienza e sviluppo in un contesto sempre più internazionale. Si sono abbandonate le politiche industriali, aperte le frontiere ai produttori stranieri, privatizzate le imprese pubbliche che in passato avevano sviluppato settori chiave per le economie avanzate, è stata trascurata la politica della domanda per l'i. e la responsabilità dello Stato nell'organizzare e regolare i nuovi mercati. In molte nazioni europee, e anche in Italia in particolare, tali politiche hanno portato al ridimensionamento di grandi imprese, ad acquisizioni da parte di società estere, alla riduzione dell'impegno di ricerca e al declino di interi settori. Ciò ha aggravato la debolezza legata alle dimensioni e ai settori di attività dell'i. nazionale e ha reso impossibile l'espansione di i. caratterizzate da maggiore intensità tecnologica, apprendimento, crescita della produttività e della domanda internazionale. Di fronte ai problemi del declino industriale, emerge l'esigenza di politiche di tipo nuovo, necessarie per realizzare - e distribuire in modo meno asimmetrico - le opportunità di sviluppo offerte dal cambiamento tecnologico e dalla dimensione internazionale della produzione.

bibliografia

European Commission-Eurostat, Innovation in Europe. Results for the EU, Iceland and Norway. Data 1998-2001, Luxembourg 2004.

ILO (International Labour Office), World employment report 2004-05.

Employment, productivity and poverty reduction, Geneva 2005; ISTAT, Annuario statistico italiano 2005, Roma 2005.

UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development), World investment report 2005, New York-Geneva 2005.

UNIDO (United Nations Industrial Development Organization), Industrial development report 2005, Vienna 2005.

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