INGEGNERIA

Enciclopedia Italiana (1933)

INGEGNERIA

Giuseppe Albenga

. S'indicano con questa parola l'arte e la professione dell'ingegnere. Non è facile fissare i confini del campo in cui questi esplica l'opera sua, sia perché essi variano di continuo in quanto tendono ad abbracciare tutte le applicazioni pratiche della fisica e della chimica, appena uscite dal periodo di tentativo, sia perché il nome stesso d'ingegnere ha significato che si modifica nei diversi paesi e nelle diverse epoche; così, mentre da noi il titolo d'ingegnere spetta solo a chi lo conquistò con studî lunghi e severi, Inglesi e Nordamericani chiamano engineer anche colui, che, occupandosi di macchine, manca di preparazione tecnica superiore. Ci si può accontentare della definizione dell'ingegneria contenuta nell'articolo 51 della legge 24 giugno 1924 sulla "Tutela del titolo e dell'esercizio professionale degli ingegneri e architetti", che specifica: "Sono di spettanza della professione d'ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre, trasformare e utilizzare i materiali direttamente o indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie e ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni d'ogni specie, alle macchine e agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni d'estimo".

Il nome ingegnere. - È opinione comune che la voce ingegnere (encignerius, inzignerius e grafie analoghe nel latino medievale, engigneor e forme simili nell'antico francese) derivi da ingenium, macchina, e in particolare macchina bellica. C. Promis, in una sua memoria sui Vocaboli latini di architettura posteriori a Vitruvio afferma appunto: "Sin dal sec. II, se non prima, apparendo che le macchine avessero popolarmente nome di ingenia, fu detto ingeniarus od ingeniosus chi le attuava e movea, già essendone trama in Plinio". La citazione di Plinio lascia, a vero dire, alquanto dubbiosi se proprio l'aggettivo ingeniosus, che vi compare, si debba interpretare nel senso voluto dal Promis: così meriterebbe una più sicura documentazione quanto spesso si asserisce riguardo alla frequenza del nome d'ingegnere intorno al mille. La più antica carta italiana fin qui additata che contenga questa parola, è un atto rogato a Genova il 19 aprile 1195 nella casa dei canonici di San Lorenzo, del quale sono testimonî un Rainaldus encignerius e, con lui, Johannes bolengarius (fornaio) e Rosignolus speciarius. Poi la parola ingegnere s'incontra con molta frequenza da noi e anche, contemporanea se non anteriore, in Francia. Quand'è possibile determinare di che cosa si occupasse in quest'epoca l'ingegnere, si vede trattarsi d'incarichi in prevalenza militari: protezione di città con mura e con palizzate, costruzioni di macchine belliche e loro impiego in combattimento: ciò darebbe ragione al Ducange che vuole si prenda la parola ingenium in senso stretto, come "macchina di guerra", e farebbe dell'ingeniarius un ingegnere militare; è arbitrario invece, derivare questo nome, come vogliono L. C. Wolff e dietro lui un notissimo storico della tecnica, F. M. Feldhaus, da un ipotetico verbo incignere cioè "recingere", perché i primi ingegneri ricordati dagli Annales Placentini Guelphi sono precisamente intenti a recingere qualche città con mura e con palizzate. Fin dai tempi più antichi, in cui compaiono quali professanti un'arte autonoma, gl'ingegneri, all'infuori di quelle militari, esercitano altre mansioni, più proprie dell'ingegneria civile e in specie di quella idraulica; al principio del Trecento, in Bologna, si vedono progettare e restaurare opere civili e militari, costruire e riattare ponti di legno e murarî, argini e mulini, dar pareri su questioni d'acque, stimare terreni e fabbricati, regolare torrenti e fiumi, compiti assai svariati in un campo di attività assai più vasto di quello a cui accenna un decreto di Lodovico il Moro nel 1497, dove dice architectores seu agrimensores et livellatores aquarum qui omnes vulgo ingeniarii appellantur.

Al nome d'ingegnere si fa precedere talora quello dí magister, che già nel latino classico distingueva, tra l'altro, il direttore di lavori; vi si fa seguire talora qualche specificazione, che può riferirsi all'ufficio coperto (già nel Trecento: ingegnere del comune, ingegnere del signore) o invece al ramo più particolarmente professato (aliuelator - livellatore - mensurator, in carte bolognesi del Trecento), preludendo così alle moderne distinzioni dei varî rami dell'ingegneria.

Oggi le principali specialità in cui si è differenziata l'ingegneria sono: architetto, ingegnere civile, meccanico, elettrotecnico; ma esse sono ben lungi dal comprendere tutte le specializzazioni in cui presso talune nazioni vien distinta l'ingegneria, dove si hanno ingegneri aeronautici, agrarî, chimici, idrografi, minerarî, navali, ecc. In Italia oggi tutti questi rami si raggruppano in poche grandi categorie: quelle degl'ingegneri civili e degl'ingegneri industriali ne sono le principali.

L'imprecisione dei limiti dell'ingegneria propriamente detta ha dato origine a contrasti fra le associazioni d'ingegneri, già esistenti in tempi lontani, e le associazioni di professionisti affini; così, nel Cinquecento, a Milano troviamo tracce di conflitto fra gl'ingegneri e i semplici estimatori; era riuscito facile ai primi far riconoscere la loro superiorità, sancita poi anche da una più elevata tariffa per le loro prestazioni.

La preparazione culturale dell'ingegnere. - Nei tempi antichi le professioni dell'ingegnere e dell'architetto si confondono anche se talora, persino già presso i Greci e i Romani, si possa rilevare in qualche persona una più spiccata tendenza verso l'una di queste arti. La preparazione culturale dell'ingegnere è perciò identica a quella dell'architetto (v.) e, da quanto è dato presumere dalle scarse e frammentarie notizie su questo argomento, non viene conseguita in apposite scuole, ma nella famiglia (e ne abbiamo esplicito accenno in Vitruvio) o nello studio che per molti secoli, fino alle botteghe degli artisti del Rinascimento, ha una netta impronta familiare. Ancora nel sec. XII si trova a Milano per lunghi anni al servizio del comune la famiglia di un Guitelmo, ingegnere militare, forse straniero, condotto ai servizî di Milano non modico precio, al quale succedono il figlio e alcune generazioni di nipoti.

Poco si sa delle cognizioni teoriche dell'antico ingegnere, quantunque i numerosi studiosi che trattarono quest'argomento abbiano avanzato ipotesi assai plausibili, ma sempre alquanto incerte, fondate sull'analísi e sulla discussione della scarsa letteratura tecnica dell'antichità classica e su quella, alquanto più abbondante, di carattere più nettamente scientifico. Il tipo ideale dell'ingegnere romano è dipinto da Vitruvio, che gli domanda una larghissima cultura generale e un giusto equilibrio fra teoria e pratica. Le sagge parole d'introduzione al primo libro della sua Architettura conservano intatto tutto il loro valore e meritano d'esser qui riportate: Itaque Architecti qui sine literis contenderant, ut manibus essent exercitati, non potuerunt efficere ut haberent pro laboribus auctoritatem. Qui autem ratiocinationibus et literis solis confisi fuerunt, umbram non rem persecuti videntur. At qui utrumque perdidicerunt (uti omnibus armis ornati) citius cum auctoritate quod fuit propositum sunt assecuti". Si tacerà qui delle cognizioni possedute dai tecnici dell'antico Oriente e dell'Egitto, per fermarsi a passare in rapida rassegna le conoscenze fondamentali degl'ingegneri greci, più teorici, e di quelli romani, più aderenti alla pratica, quali ci risultano dai trattati d'Erone Alessandrino, d'Archimede, da Vitruvio, dai metrologici, dai gromatici e dagli autori d'agricoltura e da varî frammenti, tra cui notevoli quelli di Filone di Bisanzio.

Fra le scienze matematiche applicate predilette nell'antichità è la geometria pratica, largamente sviluppata anche presso i Romani, i quali disdegnarono invece la geometria pura, tanto in onore nella Grecia. Il trattato "περὶ Διόπρας" di Erone ci descrive i metodi di agrimensura e di livellazione, usati ai suoi tempi, la diottra, che i traduttori recenti - Vincent in particolare - paragonano ai nostri teodoliti, le stadie, assai ben congegnate, e altri strumenti di misura. Tra i problemi discussi è quello della livellazione, d'uso corrente nella costruzione degli acquedotti; vi è con molta chiarezza esposto il procedimento della livellazione dal mezzo, atto a eliminare gran parte degli errori strumentali; vi si trattano ancora il tracciamento delle gallerie partendo dai due imbocchi e diverse questioni relative alla posizione planimetrica e altimetrica di punti inaccessibili, ai tracciamenti di curve, alla misura di terreni. Poco aggiunsero gl'ingegneri romani, che anzi in luogo della diottra adoperarono quasi sempre la più imperfetta groma; ai livelli ad acqua essi preferirono il corobate, strumento sulla cui essenza si discute, senza accordarsi, perché l'accenno che ne dà Vitruvio è troppo incompleto.

Molto più imperfette erano le cognizioni di meccanica. I Greci seppero combinare ingegnosi meccanismi e analizzare abbastanza complesse composizioni di movimenti, ma non precisarono la nozione fondamentale di velocità e nulla di ragionevole enunciarono a proposito dell'accelerazione, che Aristotele attribuiva a un aumento della qualità del peso a misura che i corpi si avvicinano al loro sito naturale. Le conoscenze di meccanica si aumentano e si chiariscono nel Medioevo, ma quali fossero le nozioni tecniche degli ingegneri medievali si può appena intravedere con molte incertezze. La preoccupazione del segreto militare, l'istruzione nell'ambiente famigliare o almeno in un ambiente assai ristretto e isolato, il grande costo, e perciò la rarità, dei manoscritti di materie tecniche, che dovevano esser necessariamente corredati di molti disegni non facili a riprodurre, rendevano assai lenta la diffusione dei risultati teorici e pratici interessanti l'ingegnere e sono causa principale della scarsità delle conoscenze nostre sui fondamenti teorici dell'ingegneria antica. La più antica collezione di schizzi di meccanismi costruiti o solamente progettati (e tra questi non manca il perpetuum mobile, vana aspirazione di tante menti) è quella di Villard de Honnecourt, architetto fiorito verso la metà del Duecento, interessantissima raccolta di quanto l'autore aveva notato nei frequenti e lunghi viaggi e di quanto egli stesso veniva escogitando. Utilissima per dare un' idea di quel che fosse un ingegnere del sec. XIII, delle sue occupazioni e del campo dei suoi lavori, questa collezione non presenta un interesse neanche paragonabile lontanamente con quello suscitato dai numerosi manoscritti di Leonardo da Vinci. In questi i problemi tecnici vengono trattati con mentalità assai affine a quella del moderno ingegnere ed è dato scorgervi chiara l'intenzione di una sistematica raccolta dei risultati della esperienza, talora preparata di proposito e sempre eseguita con metodo tale che conceda di assurgere a leggi generali. Su qualche argomento egli riesce a ottenere un organico corpo di nozioni, ben collegate fra loro, contenente in germe i fondamenti di talune scienze applicate, ben più tardi sviluppatesi: basti ricordare qui il contributo vinciano alla fluidodinamica, idraulica compresa, e alla resistenza dei materiali. Purtroppo l'opera di Leonardo rimase per lunghi anni pressoché ignorata; il seme ch'egli gettò cadde in un campo sterile e i suoi concetti non trovarono immediato e fecondo svolgimento perché i suoi contemporanei e la generazione che lo seguì erano impreparati ad appropriarsi dello spirito che li informa; tuttavia con Leonardo da Vinci compare il pensiero tecnico, distinto, ma non in contrasto con quello che è proprio della scienza pura. Il distacco fra le due concezioni - quella scientifica e quella tecnica - dei problemi pratici si fa man mano più evidente, esagerandosi perfino con danno della scienza pura e di quella applicata, che affettano qualche volta d'ignorarsi a vicenda. Le scienze tecniche vanno intanto acquistando, con l'autonomia, alcuni loro caratteri impressi dalle circostanze nelle quali si esplica l'attività dell'ingegnere: esse sono empiriche, utilitarie e, in parte almeno, contingenti. I problemi pratici, già di per sé complicati, vengono resi ancor più difficili da considerazioni economiche o amministrative, quasi mai in buon accordo con quelle essenzialmente tecniche; tuttavia essi vogliono una soluzione, sia pur soltanto approssimata, ma pronta e raggiunta con mezzi semplici. Di qui un largo uso della matematica d'approssimazione e di estrapolazioni audaci e l'introduzione d'ipotesi non sempre giustificate, valide in un campo spesso assai ristretto e quasi mai rigorose, ma comode e in non troppo stridente contraddizione con i fatti. Le scienze applicate perdono così parzialmente il rigore, l'eleganza e l'unità delle scienze pure e, per la facilità d'introdurre caso per caso postulati diversi, che si mantengono fino a che dànno risultati accettabili, per modificarli poi quando da essi si ricavano conclusioni non confermate dalla esperienza, tendono assai spesso a scindersi in gruppi frammentarî di teorie provvisorie. Limitate a un campo opportuno, le scienze applicate riescono tuttavia di grandissima importanza, sono guida sicura nel progetto e nell'esecuzione di costruzioni grandiose e di macchine perfezionate: sono quindi ingiuste tanto le negazioni di quei pratici che, fautori d'un cieco empirismo, vorrebbero togliere ogni valore all'indagine scientifica razionale nel campo dell'ingegneria, quanto l'insistenza di certi cultori delle scienze pure nell'esagerare il carattere di contingenza delle scienze tecniche (che essi chiamano scienza di attesa) e nel criticarne aspramente le inevitabili imperfezioni senza però suggerire i mezzi per poterle eliminare. Non è facile conciliare in un sicuro equilibrio teoria e pratica negl'insegnamenti dell'ingegnere; la riforma delle scuole d'ingegneria è sempre in discussione e le ripetute e frequenti modificazioni di programmi sono chiaro segno d'un disagio, che troppo spesso vien fatto più grave di quanto non sia.

Dove all'ingegnere viene richiesta una cultura superiore, la sua istruzione si fa in scuole speciali, che talora accolgono l'allievo appena compiuti gli studî medî, oppure superato un particolare esame d'ammissione, talora invece lo ricevono all'uscita da un corso preparatorio, generalmente biennale, trascorso nella facoltà universitaria di scienze fisiche e matematiche o anche nelle accademie e nelle scuole militari di certe armi. Le scuole d'ingegneria hanno, rispetto alle università, origine relativamente recente. In Europa le più antiche sono quelle francesi: l'École de Ponts et Chaussées sorta nel 1747 con lo scopo di preparare il personale del corpo di ponti e strade, fondato già nel 1716, e l'École des Ingénieurs di Mézières, iniziata nel 1748, dalla quale uscivano quelli che oggi chiamiamo gli ufficiali del genio. Curiosamente organizzata la prima d'esse, dove gli allievi trascorrevano tempi variabilissimi secondo le attitudini personali e le richieste del servizio, diretta nei primi tempi da Charles-Daniel Trudaine e da Jean-Rudolphe Perronet, oggi ancora esiste, assai trasforrmata, ma sempre circondata da meritata fama. Tanto essa, quanto la scuola di Mézières, chiusa nel 1793, avevano la loro ragion d'esser in preoccupazioni d'indole quasi esclusivamente militare: non vi era estranea però qualche considerazione economica analoga a quelle che alla fine del Seicento e nei primi anni del secolo seguente avevano suggerito l'istituzione di scuole particolari, rimaste però allo stadio di progetto (come l'istituto centrale di Tangermünde ideato dal Grande Elettore nel 1667) o vissute pochi anni di vita stentata (la Scuola degl'ingegneri di Sassonia fondata nel 1732). Un importante progresso delle scuole d'ingegneria si ha con la Rivoluzione francese, quando, sotto la guida di L.-N.-M. Carnot, s'istituisce l'École polytechnique, utilizzando in buona parte i mezzi e il personale della scuola di Mézières, con lo scopo di preparare "ingénieurs de tous genres" (1794-5): la scuola accoglieva un limitato numero di allievi, fra i 16 e i 20 anni, ammessi per esame, dopo averne riconosciuto "l'attachement aux principes républicains". Compiuto un biennio preparatorio, durante il quale erano soggetti alla disciplina militare, gli allievi passavano alle scuole d'applicazione che erano l'antica École de Ponts et Chaussées, l'École d'application d'Artillerie et de Génie militaire di Metz, nata dalla fusione della scuola di Mézières con quella d'artiglieria di Châlons, l'École des Mines, di Parigi, l'accademia di guerra, e l'École du Génie maritime di Brest. L'ordine degli studî, che venne riprodotto sostanzialmente con poche varianti dalle scuole d'ingegneria degli altri stati, era stato fissato da G. Monge, tenendo presente che le conoscenze necessarie all'ingegnere erano di due tipi diversi: le une infatti erano intese a studiar la forma e il movimento dei corpi e dipendevano quindi dalle matematiche come quelle che si dimostravano col calcolo e si rappresentavano col disegno, le altre erano dirette a conoscere l'essenza dei corpi e i fenomeni di cui questi erano oggetto, ed erano perciò frutto della fisica concepita in senso lato e si dovevano raggiungere essenzialmente sperimentando in laboratorî. Discussioni vivacissime nel Consiglio dei Cinquecento portarono a una sempre maggior militarizzazione della scuola. All'École polytechnique s'ispirarono assai presto i fondatori delle scuole d'ingegneria dei primi anni dell'Ottocento. Fallito il tentativo svizzero di Philipp Albert Stopfer, che nel 1798 proponeva un allumfassendes Institut per medici, giuristi, teologi, ingegneri e artisti, e ove si trascuri il tentativo dell'abate J. F. W. Jerusalem di fondare a Brunswick una facoltà tecnica nel 1745, la prima scuola creata a imitazione di quella parigina è la Scuola tecnica superiore di Praga, aperta nel 1806, ma già ideata fin dal 1789 da Joseph Anton v. Gerstner, quale sviluppo di cattedre d'ingegneria esistenti nella locale università fin dal tempo di Carlo VI. Seguirono la Scuola di Vienna (1815) e dieci anni dopo quella di Karlsruhe. Da noi le scuole d'ingegneria autonome sorgono più tardi: fino alla seconda metà dell'Ottocento gl'insegnamenti tecnici vengono impartiti nelle scuole militari (celebre la scuola modenese dei pionieri che diede parecchi ingegneri di grande fama) o nell'università. Ma i corsi che portano al diploma o alla laurea d'ingegnere sono, in questo periodo, assai povera cosa: a Torino, per citare un esempio, le matematiche pure e quelle applicate, alla fine del Settecento, erano insegnate da un professore il quale doveva spiegare successivamente: nel primo anno analisi algebrica, nel secondo le sezioni coniche, nel terzo analisi infinitesimale e istituzioni d'architettura, nel quarto meccanica dei corpi rigidi, nell'ultimo idraulica; questa era la meno trascurata delle scienze applicate, sia perché in Piemonte si aveva una buona tradizione di studî idraulici, legati all'impianto sperimentale della Parella (1763), sia perché le frequenti questioni d'acqua fra gli utenti e i proprietarî di canali d'irrigazione richiedevano spesso l'opera del perito; il resto, esclusi i principî teorici, era quasi del tutto trascurato. L'occupazione francese del Piemonte portando alla scuola di Parigi gli allievi ingegneri (tra gli altri G. Bidone, B. C. Mosca e Plana) generò un tale stato di spirito che rese necessaria una profonda riforma degli studî piemontesi dell'ingegneria alla Restaurazione: gli anni di corso vennero ridotti a quattro, i professori aumentati a sei, dei quali due di materie grafiche, aggiungendo, alle materie di prima, geometria descrittiva, geometria pratica e disegno. Una nuova riforma si fece nel 1847, stabilendo l'insegnamento della chimica applicata all'arte del costruttore, ma soltanto nel 1860 si ebbero vere e proprie scuole d'ingegneria, paragonabili a quelle attuali, con l'istituzione della Scuola d'applicazione degl'ingegneri di Torino e dell'Istituto tecnico superiore di Milano, destinato a raccogliere gli alunni licenziati dal biennio propedeutico seguito all'università. Ben presto la seconda di queste scuole, assai più tardi la prima, assorbirono il biennio preparatorio, rendendo del tutto indipendente dall'università lo studio dell'ingegneria. Non è il caso di insistere sull'evoluzione dei programmi d'insegnamento, che prosegue tuttora: basterà ricordare la suddivisione sempre crescente delle materie d'insegnamento, in particolar modo di quelle di carattere meccanico e fisico. Non dissimile è l'evoluzione delle altre scuole d'ingegneria, per la maggior parte sorte in questi ultimi anni, mentre altre sono state precedute da insegnamenti che risalgono ai primi anni dell'Ottocento, quali quelli dell'università di Pavia, che dava il titolo d'ingegnere laureato a partire dal 1803, quelli di Napoli iniziati nel 1811, quelli di Roma che fin dal 1817 autorizzavano a rilasciare diplomi di libero esercizio professionale.

Fin dagl'inizî delle scuole d'applicazione vediamo la tendenza alla specializzazione combattere con quella a preparare ingegneri generici. Il decreto che istituiva le prime scuole d'ingegneria mirava ad istituire ingegneri laureati (1860), poi questi si distinguevano in ingegneri civili, architetti civili, ingegneri industriali; un regolamento del 1867 divideva questi ultimi in ingegneri per le industrie meccaniche, per le industrie chimiche, per le industrie agricole, per le industrie metallurgiche, per ridursi, poi fondendo e tornando a distinguere più volte i varî rami, alle due grandi categorie odierne dei dottori d'ingegneria civile e dei dottori d'ingegneria industriale. In Italia è dottore d'ingegneria chiunque abbia compiuto gli studî prescritti per le scuole d'ingegneria; presso altre nazioni il dottorato (d'ingegneria o rerum technicarum) si acquista solo da pochissimi tra coloro che conseguirono il diploma d'ingegneria in qualcuna delle scuole tecniche superiori, discutendo una tesi originale.

Ingegneri antichi e moderni. - L'antichità classica dimostrò poco interesse per le scoperte tecniche e per chi le faceva. Greci e Romani, imbevuti di spirito aristocratico, anche quando appaiono reggersi a democrazia, ostili o almeno indifferenti, nella loro economia schiavistica, alla sostituzione di macchine alla mano d'opera umana, diedero scarsa diffusione ai trovati meccanici e per chi si dedicava al loro studio e proveniva per lo più dagl'infimi strati della popolazione, ebbero sempre poca stima. È naturale quindi che gli autori classici tacciano degl'ingegneri, anche quando ne descrivono le opere o al più ce ne tramandino il nudo nome, fatta qualche rarissima eccezione come quella d'Archimede o quella d'Archita. Erodoto, ad esempio, ci ricorda Mandrocle, l'ideatore e costruttore del ponte sul Bosforo per l'esercito persiano di Dario, specialmente perché descrive il voto che l'ingegnere depose nel tempio d'Era a Samo e ne riporta l'iscrizione; di Arato, forse l'astronomo fiorito verso il 500 a. C., si sa che costruì il ponte nell'Ellesponto per l'esercito di Serse soltanto perché i Laterculi alexandrini, papiro del sec. II a. C., lo ricordano con altri sei celebri meccanici, tutti direttamente legati all'arte militare. Essi sono: Epicrate d'Eraclea (seeondo Schramem si dovrebbe scrivere Epimaco d'Atene) che costruì macchine belliche in Rodi; Polyeidos che ideò macchine di assedio a Bisanzio; Diades che sotto Alessandro diresse l'assedio di Tiro e d'altre città; Stippax, costruttore dell'ippafesi (stalle sotterranee) di Olimpia; Abdaraxos, meccanico di Alessandria; Dorion, inventore del lysipolemos (macchina bellica). Pochi altri nomi si possono aggiungere: tra i più noti Eupalino di Megara, che verso la metà del sec. V a. C. costruì l'acquedotto di Samo con una galleria lunga circa i km. attaccata dai due imbocchi; Crate, ingegnere d'Alessandro Magno, che attese ai lavori dell'emissario del Lago Copaide nella Beozia, e due ingegneri di Tolomeo Filadelfo, Sostrato di Cnido, eostruttore del faro d'Alessandria e Cleone, direttore per alcuni anni della bonifica del Fayyūm, del quale restano papiri utili per la conoscenza dell'amministrazione e della tecnica dei grandi lavori durante il sec. III a. C.

Ancor meno elevata era nei primi tempi la situazione degl'ingegneri romani; la maggior parte di essi non ha lasciato altra traccia all'infuori dell'iscrizione sepolcrale. Di quelli che servirono nell'esercito nessuno risulta aver raggiunto cariche elevate: sono quasi tutti semplici soldati, o veterani, o evocati Augusti; uno solo, T. Flavio Rufo, è cornicularis del prefetto dell'annona, un soldato privilegiato quindi, paragonabile a un sottufficiale. Gl'ingegneri che prestano l'opera loro ai privati sono per lo più schiavi o liberti. Più di frequente liberi sono gl'ingegneri dello stato o dell'imperatore; non si sa tuttavia a qual condizione appartenessero Severo e Celere, architetti della Domus Aurea neroniana e dei circostanti giardini, ingegneri del disgraziato tentativo di sfogare nel Tevere le acque del lago d'Averno. Ma già con Adriano, che si diletta di geometria e d'architettura e progetta in parte la sua villa di Tivoli, l'ingegnere tende a divenire un funzionario ufficiale, a vivere a diretto contatto col sovrano, circondato da una sempre maggiore considerazione. Il favore continua sotto Alessandro Severo e Costantino. Alipio d'Antiochia, ai tempi di Giuliano, e Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto, durante l'impero di Giustiniano, salgono ai più alti onori. Aloisio di Ravenna godeva privilegi eccezionali, portava la verga d'oro e nei cortei precedeva immediatamente il re Teodorico. Era il colmo degli onori, ma la decadenza non tardò a manifestarsi, e l'ingegnere non riappare più in condizioni elevate e con mansioni ben definite se non dopo il Mille. Si tratta dapprima, come si è visto, d'ingegneri che hanno incarichi prevalentemente militari, ma che svolgono, accanto a questi incarichi, un'attività multiforme e sono principalmente ingegneri italiani e francesi: i primi soprattutto godono di alta stima, sono ad esempio assai spesso genovesi gl'ingegneri che accompagnano le crociate. Col Rinascimento compaiono, sempre in Italia, le belle figure di artisti ingegneri, che con versatilità tutta loro propria; lasciano durevole orma nel campo della tecnica e anche in quello dell'arte. Basti citare qui il nome grandissimo di Leonardo da Vinci, il cui contributo all'ingegneria appena oggi incomincia a essere apprezzato in tutta la sua interezza, e il nome, esso pur grande, di Leon Battista Alberti. L'opera di Leonardo è veramente immensa e profonda: nei suoi manoscritti, accompagnati da chiari e splendidi disegni, vediamo trattati problemi d'aeronautica, d'artiglieria, d'economia dei lavori, di fortificazione (è di Leonardo il tipo di fortificazione detto poi prussiano ai tempi di Federico il Grande), d'idraulica, di meccanica pura ed applicata e di resistenza dei materiali e vi sono schizzati: macchine volanti, paracadute, sommergibili e scafandri, macchine sollevatrici, macchine per lo scavo e per il trasporto delle terre, ponti, centine, conche, ventilatori, una piccola pompa centrifuga, una motrice a vapore a stantuffo, materiale d'artiglieria (tra l'altro un cannone azionato dal vapore), turbine idrauliche, macchine utensili svariatissime e un cumulo di costruzioni e di meccanismi di alto interesse, fra i quali una catena analoga a quelle oggi chiamate di Gall.

In quest'epoca l'ingegneria italiana è molto fiorente e i contatti frequenti portati dalla calata dei Francesi e dal loro dominio nel ducato di Milano esercitano un favorevole effetto sul risorgere dell'ingegneria oltralpe, dove la tradizione del tecnico non aveva però mai subito troppo gravi eclissi. È italiano il primo libro d'ingegneria pubblicato per le stampe (Roberto Valturio, de Re Militari, Verona 1472) che ebbe parecchie edizioni nel secolo seguente. Italiano è ancora il primo libro dove i problemi tecnici sono trattati distinti da quelli dell'arte militare (il libro De la Pirotechnia di Vannoccio Biringuccio, edito postumo nel 1540), e italiani sono in gran maggioranza gli autori tecnici del Cinquecento e dei primi decennî del Seicento. Di fronte al francese Jacques Besson e ai tedeschi Georg Agricola e Zeising si possono citare Agostino Ramelli, Bonaiuto Lorini, Fausto Veranzio, Mariano Zonca, Famiano Strada, Giovanni Branca. L'ingegnere italiano è chiamato spesso consulente oltre i confini: è nota ad esempio la parte che frate Giocondo da Verona ebbe nella costruzione di ponti sulla Senna a Parigi e, fino a tempi a noi abbastanza vicini, ma più particolarmente nei secoli XVI e XVII, gl'Italiani prestano l'opera loro d'ingegneri militari presso sovrani stranieri; si hanno vere dinastie di celebri ingegneri quali i bresciani Maninengo o i Savorgnan del Friuli. Gl'ingegneri italiani eccellono anche nelle costruzioni murarie e in quelle idrauliche, particolarmente nell'idraulica fluviale; Domenico Guglielmini scrive un'opera fondamentale sui fiumi e, ancora nel Settecento e nell'Ottocento, lasciano bella fama i matematici della Repubblica Veneta, della Santa Sede, del granduca di Toscana.

Sorge intanto e si afferma la scuola d'ingegneria francese, che assurge presto ad alta rinomanza, con i costruttori dei canali navigabili: Adam de Craponne e Pierre-Paul Riquet de Bonrepos, per uno strano caso l'uno e l'altro di famiglie oriunde italiane; i costruttori di ponti, da frate Francesco Romano, olandese di nascita, a Jean-Rudolphe Perronet, tra essi Jean de Voglie, italiano d'origine, e Louis-Alexandre de Cessart; gl'idraulici: Henri Pitot, Antoine de Chézy; i meccanici: Pierre Vernier, l'abbé Picard, Philippe de la Hire; i costruttori di strade: Hubert Gauthier, autore del primo Traité sur la construction des chemins, e, poco avanti la Rivoluzione, Octave Trésaguet; i costruttori marittimi celebri, fra essi Clément Métezeau, gl'ingegneri militari della scuola del grande Sébastien le Prestre de Vauban. Per molti anni, nel campo delle costruzioni civili e di quelle idrauliche, domina l'influenza delle pubblicazioni di Bernard Forest de Bélidor. Si è di proposito limitata questa rapida rassegna a pochi nomi, duelli dei pionieri dell'ingegneria. Anche l'Inghilterra prende attiva parte allo sviluppo dell'ingegneria nel Settecento con James Bradlev, costruttore dei canali navigabili del duca di Bridgewater, con Thomas Telford, il quale contribuisce al miglioramento della rete stradale inglese, insieme con Metcalf e John Loudon Mac Adam, e lascia luminosa traccia di sé; nella costruzione dei ponti, John Rennie e John Smeaton, costruttori di ponti e di opere marittime, con James Watt e coi numerosi metallurgici, che si dedicano per lo più alla siderurgia.

Con l'Ottocento il progresso della tecnica si fa rapidissimo e vi prendono parte sempre maggiore le nazioni americane e quelle europee, la Germania principalmente, che del resto poteva vantare un'antichissima tradizione di notevoli figure d'ingegneri, che risale a Konrad Kyeser d'Eichstädt, vissuto intomo al 1400, la cui scuola possiamo seguire fino al 1540 circa, con Martin Mercz, morto nel 1501, di cui ci rimangono manoscritti e del quale è assai nota la bella pietra sepolcrale, e con gli autori di scritti di metallurgia e d'arte mineraria. Col sec. XIX l'ingegneria si è oramai distinta in parecchi campi indipendenti, che evolvono ognuno per proprio conto e che vanno separatamente studiati.

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