INQUADRATURA

Enciclopedia del Cinema (2003)

Inquadratura

Serafino Murri

Per i. s'intende la porzione di spazio inclusa nel quadro visivo bidimensionale, entro la cornice rettangolare che delimita l'immagine proiettata del film, e ancora, sul piano della durata, l'insieme minimo di fotogrammi (v.) in sequenza che delineano un movimento visibile. Sul piano teorico, se il singolo fotogramma ‒ il cui formato standard è quello di una pellicola di 35 mm di larghezza con un rapporto con l'altezza del quadro variabile da 4/3, ovvero 1,33, standard del cinema muto, a 2,35 fino a 2,55 (a seconda che la pista sonora fosse o meno presente sulla pellicola) del Cinemascope ‒ con la sua forma costituisce l'impronta del quadro visivo (e dunque preso a sé potrebbe essere paragonato grosso modo a una lettera dell'alfabeto della visione cinematografica in quanto segmento distintivo seppure non significativo del dinamismo espressivo dell'immagine), l'i., invece, non si può fare corrispondere a una semplice parola visiva composta di fotogrammi, e neppure a una singola enunciazione; semmai, essa corrisponde a una descrizione in atto, ovvero alla denotazione minima di un insieme di oggetti di riferimento ai quali rimanda in senso analogico, che si trovano tra loro in un rapporto più o meno complesso, rapporto la cui evoluzione costituisce propriamente il significante narrativo della visione filmica. Come evoluzione cronologica del mezzo fotografico, infatti, l'i. cinematografica descrive innanzitutto gli eventi nel loro mutamento, i gesti e le azioni che comportano un passaggio significativo da una situazione a un'altra successiva. La funzione dell'i., nella semiotica del discorso del cinema, si trova in rapporto dialettico con quella svolta dal montaggio, ovvero l'unione sequenziale di più i. differenti. In questo senso, il montaggio può essere fatto corrispondere a una connotazione narrativa delle singole 'descrizioni' espresse dalle i., nell'arco di una successione articolata di tempo filmico. La variazione delle i. all'interno dell'illusione di continuità che l'immagine proiettata sullo schermo fornisce allo sguardo dello spettatore è uno dei fondamenti della narrazione cinematografica. Il problema di una corretta definizione dell'i. viene a complicarsi ulteriormente quando si considera il film sonoro: in quanto insieme audiovisivo, infatti, essa implica un punto di vista e un punto di ascolto; analogamente, al montaggio visivo si affianca un montaggio sonoro, spesso asincrono rispetto all'i. (il sonoro può anticipare l'i. successiva, o prolungare in essa la precedente), o difforme sul piano della percezione della spazialità (alla distanza del personaggio inquadrato dalla macchina da presa può non corrispondere un'analoga 'distanza sonora'). L'i. sotto il profilo tecnico va dunque considerata come la risultante di quattro processi distinti, ma concomitanti: due processi on location, e cioè la ripresa visiva e quella fonica, e due di post-produzione, il montaggio e il missaggio (montaggio e calibratura della colonna sonora).

Nella delimitazione spazio-temporale del visibile, che effettua in funzione narrativa, l'i. dipende in primo luogo dall'angolazione che il regista presceglie per effettuare la ripresa di un certo soggetto. In linea teorica esistono infinite angolazioni possibili, che corrispondono ad altrettanti punti di vista potenziali, entro cui scegliere per costruire una singola i.: dall'alto, dal basso, a piombo, supina, orizzontale, in asse ecc. rispetto al soggetto o porzione di campo da inquadrare. La scelta, tuttavia, è spesso indirizzata da necessità rappresentative ben definite, ed è elaborata in genere in base ai criteri di continuità dell'azione nel passaggio tra i. diverse, o raccordi. Sul piano tipologico le i. si distinguono in base al processo di centratura prospettica e di relativa focalizzazione di un determinato soggetto o di un insieme più complesso rispetto alla cornice del quadro visivo. Se il parametro di riferimento è la grandezza della figura umana presente nell'i., a seconda del rapporto che sussiste tra di essa e lo sfondo, si può enucleare una scala dei piani di ripresa, che vanno dalla figura intera (un corpo umano dalla testa ai piedi) al primissimo piano (dalla fronte fino al mento di un volto). Se il parametro è viceversa quello dell'ampiezza dello spazio scenico interno all'i., si enuclea una scala dei campi di ripresa, che vanno dal campo lunghissimo (un ampio panorama) al campo medio (uno spazio ristretto alla dimensione umana). L'i. è in questo senso la risultante di un rapporto tra il campo di ripresa e il piano della figura umana che vi appare, in relazione alla cornice dell'immagine. Essa esprime cioè un doppio rapporto, che rispecchia la funzione di sintesi cronologica e bidimensionale delle tre dimensioni spaziali effettuata dall'immagine: il rapporto tra cornice e figura (piano), e il rapporto tra figura e sfondo (campo), nell'arco della sua durata. La delimitazione della visione rispetto a un singolo soggetto che occupa tutto il quadro può inoltre essere parziale, e in questo caso l'i. sarà il particolare di un corpo umano o animale, oppure un dettaglio se riferito a piante o oggetti. Essendo l'i. avvertita dallo spettatore come strutturalmente parziale rispetto a un presunto 'spazio a 360°' su cui si effettuerebbe la 'messa in quadro', tutto ciò di cui si avverte in senso uditivo o visivo la presenza, ma che non rientra direttamente nell'i., costituisce il fuori campo (v.), elemento che (grazie soprattutto al sonoro) crea una particolare tensione narrativa tra la visione in quanto tale e ciò che da essa viene allusivamente escluso. All'idea di fuori campo corrisponde l'i. in controcampo, e cioè la visualizzazione di ciò che nell'i. precedente è avvertito come presente ed esterno al quadro. Esiste infine un fattore di identificazione dell'i. nella persona drammatica: se i contenuti delle i. hanno come punto di riferimento visivo un testimone anonimo e neutro che scompare nella molteplicità di punti di vista dell'istanza narrante, e il protagonista della vicenda appare indifferentemente all'interno del quadro, si parla di i. oggettiva. Viceversa, qualora l'obiettivo della macchina da presa coincida con il punto di vista di un personaggio non visibile ma in qualche modo avvertibile nel fuori campo, si parla di i. soggettiva. L'i. soggettiva comporta un doppio processo di significazione: l'univocizzazione del punto di vista, che viene connotato emotivamente e psichicamente, e la personificazione del fuori campo. Essendo l'i. circoscritta sul versante spaziale dalla cornice del quadro visivo, e su quello temporale dagli stacchi o tagli di montaggio, essa funziona inoltre come segmento minimo significativo del 'discorso' filmico, che dà luogo a segmenti coerenti di maggiore durata e senso: diverse i. che si svolgono nello stesso spazio e nello stesso tempo formano una scena, e diverse scene conseguenti formano una sequenza (v.) di inquadrature. Qualora per passare da un'i. stabile a un'altra non intervengano tagli di montaggio, ma movimenti di macchina (v.) da presa, come gru, carrelli o panoramiche, che spostano senza stacchi la cornice e il punto di vista modificando il campo di visione e il piano della figura, si ottiene il piano-sequenza (v.), che si può considerare a tutti gli effetti una sorta di montaggio interno all'inquadratura. Va inoltre sottolineato che l'i. è determinata da una durata arbitraria: uno stesso gesto, ripreso nella sua esecuzione, può essere più rarefatto, rallentato o sospeso, viceversa più veloce, accelerato o interrotto. Sul piano della significazione, la durata implica effetti completamente differenti: il tempo non è un elemento accessorio rispetto allo spazio della visione, ma ne determina la percezione, indirizzandola sul piano emotivo (la lentezza può esprimere serenità, ma anche, in situazioni di tensione, angoscia, la velocità in genere è associata a un pericolo imminente, ma anche al sollievo). Esiste quindi un ritmo interno dell'i., dato dal rapporto tra lo spazio inquadrato e il flusso di tempo impiegato per inquadrarlo; a esso va a sovrapporsi il ritmo sonoro, che è la risultante della fusione armonica tra la colonna dei rumori, quella del dialogo e la musica. Tutti questi elementi sono attivamente implicati nell'attuale concezione di una singola i. cinematografica.

Nella definizione dell'i. vi è una rimarchevole differenza concettuale tra la nomenclatura in uso in Francia e quella diffusa negli Stati Uniti, i due Paesi che si sono contesi la paternità del cinema ai tempi della sua invenzione attraverso il brevetto degli apparecchi di ripresa: il Kinetoscope di Thomas A. Edison e il Cinématographe di Louis e Auguste Lumière. La tradizione francese distingue il processo di realizzazione dell'i. come messa in quadro (cadrage) attraverso la misura dei piani di ripresa (plan): il cadre, ovvero l'i. in quanto cornice che ritaglia lo spazio diegetico, enuclea una serie di plans, che corrispondono ai diversi piani prospettici della scena nei quali si può trovare la figura umana. Il termine di misurazione, dunque, è quello delle dimensioni della figura umana in rapporto alla cornice (il primo piano, per es., è il gros plan, piano grande, il campo lunghissimo corrisponde al plan général, piano generale). La tradizione angloamericana tende più marcatamente a individuare il processo della messa in fotogramma (framing), indicando la distanza dell'oggetto inquadrato, attraverso le cosiddette camera distances. Lo shot o take (letteralmente 'scatto' o 'ripresa'), termine fotografico di derivazione venatoria, relativo alla mira con cui 'colpire' l'oggetto, descrive il rapporto tra oggetto inquadrato e obiettivo della macchina dal punto di vista dell'operatore, piuttosto che in relazione alla cornice (per es., close-up, cioè primo piano, o long shot, cioè campo lungo).

Il termine italiano i. fonde in sé i significati di cadre come messa in quadro e plan, e dunque è più simile all'inglese shot, in quanto non scompone i due aspetti, ma li usa spesso come sinonimi. Sul finire dell'Ottocento, nei primi film a soggetto, in assenza di un montaggio narrativo, il concetto di i. equivaleva ancora a quello di immagine tout court: il piano fisso in campo totale, analogamente alla scena di un teatro filmato, disponeva di un montaggio tutto interno all'i., costituito cioè dai movimenti degli attori e dal loro rapporto con il fuori campo, usato come quinta scenica per ingressi e uscite a vista. L'i., a quel tempo, non era peraltro tecnicamente controllabile in fase di realizzazione dall'operatore: la mancanza di un mirino nella macchina da presa a manovella faceva sì che il cameraman dovesse effettuarne la centratura all'inizio, senza verificarne la giustezza in corso di ripresa. Comprendere storicamente il processo di definizione del concetto di i. significa mettere a fuoco le progressive invenzioni che hanno spostato l'uso della macchina da presa da una neutralità testimoniale improntata a una 'giusta distanza' (bonne distance) da attori e scenari, di derivazione teatrale (concezione a cui grandi artisti del cinema dei primordi, primo fra tutti Georges Méliès, rimasero legati in tutta la loro carriera), fino a un uso in funzione narrativa, in parte mutuato dalle tecniche di scrittura teatrale (per es. il primo piano come sviluppo dell'a parte sul boccascena), ma ancora di più dalla pittura, dalla fotografia e dall'arte popolare più o meno coeva del fumetto, con il quale sono state elaborate in senso drammatico le diverse distanze tra figura umana e obiettivo, i movimenti di macchina e l'angolatura. Più in generale, si può affermare che la storia delle soluzioni individuate dai registi per risolvere i problemi tecnico-espressivi dell'i. è andata a sedimentarsi di volta in volta in una sorta di grammatica filmica, rapidamente diffusasi grazie al regime estremamente concorrenziale dei produttori dei primordi, che copiavano immediatamente le nuove invenzioni dei rivali per commercializzarle a loro volta. La gran parte di questa grammatica è stata elaborata empiricamente e senza alcuna sistematizzazione nel primo decennio del cinema, quando all'espressione facciale e all'evidenza della scena era ancora affidata gran parte della trasmissione di senso del film.

Prima che la logica consequenziale del montaggio (v.) propriamente detto prendesse piede, alla fine dell'Ottocento, venivano già utilizzate diverse i. per un singolo film a soggetto, ma in genere ognuna di esse, denominata tableau (quadro, in senso pittorico), coincideva con una singola scena che rispettava le unità di spazio e di tempo, ed era per questo preceduta da un apposito cartello esplicativo: non esistevano, dunque, stacchi di montaggio a vista. Il tableau non contemplava la possibilità di un controcampo: diretto successore della rappresentazione teatrale, presupponeva al di là della macchina da presa uno sguardo complessivo da parte dello spettatore, e trattava il set come una scatola scenica, un teatro ripetibile. Solo quando, con i primi film girati all'aperto, subentrò un'istanza realistica mutuata dalla fotografia, e cioè l'esigenza che l'i. fosse estrapolata da uno spazio infinito, lo sguardo dello spettatore non fu più fisso e lo spazio diegetico si estese idealmente a 360°. In questo modo le i. variarono di distanza, diventando parti elementari di scene più complesse, il cui punto di vista non era più fisso ma, come accadeva nei fumetti, era formato da una sequenza imprecisata di punti di vista variabili a seconda di dove si voleva dirigere lo sguardo dello spettatore. Lo spazio chiuso del cinema si apriva così su un mondo ricostruito, che in un certo senso inglobava in sé anche il pubblico. Il passo decisivo verso la moderna concezione dell'i. come campionario di distanze espressive tra macchina da presa e soggetto inquadrato, di incerta paternità e difficile datazione, fu compiuto dall'introduzione antinaturalistica e autonoma del primo e primissimo piano, che comportò un processo di antropomorfizzazione dell'i., fondandola sull'accentuazione drammatica della mimica facciale. Nato come attrazione da fiera e genere a sé stante, il primo piano, diretto discendente della ritrattistica pittorica e fotografica, era presente già in protofilm come quello in cui Georges Deménÿ pronuncia la frase "je vous aime" al suo cronofotografo nel 1891, o in Fred Ott's sneeze di William K.L. Dickson, girato con il cinetoscopio nel 1894, mentre in The May Irwin-John C. Rice kiss di William Heise, celebre e scandalosa ripresa di una scena teatrale per la Vitascope di Edison del 1896, gli attori protagonisti erano tagliati in mezza figura in un'i. parziale molto ravvicinata. Qualche anno dopo, nel 1900, l'inglese George Albert Smith, ex fotografo ritrattista, si specializzò per la Warwick Trading Company di Charles Urban nel ritratto animato, con la serie Humorous facial expressions: brevi film costituiti da semplici primi piani di volti dalla mimica caricaturale esasperata, intenti in gesti comuni come fiutare tabacco o bere vino. Tra i primi cineasti a utilizzare in modo esplicitamente narrativo una continuità di montaggio tra scene differenti, mutuandola soprattutto dalla giovane arte popolare del fumetto, vi furono gli inglesi della cosiddetta scuola di Brighton (v.): se lo stesso Smith tra il 1900 e il 1901 realizzò numerosi film mescolando primi piani (allora detti magnificient views), campi totali e dettagli, il suo collega James Williamson alternò campi totali e primi piani, alcuni già in funzione di controcampo, con un procedimento che rappresenta in embrione l'idea di un montaggio narrativo. Williamson fu autore nel 1901 del film satirico A big swallow, dove appare un dettaglio della bocca del protagonista che ingoia una macchina da presa, e di Stop thief!, in cui una singola azione di fuga viene frammentata in più punti di vista montati in sequenza, nonché di Hallo, are you there?, dove per primo sperimentò la tecnica dello split screen, lo schermo diviso in più parti per mostrare contemporaneamente spazi differenti: in quest'ultimo film, due uomini che si telefonano, ripresi in piano americano, appaiono affiancati nella stessa immagine divisa in due inquadrature. Lo stesso anno Smith realizzò As seen through a telescope, dove, usando un mascherino circolare, mostrò cosa vedeva l'occhio del protagonista, realizzando una delle prime soggettive della storia del cinema.

Tra gli sperimentatori dello stacco di montaggio va incluso lo statunitense Edwin S. Porter, che realizzò per la Vitascope di Edison due film molto significativi sul piano narrativo: The life of an American fireman (1902) e The great train robbery (1903; L'assalto al treno). Se nel primo, in modo non dissimile da quanto il còrso Ferdinand Zecca sperimentò in Francia per la Pathé Frères nel 1901 con il film Histoire d'un crime, il passaggio tra scene diverse veniva assicurato da una dissolvenza incrociata fatta a mano, chiudendo e riaprendo l'obiettivo, nel secondo sono presenti raccordi a vista su diversi scenari che seguono passo passo gli spostamenti dei protagonisti nella loro fuga, costituendo vere e proprie sequenze frammentate, il cui culmine è nel celebre inserimento del primo piano del capo dei banditi che spara contro la macchina da presa, rompendo la convenzione teatrale e facendo appello a un fuori campo.

Fin dagli inizi le maggiori produzioni nazionali, la francese, la statunitense e l'inglese, si sono caratterizzate nell'impostazione dell'i., diventata una sorta di marchio di fabbrica riconoscibile. L'altezza della macchina da presa, nelle prime produzioni francesi Pathé, era per convenzione fissata innaturalmente all'altezza della vita del personaggio, e sebbene venissero già sfruttate le diagonali della scena per creare un maggiore effetto prospettico spostando l'azione su più piani, il limite della vicinanza alla macchina da presa era fissato in quattro metri per un obiettivo da 50 millimetri. Per i pionieri statunitensi, dagli operatori di Edison alla regia dei primi cortometraggi di David W. Griffith per la Biograph, l'i. per lungo tempo è stata improntata a un criterio di frontalità di volti e scenari disposti ad angolo retto rispetto all'asse ottico, alla distanza standard di un minimo di nove piedi dalla macchina da presa, e all'uso più o meno fisso della figura intera. L'uso della distanza minima comportava in entrambi i casi una certa variazione dei piani interna all'i., legata al movimento dell'attore, che variava dalla figura intera a una mezza figura. In Francia, nel celebre L'assassinat du duc de Guise (1908) di André Calmettes e Charles Le Bargy, prodotto dalla Film d'Art, i personaggi rompevano la convenzione prospettica della 'quarta parete' dando le spalle in alcune scene alla macchina da presa. In alcune produzioni americane della Vitagraph databili attorno al 1905-06, il punto di vista era rialzato fino a farlo corrispondere all'altezza degli occhi dell'operatore: visuale realistica e antiteatrale, da cui nacque gradualmente l'esigenza di diversificare e ravvicinare le riprese dei molteplici 'piani' della figura umana per ottenere maggiore accentuazione drammatica delle scene. Allo stile Vitagraph si può ricondurre la sperimentazione della variazione dell'angolo di ripresa di un unico soggetto all'interno di una stessa scena, nonché un decisivo passo avanti nella sperimentazione dell'i. soggettiva (allora definita ripresa in 'punto di vista', point of view); mentre nei film della scuola di Brighton la soggettiva era realizzata con accorgimenti come il mascherino, a simulare la visione attraverso un telescopio, un binocolo o una lente, l'intera visuale di alcune i. di film, come Back to nature (1910), è identificata con gli occhi del personaggio protagonista. Dalla centralità della figura umana nella focalizzazione dell'i. si differenziò decisamente l'impostazione panoramica e fotografica dei fratelli Lumière, che ebbe notevole influenza sulle produzioni di Film d'Art. Fin dal primo cortometraggio proiettato a Parigi nel dicembre 1895, L'arrivée d'un train en gare de La Ciotat, è notevole il modo in cui gli operatori delle vues (vedute) seppero utilizzare il movimento interno diagonale nel senso della profondità di campo, compiendo una decentratura (décadrage) che spostava il fuoco dell'azione rispetto a quello prospettico frontale, e sfruttava in maniera dinamica gli spazi vuoti in relazione al bordo del quadro di visione, con il risultato di accentuare l'aspetto di sequenzialità cronologica interna all'inquadratura. La tecnica del décadrage si andò sviluppando nel primo decennio del secolo soprattutto nelle scene di massa del cinema spettacolare ed è già evidentemente compiuta in grandi produzioni di soggetto storico come l'italiano Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone e il capolavoro di Griffith Intolerance (1916), anche se venne perfezionata al suo sommo grado nel decennio successivo dalla cinematografia sovietica, come dimostrano le scene corali dell'opera cardine Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin) di Sergej M. Ejzenštejn. In esso il maggiore effetto del décadrage consiste nell'includere nel quadro visivo una parte virtualmente appartenente al fuori campo ed estranea al fuoco attivo della scena, in modo da sviluppare diversi livelli indipendenti di azione e aumentare la sensazione di realtà in presa diretta delle immagini.Un'ultima, decisiva rottura dell'identificazione tra immagine e i. è dovuta all'introduzione dei movimenti di macchina con una specifica funzione narrativa. La panoramica, che l'operatore dei fratelli Lumière, Eugène Promio, aveva sperimentato intorno al 1897, fu utilizzata già da Zecca in una scena di La vie et la passion de Jésus Christ, L'adoration des Mages girata nel 1902, che mostra la folla dei personaggi in viaggio verso la capanna di Betlemme non con l'usuale campo totale, ma attraverso il movimento di macchina sull'asse in avanti e indietro. Tra i primi usi del carrello in funzione espressiva (G. Méliès lo usava già, ma unicamente per produrre effetti illusionistici), si annovera quello di un film del 1903 prodotto dall'American Mutoscope and Biograph Company di W.K.L. Dickson, Hooligan in jail, dove l'operatore passava dal campo totale della cella a un primo piano del prigioniero avvicinandosi gradualmente e senza soluzione di continuità. In seguito le riprese con il movimento del carrello divennero negli Stati Uniti un'attrazione a sé stante nei cosiddetti Hale's tour, che, a partire dal 1905 e fino al 1912 circa, i produttori Adolphe Zukor, Sam Warner e Carl Laemmle allestirono in sale di proiezione dotate della scenografia dell'interno di un treno, dal cui schermo-finestrino si potevano osservare vedute di paesaggi ripresi dallo scacciapietre di una locomotiva. L'utilizzazione di movimenti di macchina come la gru o il dolly fiorì lungo tutto il corso del primo decennio del Novecento e tra i suoi maggiori sperimentatori ebbe senz'altro Griffith che, a partire dal 1908, con The adventures of Dollie, girando per la Biograph al ritmo di due film alla settimana, riuscì a superare i limiti della narrazione di ingegnosi pionieri come E.S. Porter il quale, nel 1905, con The kleptomaniac, aveva introdotto nel cinema la tecnica teatrale del montaggio parallelo, destinata a una grande diffusione negli anni successivi. Griffith inserì l'i. in uno schema globale di narrazione articolata che spezzava l'unità di tempo del racconto, recuperando allo spettacolo cinematografico connotazioni retoriche e psicologiche del testo letterario come il flashback o il cut-back (il disvelamento o la ricostruzione di qualcosa accaduto prima del tempo attuale del racconto). Fondando il nesso delle i. sulle evoluzioni interiori dei personaggi piuttosto che sugli accadimenti esteriori, la macchina da presa divenne nel cinema di Griffith un elemento drammatico a sé, una presenza reale, il sostituto dell'io narrante: di conseguenza, il suo specchio concreto, la fisionomia dell'attore, prese gradualmente il sopravvento sulla mimica e sull'azione. L'i. era divenuta ormai parte di un codice di scrittura dello spazio e del tempo senza più limiti né confini, l'elemento minimo di una nuova narratività, di un nuovo linguaggio espressivo.

Nel decennio successivo la sperimentazione tecnica dell'i. perse il suo carattere episodico, e divenne oggetto di studio e insegnamento, assieme alla teoria del montaggio, nelle prime scuole di cinematografia, innanzi tutto quella della neonata Unione Sovietica. Il lavoro sperimentale portato avanti a partire dal 1919 dal regista poco più che ventenne Lev V. Kulešov in qualità di insegnante presso il GTK (Goskino Technikum) di Mosca rappresenta in questo senso una delle punte più avanzate dello sviluppo del linguaggio cinematografico. La sua riflessione fu ripresa e approfondita nei decenni successivi da Ejzenštejn, cui va il merito di aver introdotto nel cinema, con intenti didascalici e di propaganda, una forma di i. irrealistica ed eccentrica, appartenente a una logica differente da quella drammatica: l'i. metaforica o intellettuale, visualizzazione astratta dal contesto narrativo di un giudizio nella forma di paragone tra personaggi e situazioni e il loro termine di confronto con metafore popolari. Tra queste una fra le più celebri resta quella del capo della duma A.F. Kerenskij in Oktjabr′ (1927; Ottobre), la cui enfatica ascesa per le scale del palazzo è intervallata dalle i. di un pavone meccanico e di una statuetta di gesso di Napoleone. L'uso dell'i. fu sperimentato in senso simbolico tra gli altri dal danese Carl Theodor Dreyer, che nel film La passion de Jeanne d'Arc (1927; La passione di Giovanna d'Arco), durante le scene del processo, attraverso un'ossessiva alternanza tra i. dall'alto della prigioniera per mostrarne la posizione di scacco, e dal basso dei suoi giudici per sottolinearne la posizione di dominio, riuscì a rendere tutta la drammaticità del rapporto vittima-carnefice con la semplice variazione dell'angolo di ripresa. Negli stessi anni, in Germania, Friedrich Wilhelm Murnau approfondiva sul versante più visionario, secondo un'estetica assimilabile a quella del movimento espressionista, l'uso dell'i. soggettiva come proiezione degli stati d'animo sulla realtà. Nel film Der letzte Mann (1924; L'ultima risata), la celebre 'macchina ubriaca', il punto di vista fluttuante e sconnesso con cui venivano inquadrati scenari e oggetti, riuscì a esprimere in modo inedito lo stato di alterazione ed ebbrezza del disperato protagonista. I cineasti francesi della prima avanguardia, da taluni critici definita impressionista (v. impressionismo), per concretizzare in immagine i flussi di pensiero, le fantasie e gli stati d'animo dei protagonisti, furono tra i primi a dare un impulso artistico alle possibilità di deformazione dell'i. attraverso tecniche già in uso da tempo come il movimento rallentato, le sovrimpressioni e i punti di vista anomali. A testimoniarlo furono film di grande impatto visivo come La souriante madame Beudet (1923) diretto da Germaine Dulac, L'affiche (1926) e La chute de la maison Usher (1928) di Jean Epstein, o Feu Mathias Pascal (1925; Il fu Mattia Pascal) di Marcel L'Herbier. Tra gli esperimenti di maggiore rilievo di quell'ondata nazionale va ricordato quello compiuto in Napoléon (1927; Napoleone) da Abel Gance, che, realizzando la soggettiva di un oggetto inanimato in movimento, la palla di neve scagliata per gioco da Napoleone bambino, aprì la strada all'uso della cosiddetta i. immaginaria, ovvero impossibile da sperimentare da parte dell'osservatore umano a cui si riferisce l'istanza narrante, stratagemma spettacolare ed estetizzante che avrà larga diffusione nei decenni successivi, con i. quali la prospettiva a volo d'uccello, rasoterra ecc. Nel 1941, con il suo film d'esordio Citizen Kane (Quarto potere), lo statunitense Orson Welles recuperò una tecnica ampiamente diffusa già negli anni Dieci e attraverso speciali obiettivi ad ampia focale riuscì a sfruttare la profondità di campo mettendo a fuoco contemporaneamente più piani dell'i., dunque di fatto, a creare un'i. dove l'azione multipla dà luogo a più narrazioni simultanee. Lo si nota con chiarezza nella scena dell'affidamento del piccolo protagonista Charles Foster Kane dai genitori a un tutore, in cui alle immagini dei personaggi adulti che parlano in piano avanzato fanno da contrappunto quelle del bambino che gioca ignaro sullo sfondo dell'i., oltre la cornice di una finestra, incidendo drammaticamente sul senso del dialogo.

Un discorso a parte richiede la specificità dell'uso dell'i. nel cinema orientale, caratterizzato da una composizione essenziale e geometrica, in modo particolare quello giapponese. In diversi film di Ozu Yasujirō, per es., la macchina da presa è posta a una minima distanza da terra, la cosiddetta altezza del tatami, il tappeto da cerimonia o da combattimento, in modo da poter riprendere i personaggi, nei film del regista spesso seduti attorno a un tavolo o in terra, in asse rispetto al loro punto di vista o inquadrare i controcampi ed effettuare movimenti di macchina dalla loro stessa prospettiva, in funzione di un'unità stilistica ed espressiva.

Fin dai primordi il limite spaziale e temporale dell'i. classica ha rappresentato una sfida aperta per molti cineasti. Sul finire dell'Ottocento, Raoul Grimoin-Sanson inventò il cinéorama, una complessa apparecchiatura di ripresa multipla, costituita da dieci cineprese disposte a raggiera su un pallone aerostatico. Il risultato dell'esperimento fu presentato all'Esposizione universale di Parigi nel 1900, in un apposito spazio di proiezione a 360°, dove dieci proiettori spandevano le immagini su un'enorme parete circolare che fungeva da schermo. Nel già citato Napoléon, un quarto di secolo dopo, estremizzando l'idea del décadrage, Gance aveva concepito il film per una proiezione multischermica a 180°, in grado di avvolgere e scioccare il pubblico durante le scene di massa delle battaglie. Nel 1936, negli Stati Uniti, la casa di produzione Warner Bros. presentò i primi esperimenti di cinema tridimensionale o stereoscopico, che si basavano sull'impiego di occhiali dalle lenti colorate (per l'occhio sinistro verde, per il destro rossa), con i quali gli spettatori potevano ricomporre immagini proiettate in modo leggermente sdoppiato sullo schermo. Nel tentativo di superare lo schiacciamento bidimensionale dell'i., vari sistemi di cinema 3D si sarebbero succeduti in modo piuttosto insoddisfacente nel secondo dopoguerra. Sul versante opposto, quello dello svuotamento spettacolare, il cinema d'autore più radicale degli anni Cinquanta e Sessanta, in particolar modo quello delle diverse 'nuove ondate' nazionali, ha trattato lo spazio filmico utilizzando sovente lunghissimi piani-sequenza che mettevano in discussione il concetto di segmentazione narrativa proprio dell'i. come messa in quadro definitiva. Autori radicali e dal gusto ascetico, come Ozu, Robert Bresson e Michelangelo Antonioni, hanno adottato in funzione drammatica i. improprie, prima fra tutte il campo vuoto, ovvero la scena priva della presenza di piani con figure umane. Il cinema sperimentale del dopoguerra, invece, ha teso soprattutto a forzare i limiti cronologici dell'inquadratura. Tra gli esperimenti più estremi del cinema underground statunitense, volti ad attentare alla presunta necessaria spettacolarità del mezzo cinematografico, vanno ricordate almeno le provocazioni percettive dell'artista newyorkese di origine ceca Andy Warhol: Empire (1964), costituito da un'unica i. fissa di otto ore di durata del grattacielo dell'Empire State Building e dei contemporanei micro-eventi atmosferici, che ha restituito l'i. alla sua natura fotografica primigenia, e The Chelsea girls (1967), che riprende la tecnica dello split screen estendendola all'intera durata del film, con il risultato di creare un doppio film in due quadri paralleli, a volte tra loro intercomunicanti, da proiettare contemporaneamente su un unico schermo. In questo senso, uno degli esperimenti più riusciti è senz'altro quello di Michael Snow, canadese trapiantato a New York, che in Wavelength (1967) ha esasperato l'importanza del movimento come unica fonte di percezione del tempo nell'immagine. Il film consiste di un solo, lentissimo zoom che, partendo da un campo totale, per quarantacinque minuti attraversa lo spazio di una grande stanza, avvicinando progressivamente una fotografia che mostra un dettaglio di onde marine, ed è appesa a una parete, tra due grandi finestre, oltre le quali si vede scorrere la vita quotidiana della strada cittadina.In conclusione, la tecnologia digitale (v. digitale, cinema), introdotta nel cinema dagli anni Ottanta del 20° sec., in teoria ha reso possibile la modificazione integrale in postproduzione dell'i., permettendo la manipolazione di tutti i parametri visivi e sonori dell'immagine registrata. Ciononostante, finanche quando integralmente ricostruita o manipolata digitalmente, l'i. cinematografica non ha mutato nella sostanza l'impostazione precipua della 'messa in quadro', la sua funzione linguistica di unità minima narrativa ed espressiva.

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L. Kulešov, L'art du cinéma et autres écrits, Lausanne 1994.

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