Intenzionalità

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Intenzionalità

Giuseppe Mininni

Il concetto di intenzionalità può essere compreso secondo molteplici percorsi (Lyons 1995), accomunati, però, da uno spostamento di senso che va dal concreto all'astratto e dal particolare al generale. L'i. è la qualità dell'essere intenzionale, e in quanto tale valorizza il 'fatto' che la maggior parte delle condotte animali appare direzionata, orientata a uno scopo. Nel caso dell'uomo, queste condotte vengono descritte come incardinate su un''intenzione'. In effetti, il mondo fisico e sociale in cui l'organismo umano conduce la sua esistenza si pone come matrice di attività orientate. Ogniqualvolta l'organismo umano si rivela in relazione con il mondo attiva proprio questa modalità generale di funzionamento della mente: l'intenzionalità. Tale capacità psicologica è evidenziabile sia come proprietà della coscienza, sia come schema della rappresentazione segnica (riferimento o aboutness) con cui opera la mente. Inoltre, se viene intesa riflessivamente, cioè come proprietà inerente all'essere soggetto nel mondo, l'i. emerge come tratto che specifica il racconto di sé con cui ogni agente umano - individuale e sociale - si assegna la sua mobile identità. Grazie all'i., l'uomo si sperimenta come un essere capace di costruire oggetti verso cui indirizzare il suo impegno conoscitivo (oltre che produttivo). Definire la relazione uomo-mondo in termini di i. è il modo più ricorrente di sottolineare il carattere aperto e creativo della presenza umana nel mondo.

Contesti operativi dell'intenzionalità

Nel linguaggio ordinario il termine intenzionalità ricorre con maggiore frequenza e pregnanza di senso nei contesti giuridici, allorché si tratta di stabilire la natura premeditata degli atti imputati ai soggetti. Infatti, almeno nel sistema delle società occidentali, l'i. è anzitutto la qualità che assegna un preciso valore morale alle azioni. Di conseguenza, le persone possono e/o debbono (e di solito vogliono) essere ritenute capaci di portare il peso delle conseguenze connesse solo alle loro azioni intenzionali, perché in esse impegnano la loro pretesa di libero arbitrio.

Se un poliziotto uccide un passante capitato per caso sulla traiettoria di un proiettile destinato a un pericoloso criminale, verrà punito molto meno severamente del criminale che orienta il suo proiettile su un passante per costringere il poliziotto a occuparsene, così da sfuggirgli. L'azione di premere il grilletto è la stessa, il fine perseguito è diverso. L'esperienza della morte fatta dal passante non discrimina tra proiettile 'intenzionale' e 'preterintenzionale', perché tale evento è l'effetto di processi che si svolgono sul piano fisico. La ricostruzione del fatto operata dagli organi inquirenti - attraverso criteri socialmente pattuiti, come i resoconti di testimoni, le dichiarazioni giurate, le confessioni, le prove balistiche, le videoregistrazioni ecc. - è interessata invece proprio alle differenze che, sul piano psicologico, sono riconducibili al tracciato di i. operante in quell'azione. Per interpretare che cosa intendono fare il poliziotto e il criminale mentre premono il grilletto, dobbiamo far ricorso a canoni intersoggettivamente validi, capaci di sondare le ragioni che innescano l'azione, per cui siamo in grado di stabilire una diversa configurazione per lo stesso stato intenzionale: mentre il poliziotto crede di star seguendo la regola che sottende la sua funzione di difesa sociale e personale, il criminale crede di essere costretto a violare qualsiasi regola nell'intento di procurarsi una via di fuga.

L'esempio chiarisce la portata pratica e il radicamento psicologico dell'i.: noi siamo interessati a riconoscere quali intenzioni hanno gli altri in ciò che fanno, e a rendere per loro comprensibili (e accettabili) le nostre in ciò che facciamo. Un primo livello di problematicità risiede dunque nel carattere finalizzato del funzionamento psicologico, radicato com'è nel fatto che le attività pratiche degli esseri dotati di mente, essendo orientate a obiettivi e mete, sono organizzate da 'piani' (Miller, Galanter, Pribram 1960).

L'intenzionalità come perno della psicologia filosofica: Franz Brentano

La dimensione intenzionale dell'attività rende trasparente alla superficie dei vari tipi di condotta umana il tratto di i. che marca la struttura profonda della mente. Ecco perché il tema dell'i. ritorna in tutte le questioni intricate che vertono sull'autocomprensione che l'uomo propone di se stesso: qual è la natura della conoscenza? In che modo la mente si rapporta al mondo? Che tipo di relazione la mente stabilisce con il cervello quale suo sostrato biologico? Che nesso si dà tra la caratteristica intenzionale della mente e la sfera (sociale) del significare? Sono legittime le implicazioni che dall'i. si traggono per attribuire responsabilità agli agenti sociali? Questo genere di interrogativi alimenta una vasta area di ricerche e di riflessioni afferenti alla 'psicologia filosofica', recentemente divenuta di moda con l'etichetta di philosophy of mind, per cui l'i. indica il punto di articolazione tra filosofia e scienza cognitiva nella moderna riflessione sull'uomo.

Il primo momento di massima esplicitazione di tale nesso è ravvisabile nella proposta di Brentano di porre nella nozione di i. la matrice teorica capace di generare la "psicologia da un punto di vista empirico" (Brentano 1874). Ecco come l'ex sacerdote cattolico e insigne filosofo viennese riassume la sua proposta: "Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medioevali chiamarono l'in/esistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto, e che noi, anche se con espressioni non del tutto prive di ambiguità, vorremmo definire il riferimento a un contenuto, la direzione verso un obietto (che non va inteso come una realtà), ovvero l'oggettività immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, anche se non ciascuno nello stesso modo. Nella presentazione qualcosa è presentato, nel giudizio qualcosa viene o accettato o rifiutato, nell'amore qualcosa viene amato, nell'odio odiato, nel desiderio desiderato, ecc." (Brentano 1874; trad. it. 1997, 1° vol., pp. 164-66).

Questa famosa affermazione di Brentano è estremamente densa, perché, oltre a recuperare le origini storiche del termine, esibisce avviluppate insieme le due basilari problematiche relative all'i., la cui messa a fuoco scandirà i successivi posizionamenti di E. Husserl rispetto a Brentano e di M. Heidegger rispetto a Husserl. Nell'i. sembrano trovare risposta sia la questione psicologica (che cosa differenzia i fenomeni psichici da altri tipi di fenomeni?), sia la questione ontologica (che tipo di realtà istanziano i fenomeni psichici?).

Il tema dell'i. era stato ampiamente discusso nella Scolastica dei secoli 13° e 14°, con particolare attenzione al valore intenzionale delle rappresentazioni mentali attraverso le quali il soggetto 'tende' all'oggetto rappresentato (intendit in rem). Brentano trasferisce sul piano psicologico le indagini sull'i.: un'indagine sulle forme di costituzione del soggetto diventa possibile in base all'analisi delle "strutture dell'intenzionalità" (Peruzzi 1988), da cui risulta che le funzioni psichiche operano nella necessità di avere ognuna un oggetto in modo proprio. Il carattere intenzionale dei fenomeni psichici autorizza una scienza psicologica in quanto indagine sull'esperienza che l'uomo fa di sé come produttore di atti (oltre che di azioni). Per far fronte alla natura attuale dell'esperienza umana del mondo e di sé, occorre una psicologia descrittiva, a priori e pura, comunque sottratta ai riduzionismi incombenti sulla nascente (e vincente) psicologia fisiologica e sperimentale.

A Brentano si ispirarono non solo la fenomenologia e l'esistenzialismo in filosofia, ma anche tutte quelle correnti della psicologia scientifica - dalla scuola austriaca a quella di Würzburg (O. Külpe), fino alla Gestalttheorie - che ritennero subito eccessivamente restrittivo l'orizzonte del laboratorio di Leipzig allestito da W. Wundt. Filtrate dai suoi allievi (tra cui spiccano i nomi di C. Stumpf, Ch. von Ehrenfels e S. Freud), le idee di Brentano ebbero ampia risonanza anche in Italia, soprattutto a Firenze, dove peraltro il filosofo viennese soggiornò a lungo, contribuendo a determinare (attraverso F. De Sarlo) il clima di accoglienza della psicologia nel panorama culturale dell'epoca (Giannetti 1977). Il valore del gesto di Brentano fu acutamente colto da K. Bühler allorché, descrivendo le condizioni di una prima 'crisi della psicologia', rilevava: "Costituisce il merito imperituro di Franz Brentano l'aver concettualmente afferrato con precisione e valorizzato come si deve il carattere dell'intenzionalità, dell'indicatività, dell'essere-dirette-a, dell'essere-relative-a delle esperienze" (Bühler 1927; trad. it. 1978, p. 82).

L'intenzionalità come vettore della coscienza

Risalire a Brentano, rievocandone la dottrina dell'i., è un gesto teorico ricorrente nel pensiero filosofico e psicologico del Novecento. Il suo valore argomentativo consiste nell'indicare un orizzonte di senso tale da respingere il monismo materialista e il riduzionismo del vocabolario della psicologia all'unico linguaggio estensionale delle proposizioni della scienza fisica. La riscoperta dell'i. annoda problematiche di natura epistemologica e metodologica sulla consistenza della psicologia come sapere scientifico sull'uomo, che necessariamente si articola con altri universi di discorso rilevanti per l'esperienza umana del mondo (l'etica, il diritto, la politica). Il nocciolo della questione può essere visto nell'alternativa radicale che si pone tra causalità (fisica) e i. (psicologica). L'opposizione così istituita segnala come possa mutare il contesto argomentativo in cui ci si interroga sul valore delle teorie e sul senso delle operazioni scientifiche che si compiono, giacché sono soggette a logiche deontiche differenti (necessità versus possibilità). Ipotizzare che tra due fenomeni vi sia un legame di causa-effetto significa ammettere che l'uno contenga le condizioni di determinazione (necessaria) dell'altro. Per contro, ipotizzare che tra due fenomeni vi sia un nesso di intenzione-risultato significa riconoscere che l'uno esibisce le condizioni di interpretazione (possibile) dell'altro.

Il primo a 'tornare a Brentano' è, naturalmente, il suo allievo più importante, Husserl, il cui progetto di fenomenologia mira a sottrarre il "mondo della vita" umana ai vincoli troppo restrittivi posti dal positivismo. Husserl dà alla caratteristica intenzionale dei fenomeni psichici proposta da Brentano uno spessore metodologico radicale, così da illuminare tutta la complessa trama dell'esperienza di sé accessibile all'uomo. Husserl indaga l'i. come proprietà costitutiva della coscienza. Egli osserva che, per essere coscienti, occorre che ci si diano degli oggetti: non può esserci coscienza senza che qualcosa la informi di sé. Gli atti, o i modi, in cui gli oggetti si offrono alla coscienza la definiscono come 'coscienza di', cioè le assegnano la sua natura intenzionale. Questa dinamica relazionale tra i modi della coscienza e i suoi oggetti è tale da conservare loro un'invalicabile distanza, per cui la coscienza non può essere mai oggettivata in una parte del mondo e tutto ciò che nel mondo può essere oggetto di coscienza le rimane trascendente. Gli oggetti della coscienza non si esauriscono nel 'senso' che essi ricevono dal nostro percepirli, concettualizzarli, appetirli, valorizzarli in un certo modo. L'essenza dell'i. consiste nel rendere possibili i fenomeni della coscienza quali processi di attribuzione di senso, senza però mai bloccarli in ruoli reificati (Smith, McIntyre 1982). La corrente delle esperienze vissute che trascolora in coscienza del mondo ci proietta verso nuovi compiti: noi siamo sempre intenti verso qualcosa che ci sfugge.

Il carattere intenzionale della coscienza è anche il nesso basilare che aggancia la fenomenologia all'esistenzialismo, l'altra corrente della cultura filosofica sviluppatasi nei primi decenni del 20° sec. a opera di Heidegger, uno dei più acuti allievi di Husserl. Una radice del disaccordo tra questi giganti del pensiero filosofico del Novecento è proprio nell'interpretazione dell'i. quale carattere originario o meno dell'essere umano (Hopkins 1993). In ogni caso, nell'interpretazione filosofica dell'i. quale tratto definitorio della mente umana, il riferimento quasi esclusivo è alla dinamica tra coscienza e autocoscienza.

L'intenzionalità come tratto metalinguistico del mentale

Nell'apparato concettuale delineato dalla psicologia filosofica, l'i. è quella dimensione relazionale per cui il fenomeno psichico non è autoreferenziale, ma 'trascendente': ogni manifestazione del mentale mette in atto uno schema di riferimento ad altro da sé. L'i. mostra la mente come una procedura che co-struttura un soggetto e un oggetto in relazione. I processi mentali - come 'credere', 'aspettarsi', 'desiderare', 'immaginare' - attivano 'stati intenzionali' in quanto sono sempre intorno a qualcosa. Tutti i contenuti mentali sono intenzionali perché sono incardinati su una relazione (soggetto-oggetto), che si pone come schematismo fondamentale espresso dalla metafora dell'opposizione interno versus esterno. Infatti, la mente può occuparsi di oggetti non esistenti, non localizzabili esternamente, a cominciare dalle allucinazioni o anche solo dai sogni fino alla fiction letteraria e all'utopia politica. Che tipo di 'realtà' possiamo attribuire agli oggetti rappresentati nella mente? Una realtà di natura intensionale, cioè corrispondente al suo 'senso' (Sinn), che - come chiarì G. Frege (1892) - "denota il modo in cui quell'oggetto ci viene dato" e non coincide col suo significato referenziale o denotativo (Bedeutung). Pertanto, l'i. caratterizza la mente sia come procedura che come esito: opera intenzionalmente e produce oggetti intensionali. Tra gli oggetti intensionali prodotti dalla mente spiccano gli schemi cognitivi (o concetti) attivati dai significanti linguistici. In tal modo l'i. della mente si intreccia alla 'intensionalità' del linguaggio.

Invero il nodo dell'i. sembra potersi sciogliere quando viene interpretato secondo i principi propri della filosofia analitica o, più in generale, della filosofia linguistica (Intentionality 1973). Infatti, in questa nuova chiave di lettura, la questione viene posta in termini di alternativa radicale, come risulta da una celebre discussione che coinvolse alcuni ambienti filosofici statunitensi tra gli anni Cinquanta e Sessanta (Rosenthal 1968), allorché la critica al comportamentismo in psicologia (e al neopositivismo logico che lo giustificava sul piano epistemologico) favorì quel nuovo orientamento razionalistico che avrebbe poi imposto il paradigma cognitivista nelle scienze umane. Il primo a proporre delle coordinate linguistiche per l'i. è R. Chisholm, il quale sostiene che se - come sembra accertato - la semiotica non può fare a meno di ricorrere al 'mentalese', è perché ogni uso di segni presuppone qualche stato intenzionale (Chisholm 1952 e 1967). In tal modo si ritiene di poter salvaguardare l'autonomia del pensiero umano dalla morsa mortale del comportamentismo filosofico, anche a costo di autorizzare qualche versione aggiornata del dualismo cartesiano, già confutato in molti modi (Ryle 1949). La posizione di Chisholm viene discussa criticamente da W. Sellars, il quale tenta di proporre "una soluzione semantica del problema mente-corpo", sostenendo che l'i. del mentale è una traduzione interiorizzata (e quindi derivata) di una i. ascrivibile al metalinguaggio della socializzazione, grazie al quale l'organismo biologico diventa una persona umana (Sellars 1953). L'argomento di Sellars potrebbe riassumersi in un aforisma: siamo costretti a ricorrere al 'mentalese', cioè a inquadrare il significato come un fenomeno mentale, perché il fenomeno mentale è nel significare (Sellars 1964; per un inquadramento psicosemiotico dell'i., Mininni 1982).

Anche negli ultimi decenni del Novecento la riscoperta dell'i. ha rappresentato la via maestra di ogni 'ritorno alla coscienza'. Negli anni Ottanta l'arma dell'i. viene brandita da quanti, nell'ambito della philosophy of mind, cercano una via d'uscita dalle pastoie della prevalente teoria dell'identità mente-cervello (P.M. Churchland, P.S. Churchland 1981). L'ipotesi guida che sembra autorizzare tale paradigma, sostenuto principalmente dai filosofi australiani J.J. Smart e D.M. Armstrong, stabilisce che se gli stati mentali accadono 'nel cranio', non sono distinguibili dagli stati neurocerebrali (Gava 1994). Per contrastare tale materialismo identista, si tende a far valere l'i. quale tratto che caratterizzerebbe gli eventi mentali all'interno di quelli fisici. L'apparato concettuale in cui viene affrontato il mind-body-problem si avvale delle ricerche di intelligenza artificiale e delle neuroscienze, e ne mutua il tentativo di mitigare lo sciovinismo antropologico che sembra connaturato alla psicologia filosofica (Parisi 1989). Le varie interpretazioni della metafora computerologica (L'automa spirituale 1991) dipendono anche dalla diversa focalizzazione che riceve la riscoperta dell'i., alla quale si richiamano esplicitamente, ma con esiti divergenti, sia l'approccio 'funzionalista' di D.C. Dennett che l'impostazione 'emergentista' di J.R. Searle.

Invero "l'ultima roccaforte del mistero, la mente umana" non può essere recintata dall'attribuzione di i., perché questa è una proprietà sia degli organismi che dei sistemi fisici (per es., un computer provvisto di un software per giocare a scacchi). Dennett attribuisce un 'atteggiamento intenzionale' a qualsiasi sistema, organico o meno, il cui comportamento sia spiegabile e/o prevedibile in base a credenze, desideri, intenzioni (Dennett 1987). Le menti degli animali (e delle persone) e i software dei computer funzionano come sistemi intenzionali. L'analogia mente-computer si regge sull'ipotesi che questa nuova tecnologia della conoscenza e della comunicazione umana, fornendoci un modello di come funzionano tutti i sistemi intenzionali, ci consenta di "spiegare la coscienza" (Dennett 1991).

Il computer è sì un manipolatore di rappresentazioni evidentemente privo di mente, ma è capace di simulare quest'ultima. Infatti, le strutture di dati operanti nei software sono "rappresentazioni autocomprendentisi", per cui possiamo bloccare il regresso all'infinito implicito nella tradizionale teoria degli 'omuncoli' quali entità interne cui attribuire l'uso delle rappresentazioni. La posizione di Dennett comporta almeno due sviluppi per la teoria dell'i., giacché la mente viene sganciata dalla biologia e dotata di una 'prospettiva in terza persona'. Infatti, se l'intelligenza umana e tutti gli stati mentali sono come dei programmi di computer, con caratteristiche non dipendenti dal supporto biologico, allora la mente può essere implementata sia nel cervello che in qualsiasi altro hardware compatibile con l'i. di quella. Inoltre, se la mente opera come un computer, l'uomo può abbandonare la pretesa di essere un 'Io', per descriversi solo come un 'Ciò', in quanto - per dirlo con Eco - il suo 'dentro' è fatto dello stesso materiale del suo 'fuori': simboli, o per meglio dire, 'espressioni' (Eco 1990, p. 323). L'errore filosofico denunciato da Searle (1991) in quest'interpretazione forte dell'analogia cervello/computer risiede proprio nell'attribuzione metaforica dell'i. a mezzi meccanici (Fornero 1994, p. 544). Il fascino del metodo eterofenomenologico proposto da Dennett (1982, p. 39) scaturisce dalla sua volontà dichiarata di sostituire le metafore tradizionali con un nuovo schieramento di analogie: la coscienza non risiede più in un 'grande concettualizzatore', ma in una serie di 'bozze multiple' che vengono continuamente riviste.

Senza dubbio va riconosciuto a Searle il merito di aver fornito il contributo più ampio e sistematico all'approfondimento dell'i. all'interno della recente philosophy of mind (Searle 1983). Se si adotta "un approccio non ontologico" all'intenzionalità (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 25), allora la forma umana di i. non fa che specificare una "più biologicamente fondamentale capacità della mente (o del cervello) di porre in relazione l'organismo con il mondo" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 7). Quando l'organismo vivente si rapporta al mondo, il suo cervello/mente si dispone necessariamente in certi stati intenzionali, etichettabili come 'azione', 'credenza', 'desiderio', 'aspettativa' ecc. Per spiegare la natura generale di tali stati intenzionali, Searle sviluppa il suo argomento su due versanti: quello euristico-pedagogico e quello logico. Se vogliamo illustrare che cos'è l'i., ci torna utile vederla all'opera soprattutto nel linguaggio. Da un punto di vista logico, però, il linguaggio funziona (cioè ci consente di agire da uomini) perché ha una base intenzionale. Il contributo di Searle può apparire circolare in quanto mira a "spiegare l'intenzionalità in termini di linguaggio" e a "spiegare il linguaggio in termini di intenzionalità" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 15), ma tale impressione è dovuta all'ambivalenza del termine spiegare che, nel primo caso, significa illustrare, chiarire (versante pedagogico), nel secondo, invece, significa risolvere, ricondurre (versante logico). L'i. del mentale si esprime al meglio nel linguaggio, ma non può partire dal linguaggio, perché altrimenti saremmo costretti a escludere ogni vita mentale nei soggetti prelinguistici (animali, bambini).

Searle usa la sua teoria degli "atti linguistici" come modello esplicativo degli stati intenzionali. Si possono, infatti, registrare le seguenti affinità. 1) Come negli atti linguistici distinguiamo tra forza illocutoria (prometto, giuro, ordino, consiglio, suggerisco) e contenuto proposizionale (che tu venga qui), così negli stati intenzionali possiamo distinguere tra modo psicologico (credenza, desiderio) e contenuti rappresentativi. 2) Sia gli atti linguistici che gli stati intenzionali possono avere due diverse direzioni di adattamento: quando io affermo qualcosa, è la mia parola che si adatta al mondo e i valori di verità/falsità esprimono tale corrispondenza; quando invece prometto qualcosa, mi impegno affinché il mondo convalidi la mia promessa. Analogamente, nella mia 'credenza che p', la relazione di i. va dalla mente al mondo (tant'è vero che se la credenza è inadatta, la cambio), mentre, nel mio 'desiderio che q', la relazione di i. va dal mondo alla mente: io cerco di far sì che la realtà si adatti al contenuto del mio desiderio. 3) Sia agli atti linguistici che agli stati intenzionali si applicano le nozioni di "condizione di sincerità" e "condizioni di soddisfazione".

Per spiegare questa radicale affinità tra atto linguistico e stato mentale, bisogna far ricorso alla nozione "sufficientemente vaga" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 21) di rappresentazione. Atti linguistici e stati intenzionali rappresentano oggetti e stati di cose, in quanto entrambi hanno contenuti proposizionali che determinano le condizioni di soddisfazione e la direzione di adattamento. Già biologicamente parlando, le forme primarie di i., e cioè percezione e azione, esigono una dinamica esplicativa che non si opponga alla causazione. Tra logica della causalità e principio di i. non si dà esclusione reciproca, ma embricazione. Proprio la relazione di "causazione intenzionale" consente di risolvere il problema mente-corpo in una pluralità di livelli, per cui "gli stati mentali sono sia causati dalle operazioni del cervello che realizzati nelle strutture del cervello" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 266).

Searle riconosce che la sua teoria dell'i. poggia sulle nozioni olistiche di rete e sfondo. Infatti, "i contenuti intenzionali non determinano le proprie condizioni di soddisfazione isolatamente", ma "sono internamente collegati in modo olistico agli altri contenuti intenzionali (la rete) e alle capacità non-rappresentazionali (lo sfondo)" (Searle 1983; trad. it. 1985, pp. 71-2). L'esperienza di 'credere p' può essere soddisfatta in un certo modo, definito dal suo posizionarsi all'interno di una serie di altri stati intenzionali possibili ('sperare q', 'temere z', 'affermare x' ecc.) e su uno sfondo di abilità non rappresentazionali.

Searle puntella la sua teoria dell'i. con la nozione tanto promettente quanto problematica di 'sfondo', che "non è un insieme di cose né un insieme di misteriose relazioni tra noi e le cose; è piuttosto semplicemente un insieme di capacità, di posizioni, di assunzioni e presupposizioni preintenzionali, pratiche e abitudini. E tutto ciò, per quello che ne so, viene realizzato nei cervelli e nei corpi umani. Non c'è nulla che riguardi lo Sfondo che sia in qualche modo 'trascendentale' o 'metafisico'" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 158). Per poter svolgere la sua "funzione principale, che è quella di rappresentare", la mente deve configurarsi nel formato dell'i., che però presuppone uno sfondo mentale pre-rappresentazionale: "Come precondizione dell'intenzionalità, lo Sfondo è tanto invisibile all'intenzionalità quanto l'occhio che vede è invisibile a se stesso" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 160). È significativo che gli argomenti a favore dell'ipotesi dello sfondo siano tratti dall'analisi della comprensione del significato letterale e metaforico, oltre che dalla distinzione ben chiarita dalla psicologia cognitivista tra processi automatici e processi controllati nell'esecuzione di abilità fisiche.

La teoria naturalistica di Searle pretende di giustificare il rapporto di derivazione logica che va dall'i. del mentale all'i. del linguistico. Per Searle, la mente ha una forma di i. intrinseca, il significato (linguistico) ha una forma di i. derivata. La storia biologico-evolutiva non solo comporta "un ordine di priorità nello sviluppo dei fenomeni intenzionali", per cui le specie viventi si differenziano per il grado di complessità delle loro operazioni mentali - dalla percezione sensoriale alla consapevolezza di avere un linguaggio -, ma autorizza una spiegazione logica, in base alla quale si dà che "certe nozioni semantiche fondamentali, come il significato, siano analizzabili in termini di nozioni psicologiche ancora più fondamentali, come credenza, desiderio e intenzione" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 166).

A sostegno di tale ipotesi Searle fa valere l'apparato concettuale elaborato da P.H. Grice, il quale, nella struttura delle "intenzioni significanti", scinde le "intenzioni di rappresentare" dalle "intenzioni di comunicare" (Grice 1957). La distinzione tra significato naturale dell'enunciato e significato non naturale dell'enunciatore chiarisce che il significato linguistico è costruito su una duplice traccia di i., giacché rappresenta (rinvia a, contiene) uno stato intenzionale e nello stesso tempo intende essere riconosciuto come tale dall'altro (se, nella comunicazione, lo comprende).

L'introduzione dell'i. comunicativa arricchisce ulteriormente il quadro, perché immette come necessari i riferimenti a procedure di convenzionalizzazione del senso. Dovendo essere comunicabile, il tipo di i. inerente al significato linguistico finisce per non essere del tutto localizzabile 'nella testa', ma fa intravedere uno spazio di costituzione 'tra le teste'. È lo stesso Searle ad affrontare la questione nei termini di "intenzionalità collettiva" (we-intentions): una forma elementare di i. che non si esaurisce in una somma dei comportamenti intensionali individuali, ma organizza il rapporto tra l'intenzione-in-azione individuale e l'intenzione-in-azione collettiva secondo lo schema mezzo-scopo e sulla base di un senso pre-intenzionale dell'altro: occorre che Jones versi la salsa e Smith la mescoli perché entrambi preparino il sugo (Searle 1990).

L'intenzionalità come trama culturale dell'interpretante

Per Searle, l'i. è la porta attraverso cui il biologico accede allo psicologico, ma è pur sempre "un fenomeno biologico ed è parte del mondo naturale" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 232). Il doppio versante del suo argomento consente a Searle di chiarire la mente intenzionale in base al suo modo di funzionare nell'interazione verbale e, nel contempo, di derivare il significato sociale della lingua dall'organizzazione biologica individuale. Ma l'i. può essere vista anche come la porta attraverso cui il culturale si apre sullo psicologico. L'"enigma della mente" (Moravia 1986) può trovare una soluzione non mentalistica, tale però da potersi ancora avvalere del valore euristico dell'i., se questa pararelazione viene intesa come schema di riferimento della persona umana alla cultura che la fa essere tale.

Il legame misterioso tra mente e linguaggio, sondato da secoli di riflessioni, si dà a vedere nel comune tratto dell'intenzionalità. Se affrontiamo pragmaticamente l'analisi di quel nesso, siamo costretti a riconoscere che la mente-in-azione-in-contesto diventa 'persona' e il linguaggio-in-azione-in-contesto diventa 'discorso'. La psicologia discorsiva (Harré, Gillett 1994), basata sui principi dell'etnometodologia e dell'analisi conversazionale, considera la trattazione filosofica dell'i. come uno pseudoproblema (Edwards 1997, pp. 94-6). I temi dell'attribuzione di intenzioni, casualità, premeditazione, deliberazione hanno rilevanza programmatica nell'organizzazione delle pratiche di resoconto (Jayyusi 1993, p. 443) con cui gli uomini (e le donne) storicamente determinati ricostruiscono il loro mondo di riferimento comune. Invece di accanirsi nelle distorsioni di una teoria generale dei nessi tra persone, pensieri e azioni (linguistiche), conviene evidenziare la gestione retorica dell'intenzionalità (Edwards 1997, p. 91) nei giochi di azione comunicativa praticabili dalle persone che condividono un orizzonte di senso. È all'interno di una determinata cultura che l'i. diventa una delle sette 'condizioni di testualità' (de Beaugrande, Dressler 1981): infatti, ogni unità effettiva di uso della lingua funziona da segno in una pratica comunicativa se rende trasparente la trama di intenzioni propria dell'enunciatore. Quando i soggetti come persone (siano esse vittime o colpevoli, o comunque testimoni di un ordito culturale) si mettono in discorso, fanno valere la loro i. come modello interpretativo nella costruzione del mondo. I discorsi, i testi-in-interazione in cui gli uomini si impegnano, mostrano che lo schema di riferimento (aboutness) attivato dall'i. non è direzionato solo dal representamen all'oggetto, ma coinvolge anche la relazione representamen-interpretante (Peirce 1980).

La semiotica trirelativa di Ch.S. Peirce può chiarire l'intricata rete di relazioni che si schiudono nella forma umana dell'intenzionalità. Il fenomeno mentale assume la caratteristica dell'i. umana perché rivela all'opera il modo di funzionare del segno, nel quale un representamen è tale nella relazione con un oggetto, subendone la determinazione in quanto il representamen può essere usato non per se stesso, ma per riferirsi a qualcosa d'altro da sé. La mente coglie oggetti intenzionali perché, operando con segni, può avvalersi di una logica della sostituzione, della rappresentazione e del riferimento. Ma il dispositivo segnico fatto proprio dalla mente non è chiuso nella relazione tra representamen e oggetto, bensì attiva una relazione di i. produttiva (di saperi, di ipotesi, di attese, di congetture) nell'aprirsi al ruolo ineliminabile dell''interpretante logico', che Peirce (1980, p. 297) definisce come "per lo meno un analogo piuttosto stretto di una modificazione della coscienza". Il richiamo alla 'terzità' peirciana consente sia di individuare la forma umana nella linea 'evoluzionistica' (Hoffmeyer 1996) dell'i., sia di concretizzarla nei progetti storico-sociali dei sistemi culturali.

L'i. ci consente di delineare un "progetto di reinterpretazione dell'umano in termini non 'naturali' ma 'culturali', non machine-like, ma person-like" (Moravia 1986, p. 278). È quanto si propone J. Margolis nel costruire l'intenzionale nei termini del rule-governed, cioè di precise pratiche sociali e di determinate istituzioni culturali che reggono le condotte umane (Margolis 1973, p. 281). Sostenere che il culturale è l'intenzionale (Margolis 1983, p. 12) vuol dire aprire il meccanismo mentale alla creatività dei programmi storico-sociali con cui gli uomini si identificano. Vista nella filigrana della trama interpretante, l'i. umana rivela sia i vincoli del suo 'essere al mondo' che le aperture alle sue possibilità ermeneutiche. Un'immagine di tale ambivalenza dell'i. è data dalla marca di i. che contrassegna il pensiero narrativo e, quindi, anche i racconti che tessono l'esperienza di sé (Bruner 1990). In tal caso l'i. agisce da trama o 'struttura ordinatrice' (Brooks 1984) per le forme della consapevolezza con cui le persone, elaborando l'autonarrazione, entrano nella storia del mondo e vi lasciano, più o meno deliberatamente, il segno della cultura cui danno voce.

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