INTERESSE

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

INTERESSE

Luca Fantacci

L’i. è il prezzo che un debitore è tenuto a pagare per usufruire di un’anticipazione di denaro o di una dilazione di pagamento. Il tasso di i. misura, in termini percentuali, quanto si dovrà restituire in più domani per avere una disponibilità di spesa oggi; ovvero, viceversa, quanto si devono scontare pagamenti futuri per calcolarne il valore attuale. Dunque, l’i. può essere inteso come il costo del trasferimento del denaro nel tempo.

Nella tradizione occidentale, dalla Grecia classica alla fine dell’età moderna, il prestito a i. fu soggetto a critiche e restrizioni. Non era considerato legittimo ricevere più di quanto prestato se non in circostanze particolari, come compensazione di una perdita subita dal creditore o come partecipazione al guadagno realizzato dal debitore. Il divieto morale di ‘vendere il tempo’ aveva un fondamento economico nell’impossibilità di definire in anticipo ciò che si può riscontrare solo a posteriori, ossia l’effettiva produttività del denaro prestato.

La progressiva giustificazione del prestito a i. avvenne soltanto nel secolo che separa la Rivoluzione inglese (1689) dalla Rivoluzione francese (1789). L’economia si costituiva proprio allora come scienza autonoma, emancipandosi dalla morale. Uno dei padri della nuova disciplina, Jeremy Bentham, in un saggio significativamente intitolato Defence of usury (1787), respinse le restrizioni al prestito a i., non confutandone la logica, bensì rifiutandone la premessa: la moneta non doveva considerarsi semplicemente un mezzo e una misura per gli scambi, bensì una riserva di valore e una merce di scambio essa stessa (v. moneta). In quanto merce, la moneta era dotata di un prezzo, il tasso di interesse. Il possessore di denaro poteva legittimamente pretendere un pagamento per la sua cessione. L’i. era il giusto compenso dell’attesa e la meritata partecipazione ai frutti del denaro ben impiegato. I meccanismi di mercato avrebbero assicurato un’allocazione tanto più efficiente della moneta quanto più quel prezzo fosse stato lasciato libero di formarsi senza restrizioni.

L’idea fu formalizzata nel corso dell’Ottocento dalla teoria economica classica, nella quale il tasso di i. è il prezzo che porta a equivalenza gli investimenti e il risparmio. Le variazioni del tasso di i. agiscono in essa come uno stabilizzatore automatico: un incremento del risparmio, facendo aumentare l’offerta di moneta sul mercato, provoca una riduzione del tasso di i. e suscita, in tal modo, nuovi investimenti, finché questi ultimi non arrivano a pareggiare il più elevato livello di risparmio. In coerenza con tale approccio, il risparmio monetario fu visto e promosso come una virtù, di cui l’i. era efficace incentivo e giusta ricompensa.

La grande depressione degli anni Trenta del 20° sec. mostrò, tuttavia, che non sempre il risparmio è produttivo né l’i. corrisponde a una crescita. Il clima di incertezza prodotto dalla crisi fece aumentare il risparmio; tuttavia, il denaro risparmiato non fu messo a disposizione degli investimenti a tassi di i. più favorevoli, ma fu tesaurizzato, provocando una caduta degli scambi, della produzione e dei redditi. Fu anche sulla scorta di simili evidenze che, proprio in quegli anni, John Maynard Keynes confutò la teoria classica dell’i., e ne propose una nuova.

Nella sua trattazione di riferimento, The general theory of employment, interest, and money (1936), Keynes ribaltò il concetto tradizionale di i.: «l’interesse è stato solitamente concepito come la ricompensa di chi non spende, mentre in realtà è la ricompensa di chi non accumula» (cap. 13, § V). In effetti, per guadagnare l’i., non è sufficiente risparmiare, ma bisogna anche prestare il denaro risparmiato; in momenti di particolare incertezza può apparire opportuno risparmiare senza prestare. «Il desiderio di detenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro [...] Il possesso fisico di denaro mitiga la nostra inquietudine, e il premio che pretendiamo per separarci da esso è la misura del nostro grado d’inquietudine» (Amato, Fantacci 2009, 20122, p. 34).

Per Keynes, dunque, il tasso di i. non è semplicemente un premio per l’attesa, bensì un indennizzo per il fatto di esporsi all’incertezza: il ‘prezzo del batticuore’, come lo definì Ferdinando Galiani già nel Settecento. Più analiticamente, l’i. è dato dalla somma di due componenti: il premio per il rischio, che ricompensa l’esposizione a una probabilità ragionevolmente calcolabile di default del debitore; e il premio per la liquidità, che grava anche sui debiti sicuri (cosiddetti risk-free), poiché riflette un’incertezza sistemica che invece è essenzialmente incalcolabile.

Considerato nelle sue determinanti, il tasso di i. non appare più come il punto di incontro fra risparmio e investimento, bensì come il prezzo di equilibrio fra domanda e offerta di prestiti. La teoria classica varrebbe se il denaro fosse utilizzato esclusivamente come mezzo di scambio e non anche come riserva di valore. Infatti, se il denaro potesse essere soltanto speso o prestato, un aumento del risparmio si tradurrebbe immediatamente in un aumento dei prestiti a favore delle attività produttive. Viceversa, se il denaro può essere accumulato senza essere prestato, come in effetti avviene in tempo di crisi, il tasso di i. non scende in misura sufficiente per riportare gli investimenti e l’attività economica ai livelli di piena occupazione.

Un alto tasso di i. non riflette necessariamente un elevato tasso di crescita effettivo dell’economia reale, ma può costituire, al contrario, un ostacolo alla crescita e all’occupazione. Il perdurare della crisi corrente, in analogia con quel la degli anni Trenta del 20° sec., sembra dare ragione alla teoria dell’i. di Keynes. Il tasso di i. di mercato può rimanere elevato, a dispetto dei tentativi delle banche centrali di ridurlo aumentando indefinitamente l’offerta di moneta attraverso politiche monetarie espansive, poiché aumenta altrettanto indefinitamente la domanda di moneta in un contesto in cui ogni altra forma di risparmio è esposta a rischi di perdita ingenti e difficilmente calcolabili.

Non a caso, in risposta alla crisi, stanno emergendo risposte che vanno nella direzione auspicata da Keynes. Da un lato, le banche centrali sperimentano politiche non convenzionali volte a scoraggiare la tesaurizzazione di moneta attraverso l’imposizione di tassi di i. negativi sulle riserve eccedentarie delle banche. Dall’altro, si diffondono forme di finanza senza i., quali il venture capital e la finanza islamica, dove il guadagno del creditore non è negoziato in anticipo, come costo del denaro, ma è definito successivamente, come partecipazione ai profitti dell’investimento reso possibile dal prestito.

Bibliografia: S. Homer, R. Sylla, History of interest rates, Hoboken (N.J.) 20054; M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza, Roma 2009, 20122; L. Fantacci, What kind of calculation is implied in the money rate of interest?, in Money and calculation, a cura di M. Amato, L. Doria, L. Fantacci, London 2010, pp. 79100; J.M. Keynes, Risparmio e investimento, a cura di L. Fantacci, Roma 2010; J.S. Chadha, S. Holly, Interest rates, prices and liquidity. Lessons from the financial crisis, Cambridge 2012, 20152; L. Niewdana, Money and justice. A critique of modern money and banking systems from the perspective of Aristotelian and Scholastic thoughts, New York 2015. Si veda inoltre: G. Tily, Keynes’s monetary theory of interest, BIS paper 65, 2012 http://www.bis.org/publ/bppdf/bispap65c_rh.pdf (23 giugno 105).

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