International Style

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Luigi Carlo Schiavi
SCE:ebook Storia della civilta-71.jpg

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Con International Style si intende quella corrente di stile e di gusto nata dalle idee delle avanguardie architettoniche e cresciuta alla luce del movimento moderno. Il termine prende il nome da una mostra al MoMA di New York curata nel 1932 da Henry-Russell Hitchcock e Philip Jonhson in cui vennero presentate alcune delle opere più importanti costruite dagli architetti europei dal 1922 in poi. 

L’occasione

Le Corbusier

La casa-strumento

Se si sradicano dal proprio cuore e dalla propria mente i concetti sorpassati della casa e si esamina la questione da un punto di vista critico e oggettivo, si arriverà alla casa-strumento, casa in serie, sana (anche moralmente) e bella dell’estetica degli strumenti di lavoro che accompagnano la nostra esistenza.

Le Corbusier, Verso un’architettura, a cura di P. Cerri e P. Nicolin , Milano, Longanesi, 1973

Il termine International Style viene coniato attraverso una mostra con questo nome (The International Style: Architecture since 1922) curata dallo storico Henry-Russell Hitchcock (1903-1987) e dall’architetto Philip Johnson al Museum of Modern Art di New York (MoMa) nel 1932. La mostra e il libro-catalogo abbinato avranno un grande successo e sanciranno l’apertura al movimento moderno della società più colta e cosmopolita americana e l’istituzionalizzazione del moderno come prassi stilistica. Hitchcock e il giovane Philp Jonhson erano stati incaricati nel 1930 da Alfred Barr Jr., direttore del MoMA, di fare un lungo viaggio in Europa per valutare le trasformazioni e le novità dell’architettura del vecchio continente e per comprendere le istanze di un rinnovamento che stava arrivando anche negli Stati Uniti. Il lavoro che Hitchcock e Jonhson conducono risulterà storiograficamente ambiguo e, allo stesso tempo, politicamente perfetto: il risultato sarà un successo assoluto, non solo della mostra, ma anche dello stile moderno come scelta ideale da parte del grande capitalismo internazionale per condurre le proprie operazioni su scala mondiale.

Hitchcock e Jonhson girano l’Europa e selezionano diverse opere formalmente legate al movimento moderno, ma al contempo le estrapolano dal loro contesto culturale locale e da ogni connotazione politica legata a istanze di rinnovamento sociale. La mostra si rivela essere allo stesso tempo un perfetto motore di trasformazione dell’immaginario culturale e formale, capace di influenzare moltissimo i decenni successivi, e la certificazione della fine di un periodo eroico e avanguardista dell’architettura moderna. I capitoli in cui è diviso il libro sono paradigmatici della volontà degli autori, dall’introduzione (“The Idea of Style”) al capitolo sulla storia vista come successione stilistica, sino alla definizione dei princìpi che identificano il nuovo stile: la regolarità, il gioco plastico dei volumi, le superfici bianche piuttosto che il rifiuto di ogni decorazione. Alla mostra vengono invitati sia i grandi maestri come Le Corbusier, Walter Gropius, Ludwig Mies van der Rohe, Alvar Aalto, ma anche molti nomi meno conosciuti come Borkowsky, Causs, Eisenlohrm De Konick, Lehr piuttosto che Lois Welzenbacher. L’idea è di spersonalizzare il più possibile l’architettura moderna a favore della messa a punto di uno stile che possa venir usato e replicato. Dei grandi nomi viene escluso tanto Frank Lloyd Wright, che gli autori si prodigano nel catalogo a definire comunque un architetto moderno, quanto, sostanzialmente, tutta l’architettura americana, visto che i curatori hanno piena intenzione di rinnovarla completamente. Molte sono le omissioni. Per esempio si può notare che la sola opera presentata proveniente dall’URSS è il Lefortovo di Mosca progettato da Nocolajev e Fissenko, non certo di grande valore storico e molto distante dalla sperimentazioni più ardite e interessanti della ricca stagione del costruttivismo. Quello che davvero preme agli autori è mostrare come questo nuovo stile sia semplice, razionale, economicamente interessante e adatto al proprio tempo. Le opere scelte sono edifici industriali e produttivi, stazioni di servizio, uffici e ville, facendo solo minimi riferimenti ai tantissimi interventi abitativi che erano stati uno dei momenti più vivi del dibattito europeo. La pianificazione scompare completamente, le opere non vengono presentate criticamente, ma con brevi note esclusivamente stilistiche sotto le immagini. Se questo modo asettico e acritico di presentare le architetture degli anni Venti appare oggi inappropriato e strumentale è bene chiedersi cosa sia stato il movimento moderno nell’immaginario culturale europeo per capire quanto la deformazione operata dalla mostra sia profonda. Il movimento moderno nato dalle istanze delle avanguardie degli anni Dieci e Venti si pone indubbiamente nel solco di una cultura internazionalista e cosmopolita, ma al contempo esprime molte specificità locali. Le ricerche di Gropius e di Ernst May sulle possibilità di serializzazione e di industrializzazione dei processi costruttivi vanno in direzione culturale e politica molto differente dagli esperimenti con il cemento armato di Le Corbusier. La stagione modernista olandese, da Oud a van der Vlugt, propone modelli abitativi completamente differenti rispetto ai lavori di Asplund in Svezia, sempre per trattare architetti presenti nel catalogo dell’International Style. Anche solo guardando il lavoro dei grandi maestri possiamo notare quanta diversità ci sia tra i pilastri metallici neri e i rivestimenti in marmo di Mies van der Rohe e i pilotis di calcestruzzo bianco che sollevano da terra le case di Le Corbusier. Ognuno di questi architetti porta avanti ricerche progettuali, istanze formali, battaglie politiche e sociali differenti e per trovare un comune denominatore di questa stagione culturale dobbiamo rivolgerci a una tensione etica e alla forte necessità di cambiamento che anima tutti gli architetti che si definiscono moderni. Per tutti loro la modernità non è una semplice sommatoria di muri bianchi, finestre a nastro o uso del cemento, ma un’idea comune secondo la quale lo spirito del tempo era mutato. Pertanto era necessario costruire nuove istanze culturali, sociali ed estetiche per affrontare i nuovi problemi della città. Solo se leggiamo il moderno come una profonda rottura che vuole costruire un nuovo stile di vita e che attraversa l’architettura, le arti figurative, il costume, l’ingegneria, diventa possibile costruire un percorso coerente che leghi momenti, ricerche formali, costruttive e situazioni politiche così diverse. Altrimenti si perde ogni filo logico che lega il testo epocale Vers une architecture del 1923 di Le Corbusier con i progetti presenti all’Esposizione delle Arti Decorative di Parigi del 1925, in cui è presente sia il padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier che le opere di Kostantin Melnikov, e la nascita del Bauhaus in Germania o l’esposizione del Werkbund di Stoccarda del 1927 in cui si realizza il quartiere sperimentale del Weissenhof, lo stesso Weissenhof al quale il catalogo della mostra sull’interational style dedica solo tre pagine, con lo scopo di presentare unicamente i progetti di Oud, Mies van der Rohe e Le Corbusier senza alcun inquadramento o ragionamento urbano. Così le critiche al valore storiografico e documentario dell’operazione condotta da Hitchcock e Johnson risultano più che lecite, almeno quelle verso la faziosità ideologica dei curatori. Non possiamo però non vedere come l’operazione sia riuscita a comunicare perfettamente con la società americana di allora. Il moderno, così scomodo, denso di significati e lotte, viene assorbito e pacificato in uno stile che diviene espressione della volontà della maggioranza di partecipare alla costruzione di una vita che è mutata nelle abitudini e che necessita di una trasformazione anche formale degli edifici e delle città. Solo dopo la mostra del MoMA i simboli rappresentativi della società potranno essere moderni e questo indubbiamente è un lascito enorme che questa mostra ha generato. Da quel momento gli Stati Uniti prima, l’Europa e poi il resto del mondo, divenuto comunità internazionale, si riempiranno di nuove costruzioni basate sul linguaggio e l’estetica costruita dalla avanguardie degli anni Venti celebrando il trionfo dell’International Style come linguaggio formale della seconda metà del Novecento.

TAG

Ludwig mies van der rohe

Museum of modern art

Industrializzazione

Frank lloyd wright

Philip johnson