Interpello e accordi amministrativi [dir. trib.]

Diritto on line (2013)

Ernesto-Marco Bagarotto

Abstract

Vengono esaminate le varie forme di interpello presenti nel nostro ordinamento. Oltre al c.d. interpello ordinario (il cui iter viene seguito anche in materia di CFC, dividendi, plusvalenze e consolidato nazionale e mondiale) viene analizzato il c.d. interpello speciale (o antielusivo), l’interpello disapplicativo ed il ruling di standard internazionale, che – diversamente dagli altri istituti in esame – non si chiude con un parere rilasciato unilateralmente dall’Amministrazione, ma con un accordo tra quest’ultima ed il contribuente. Sono oggetto di voci distinte, invece, la transazione fiscale, l’accertamento con adesione e la conciliazione giudiziale.

Introduzione

A decorrere dall’inizio degli anni novanta, nel nostro ordinamento sono state progressivamente introdotte diverse forme di interpello.

Esse, in primissima battuta, possono essere definite come procedure che riconoscono al contribuente la possibilità di richiedere ed ottenere una pronuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria in merito alle modalità di applicazione o alla possibilità di disapplicazione di specifiche disposizioni tributarie, con riguardo a casi di concreto interesse per il contribuente (sulla centralità della circostanza che il contribuente ha il diritto, non solo di presentare richieste all’Amministrazione, ma anche di ottenere risposte «qualificate» da quest’ultima, v. Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 236).

Si tratta, dunque, di strumenti volti a tutelare il contribuente ed a garantirgli il diritto sia di conoscere anticipatamente la posizione dell’Amministrazione finanziaria qualora si verifichi una situazione di incertezza, sia di fare affidamento su di essa (Marongiu, G., Riflessioni sul diritto d’interpello, in Corr. trib., 2002, 1408; Melis G., L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 566; Miccinesi, M., L’interpello, in Marongiu, G., a cura di, Lo statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2004, 96-97; Versiglioni M., L’interpello nel diritto tributario, Perugia, 2005, passim; Id., Interpello (diritto di), in Cassese S. (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, IV, 2006, 3177; sulla circostanza che l’istituto dell’interpello è caratteristico del diritto tributario, v. Ragucci, G., Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, 119).

La natura di tali procedure, peraltro, non è pacifica, ma va segnalata la tendenza a ricomprenderla – o, comunque, ad avvicinarla – all’attività accertativa (Miccinesi, M., L’interpello, cit., 91; Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, Milano, 2007, 72; Moscatelli, M.T., L'interpello del contribuente, in Fantozzi, A.-Fedele A., a cura di, Statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2005, 633. La funzione accertativa dell’interpello è segnalata anche da Versiglioni M., L’interpello nel diritto tributario, cit., 332, che tuttavia ravvisa nello strumento la struttura bilaterale dell’«accordo tributario», identificabile come «accordo sull’attuazione prefigurata della norma tributaria» e riconducibile al quadro tipologico degli «accordi amministrativi tributari», nella nozione generale dal medesimo originariamente ricostruita – v. Versiglioni M., Accordi amministrativi (dir. trib.), in Cassese S. (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, I, Milano, 2006, 91).

Ora, la concreta disciplina delle diverse procedure di interpello è caratterizzata da marcate differenze quanto all’iter da seguire, alla tempistica, ai soggetti destinatari dell’istanza e – soprattutto stando alle formule letterali impiegate dal legislatore – agli effetti della risposta dell’Amministrazione.

Si è così prodotta una situazione fortemente disorganica, tant’è che in dottrina è stato auspicato un riordino delle procedure di interpello (in argomento, v. Tosi, L., Gli aspetti procedurali nell’applicazione delle norme antielusive, in Corr. trib., 2006, 3119; Fransoni, G., Integrazione e armonizzazione della disciplina degli interpelli, in Corr. trib., 2009, 757 ss.; per un tentativo di armonizzazione, non andato a buon fine, v. l’art. 4 del d.d.l. 28.6.2007, n. C 1762; per una ricostruzione tipologica dell’istituto, che prende le mosse dalla sua funzione, vd. Versiglioni M., L’interpello nel diritto tributario, cit., 317-348).

L’interpello ordinario

Osservazioni generali

L’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente, unitamente al d.m. 26.4.2001, n. 209, disciplina il c.d. interpello ordinario.

In base a tale disposizione, il contribuente può inoltrare all’Agenzia delle entrate «circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l'applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali – diversi da quelli oggetto di «interpello speciale» – qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse (sull’ampiezza dell’ambito applicativo dell’istituto v. Marongiu, G., Riflessioni sul diritto d’interpello, cit., 1412; sulla «logica intervallare», intesa come «incertezza oggettiva in presenza di accertabilità entro certi limiti», che caratterizza l’interpello, vd. Versiglioni M,. Diritto tributario ed 'Equivalent Dispute Resolution’, in Riv. dir. trib., 2012, I, 249).

Si tratta di un interpello volto a garantire al contribuente la conoscenza preventiva della posizione dell’Amministrazione finanziaria in ordine alle modalità di applicazione di disposizioni tributarie (anche di fonte secondaria, come confermato dalla Circolare n. 50 del 2001, ma non di atti privi di contenuto normativo o di norme in materia processuale o penale tributaria: sul punto v. Zizzo, G., Commento all’art. 11, inCommentario breve alle leggi tributarie, I, Padova, 2011, 575; Moscatelli, M.T., L'interpello del contribuente, cit., 618) a casi specifici di interesse del contribuente (pertanto, come indicato dalla Circolare n. 50 del 2001, l’atto o l’operazione oggetto di interpello debbono essere riconducibili alla «sfera di interessi del soggetto istante», circostanza che non si verifica per le associazioni di categoria e gli enti rappresentativi di interessi diffusi che intendano conoscere l'interpretazione di norme applicabili da parte dei propri associati o rappresentati, che potranno azionarsi mediante la c.d. consulenza giuridica descritta nella circolare n. 99 del 2000) nel caso in cui la loro lettura sia caratterizzata da obiettive condizioni di incertezza.

Aspetti procedimentali

L’interpello – che per espressa previsione normativa non ha effetti sulle scadenze tributarie – deve essere attivato con istanza alla Direzione regionale dell'Agenzia delle entrate, competente in relazione al domicilio fiscale del contribuente (le amministrazioni centrali dello Stato, gli enti pubblici a rilevanza nazionale ed i c.d. «grandi contribuenti», invece, debbono presentarla alla Direzione centrale normativa e contenzioso dell'Agenzia delle entrate).

L’istanza deve essere sottoscritta dal contribuente (o dal suo legale rappresentante: per un caso in cui è stata riconosciuta la rilevanza di una risposta fornita ad un’istanza presentata da un professionista incaricato e delegato da una società v. Cass., 29.9.2010, n. 20421, nonché Basilavecchia, M., Efficacia soggettiva dell’interpello, in Riv. giur. trib., 2011, 24 e Pistolesi, F., Risposta ad interpello inammissibile e tutela dell’affidamento, in Rass. trib., 2011, 715): la mancata sottoscrizione è sanata se il contribuente provvede alla regolarizzazione dell'istanza entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito da parte dell'ufficio.

L’istanza, inoltre, deve contenere la circostanziata e specifica descrizione del caso concreto e personale da trattare ai fini tributari sul quale sussistono concrete condizioni di incertezza; copia della documentazione rilevante ai fini della individuazione e della qualificazione della fattispecie prospettata; l'esposizione del comportamento e della soluzione interpretativa che si intendono adottare.

L’art. 1 del d.m. n. 209/2001, inoltre, stabilisce che l’istanza debba essere presentata «prima di porre in essere il comportamento o di dare attuazione alla norma oggetto di interpello». A tal proposito, la circolare n. 50 del 2001 ha precisato che la preventività deve intendersi riferita al comportamento «tributario» (non necessariamente all’atto o all’operazione a cui si collega il comportamento tributario da porre in essere), talché l’istanza deve essere proposta prima di «presentare la dichiarazione dei redditi, prima di assolvere l'imposta di registro connessa con la registrazione dell'atto, prima di emettere la fattura IVA, ecc.».

L’Amministrazione deve dare risposta – scritta ed adeguatamente motivata – all’istanza entro 120 giorni dal suo deposito, ricezione o regolarizzazione (in caso di istanza priva di sottoscrizione).

Prima di fornire la risposta, l’Amministrazione può richiedere (una sola volta) al contribuente di integrare la documentazione esibita, qualora ciò sia ritenuto necessario per inquadrare la questione oggetto di istanza e fornire correttamente il parere: in questa fattispecie il termine di 120 giorni decorre dal momento in cui l’Amministrazione riceve dal contribuente la documentazione richiesta.

La risposta può essere anche collettiva, qualora vengano formulate richieste analoghe da parte di un numero elevato di contribuenti, fermo restando che tutti i contribuenti istanti debbono essere informati della risposta (su tale fattispecie v. Moscatelli, M.T., La risposta collettiva all’interpello dei contribuenti, in Riv. dir. trib., 2004, I, 1395).

Il co. 2 dell’art. 11 disciplina una forma di «silenzio-assenso», poiché stabilisce che qualora il contribuente non riceva risposta entro il termine di 120 giorni «si intende che l'amministrazione concordi con l'interpretazione o il comportamento prospettato dal richiedente».

Gli effetti della risposta

Il co. 2 dell’art. 11 stabilisce che tutti gli atti, anche impositivi o sanzionatori, aventi contenuto difforme dalla risposta – resa espressamente o mediante silenzio-assenso – sono nulli.

Come specificato dall’art. 5 del d.m. n. 209/2001, la risposta dell'Amministrazione ha efficacia esclusivamente nei confronti del contribuente istante e con riferimento al caso oggetto dell'istanza di interpello ed ai comportamenti successivi riconducibili alla fattispecie oggetto di interpello, salvo rettifica della soluzione interpretativa da parte dell'Amministrazione finanziaria (sull’opponibilità anche da parte di eventuali coobbligati, stante l’identità di presupposto, v. Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, cit., 67).

La risposta positiva dell’Amministrazione, dunque, garantisce il massimo di protezione del contribuente da eventuali futuri provvedimenti impositivi o sanzionatori e costituisce una manifestazione della rilevanza del principio dell’affidamento (Miccinesi, M., L’interpello, cit., 91; Nussi, M., Prime osservazioni sull’interpello del contribuente, in Rass. trib., 2000, 1861). Di converso, la risposta non vincola in alcun modo il contribuente, il quale potrà liberamente applicare la normativa tributaria in modo difforme rispetto a quanto ritenuto corretto nella risposta.

L’art. 5 del d.m. n. 209/2001 disciplina l’ipotesi di rettifica della risposta da parte dell’Amministrazione e prevede che questa possa recuperare le imposte eventualmente dovute (maggiorate di interessi, ma senza sanzioni) solamente nel caso in cui il contribuente non abbia ancora posto in essere il comportamento specifico prospettato o dato attuazione alla norma oggetto d'interpello.

Il recupero delle sole imposte ed interessi (senza sanzioni) è previsto altresì nel caso in cui l’Amministrazione risponda tardivamente (cioè oltre il termine di 120 giorni) ed il contribuente abbia già posto in essere il comportamento oggetto di un’istanza che, tuttavia, era priva dell’indicazione della soluzione interpretativa ritenuta corretta.

Da ultimo, alla luce della particolare «protezione» garantita dall’art. 11 – in termini di imposte e sanzioni – si deve a fortiori ritenere non configurabile la punibilità sotto il profilo penale del contribuente che si sia adeguato al parere reso a seguito di interpello ordinario (al pari di quanto, come vedremo, espressamente previsto con riferimento all’«interpello speciale»).

Gli interpelli in materia di CFC, dividendi e plusvalenze e consolidato

Un richiamo a parte merita di essere effettuato con riferimento all’interpello in materia di società estere controllate e collegate (c.d. «interpello CFC») ed ai connessi interpelli in materia di dividendi e plusvalenze.

L’art. 167 del TUIR stabilisce che, per disapplicare la normativa in materia di società estere controllate il contribuente «deve interpellare preventivamente l'amministrazione finanziaria ai sensi dell'art. 11 della l. 27.7.2000, n. 212» (tale previsione vale anche per la normativa di cui al successivo art. 168, in materia di società estere collegate).

L’«interpello CFC» richiama le modalità dell’interpello ordinario, ma il relativo oggetto tende a discostarsene, considerato che consiste nella valutazione delle prove che il contribuente ha a disposizione per dimostrare la sussistenza delle cause di disapplicazione del regime dettato dall’art. 167, cioè che la società estera partecipata svolga un'effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio di insediamento o, alternativamente, che dalle partecipazioni non consegua l'effetto di localizzare i redditi in «paradisi fiscali».

Le modalità di presentazione dell’«interpello CFC», per di più, sono lievemente diverse: l’art. 5 del d.m. 21.11.2001, n. 429 stabilisce che, da un lato, l’interpello è rivolto alla Direzione centrale per la normativa e il contenzioso, per il tramite della Direzione regionale per le entrate competente per territorio e, dall’altro lato, la risposta è resa entro centoventi giorni, ovvero per le imprese già operanti nei «paradisi fiscali», entro centottanta giorni, dalla data di ricezione dell'istanza.

Restano invece ferme le ulteriori previsioni in materia di interpello ordinario, stabilite dall’art. 11 dello Statuto e dal d.m. n. 209/2001 [in argomento v. Giovannini, A., L’interpello preventivo all’Agenzia delle entrate (C.F.C. e Statuto dei diritti del contribuente), in Rass. trib., 2002, 452 ss.].

Le modalità dell’«interpello CFC» sono richiamate altresì dagli artt. 47, 68, 87 e 89 del TUIR, in materia di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze in capo a soggetti passivi IRPEF ed IRES.

Dette disposizioni, infatti, stabiliscono che le limitazioni ai regimi di esenzione delle plusvalenze e di esclusione dei dividendi, previste per i redditi provenienti da società residenti in «paradisi fiscali», non trovino applicazione in caso di positiva conclusione di una procedura di interpello, secondo le modalità dettate in materia di «interpello CFC».

In tali casi, il contribuente – attraverso l’istanza – dovrà dimostrare che non è stato conseguito, sin dall'inizio del periodo di possesso, l'effetto di localizzare i redditi in Stati o territori in cui sono sottoposti a regimi fiscali privilegiati.

Ed ancora, va segnalato che l’interpello ordinario viene richiamato anche nell’ambito della normativa del consolidato nazionale (dall’art. 124 del TUIR, in base al quale, nel caso di fusione della società o ente controllante con società o enti non appartenenti al consolidato, può essere richiesta, mediante l'esercizio di interpello ordinario, la continuazione del consolidato) e del consolidato mondiale (l’art. 132 del TUIR, infatti, stabilisce che la società controllante deve proporre istanza di interpello ai sensi dell’art. 11 dello Statuto per verificare la sussistenza dei requisiti per il valido esercizio dell'opzione: in argomento v. Beghin, M., Note minime a proposito dell'interpello «obbligatorio» nella disciplina del c.d. «consolidato mondiale», in Boll. trib., 2003, 1285 ss.).

Da ultimo, l’interpello ordinario viene richiamato nell’art. 113 del TUIR, come strumento volto a consentire agli enti creditizi di chiedere all'Agenzia delle entrate che il regime di participation exemption non si applichi alle partecipazioni acquisite nell'ambito degli interventi finalizzati al recupero di crediti o derivanti dalla conversione in azioni di nuova emissione dei crediti verso imprese in temporanea difficoltà finanziaria.

L’interpello speciale

Osservazioni generali ed ambito oggettivo di applicazione dell’istituto

La prima forma di interpello introdotta nell’ordinamento tributario è quella contenuta nell’art. 21 della l. 30.12.1991, n. 413.

Si tratta del c.d. interpello «speciale» o «antielusivo», così definito poiché il suo ambito di applicazione è delimitato a specifiche fattispecie individuate dal legislatore, accomunate dal fatto di riguardare l’applicazione di disposizioni aventi tendenzialmente finalità di contrasto all’elusione (sulla tassatività delle materie su cui può essere attivato l’interpello speciale v. Comitato Consultivo per l’applicazione delle norme antielusive, Pareri 27.10.2004, n. 28; 23.9.2002, n. 17; in dottrina v. Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, cit., 7).

L’interpello può essere impiegato con riferimento all’applicazione a casi concreti delle disposizioni in materia di interposizione (art. 37, co. 3, d.P.R. 29.9.1973, n. 600) e di contrasto alle operazioni elusive (art. 37 bis), nonché alla qualificazione delle spese sostenute dal contribuente tra quelle di pubblicità e di propaganda ovvero tra quelle di rappresentanza (sebbene i profili di incertezza sul punto siano venuti in gran parte meno a seguito delle modifiche apportate all’art. 108 del TUIR).

Inoltre, ai sensi dell’art. 11, co. 13, della l. n. 413/1991, può essere impiegato per ottenere la disapplicazione della norma sull’indeducibilità dei c.d. costi black list e per fruire del regime c.d. madre-figlia nei casi di società controllate da soggetti residenti al di fuori dell’UE (v. art. 27 bis del d.P.R. n. 600/1973).

L’interpello speciale, pertanto, ha ad oggetto la qualificazione giuridica di un fatto – specifico e concreto – ai fini di talune disposizioni connotate da profili di incertezza applicativa (v. La Rosa, S., Prime considerazioni sul diritto di interpello, in Fisco, 1992, 7947 s.; Zizzo, G., Diritto d’interpello e ruling, in Riv. dir. trib., 1992, I, 136; Nussi, M., Prime osservazioni, cit., 1960) oppure la valutazione degli elementi acquisiti dal contribuente ai fini di disposizioni che addossano al contribuente specifici oneri probatori (Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, cit., 9; sulla variabilità dell’oggetto dell’interpello speciale vd. Melis G., L’interpretazione nel diritto tributario, cit., 557).

Il procedimento di presentazione dell’istanza

La presentazione dell’istanza di interpello speciale è disciplinata dall’art. 21 e dal d.m. 13.6.1997, n. 195.

La richiesta di parere va inoltrata alla Direzione Centrale per il tramite della Direzione Regionale e deve contenere, a pena di inammissibilità, i dati del contribuente o del suo rappresentante legale e delle altre parti interessate, la sottoscrizione, l'indicazione dell'eventuale domiciliatario, la descrizione del caso concreto oggetto di istanza, la soluzione interpretativa che il contribuente sostiene e la documentazione rilevante.

Con il d.l. 29.11.2008, n. 185 la procedura dell’interpello è stata adeguata alla soppressione del «Comitato» (per effetto dell’art. 29, co. 3, del d.l. 4.7.2006, n. 223): una volta ricevuta l’istanza, la Direzione Regionale trasmette la stessa alla Direzione Centrale entro quindici giorni dalla sua ricezione ed il parere è comunicato al contribuente entro centoventi giorni dall’istanza: in caso di silenzio dell’Agenzia, il contribuente può diffidare l’Agenzia ad adempiere. Nei sessanta giorni successivi alla diffida, l’Agenzia può rispondere positivamente, negativamente o non rispondere; in quest’ultimo caso, dopo sessanta giorni dalla diffida si formerà il silenzio assenso.

L’art. 21 prevede che la richiesta del contribuente possa essere avanzata «anche prima» della conclusione del comportamento oggetto di interpello, sicché si deve ritenere che l’istanza possa non essere preventiva (Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, cit., 11). Più dubbia è la questione con riferimento alla fattispecie in materia di costi «black list», poiché l’art. 11 stabilisce che le prove richieste dal TUIR affinché detti costi siano deducibili non debbano essere fornite qualora il contribuente abbia «preventivamente» formulato istanza di interpello (sull’obbligatoria preventività dell’istanza v. i pareri 10.7.2003, nn. 9 e 10, contra Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, cit., 23; per un approfondimento sull’applicazione della normativa antielusiva da parte del soppresso «Comitato» v. Stevanato, D., La norma antielusiva nei pareri del comitato per l’interpello, in Dir. prat. trib., 2002, I, 219).

Gli effetti della risposta

L’art. 21 prevede, da un lato, che il parere – sia esso espresso o costituito dal silenzio formatosi sull’istanza del contribuente – ha efficacia esclusivamente nei confronti del contribuente istante (sulla possibilità di estendere le argomentazioni contenute in un parere nei confronti dei contribuenti che si trovino in situazioni analoghe a quelle oggetto del parere v. Zoppini, G., Lo strano caso delle procedure di interpello in materia di elusione fiscale, in Riv. dir. trib., 2002, I, 995, n. 11; Lupi, R., La procedura di interpello ex art. 21, legge n. 413/1991 tra Agenzia e Comitato consultivo, in Caputi, G., a cura di, Il diritto di interpello, Roma, 2001, 86); e, dall’altro lato, che nella fase contenziosa l'onere della prova ricada sulla parte che non si è uniformata al parere. Quest’ultima formula è piuttosto infelice, poiché sembra consentire sia al contribuente sia all’Amministrazione finanziaria di discostarsi legittimamente dalla risposta fornita all’interpello, tant’è che una prima parte della dottrina non riconosceva al parere effetto vincolante per l’Amministrazione (in argomento v. Zizzo, G., Diritto d’interpello e ruling, cit., 145; Selicato, P., L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 530 ss., il quale si sofferma sulla necessità che l’Ufficio fornisca adeguata motivazione sul punto).

Secondo altra dottrina, l’onere della prova richiamato dall’art. 21 dovrebbe intendersi riferito esclusivamente alla dimostrazione che la fattispecie prospettata dal contribuente non coincida con quella effettivamente verificatasi. Conseguentemente, gli atti impositivi elevati a carico del contribuente che si sia adeguato alla risposta fornita a seguito di interpello speciale dovrebbero essere nulli, a meno che l’Amministrazione non dimostri che l’operazione concretamente posta in essere diverga da quella descritta nell’istanza (in tal senso Logozzo, M., L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, 258; Della Valle, E., Affidamento e certezza del diritto tributario, Milano, 2001, 168; Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, cit., 32 ss.; Comelli, A., La disciplina dell’interpello: dall’art. 21 della L. n. 413/1991 allo statuto dei diritti del contribuente, in Dir. prat. trib., 2001, I, 623; Consolo, C., I «pareri» del Comitato per l’applicazione della normativa antielusiva e la loro sfuggente efficacia, in Dir. prat. trib., 1993, I, 962 s.).

A tal proposito, autorevole dottrina ha ipotizzato l’applicabilità analogica dell’art. 11 dello Statuto e la possibilità di invocare quest’ultima disposizione in quanto norma generale (v. Falsitta, G., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2008, 373; Tesauro, F., Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2000, 235; Del Federico L., Autorità e consenso nella disciplina degli interpelli fiscali, in La Rosa S. (a cura di), Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, Milano, 2008, 167).

Da ultimo, si deve segnalare che l’art. 16 del d.lgs. 10.3.2000, n. 74 stabilisce espressamente la non punibilità per i soggetti che si siano adeguati al parere di cui all’art. 21.

L’interpello disapplicativo

L’ultimo comma dell’art. 37 bis

L’ultimo comma dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600/1973 stabilisce che il contribuente possa presentare un’istanza per ottenere la disapplicazione di quelle norme tributarie che «allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario».

L’istanza, come precisato dal d.m. 19.6.1998, n. 259, deve essere indirizzata al Direttore regionale territorialmente competente e spedita all'ufficio finanziario competente per l'accertamento in ragione del domicilio fiscale del contribuente.

Al fine di ottenere la disapplicazione, il contribuente deve dimostrare che, nel suo specifico caso, non possono verificarsi gli effetti elusivi che la norma di cui si chiede la disapplicazione mira a contrastare.

L’introduzione di tale forma di interpello consente di trasformare le presunzioni assolute di elusività in presunzioni relative, ponendo a carico del contribuente l’onere di provare la non ricorrenza di comportamenti elusivi nello specifico caso (così Falsitta, G., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2010, 226; sulle difficoltà riscontrabili nell’individuazione delle norme potenzialmente disapplicabili v. La Rosa, S., Nozione e limiti delle norme antielusione analitiche, in Corr. trib., 2006, 3092).

Diversamente da quanto accade nell’ambito delle altre procedure di interpello, il legislatore non ha attribuito un significato al silenzio dell’Amministrazione (Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 239): il d.m. n. 259/1998, infatti, si limita a prescrivere che le determinazioni dell’Amministrazione delle entrate «vanno comunicate al contribuente, non oltre novanta giorni dalla presentazione dell'istanza» (a favore della configurabilità del silenzio assenso v. Falsitta, G., Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 226; Fransoni, G., Efficacia e impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in Maisto, G., a cura di, Elusione e abuso del diritto, Milano, 2009, 105).

Il caso delle società di comodo

Nell’ambito della disciplina delle c.d. società di comodo, contenuta nell’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724, è previsto che il contribuente possa presentare istanza di interpello disapplicativo, ai sensi dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600/1973, al fine di dimostrare la ricorrenza di «oggettive situazioni» che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi minimi desumibili dall’applicazione del sistema di percentuali disciplinato dal citato art. 30. Tale previsione, giova ricordarlo, ha sostituito l’assetto previgente, in cui l’applicazione di tale sistema era prevista «salvo prova contraria».

La obbligatorietà della presentazione dell’interpello per i contribuenti che intendano essere assoggettati ad imposizione sul reddito effettivo e non sul reddito desunto dall’applicazione degli indici percentuali recati dall’art. 30 (con conseguente inammissibilità del ricorso eventualmente presentato in assenza di previo interpello, inizialmente ipotizzata dalla Circolare 2 febbraio 2007, n. 5/E) è stata negata in dottrina alla luce di diversi elementi, di carattere sia testuale, sia costituzionale (dovendosi preferire una lettura idonea a tutelare il diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost.) sia sistematico (non potendosi ammettere che il delicato tema della prova contraria vada affrontato e risolto davanti all’amministrazione controinteressata e non davanti ad un Giudice terzo ed imparziale: in tal senso v. Tosi, L., Le società di comodo, Padova, 2008, 10 ss.; similmente v. Pistolesi, F., L’interpello per la disapplicazione del regime sulle società di comodo, in Fisco, 2007, 2995; alle stesse conclusioni è pervenuta la Circolare 14 giugno 2010, n. 32/E).

Quanto all’oggetto della prova contraria, l’Agenzia delle entrate ritiene che il contribuente debba dimostrare che il mancato conseguimento del livello minimo di ricavi sia dipeso da circostanze «oggettive», nel senso di «non soggettive» (per alcuni esempi v. Circolare 9.7.2007, n. 44/E).

Giova, tuttavia, precisare che parte della dottrina ritiene che la locuzione «condizioni oggettive» vada letta, piuttosto, per individuare quelle «condizioni» che – siano esse oggettive o soggettive – risultano verificabili in modo obiettivo (Tosi, L., Le società di comodo, cit., 11).

Il ruling di standard internazionale

Osservazioni generali

L’art. 8 del d.l. 30.9.2003, n. 269 (la disposizione è integrata dal provvedimento dell’Agenzia delle entrate 23.7.2004, sulla cui eccessiva ampiezza v. Tosi, L., Il ruling di standard internazionale, in Dialoghi, 2004, 491) disciplina il ruling internazionale, procedura che consente alle imprese esercenti attività internazionale di stipulare un «accordo» con l’Amministrazione finanziaria con riferimento ad alcune problematiche fiscali caratteristiche dell’attività internazionale (sulla figura dell’accordo in ambito tributario, anteriormente all’introduzione dell’istituto in esame, per tutti vd. Versiglioni M., Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001; successivamente vd. Id., Accordi amministrativi (dir. trib.), in Cassese S. (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, I, Milano, 2006, 91).

Sotto il profilo oggettivo, il legislatore si è limitato a stabilire che il ruling possa essere azionato «con principale riferimento al regime dei prezzi di trasferimento, degli interessi, dei dividendi e delle royalties». L’espressione «con principale riferimento» conferisce evidentemente carattere non tassativo alle materie richiamate dall’art 8 del d.l. n. 269/2003 (in argomento v. Adonnino, P., Considerazioni in tema di ruling internazionale, in Riv. dir. trib., 2004, IV, 67 e Tosi, L., Il ruling di standard internazionale, cit., 492).

Quanto al contenuto materiale dell’accordo conclusivo del ruling, il provvedimento attuativo del Direttore dell’Agenzia delle entrate precisa che esso può riguardare: la preventiva definizione dei metodi di calcolo del valore normale ai fini del transfer pricing; l’applicazione di norme, anche convenzionali, concernenti l’erogazione o la percezione di dividendi, interessi, royalties o altri componenti reddituali a o da soggetti non residenti piuttosto che l’attribuzione di utili o perdite alla stabile organizzazione.

Di converso – come dimostrato dall’impiego del termine «accordo» e dalla previsione di un periodo di validità dello stesso – il contenuto del ruling non può corrispondere all’esposizione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, dell’interpretazione delle disposizioni in materia di fiscalità internazionale (così anche Gaffuri, G., Il ruling internazionale, in Rass. trib., 2004, 490).

Gli effetti dell’accordo

Il ruling internazionale, diversamente dalle altre forme di interpello, dovrebbe vincolare sia l’Amministrazione finanziaria sia il contribuente.

Il che significa che l’Amministrazione si impegna ad accettare il comportamento tenuto dal contribuente rispettoso dell’accordo e che il secondo si impegna ad adottare i criteri di valutazione concordati nell’ambito della procedura di ruling.

Se l’Amministrazione dovesse non rispettare l’accordo, si dovrebbe concludere per la illegittimità del provvedimento impositivo eventualmente emesso in «violazione» dell’accordo; se, invece, è il contribuente a non rispettare l’accordo, in base al provvedimento attuativo «l’accordo si considera risolto» e sembra corretto affermare che – non essendovi un principio di affidamento anche a favore dell’Amministrazione – l’obbligazione tributaria debba essere quantificata secondo gli ordinari moduli procedimentali, prescindendo dal contenuto dell’accordo e (ri)applicando correttamente la normativa al caso concreto (v. Gaffuri, G., Il ruling internazionale, cit., 500, secondo il quale la violazione del patto consente alla controparte di chiedere il risarcimento del danno).

Sotto il profilo temporale, l’art. 8 del d.l. n. 269/2003 ha precisato che l’accordo è vincolante per il periodo d'imposta nel corso del quale esso è stipulato e per i due periodi d'imposta successivi «salvo che intervengano mutamenti nelle circostanze di fatto o di diritto rilevanti al fine delle predette metodologie e risultanti dall'accordo sottoscritto dai contribuenti» (sulle modalità di revisione dell’accordo v. l’art. 11 del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate).

Quanto agli effetti sotto il profilo istruttorio-accertativo, il co. 4 dell’art. 8 stabilisce che per i periodi d'imposta coperti dall’accordo, l'Amministrazione finanziaria esercita i poteri di cui agli artt. 32 ss. del d.P.R. n. 600/1973 «soltanto in relazione a questioni diverse da quelle oggetto dell'accordo» (v., però, anche il successivo art. 9 che introduce obblighi informativi a carico dell’impresa).

La procedura necessaria per perfezionare l’accordo

Per quanto riguarda la procedura da seguire, il legislatore si è limitato a stabilire che essa si conclude con la «stipulazione di un accordo» tra l'Agenzia delle entrate ed il contribuente e che la richiesta di ruling è presentata agli Uffici dell’Agenzia delle entrate di Roma o Milano.

Nel provvedimento attuativo, oltre ad essere specificate le aree di competenza dei due citati Uffici, è previsto che, entro trenta giorni dal ricevimento dell’istanza, l’Ufficio inviti il contribuente a comparire per tenere un contraddittorio da concludere entro centottanta giorni.

Nel corso del procedimento finalizzato al raggiungimento dell’accordo è previsto che funzionari ed impiegati dell’Agenzia accedano presso le sedi dell’impresa, nei tempi con questa concordati, «allo scopo di prendere diretta cognizione di elementi informativi utili ai fini istruttori» e che possa essere richiesta «l’attivazione di strumenti di cooperazione internazionale tra amministrazioni fiscali di diversi paesi».

L’iter del ruling internazionale potrà concludersi con l’accordo o senza il raggiungimento dell’accordo.

Da ultimo, l’art. 8 del d.l. n. 269/2003 prevede la trasmissione dell'accordo all'autorità fiscale dei Paesi esteri interessati, fermo restando che la scelta operata dal legislatore è quella di adottare un modello di ruling con l’intervento della sola Amministrazione finanziaria italiana, con conseguente scarsa efficacia come strumento volto a scongiurare le doppie imposizioni internazionali, poiché le Amministrazioni fiscali estere non sono vincolate in alcun modo dall’accordo (critico sul punto Tosi, L., Il ruling di standard internazionale, cit., 502).

La tutela giurisdizionale

Un delicato tema che accomuna tutte le forme di interpello – sia pure con sfumature diverse – è quello della tutela giurisdizionale.

Secondo una certa impostazione (sostenuta anche dall’Agenzia nella circolare n. 7 del 2009) dovrebbe ritenersi preclusa la possibilità di adire al giudice tributario per ottenere la declaratoria di illegittimità di una risposta negativa ad un interpello, poiché si tratta di atti non ricompresi nell’elenco di cui all’art. 19 del d.lgs. 31.12.1992, n. 546 e perché essi non sono vincolanti per il contribuente (con riferimento all’interpello speciale v. La Rosa, S., Prime considerazioni, cit., 7950; Consolo, C., I «pareri» del Comitato per l’applicazione della normativa antielusiva e la loro sfuggente efficacia, cit., 963, secondo i quali dovrebbe trovare applicazione il principio della «tutela differita»; con riferimento all’interpello ordinario v. Miccinesi, M., L’interpello, cit., 96-97; con riferimento all’«interpello CFC» v. Giovannini, A., L’interpello preventivo, cit., 452 ss.).

Altra dottrina sembra propendere per l’impugnabilità, in considerazione della possibilità di assimilare la risposta ad interpello ad un atto impugnabile (a seconda dei casi, un accertamento a contenuto negativo o un diniego di agevolazione) e della circostanza che il contribuente può avere un interesse meritevole di tutela ad eliminare l’incertezza a proposito del trattamento fiscale da riservare ad una determinata fattispecie e, conseguentemente, ad ottenere un parere preventivo rilasciato sulla base di una corretta interpretazione delle norme e degli elementi illustrati nell’istanza (Tosi, L., Gli aspetti procedurali, cit., 3119).

Con specifico riferimento all’interpello ordinario, va richiamata la sentenza C. Cost., 14.6.2007, n. 191, che – dopo aver qualificato la risposta dell’Amministrazione come «mero parere, che non integra alcun esercizio di potestà impositiva nei confronti del richiedente» vincolante per l'amministrazione che l'ha reso ma non per il contribuente – ha affermato che «oggetto di impugnazione può essere, eventualmente, solo l'atto con il quale l'Amministrazione esercita la potestà impositiva in conformità all'interpretazione data dall'agenzia fiscale nella risposta all'interpello».

Con riferimento all’interpello disapplicativo, la giurisprudenza ha recentemente riconosciuto che il diniego di disapplicazione di norme antielusive è un «atto impugnabile in via facoltativa», nel senso che il contribuente, in caso di mancata impugnazione del diniego, mantiene il diritto di impugnare il seguente eventuale avviso di accertamento (Cass., 5.10.2012, n. 17010; precedentemente, la stessa Cass., 15.4.2011, n. 8663, aveva affermato l’obbligatorietà dell’impugnazione del diniego di disapplicazione al fine di ottenere il rimborso delle maggiori imposte versate in applicazione della normativa sulle società di comodo; prima ancora v. la sentenza 21.12.2004, n. 23731 che aveva annullato un diniego di disapplicazione).

Da ultimo, va segnalato che non manca chi ipotizzi la possibilità di instaurare un giudizio innanzi al Giudice amministrativo (v. Pistolesi, F., Gli interpelli tributari, cit., 27; Giorgianni, A., L’evoluzione dei rapporti di collaborazione tra amministrazione finanziaria e contribuente: l’interpello alla luce dello statuto del contribuente, Riv. dir. trib., 2004, I, 241).

Fonti normative

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Artt. 11 e 21, l. 30.12.1991, n. 413

D.M. 26.4.2001, n. 209

D.M. 21.11.2001, n. 429

Artt. 47, 68, 87, 89, 113, 124, 132, 167 e 168 del TUIR

Art. 37 bis del d.P.R. 29.9.1973, n. 600

D.M. 19.6.1998, n. 259

Art. 8 del d.l. 30.9.2003, n. 269

Provvedimento 23.7.2004

Bibliografia essenziale

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