Introduzione alla letteratura di Roma

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

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Introduzione alla letteratura di Roma

La produzione letteraria romana ci si presenta come il primo esempio, a noi noto, di che cosa significa raccogliere “in archivio” i testi di una grande cultura e metterli a disposizione di intellettuali che appartengono a una lingua e a una cultura diversa. A Roma, infatti, ciò che noi chiamiamo letteratura nasce dall’assimilazione del “grande archivio” messo insieme dai Greci con la sistemazione della loro produzione culturale del passato. Ciò non significa che la letteratura latina sia inferiore a quella greca, come in passato si è sostenuto: al contrario, è davvero appassionante potersi render conto di ciò che autori come Cicerone, Virgilio, Orazio o Seneca sono riusciti a creare, e a tramandare alle generazioni successive, vivendo questa esperienza di mescolanza e di ricreazione.La letteratura romana gode di un singolare privilegio: quello di nascere adulta. Se volessimo trovare un’immagine per illustrare questa affermazione – come del resto ci inviterebbero a fare i retori antichi – potremmo ricorrere alla seguente: rassomiglia a un innesto fatto sul ceppo di una pianta già cresciuta. Per quanto giovane, le sue radici saranno quelle di un albero annoso, per cui lo sviluppo del nuovo virgulto sarà necessariamente più rapido, più rigoglioso, più forte. Così è per la letteratura latina, che si è trovata a crescere sul ceppo di quella greca. Ma di questo parleremo fra un momento. Piuttosto, che cosa producono i Romani prima che la cultura greca sia massicciamente importata nella città? Quali sono le loro forme di comunicazione letteraria? Cominciamo dalle parole.

Quando i Romani vogliono indicare la poesia, dicono carmen. Si tratta di un termine antico, che essi sentono in qualche modo connesso con il verbo cano “cantare”. Dunque a Roma la poesia sarebbe stata in realtà un “canto”? Se così fosse, ciò costituirebbe subito una notevole differenza rispetto al nostro modo di intendere la poesia. Per noi, infatti, quest’arte non presuppone alcun uso melodico, o musicale, della voce. Per i Romani invece sì, la poesia prevede (a quanto pare) anche un uso melodico della voce umana. Ma quale tipo di uso melodico? Andiamo avanti, perché la parola carmen ha in serbo per noi altre sorprese.

A Roma infatti si chiamano carmina – al plurale – non solo le poesie, ma anche numerosi tipi di testi relativi ai campi più svariati della cultura: precetti, leggi, incantamenti, formule di giuramento, preghiere, oracoli, e così di seguito. Sotto i nostri occhi la categoria usata dai Romani per definire la poesia sembra sfaldarsi senza rimedio: se si possono chiamare carmina anche una legge o una preghiera al dio Marte – come quella, celebre, registrata nel De agricultura di Catone – dove va a finire la poesia? Credevamo di ascoltare le note arcane di un canto, invece stiamo assistendo alla solenne celebrazione di un sacrificio. In realtà la poesia, ovvero il canto, ci sono ancora, basta capire bene di che si tratta. Se si prendono infatti ad una ad una le produzioni che i Romani definiscono carmina – anche quelle apparentemente più lontane dalla poesia, come una formula di giuramento o il responso di un oracolo – si nota che tutte quante sono accomunate dalla stessa caratteristica: si tratta di testi che si presentano radicalmente diversi dal parlare comune. In altre parole, vengono definiti carmina degli enunciati concepiti non per essere usati e subito dimenticati (come accade con qualsiasi discorso quotidiano), ma per essere conservati nella memoria della comunità. Una legge, una preghiera, un vaticinio, un precetto di saggezza, e così di seguito, sono destinati a “durare” – la legge non si applica certo una volta sola, il sacrificio e la preghiera sono, come minimo, annuali. Tutte le composizioni che i Romani definiscono carmina, insomma, sono pensate in modo tale da poter essere ripetute ogni volta che se ne presenti la necessità. Per ottenere questo scopo, però, bisogna dare al discorso un taglio specifico: usando un lessico poco consueto, ma soprattutto costruendo parallelismi fra le singole frasi, creando giochi fonici capaci di colpire l’attenzione e la memoria – in una parola, ricorrendo agli strumenti dell’analogia.

Nella fase storica di cui stiamo parlando, infatti, la civiltà romana è ancora profondamente orale. L’uso della scrittura è limitato e sia la produzione, sia la conservazione dei testi, anche quelli più rilevanti, sono in definitiva affidate alla memoria. Nella società moderna, perché un testo possa “durare” basta metterlo per iscritto, meglio ancora se lo si inserisce in un libro o in una raccolta che porti un titolo autorevole (tipo Codice di diritto civile o Messale Romano). Ma come si fa ad ottenere lo stesso risultato in un mondo in cui tutti i discorsi si presentano uguali, perché tutti sono ugualmente fondati sulla bocca, sull’orecchio e sulla memoria? L’unica cosa da fare è costruirli in modo tale che essi si presentino immediatamente come diversi, usando uno stile ricco di allitterazioni, giochi fonici, echi, parallelismi e così di seguito.

Ma questo non basta ancora. È lecito infatti aspettarsi che, quando questi carmina vengono recitati, si faccia ricorso anche ad una dizione adeguata alla natura eccezionale del testo. In altre parole, che si utilizzino quei tratti che i linguisti definiscono soprasegmentali, come l’intonazione e il ritmo di frase: per far comprendere immediatamente all’uditorio che tipo di discorso sta ascoltando. Possiamo insomma supporre che, al momento di recitare un carmen, la voce assuma una curva melodica, musicale, e in qualche modo vada assomigliando a un canto. Ecco perché i Romani chiamano carmina (da cano “cantare”) i testi destinati ad entrare – e a restare – nella memoria della comunità. La poesia, intesa come successione di versi, fa ovviamente parte di questo insieme, e ne costituisce anzi uno degli esempi più ragguardevoli.

Non dimentichiamo infine che la lingua dei Romani ha una struttura che, per sua stessa natura, predispone al “canto”. Le vocali del latino hanno ciascuna una loro specifica durata – sono infatti brevi o lunghe, come note di differente valore – e ugualmente brevi e lunghe sono considerate le sillabe di cui ciascuna parola si compone. Quanto all’accento, anch’esso ha natura musicale, ossia corrisponde non ad una forte espirazione, come in italiano, ma ad un innalzamento ovvero abbassamento del tono della voce. Per un poeta romano, insomma, è abbastanza naturale “cantare”.

Noi non potremo mai ascoltare la melodia, se possiamo chiamarla così, di un antico carmen. È anzi lecito chiedersi se gli autori romani che ci sono noti l’avessero mai udita. Come dicevamo, infatti, quando si parla di carmen ci si riferisce ad una fase molto remota della cultura romana, ben diversa da quella che ci è attestata nei documenti scritti. Per fortuna qualche prosatore, o qualche grammatico, ha sentito la necessità di trascrivere, almeno, qualcuno di questi antichi carmina: sono preghiere, formule, incantesimi. Ma sono anche frammenti tratti dalla più antica poesia (scritta) dei Romani, la traduzione che Livio Andronico fa dell’Odissea di Omero e il poema che Gneo Nevio scrive sulla prima guerra punica, il Bellum Poenicum. In questi testi forse risuonano ancora alcune note dell’antico carmen: il metro usato è quello della poesia romana più antica – il saturnio, verso dei fauni e degli indovini – mentre il lessico e la sintassi appaiono ancora fortemente marcati dall’oralità e dalla costruzione analogica. Soprattutto, la dea che presiede a questa poesia non è la Musa dei Greci, come accadrà in seguito, ma è ancora la Camena: una divinità profetica e poetica nello stesso tempo, legata al mondo delle acque, il cui nome, come quello del carmen, i Romani sentono connesso con il verbo cano. Solo che, nel frattempo, nel Lazio si sta verificando un evento culturale di importanza capitale, non solo per i Romani ma anche per i moderni: l’incontro con la produzione letteraria dei Greci. Eccoci tornati al punto da cui siamo partiti: la letteratura romana nasce adulta.

Acculturazione ellenica a Roma

La velocità con cui a Roma si realizza l’acculturazione ellenica, se possiamo chiamarla così, ha qualcosa di impressionante. È un processo innescato dai “libri” dei Greci – rotoli di papiro, in latino volumina – ma che certo non potrebbe compiersi senza l’apporto di alcuni uomini i quali, a motivo della propria appartenenza culturale, di questi libri possono farsi mediatori. I primi autori romani, infatti, non sono cittadini di Roma. Livio Andronico è uno schiavo greco che viene da Taranto, Gneo Nevio è campano, Quinto Ennio è nato a Rudiae, in Puglia. Aulo Gellio racconta che Ennio aveva l’abitudine di dire che aveva tria corda, “tre cuori”, perché sapeva parlare greco, latino e osco. I Romani identificano infatti nel cor la sede delle capacità spirituali dell’uomo, la sua memoria, la sua cultura: in una parola qualcosa di simile a ciò che noi oggi definiremmo identità. Dunque Ennio, con le sue tre lingue, ha in certo modo tre identità, vivono in lui tre persone diverse.

In ogni caso, quel che accade a Roma in quegli anni ha del miracoloso. Nel giro di pochi decenni gli scrittori di Roma – autori cioè che compongono in latino – sono in grado di far passare la cultura romana dai carmina tradizionali alla composizione di opere raffinate, addirittura nello stile dell’ellenismo greco. Fra il III e il II secolo a.C. Ennio, il poeta di cui si è già detto, compone non solo il primo grande poema epico che celebra la storia romana, dalle origini mitiche ai giorni suoi, gli Annales, ma anche eleganti epigrammi e perfino poemetti scherzosi. Uno di essi, gli Hedyphagetica, è praticamente una gastronomia in versi, e per cantare le virtù dei pesci da mettere in pentola, trasformandoli ironicamente in valorosi eroi, Ennio si serve delle sue stesse formule epiche, facendo insomma il verso ai suoi stessi Annales. L’uomo di Rudiae usa con disinvoltura i metri dei Greci, e deride il saturnio dei suoi predecessori. Mentre spiega al suo pubblico che le Camenae altro non sono se non le greche Musae.

Più o meno negli stessi anni, Plauto, un umbro di Sarsina, traducendo e rielaborando liberamente i copioni dei commediografi attici, come Menandro, è capace di regalare al pubblico romano pièces di grande successo e, soprattutto, di eccezionale valore artistico. Per merito di Plauto, nel giro di pochi anni l’inventario occidentale dei generi letterari si accresce di una voce non trascurabile, la commedia romana, detta palliata. Creando un favoloso universo scenico in cui gli schiavi, per la loro superiore furbizia, trionfano sui padroni, e i giovani hanno ragione dei vecchi. Terenzio, un africano che di Plauto è un più raffinato continuatore, porta anzi questo genere alla condizione di un vero e proprio canone, ammirato, e soprattutto seguito, dal Medioevo fino al Settecento. Mentre Catone il vecchio, nonostante i suoi molteplici impegni di console e di censore, può mettere insieme un prezioso trattato di agricoltura, alcune orazioni dallo stile ancora tanto allitterante (eco degli antichi carmina?) quanto efficace, e soprattutto la prima grande storia non solo di Roma, ma anche delle altre città italiche: sette libri di Origines. E tutto ciò, dicevamo, avviene nel giro di pochi anni. Come è stato possibile?

Al generale tedesco Karl von Clausewitz si attribuisce, com’è noto, una frase tanto cinica quanto efficace: la guerra, diceva, costituisce “un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”. Proviamo a piegare questo schema di ragionamento in una direzione se non altro meno nociva. Potremmo dire allora che la produzione letteraria romana, da un certo punto in poi, costituisce “un seguito del procedimento letterario greco, una sua continuazione con altri mezzi” – mezzi linguistici e culturali, ovviamente. Non che i Romani siano stati, come talora si è detto in passato, semplicemente degli epigoni o degli imitatori dei Greci; tanto meno si può affermare che le opere composte dagli autori latini costituiscano addirittura un prodotto di seconda scelta. Solo un lettore prevenuto, o meglio sprovveduto, potrebbe affermare che l’Eneide è una brutta copia dei poemi omerici. Le cose sono molto più complicate di un banale concorso di poesia, con il primo premio assegnato al componimento più originale. I rapporti fra le culture, e dunque quelli fra i “prodotti” che ne derivano, non possono essere valutati in base a un criterio – quasi sempre arbitrario – di originalità, ma piuttosto in base al metro della continuità, ovvero del progressivo “nutrimento” letterario nel passaggio da una cultura all’altra. Il fatto è che i Romani hanno imparato dai Greci tanto quanto il Medioevo ha imparato dai Romani, e così di seguito, fino ad oggi. Una contesa poetica fra i Greci e i Romani non avrebbe senso. È inutile chiedersi se la letteratura e la poesia dei Romani siano inferiori o superiori a quella dei Greci: chiediamoci piuttosto che cosa è avvenuto, a Roma, allorché gli scrittori abbandonarono la Camena per rivolgersi senza rimpianti alla Musa.

La letteratura testimone dello sviluppo della società romana

A cavallo fra il IV e il III secolo a.C. nel mondo greco è stata compiuta una straordinaria opera di sistemazione e raccolta dei classici, se possiamo chiamarli così. I testi storici, filosofici, epici, tragici, comici, lirici, elegiaci e così via sono stati riuniti in grandi corpora e depositati in biblioteche che, come quella di Alessandria, costituiscono il vanto delle monarchie ellenistiche.

Ciò che è stato realizzato in quel periodo, dunque, è la creazione di un grande “archivio” testuale – oggi, nell’era del computer, possiamo renderci conto ancora meglio di che cosa ciò possa significare – un archivio che i Romani, quando accolgono la cultura dei Greci, si trovano a disposizione. Per questo all’inizio di questa introduzione abbiamo detto che la produzione letteraria latina nasce come un innesto realizzato su un ceppo le cui radici sono già profondissime, visto che scendono fino ad Omero. È per questo che essa può sbocciare, crescere e fiorire così rapida e rigogliosa. Lungi dall’essere una brutta copia della poesia e della cultura dei Greci, la produzione romana ci si presenta dunque come un fenomeno culturale di straordinario interesse. Essa costituisce il primo esempio, a noi noto, di che cosa significa trascrivere, raccogliere, depositare in archivi i testi di una grande cultura e, soprattutto, mettere questi archivi a disposizione di intellettuali che appartengono a una lingua e a una cultura diversa. Se Ennio dice di avere tria corda, “tre cuori”, perché sa parlare greco, latino e osco, gli autori latini delle generazioni seguenti avrebbero potuto dire più modestamente (ma con altrettanta verità) che di “cuori” ne avevano almeno due: uno romano, uno greco.

La storia va avanti, e trascina con sé tutte le mutazioni che caratterizzano lo sviluppo di una grande società. Di questo le opere letterarie costituiscono spesso la testimonianza più duratura. Quando Lucrezio si mette a comporre la sua grande opera filosofica in versi, il De rerum natura, la metrica che usa e la lingua poetica che si trova a disposizione sono ancora quelle del poeta Ennio, il quale è vissuto cent’anni prima di lui. Ma quale differenza! Se la “musica” dei versi è spesso la stessa, Lucrezio compone con un’angoscia interiore, personale, che certo Ennio (se mai la provò) non avrebbe certo pensato di esprimere. Soprattutto, Lucrezio si rivolge adesso a un pubblico che, dalla poesia, si aspetta non solo il racconto di epiche gesta o qualche raffinato gioco letterario, ma addirittura risposte sul mondo e sul significato dell’esistenza. Lucrezio, filosofo oltre che poeta, legge e studia le opere di Epicuro, un’altra sezione importante del “grande archivio” dei Greci, e contro le stesse opinioni del suo maestro, il quale non ha stima della poesia, si consacra a quella didascalica. E in versi si fa banditore di temi come il disinteresse degli dèi verso il mondo degli uomini, i mali provocati dalla religio, la fisica degli atomi (che ugualmente conduce l’uomo alla liberazione dall’angoscia della morte).

Quasi contemporaneamente a Lucrezio, un giovane di Verona, di nome Catullo, utilizza altre forme dei Greci – prima di tutto l’epigramma – per parlare di sé, dei suoi amici e dei suoi amori. Catullo vive in una società ormai ricca, colta, che ama la poesia e ancor più ama la vita. Da questa esperienza, che è prima di tutto un’esperienza sociale, di micro-società giovanile, nasce quello che ancora oggi chiamiamo il Liber di Catullo. Una raccolta poetica di grande originalità, in cui composizioni provocatorie, talora assai divertenti, si alternano ad altre appassionate fino alla disperazione. Ma il giovane veronese – chissà che cosa sarebbe riuscito a fare, se non fosse morto a trent’anni – non rinunzia neppure ad apparire poeta dotto, alla maniera degli alessandrini. E compone carmi di argomento mitologico e poemetti che si rifanno ad esoteriche forme religiose: il suo Attis costituisce l’impressionante testimonianza di come si sentiva, o di come avrebbe dovuto sentirsi, un fanatico adepto della dea Cibele condotto fino all’autocastrazione dal proprio furore religioso.

Ma la storia, come dicevamo, va avanti, e trascina con sé gli eventi e le trasformazioni di una grande società. Ed è così che incontriamo Cicerone. Una personalità certo fuori dal comune, talora perfino imbarazzante. La sua tendenza ad elogiarsi, le sue ambiguità (se non il suo cinismo) in campo politico, possono anche renderlo antipatico. E poi, come si fa a scrivere un’opera contro la divinazione e, nello stesso tempo, far parte del collegio degli augures? Dichiarando anzi ufficialmente che, per il bene della res publica, è assolutamente indispensabile mantenere, anzi promuovere quei riti in cui lui stesso non crede – salvo poi servirsene, in politica, al momento opportuno. Tutto questo, però, non può farci dimenticare che il De divinatione è una grande opera di ispirazione “illuministica” (almeno la parte sull’astrologia dovrebbe esser letta nelle scuole: ma non per farne la versione in italiano, piuttosto per imparare a stare alla larga dagli oroscopi). Simpatico o antipatico che sia, Cicerone costituisce uno degli snodi fondamentali della nostra cultura, forse l’esempio più lampante dell’innesto latino rigogliosamente cresciuto sulle radici greche. A lui la cultura romana deve il massiccio ingresso, nella propria enciclopedia culturale, dell’oratoria e della retorica. Non solo per le orazioni che da lui sono composte, veri e propri capolavori dell’arte del dire, ma per il suo interesse teorico, scientifico, alle regole della composizione oratoria. Non si pensa mai che il “periodare” delle lingue moderne – quegli stampi formali in cui le parole si distendono per articolare il pensiero in modi di volta in volta diversi – si è sostanzialmente modellato su quello che Cicerone pratica nelle sue orazioni e insegna ai propri continuatori attraverso opere come il De oratore. Senza l’uomo di Arpino – homo novus, non aristocratico, solo molto dotato dalla natura – noi parleremmo e scriveremmo in un modo diverso. Soprattutto, però, Cicerone mette a disposizione dei Romani una sorta di enciclopedia filosofica, se così possiamo chiamarla, rendendo accessibile al pubblico più vasto la filosofia greca. Ed ecco che, ancora una volta, nell’esperienza culturale romana ci imbattiamo nel carattere della rapidità – quella del virgulto che in breve si sviluppa rigogliosamente dalle radici di un ceppo più antico. Ma stavolta del processo fanno parte anche la drammatica esperienza politica della città e quella, esistenziale ma altrettanto drammatica, dell’autore.

Negli ultimi anni della sua vita, infatti, Cicerone si è trovato completamente tagliato fuori dalla vita pubblica di Roma. Al momento di scegliere fra Cesare e Pompeo, Cicerone ha commesso l’errore di unirsi a Pompeo: solo che ha vinto Cesare. Per fortuna il nuovo padrone di Roma non è un Lucio Silla, ed è convinto che si possa ottenere molto di più con la clemenza che non con le persecuzioni. Cicerone ha salva la vita e le sostanze, ma non può certo chiedere alla clemenza di Cesare di restituirgli anche il ruolo politico di cui ha goduto per così tanti anni. Cicerone ha perso, e l’unica cosa che gli rimane da fare è quella di ritenersi comunque fortunato e di godersi gli agi di casa sua. Ma che cosa ci fa, a casa, uno come Cicerone?

Si mette dunque a scrivere di filosofia, e in pochi anni, in pratica dal 46 al 44 a.C., compone un’impressionante quantità di trattati filosofici, molti dei quali, se non addirittura tutti, destinati a influire grandemente sullo sviluppo intellettuale della nostra cultura: gli Academica, le Tusculanae disputationes, il De natura deorum, il De senectute, il De divinatione e così via. Scrivendo di filosofia in latino – anche per coloro cioè che non conoscono abbastanza greco per poter leggere le opere originali dei maestri – gli pare di compiere comunque un grande servigio per lo stato. Come lui stesso scrive, “nei miei libri facevo le mie dichiarazioni di voto, pronunciavo i miei discorsi pubblici, consideravo insomma la filosofia un sostituto di quello che per me era stata l’amministrazione dello stato” (De divinatione II 7). È questo il modo, rapido e drammatico, in cui una buona parte della coscienza filosofica successiva viene formata. Basti ricordare che nel De divinatione, l’opera a cui più volte abbiamo già fatto riferimento, vi sono accenni a Cesare dittatore, ben vivo, e al suo omicidio. Le domande che Cicerone si è posto – si può predire il futuro? e chi pretende di farlo possiede vera scienza? – trovano dunque risposta a cavallo di uno dei passaggi più drammatici della storia di Roma.

La storia, però, va avanti, e adesso incontriamo Virgilio. Come Catullo neppure lui è romano, e come lui viene dal nord. Quando compare all’orizzonte della poesia latina, Virgilio è un giovane mantovano, nato in un piccolo villaggio di nome Andes. Roma sta vivendo uno dei momenti più drammatici della sua storia. La guerra civile fra Cesare e Pompeo prima, fra Ottaviano e Antonio dopo, ha insanguinato e insanguina non solo le province, ma anche il suolo italiano e quello di altre regioni dominate da Roma. Virgilio compone poesia bucolica, ispirandosi al genere rappresentato in Grecia da Teocrito. Sono dieci ecloghe in cui, però, non si parla solo di pastori innamorati e di fanciulle ritrose. La guerra lascia giungere i suoi echi anche in questa Arcadia collocata sul Mincio, mentre all’orizzonte balenano lampi di speranze messianiche. Ma la ricchezza poetica di Virgilio è troppo grande per limitarsi al mondo pastorale. Man mano che si avvicina alla corte di Augusto, e al suo ministro della cultura, Mecenate, il mantovano passa così al genere didascalico e compone le Georgiche: un poema che insegna a coltivare la terra e ancor più intende persuadere i Romani che proprio lì, nella terra, sta la “verità” della cultura e della tradizione romana. Solo che la Roma di Augusto attende soprattutto un poema epico che celebri finalmente l’identità romana, come si direbbe oggi. I tempi sono maturi per scrivere in latino qualcosa che superi addirittura l’Iliade: e soprattutto, sembra che a desiderare questo sia il principe in persona.

Virgilio comincia dunque a lavorare al suo grande poema, non sapremmo dire se con passione o con angoscia. Qualche frammento di corrispondenza, lettere scambiate fra lui e Augusto, potrebbe testimoniare entrambe le cose. Il lavoro cresce, pur se il poeta partorisce pochi versi al giorno e poi procede di lima – o meglio “di lingua”, come sembra che lui stesso dica: paragonando la propria creazione poetica a quelle orse che, dopo aver partorito orsacchiotti grossolani, danno loro forma leccandoli pazientemente. Quando Virgilio muore, considera che la sua opera non sia compiuta, e lascia scritto che la si deve bruciare. Ma Augusto lo proibisce, “facendo violenza alla modestia di quel testamento”, come scrive Plinio il Vecchio. Forse Virgilio non è contento dei versi ancora incompiuti che rimangono qua e là nel poema, e magari vorrebbe mutare ancora l’ordine di alcune parti. O forse, nel profondo del suo animo, teme di non aver scritto il poema che Augusto si aspetta.

Non c’è dubbio che, nell’Eneide, la gloria di Roma, della famiglia Giulia, di Cesare, di Augusto stesso, siano presenti in una misura che a volte è perfino imbarazzante. Solo che le cose sono molto più complicate di così – perché nell’Eneide c’è l’epos, certo, c’è l’ideologia imperiale, ma anche il suo contrario. Che dire infatti di un poema in gloria di Enea e di Roma i cui protagonisti sono in definitiva degli sventurati, i Troiani? Che celebra le vittorie dei “nostri”, i Troiani/Romani, ma altrettanto spesso si china a piangere sulle ferite e sui cadaveri degli Italici vinti? I Troiani hanno realizzato il disegno di Giove, ma per farlo hanno dovuto abbandonare una città in fiamme e insanguinare la terra che sono stati chiamati ad invadere. Vale la pena? A dispetto di tanta “ideologia” imperiale sparsa nel poema, la lettura dell’Eneide lascia il lettore – oggi come ieri – con questa drammatica domanda sulle labbra. A tale proposito, anzi, c’è una storia recente – critica e poetica nello stesso tempo – che vale la pena di essere raccontata.

Nella prima metà del Novecento, specialmente in Inghilterra, Virgilio non è troppo ben giudicato. Per usare l’espressione coniata a suo tempo da Matthew Arnold, la sua opera appare “inadeguata” a descrivere la civiltà romana al suo apogeo. Quasi che l’Eneide – specie se confrontata con quanto avevano saputo dire della Grecia classica i grandi tragici o gli storiografi – non sia in grado di rappresentare degnamente lo splendore politico e culturale dell’età in cui è stata concepita, quella di Augusto. Nel 1944, però, nel Presidential Adress alla “Virgilian Society”, Thomas Stearns Eliot sancisce pubblicamente la “maturità” dell’opera virgiliana – inaugurando in questo modo una formula critica (il classico come opera “matura”, capace di sintetizzare per intero il senso di un’epoca) che tanta fortuna è destinata ad avere in seguito, soprattutto nel mondo anglosassone e tedesco. Perché questo brusco cambiamento dall’inadeguatezza alla maturità? Perché l’Eneide, che solo alcuni decenni prima appariva incapace di rappresentare degnamente il proprio tempo, adesso diventa un caposaldo della pienezza e della maturità?

Il fatto è che improvvisamente, perfino drammaticamente, l’Eneide appare “adeguata” a rappresentare la congiuntura in cui si trova la civiltà europea sconvolta dalla seconda guerra mondiale. Incapace di descrivere la Roma di Augusto, Virgilio si dimostra capace di descrivere noi. La pietà per i vinti, il disagio dei vincitori, l’orrore per la morte e per la desolazione, il senso di nausea che nasce di fronte alla fine di Lauso, Pallante, Eurialo, Niso – i giovani coperti di sangue – tutto questo fa dell’Eneide un poema assolutamente “postbellico”. Un poema che, proprio nella sua interna frantumazione ideologica e poetica, è l’unico capace di rispecchiare un mondo oggettivamente in frantumi. L’affacciarsi di Enea con Anchise sulle spalle e Ascanio per mano si rivela così un incontro capitale per tutta la generazione a cavallo della guerra. Ecco perché ad incontrare Enea, questo Enea, sono in Europa poeti del calibro di Giorgio Caproni. Il Passaggio di Enea (questo il titolo di una delle sue poesie più note), ambientato in una desolata piazza di Genova bombardata, altro non è se non il passaggio di chiunque porti sulle spalle il proprio passato: mentre per mano tiene una fragile speranza.

Alla corte di Augusto Virgilio non è certo solo, i suoi compagni di strada, se così si può dire, sono molti ed eccellenti. A cominciare da Livio, il primo grande storico di Roma, che vuole racchiudere tutta la vicenda della città dai suoi inizi all’impero. Neppure lui è romano, e anche lui viene dal nord, da Padova. Scrivere storia in un momento in cui è ancora vivo il ricordo delle guerre civili, che tanto sangue hanno sparso, non deve essere cosa facile. In congiunture del genere il lavoro dello storico, anche quello di chi si occupa del passato più remoto, rischia ad ogni momento di far ricordare, di far soffrire o addirittura di offendere. Cosa che Livio rischia, si può dire, subito all’inizio della sua opera, narrando le vicende del mitico passato di Roma. Anche questa è una storia che vale la pena di raccontare, perché riguarda direttamente i rapporti fra Augusto e gli scrittori che a lui fanno capo.

Sulla fondazione di Alba Longa, la città da cui sarebbero un giorno venuti Romolo e Remo, circolano due versioni differenti. Alcuni sostengono che a far nascere la città sia stato Ascanio, figlio di Enea e della moglie latina di lui, Lavinia; altri che sia stato Iulo, il figlio che Enea ha avuto da Creusa, la moglie troiana perita nell’incendio della città, e giunto con lui in Italia. La scelta fra questi due rampolli di Enea non è affatto indifferente, perché dal mitico fondatore di Alba Longa – Ascanio o Iulo? – sarebbe poi discesa la dinastia dei re di questa città, fino a Numitore: dalla cui figlia, Ilia o Rea Silvia, sarebbero stati a loro volta generati i gemelli – e quindi il fondatore stesso della Città, Romolo. In altre parole, scegliere fra la versione che assegna ad Ascanio (troiano e latino) la fondazione di Alba, e quella che l’assegna invece a Iulo (il troiano), significa determinare l’identità genealogica di Romolo, il fondatore di Roma. Ma che cosa può aver a che fare questa discrepanza fra versioni mitiche con il potere di Augusto? Basta ricordare che il princeps, attraverso Cesare, si richiama ad Enea proprio a motivo della discendenza da Iulo (la loro gens era la Iulia): e dunque ha tutto l’interesse ad accreditare l’idea che a fondare Alba Longa – e dunque a porsi come capostipite di Romolo – sia Iulo, non Ascanio. Come se la cava, Livio, di fronte a questa scelta? Sostanzialmente con un sorriso. “Non starò a chiedermi” scrive “se a fondare Alba sia stato Ascanio o Iulo. Chi potrebbe affermare qualcosa di sicuro parlando di eventi così antichi? Per certo, si trattava del figlio di Enea” (Livio, Dalla fondazione di Roma, I, 1). Forse sono ancora tempi in cui un sovrano come Augusto può non solo accettare, ma perfino apprezzare l’ironia.

Fra i compagni di strada di quegli anni, quelli augustei, non potremo dimenticarci di Orazio. Già la sua stessa apparenza fisica meriterebbe di essere ricordata. Di lui si diceva infatti che fosse un uomo piccolo, non bello, di estrazione sociale abbastanza mediocre. Eppure ha la straordinaria forza di dare una nuova misura – la sua – alla grande cultura greca. Con lui la riflessione filosofica sulla vita, specie quella di Epicuro, prese la veste di Satira, di Epistola, e in versi comincia a parlare un linguaggio incredibilmente quotidiano; mentre la poesia lirica di Saffo ed Alceo, persino i toni elevatissimi di Pindaro, accettano di buon grado la disciplina delle sue Odi: e in questa forma esse hanno scavalcato il mare dei secoli. Ecco che cosa è riuscito a fare Orazio nell’arco di una vita animata da una forza creativa che pochi artisti del passato hanno avuto. Se a questo si aggiunge che Orazio ha avuto passione non solo per la poesia, ma, quasi in pari misura, per le sue regole – oggi si direbbe che praticava una critica letteraria “militante” – forse si avrà un’idea un po’ meno stereotipa dell’importanza di questo personaggio. Con la sua Arte poetica, infatti, Orazio ha insegnato a scrivere a innumerevoli generazioni di poeti e di scrittori, fino a ieri. Ma che uomo è, in definitiva, Orazio? Nella sua vita, e quindi anche nella sua poesia, cogliamo in realtà una cifra che lo avvicina immediatamente non solo alla nostra modernità, ma anche alla nostra simpatia: la depressione.

Ormai da molti anni, infatti, la critica moderna non crede più che Orazio rappresenti la quintessenza dell’equilibrio apollineo. “Orazio fu un uomo ansioso... noi diremmo nevrotico”: così ha scritto Alfonso Traina in uno dei suoi saggi più belli e, fortunatamente, anche più accessibili (Introduzione a Orazio. Odi e epodi, Milano, 1992). Classicismo e razionalismo sembrano aver fatto a gara nel tramandarci l’immagine di un Orazio sereno, ironico, straordinariamente equilibrato: forse perché l’incredibile perfezione del suo stile invita a presupporne altrettanta nell’uomo. Ancora Sainte-Beuve mostra di credere “che non ci siano mai stati scrittori più felici di Orazio”. Ma si sbaglia. Del resto, come scrive ancora Traina, si sa che “l’acume del Sainte-Beuve fa le sue prove migliori sui mediocri piuttosto che sui grandi”. In realtà, già i Romani hanno ben compreso quale sia la vera natura di Orazio, visto che un antico commentatore dell’Arte poetica nota: “si dice che Orazio fosse un “melancholicus”. Per descrivere la psicologia del poeta lo scoliasta si serve di un termine medico, che evoca i Problemi aristotelici, la “bile nera” e lo scientifico “temperamento” degli umori nel corpo. Ma per parlare di sé, per descrivere la cupa affezione dell’animo che a volte lo afferra, Orazio usa invece una parola antica: veternus. Si tratta di una parola la cui connessione con vetus “vecchio” è (ahimè) più che evidente. Il veternus corrisponde a quel morbo dell’animo che sprofonda gli uomini nel torpore e nella dimenticanza: proprio come avviene durante la senescenza biologica.

Dunque, indirizzando una delle sue Epistole (I, 8) all’amico Celso Albinovano, Orazio scrive: “non vivo né bene né con gioia. E non perché la grandine ha rovinato la vigna, o la calura ha morso l’oliveto [...] ma perché più del mio corpo ho l’animo malato: né mi sento di ascoltare nulla, sapere nulla, che possa alleviare il mio malessere. Mi irrito con i fidi medici, mi arrabbio con gli amici, perché cercano di scuotermi dal mio funesto torpore (funesto... veterno). Corro dietro a quel che mi ha fatto male, e fuggo quel che potrebbe giovarmi. A Roma desidero Tivoli, a Tivoli rimpiango Roma [...]”. Orazio si sente sano, privo di preoccupazioni reali: eppure la sua anima è malata. Pur essendo un uomo ancor giovane e pieno di vita (morirà a 43 anni), il poeta si sente come chi è ormai preda della vecchiaia, della sua lentezza, della sua inabilità e pigrizia. Immerso in un funereo veternus, è incapace di muoversi ma anche incapace di star fermo. Il suo male sembra insomma consistere in una “depressione ansiosa”, come diremmo noi. Ma per la verità lo dice molto meglio Orazio, in un’altra Epistula (I, 11), quando parla di strenua inertia: il “sollecito torpore”, la “smaniosa immobilità” che caratterizza chi ha male dentro.

Questa definizione (lui l’avrebbe forse chiamata callida iunctura, “accorto abbinamento” di parole) non solo enuncia in modo impeccabile i due estremi fra cui incessantemente si agita la depressione ansiosa, ma suscita anche il ricordo di alcune remote dee della religione romana arcaica che presiedono per l’appunto a certi stati dell’anima. Si chiamano Strenia e Murcia, dea dell’energia e dell’attività l’una, dea del torpore (del “marcire”) l’altra. Nell’immagine oraziana queste due dee sembrano fondersi in una creatura mostruosa, la strenua inertia: una Furia che a un tempo paralizza e pungola, mentre accende di smania un animo irrimediabilmente sonnolento.

Orazio non è certo il solo interprete di una delle maggiori stagioni poetiche della cultura occidentale. Accanto a lui vi sono infatti i poeti elegiaci, Properzio e Tibullo soprattutto. Dei quali bisognerà almeno dire che con loro, per la prima volta, a Roma l’amore si fa professione, scelta di vita, beatitudine o dannazione a seconda dei momenti. A patto naturalmente che questi poeti, come invece si sospetta, non inventino gran parte di ciò che scrivono. Ma parlando della Roma di Augusto, bisogna parlare soprattutto di Ovidio. Benché venga da Sulmona, infatti, nessun altro poeta della generazione augustea ha rappresentato meglio di lui lo spirito della città. Da tempo a Roma la società ricca ha sviluppato il gusto per la cultura elegante, per l’ironia, per la raffinata trasgressione – in una parola, per quel complesso di atteggiamenti che in latino vengono indicati proprio con il nome di urbanitas, parola che designa il “carattere cittadino” e la “raffinatezza ironica” nello stesso tempo. Ovidio sa esaltare questa dimensione della cultura contemporanea, e la società augustea, specchiandosi nei suoi versi stupefacenti, si vede finalmente come vorrebbe essere.

Ovidio è un poeta che scrive con grande facilità, ma non con superficialità. Il fatto è che, dalla natura, egli ha avuto in dono un talento fuori dall’ordinario: l’ottima educazione retorica giovanile ha fatto il resto. Quello che colpisce di lui è la possibilità di scrivere, e di descrivere, praticamente qualsiasi cosa, e di farlo sempre in modo perfetto. Persino troppo perfetto, per accorgersene basta leggere le sue Metamorfosi. Questa capacità poetica resisterà persino al dramma dell’esilio, quando Augusto lo spedirà a Tomi, sul Mar Nero, per una colpa destinata a rimanere per noi misteriosa. Anche da lì, infatti, Ovidio continua a scrivere poesia, compose dei versi (o almeno così dice) persino nella lingua dei Geti, gli abitanti di quel luogo. La scrittura gli parla dentro, è più forte persino della sua infelicità, più forte dei ghiacci e della miseria di Tomi. Questo poeta che è stato capace di ridurre tutto alla finzione elegante della letteratura, una Musa deve avercela davvero: e non solo per figura retorica. Ma se parlando di Ovidio ci soffermiamo specialmente sulla poesia dell’esilio, e non sullo scintillante ingegno con cui sono architettate le sue Metamorfosi o sull’erudizione (talora perfino ironica) con cui mette in distici elegiaci il calendario romano, nei Fasti, lo facciamo per un motivo ben preciso. A Tomi Ovidio vive un’esperienza drammatica non solo dal punto di vista personale, ma anche culturale. Un’esperienza che oggi, in un mondo in cui spostamenti, fughe, esili e migrazioni sono al centro della nostra attenzione umana, ci riguarda in modo particolare: la perdita dell’identità.

Non che, nel mondo imperiale, sia infrequente essere colpiti dalla pena della relegazione; stavolta però l’esiliato, scrittore fra i più acuti e sensibili della romanità, ha compilato un vero e proprio diario, se pure in forma poetica, delle sue tristi esperienze. Come si è detto, infatti, neppure nella selvaggia Tomi Ovidio rinunzia a quella che è la ragione stessa della sua vita, la scrittura. Nei suoi Tristia e nelle sue Epistulae ex Ponto, accanto a ricordi del suo passato nell’Urbe, lamenti per la propria sventurata condizione e suppliche perché gli sia permesso di tornare, il poeta registra anche molte delle esperienze, soprattutto emotive, che caratterizzano la sua vita presente. Ci troviamo insomma di fronte al racconto di un romano di raffinata cultura – esponente di spicco di una delle società più progredite che ci siano al mondo – il quale si trova proiettato in una realtà che gli appare sconosciuta, ostile, barbara. Ovidio insomma incontra l’alterità in una maniera dura, priva di mediazioni. In questo senso egli costituisce in qualche modo l’emblema dell’esiliato, paradigma di tutti coloro che un’avversa sorte, una guerra o qualche altra calamità ha costretto ad emigrare in un paese di cui non comprende né la lingua né la cultura, ed in cui è condannato alla perenne nostalgia per una terra che non vedrà più. Di una terra e, potremmo aggiungere, di una lingua, quella materna, che non può parlare con nessuno e che non avrà mai più la sorte di ascoltare. Una sorte drammatica, oggi più attuale che mai, disgraziatamente, in un mondo che della continua migrazione dai paesi poveri verso quelli ricchi, ha fatto quasi la normalità. Così come del resto lo è nell’Ottocento e nel Novecento, con l’inarrestabile flusso di immigrati che lascia l’Europa per le Americhe. Anche allora molti italiani si scoprono “sordi e muti” in America, così come oggi lo sono in Europa molti migranti africani o orientali. Che cosa racconta Ovidio?

Come dicevamo l’isolamento a cui Augusto lo ha condannato non è solo geografico, ma anche linguistico. Fra le lamentele più frequenti, e più amare, che il poeta ci trasmette, sta infatti quella di non riuscire a comprendere quel che gli dicono gli abitanti del luogo, anzi il timore di essere deriso per questo; e reciprocamente, la vergogna per non riuscire a farsi comprendere da loro. Tutto intorno a lui è barbarie – nel senso greco originale del termine, “balbettamento incomprensibile” – nessuno che sappia ricambiargli una parola nel sermo della sua patria. Egli è costretto a esprimersi a gesti, e quante volte avrà detto “sì” quando invece avrebbe dovuto dire “no”! Ma non basta. Nell’animo di Ovidio sembra farsi strada anche una preoccupazione complementare: quella di perdere il controllo della lingua materna, “inquinandola” con parole barbare. Sono testimonianze di grande interesse, e vale la pena vederle per esteso (Tristia, III, 14, 45 sgg.): “A volte mentre cerco di dire qualcosa (mi vergogno a confessarlo) mi mancano le parole, ho disimparato a parlare (dedidicique loqui). Sono circondato da suoni traci e sciti, e a volte mi sembra di poter scrivere in versi geti. Credimi, ho paura che nei miei carmi ci siano parole pontiche, e che tu le legga”.

Nel suo caso, poi, la perdita del controllo sulla lingua materna suona perfino ironica, paradossale. Il signore della lingua di Roma che, praticamente, balbetta (Tristia, V, 7, 55 sgg.): “Io, vate romano (perdonate o Muse), sono costretto a dire la maggior parte delle cose in lingua sarmatica. Mi vergogno ma lo ammetto, ormai, non usandole ormai da lungo tempo, le parole latine mi vengono a stento”. Per questo, prosegue Ovidio, a volte mi esercito a parlare da solo. E infine (Tristia, V, 12, 57): “Ho paura di aver dimenticato il latino, perché ho imparato a parlare getico e sarmata”.

La consuetudine con le lingue barbare fa balenare ai suoi occhi non solo la preoccupazione di perdere la competenza della propria ma, si intravede, l’angoscia di perdere la sua identità, come diremmo noi. Fuori dalla lingua di Roma Ovidio non è più se stesso, ma un altro. Rivolgendosi al suo amico e protettore Mecenate, il Virgilio delle Georgiche scriveva così (II 46 s.): “Non voglio parlar di tutto nei miei versi, no, neppure se avessi cento bocche, cento lingue e una voce di ferro”.

Neppure noi possiamo parlare di tutta la letteratura romana in poche pagine, magari ne fossimo capaci. Se decidessimo di farlo, comunque, dovremmo almeno rivolgerci alle opere filosofiche di Seneca – oggi che tanto si parla di volontariato, di dono, di nuova economia, vale davvero la pena di rileggere il suo De beneficiis – così come alle sue tragedie altrettanto filosofiche; poi alla luce fosca che avvolge il poema di Lucano (del resto egli vive in un periodo storico che si fa un dovere di uccidere i propri intellettuali), poi ai poeti epici che si ispirano a Virgilio come un geometra applica la tavola dei logaritmi, Silio Italico in particolare; poi all’inquietante misura umana e stilistica che, nel bene come nel male, si identificano nell’opera storica di Tacito, uno dei conoscitori più disincantati e profondi dell’animo umano; infine alle straordinarie ironie di Marziale, o alla bile di Giovenale che, oltre alle donne, odia anche gli ebrei; senza dimenticare Claudiano autore di versi degni spesso di Ovidio, e Rutilio Namaziano, che alla fine dell’impero scrive un poemetto pieno di nostalgia per descrivere il suo (ultimo) viaggio da Roma alla Gallia. Troppo, se non si ha una voce di ferro. Lo spazio che ci resta potremmo dunque dedicarlo a un tema più generale, ma anche più diretto, di quanto non potrebbe esserlo una galleria di scrittori: chiedendoci, in altre parole, perché. Perché la letteratura latina si legge ancora?

Una risposta a questa domanda – che è ovviamente assai impegnativa – in realtà ce la fornisce già il verso di Virgilio che abbiamo appena citato. Non per quello che dice, o che esprime, ma perché è un verso di Virgilio. E soprattutto perché noi lo abbiamo spontaneamente utilizzato per parlar d’altro, come se fosse un proverbio, un paradigma, un exemplum (così avrebbero detto i Romani). La letteratura romana, in altre parole, si legge ancora perché la nostra cultura – quella che definiamo europea, o occidentale – viene in buona parte da lì. E quando intendiamo trovare un esempio da citare, un precedente, un’immagine, spesso ci rivolgiamo ancora alla letteratura dei Romani. Gli scrittori latini infatti non sono stati solo i grandi rappresentanti letterari del loro tempo: sono autori che fino a non molti anni fa sono direttamente ritenuti modelli da imitare, che bisogna studiare non tanto per ricostruirne storicamente il pensiero o la poetica, come oggi facciamo nelle nostre università, ma perché da loro, e solo da loro, si può “imparare a scrivere”. Interpretate dai posteri non solo come testi da leggere ma come modelli da imitare, le opere dei Romani si trasformano col tempo in veri e propri paradigmi, in insiemi di regole: che bisogna in qualche modo “applicare” se si vuole sperare di comporre opere degne di ammirazione. Testi come le Orazioni di Cicerone, l’Eneide o le Odi di Orazio assumono un valore in qualche modo imperativo: la loro forma letteraria e ancor più i loro contenuti (visioni del mondo, della guerra, dell’amore, della vita) si trasformano nell’orizzonte antropologico dentro cui prende progressivamente forma ciò che di nuovo si viene facendo nel mondo della cultura. Lungo questo cammino, che passa attraverso il Medioevo, l’umanesimo, il Rinascimento e l’età moderna, la letteratura romana ha influito profondamente sul modo di vivere e di pensare che ci è proprio. Se dunque si ha il coraggio di lanciare uno sguardo “lungo” sul passato letterario che ci precede, possiamo comprendere cosa ha significato, per noi, il gioco degli “archivi” – la metamorfosi della letteratura greca in letteratura latina, realizzata da quegli scrittori romani che, come abbiamo detto, hanno avuto due cuori. Un grande patrimonio culturale, quello greco, a Roma è travasato dentro un contenitore nuovo: e da qui esso ha lasciato filtrare la sua mutata essenza nel corpo della letteratura e della cultura successiva, fino ad oggi.

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