Introduzione alla musica dell’Ottocento

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Luca Marconi e Cecilia Panti
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Premessa

Non è certo facile definire in una rappresentazione sintetica la vicenda della musica occidentale nel corso dell’Ottocento, un secolo che vede così ampie e rapide trasformazioni culturali, sociali, politiche, scientifiche, tecniche e anche psicologiche, all’interno delle quali naturalmente si muovono e si sommuovono le forme della creazione musicale e che cambiano profondamente i modi della produzione e della fruizione della musica. In campo musicale la trasformazione decisiva, nell’Ottocento, è il compiersi di quella mutazione dell’antico e “servile” rapporto fra il musicista e la società verso un rapporto nuovo e “professionale”, mutazione che era iniziata alla fine del secolo precedente.

Ovviamente, da questa rinnovata collocazione e funzione del musicista procedono anche la generale diffusione e il progressivo radicamento di una diversa coscienza sociale della musica.

Professione musicista

La ricollocazione della musica si pone quale conseguenza del procedere di un secolo che concepisce e realizza non soltanto la fabbrica e gli strumenti di una straordinaria evoluzione tecnologica, ma anche lo Stato liberale borghese con i suoi necessari supporti – il Parlamento, la banca moderna, la borsa, la società azionaria, le Esposizioni universali, le assicurazioni, il complesso sistema dei commerci internazionali, la geografia spesso drammatica e crudele degli imperi coloniali – e genera, nella lotta di classe, il suo contrario.

Questa società che lega il suo sviluppo e le sue sperimentazioni al progresso scientifico e allo sviluppo della finanza inevitabilmente spinge fuori dalle sale delle accademie i suoi scrittori per misurarsi con il pubblico del romanzo e i suoi musicisti con il pubblico dei concerti. Questa società fa della musica, per la prima volta nel nostro Occidente, una forza spirituale sentita e coltivata come tale, libera il musicista dalla servitù della Chiesa e della corte e gli impone, come libero professionista, il confronto con il pubblico pagante e con gli editori.

Per cogliere nel vivo dell’esperienza concreta, il senso e il valore di questa mutazione di stato dei musicisti è sufficiente rileggere in parallelo le lettere di Mozart al “servizio” del vescovo di Salisburgo e quelle di Beethoven, “libero professionista”, al suo editore.

Nell’Ottocento il mutare della collocazione della musica nella società non è soltanto conseguenza delle trasformazioni imposte dallo sviluppo economico capitalistico nella sua estesa complessità, ma anche del successivo affermarsi di una prima insospettata “coscienza estetica”, non soltanto in rapporto alla musica, ma soprattutto in rapporto a essa. Giustamente Carl Dahlhaus ha definito l’Ottocento l’“epoca dell’estetica”: noi possiamo infatti cogliere il progressivo e rapido imporsi di un “paradigma estetico” che, manifestandosi prima in ambito critico e saggistico, con il procedere del secolo anima quelle costruzioni teoriche e filosofiche che condurranno al formarsi della musicologia moderna. In questo clima, che ridisegna il posto del musicista e il significato dell’opera musicale, la “coscienza estetica” trapassa al pubblico fino a configurare un modo generale di considerare la musica che appartiene ormai al nostro tempo.

È proprio in questo panorama che si definisce il concetto di “diritto d’autore”, un concetto prima sconosciuto ma ormai inevitabile allorché il musicista, non più stipendiato dalla Chiesa o dalla corte, è un libero professionista che deve tutelare un bene soltanto di sua proprietà.

Si assiste di conseguenza all’imporsi, anche legislativo, del concetto di plagio e all’affermarsi – questa volta a livello ideologico – del principio dell’intangibilità dell’opera d’arte.

La musicologia

Riflessioni filosofiche e interessi economici si fondono e si confondono, non è quindi un caso che nella seconda metà dell’Ottocento prenda corpo la musicologia moderna, una nuova disciplina che – nel clima positivista – vuole gettare le basi per un’interpretazione scientifica della musica. La parola “musicologia” viene coniata nel 1863 da Friedrich Crysander che assegna a questa nuova scienza il compito di “trattare la totalità della musica sulla base di fondamenti scientifici unitari”, nel convincimento che anche i prodotti dello spirito possano essere oggetto di interpretazione scientifica.

Il nascere e lo svilupparsi della scienza musicologica sono contributi ulteriori alla proposizione della musica, quest’arte “evanescente” che non può rappresentare il vero e il reale, che era sfuggita – per la sua natura – anche all’impegno di articolazione del sistema delle arti degli illuministi, nel rispetto della realtà totale dell’umano sapere.

L’imporsi della “coscienza estetica” e l’impegno scientifico della nascente musicologia moderna portano per la prima volta la musica a un alto e autonomo livello culturale e artistico. Ma i due processi – “coscienza estetica” ed elaborazione scientifica – determinano anche una sempre più forte contraddizione, in quanto la concezione “estetica” genera un movimento continuo di contrasti e conflitti critici. Una diffusa e permanente conflittualità è infatti propria della “cultura estetica”: ogni affermato valore postula un corrispondente disvalore e i valori, in questo contesto, si fanno sempre più numerosi e aggressivi, in quanto ogni valore cerca di imporsi quale unico legittimato rappresentante dell’arte musicale nel suo momento.

Avanguardie e musica leggera

È dunque l’Ottocento che in questo contesto genera quel concetto di “avanguardia” che segnerà così profondamente la vita artistica (e non soltanto musicale) del nostro secolo e che già si manifesta (anche in forme virulente) nella seconda metà del secolo precedente. È sufficiente ricordare la fiera battaglia tra wagneriani e antiwagneriani, con i suoi armati schieramenti e il suo fuoco polemico.

Ma un altro grandioso fenomeno caratterizza specificamente l’Ottocento: il formarsi e il primo affermarsi di una produzione musicale che, per comodità, possiamo definire “leggera” (definizione che credo ci sia venuta dall’inglese light music, ringraziando che da noi non sia stata assunta la definizione tedesca di Trivialmusik). Nei secoli passati lo spazio fra la musica delle egemonie economiche, statuali e culturali e quella delle fasce popolari era presumibilmente esiguo e soprattutto non ben definibile.

Certo esisteva una produzione musicale che non era destinata alle solennità della Chiesa o ai piaceri del palazzo signorile e neppure al mondo contadino o pastorale, ma questa produzione di circolazione popolare urbana non si manifestava con una sua organicità rilevante e oggi non si lascia leggere come un genere definibile (anche perché siamo inevitabilmente condizionati da una rappresentazione delle classi sociali postrivoluzione industriale).

Nel corso dell’Ottocento si viene a costituire una sempre più densa ed estesa fascia sociale, prima soprattutto in ambito urbano, ma poi anche di ambiente provinciale, costituita da classi emergenti – sia a livello numerico sia a livello di coscienza – quali la piccola e media borghesia e il proletariato, classi che reclamano loro propri luoghi e modi di “divertimento musicale”. Nascono così prodotti sempre più specifici che si definiscono aggregando, semplificandoli e adattandoli alle loro nuove funzioni e al loro nuovo pubblico, soprattutto modelli della musica “alta”, ma anche modelli effettivamente popolari, destinati al consumo delle fasce sociali emergenti.

Musica d’élite e musica di massa

La storia generale del formarsi, evolversi e diffondersi di questa musica – che ancora per comodità chiameremo “leggera” – è tuttora da scrivere, ma è egualmente possibile ripercorrerne per grandi linee il cammino, per esempio in Francia, muovendo dalle conseguenze popolari dell’opéra comique verso l’operetta, le chansons del café-concert e poi tutta la sempre più ricca produzione di canzoni e ballabili di fine secolo.

Discendenza di modelli “alti”, è comunque presente il contributo popolare delle campagne; un esempio ben chiaro, per restare in Francia, è l’influenza esercitata sulla musica da ballo “leggera” dagli immigrati a Parigi dell’Auvergne. Questi contadini inurbati si insediano, come sempre in questi casi, in specifici quartieri parigini e aprono propri locali originariamente destinati agli stessi immigrati. In questi locali fanno musica dell’Auvergne, utilizzando in primo luogo la cornamusa dei loro Paesi, ma gli auvergnats sono scoperti dai parigini e i loro locali incominciano a richiamare altro pubblico. A contatto con questa nuova realtà non più etnica, la cornamusa viene abbandonata e sostituita dalla fisarmonica, e anche il repertorio e lo stile si modernizzano. Orbene, la cornamusa dell’Auvergne che si chiamava musette trasmette il suo nome al genere che noi diciamo “liscio” (cioè valzer, polca e mazurca) e che in Francia viene chiamato bal musette.

Le canzoni e i ballabili “leggeri” che nascono nell’Ottocento conservano fino al 1910 circa il loro carattere di evidente dipendenza dall’opera lirica, dalla romanza, dai nuovi balli borghesi, con più o meno evidenti – e via via rimosse – inflessioni popolari-contadine. La grande svolta verso la vera autonomia del genere “leggero” si determina a partire dal decennio che precede la Prima guerra mondiale (con l’immissione nel genere dello scandaloso tango, importato dall’Argentina), per poi compiersi, all’indomani del conflitto, con l’irruzione dei primi modelli latino-americani (la rumba) e dei modelli jazzistici americani.

Parallelamente alla produzione in serie e alla distribuzione di massa, che caratterizzano la vicenda economica e sociale del nostro Occidente a partire dal XIX secolo, anche la musica definisce quindi il suo realizzarsi e il suo manifestarsi lungo due diversi (e sempre più lontani) canali produttivi e distributivi, il prodotto di élite e il prodotto di massa, consolidando una rappresentazione rigidamente gerarchica che soltanto oggi viene messa in discussione. Questo prodotto di massa, in musica, è appunto la produzione di canzoni e ballabili concepiti in rapporto diretto con un mercato divenuto sempre più vasto con l’avvento, il perfezionarsi e il diffondersi dei mezzi di comunicazione sonora indiretta: prima il fonografo (alla fine dell’Ottocento), poi il grammofono (nei primi anni del Novecento), la radio (a partire dagli anni Venti) e infine la televisione, in attesa di una diffusa disseminazione informatica.

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